Posts by category: 1913/2013 Un’altra Ballata

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Una specie di Finale che vuole continuare…

La vita è ciò che facciamo di essa.
I viaggi sono i viaggiatori, ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”.
(Fernando Pessoa)

Djibouti, ore 8:30.
Nave Etna molla gli ormeggi e si allontana lentamente nel grigio.

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Dhow. La Barca.

Djibouti 22/11/2013. Ore 17:35.

Il sole sta tramontando dietro alle gru di carico, s’infila dentro alle montagne della Dancalia etiope e tutto il golfo diventa viola.
Un rimorchiatore esce dal porto per andare ad accogliere un altro cargo mentre un Dhow rientra trascinandosi dietro due barche dagli scafi allungati.
Due strisce bianche che tagliano la linea del mare.

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Cush

Porto di Djibouti. 20/21 novembre 2013

Ore 11.
Puntuale la nave attracca al molo esterno del porto di Djibouti.
C’è una postazione di controllo francese, una torretta di guardia, antenne, filo spinato. Dietro c’è un deposito di carburante, più il là un container grigio che raccoglie l’immondizia, due uomini stanno caricando i sacchi neri sul camion, molto lentamente.
C’è odore di marcio. Un paio di gabbiani poco convinti controlla dall’alto.
Fa caldo, è umido.

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Ulisse PFM

Martedì 19 /11/2013
Notte. Mar Rosso. Dopo le Isole Dahlak, prima dello stretto di Bal El Mandeb.

Quando il Mar Rosso sta per finire, la terra si stringe prima di aprirsi nel Golfo di Aden.
Dopo di quello il mare si aprirà ancora di più verso l’Oceano Indiano, l’isola di Socotra, l’Oriente, quello vero. 

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Una Porta sul Mare

16 novembre 2013. Canale di Suez. Il Passaggio.

Comincia tutto dalla mitologia greca. Zeus un giorno donò un vaso a Pandora, ma le impose di non aprirlo. Pandora però aveva ricevuto da Ermes anche un altro dono, la curiosità.
Quando lo aprì si liberarono tutti i mali del mondo: vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia, vizio. Riuscì a richiuderlo, ma c’era rimasta solo una cosa nel vaso, la speranza, allora Pandora la liberò e fu da allora che il mondo riprese a vivere in maniera diversa, perché c’era ancora una possibilità. 

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La fonda. Prima del passaggio

La fonda. Prima del passaggio

Venerdì 15 novembre 2013. Mediterraneo Orientale. 50 miglia da Port Said.
Ore 12:30. Temperatura 26°.

Si comincia a sentire un profumo diverso, l’Africa non è lontana.
Cielo limpido. Mare calmissimo. 

1okUn volatile si è posato sulla nave, non so di che uccello si tratti, è piccolo, si vede che è stanco, si lascia avvicinare senza la forza di scappare. Anche lui sta facendo un lungo viaggio verso Sud.
Mi piacerebbe fosse un Falco Grillaio perché a Matera ho visto le casette che hanno costruito apposta per farli nidificare e ce ne sono molti anche nelle Murge, a Gravina di Puglia, ad Altamura. Questi piccoli falchi si mangiano gli insetti che danno tanto fastidio agli uomini, emettono un richiamo caratteristico, un Krii ripetitivo che sembra quello di un grillo, per questo gli hanno dato quel nome. Da quelle zone, come da tutta la Puglia vengono molti marinai di Nave Etna, forse anche a loro fa piacere dargli un passaggio verso l’Africa.
 

Quando Hugo Pratt arrivò a Port Said nel 1937 si fermò per due settimane, suo padre gli comprò un bel caschetto coloniale e una mazza d’ebano “per picchiare in testa i neri che si piazzano nel bel mezzo della strada” gli disse proprio così, a un ragazzino di dieci anni. Tempi diversi.
Poi però lo portò in giro a trovare i parenti, a conoscere i luoghi, andarono a Gaza, e poi a Gerusalemme, si spinsero fino a Petra, in Giordania. Il ragazzino guardava il deserto, quelle incredibili città di pietra ricamate dal tempo.
Il padre di Hugo Pratt era una camicia nera, ma suo cugino era inglese, lavorava nella Trans-Jordan Frontier-Force che aveva fra le sue fila soldati ebrei e arabi.
Un bel misto di popoli, di teste e culture. Una zona di grandi passaggi e di rivalità molto antiche.
Hugo Pratt non aveva una macchina fotografica allora, i suoi ricordi li disegnava. Una visione particolarmente vivida fu quella di un accampamento militare britannico, le tende perfettamente allineate, una bandiera che sventolava orgogliosa sopra un castello di bidoni di benzina. Il soldato di guardia era uno scozzese. Il ragazzino Pratt rimase attratto dalla sua aria marziale, dal modo in cui maneggiava le armi, dal suo strano abbigliamento. Aveva una camicia blu, il kilt e un grembiule kaki, le ghette bianche, i calzettoni con i fiocchi rossi e un caschetto coloniale decorato con una penna.
A dieci anni disegnavo l’Africa di Lawrence senza rendermi conto che più tardi avrei imparato a decodificare l’immagine e la parola per poi riuscire meglio a inserirli nelle strisce a fumetti
Quando Pratt parla di Port Said ricorda le mosche e quello scacciamosche comprato da suo padre fatto di peli di scimmia. 

Nave Etna non si fermerà a Port Said, sarà solo un luogo di attesa prima dell’autorizzazione ad attraversare il Canale di Suez, lo faremo di notte, e durerà circa 15 ore per i 161 chilometri di lunghezza.
Mi guarderò Lawrence d’Arabia questa notte e forse ascolterò un brano de l’Aida, commissionata a Giuseppe Verdi da Ismail Pascià per celebrare l’apertura del Canale nel 1869, ma Verdi rifiutò quel compenso, la compose, invece, per l’inaugurazione del nuovo teatro del Cairo.
Non vedrò le divise dei soldati scozzesi, ho visto passare soltanto un cargo russo, ma in questi giorni ho conosciuto persone che mi hanno fatto sentire parte di una grande famiglia, quella dei marinai veri.
Il Nostromo di Nave Etna è il Primo Maresciallo Giuseppe, è di Leporano Marina, a pochi chilometri da Taranto, è nato sul mare, lo chiamano il Mel Gibson delle prore, oggi ci ha spiegato cosa fare in caso di Abbandono Nave, quale sarebbe la prima cosa da fare, qual è la nostra scialuppa di salvataggio, la N°16, qual è il posto esatto a bordo. Qui si prevedono le cose, in modo da sapere in anticipo cosa fare. L’amicizia è una cosa seria, e lo è anche il proprio lavoro, a tutti i livelli.
Poi Giuseppe il Nostromo mi ha fatto vedere la campana e mi ha raccontato anche il significato dell’unica “corda” che c’è su una nave, proprio quella attaccata alla campana, abbiamo riso e tutti i marinai capiranno il perché, poi però mi ha portato in un suo magazzino, quasi, un rifugio personale, c’era un gong lì dentro, ed è uscita fuori anche un’altra storia: la campana deve suonare a prua, il gong a poppa, così come vuole la tradizione della Marina.
All’epoca in cui non c’erano i radar, quando si entrava in un banco di nebbia si doveva sentire la presenza delle altre navi e si poteva capire il loro movimento da quei suoni, il tocco più leggero della campana o quello più lungo e sonoro del gong. Oltre a questo c’era solo il vento e il fruscìo delle vele.
Già mi vedevo brigantini avvolti dalla nebbie orientarsi o sfuggire proprio grazie a quei suoni, già mi rivedevo Mel Gibson negli “Ammutinati del Bounty”, ma il Nostromo dell’Etna assomiglia a Mel Gibson, ma non a Fletcher Christian il capo degli ammutinati, lui è sempre stato fedele alla Marina e al suo mare, salutandoci mi ha detto questo:

“ Quando muoio, mi dovete solo buttare nel mare…”

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 Testi di Marco Steiner © – Fotografie di Marco D’Anna ©

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Una nuvola

Una nuvola

Venezia.
Fondamenta degli Incurabili. Un giorno qualunque, perso nel tempo.

–       Allora marinaio, ti sei convinto che anche una barca può parlare?
–       Beh, veramente ho sempre ascoltato le voci delle barche, ma non sono mai riuscito a conversare con loro…
–       Forse perché non sei mai stato a Venezia, specialmente in un giorno come questo…
–       Cosa c’è di speciale oggi?
–       È il 25 aprile.
–       San Marco, il patrono di Venezia?
–       Si anche…ma è soprattutto la festa del Bòcolo.
–       Cos’è il Bòcolo.
–       Un bocciolo di rosa. Devi sapere, marinaio, a proposito, come ti chiami?
–       Livio Brancati.
–       Livio, devi sapere che tanto tempo fa, una bella e nobile ragazza, Maria, s’innamorò, profondamente contraccambiata, di un giovane bello, generoso, valoroso, ma troppo povero per poter chiedere la sua mano, Tancredi. Il ragazzo, per cercare di avere qualche speranza con la famiglia borghese di Maria, cercò di diventare almeno famoso, così Tancredi partì per la guerra fra i soldati di Carlo Magno e si coprì di onori. Pensò che a quel punto avrebbe potuto chiedere in sposa Maria, ma a pochi giorni dal rientro fu ferito mortalmente e cadde sanguinante in un roseto. Prima di chiudere gli occhi, strappò un bocciolo di rosa insanguinata e chiese all’amico Orlando di portarla al suo grande amore impossibile. Orlando mantenne l’impegno e la rosa arrivò a Venezia, era il 25 di aprile. Maria si chiuse nella sua stanza, con la rosa rossa del sangue del suo amato, pianse tanto, fino a consumarsi e…morì, anche lei.
–       Una bella storia d’amore…
–       Ci credi, Livio?
–       Beh, è una storia tragica, ma io credo all’amore, anche se è molto difficile.
–       In realtà, marinaio, l’amore più bello è proprio quello impossibile perché non ha bisogno di prove continue. E’ una specie di sogno, un bellissimo disegno in una nuvola, basta un soffio di vento per farlo partire.
–       Già, ma non trovi strano che a parlarmi d’amore sei proprio tu, una barca?
–       No, affatto, l’amore fra un marinaio e una barca può essere perfino più grande di quello per una donna.
–       Forse è vero, ma non può durare.
–       Allora ti racconterò la mia storia, Livio Brancati, basta che non mi chiedi date e nomi perché quelli si sono perduti nelle nuvole che vanno per mare. Questa è la mia storia, marinaio, la storia di “Irene of Boston 1914”.
Livio Brancati saltò a bordo e si sdraiò appoggiando la testa a un mucchio di cime, si accese una sigaretta e si preparò a partire per un altro viaggio.

–       Sono nata a Boston, una piccola cittadina nel sud est dell’Inghilterra, ho iniziato la mia vita sul mare come pilotship, portavo i piloti a bordo delle navi che partivano per la guerra, non avevo alcun motore allora, soltanto le mie vele e non era facile manovrare in quei mari battuti dal vento e dalla fredda pioggia del Nord, ma gli uomini che manovravano il mio timone e le mie vele sapevano il fatto loro. Portavo uomini dal porto alle navi, dalle loro case alla guerra, fu un periodo triste perché molti di loro non sarebbero tornati. Dopo la guerra fu la volta di un ex comandante di lungo corso, un tipo interessante perché decise di prendere la sua intera famiglia e fare il giro del mondo, ci mise sei anni, dall’Inghilterra salpò verso Madeira e poi girò per due anni nel Mediterraneo, poi attraversò il Mar Rosso, Aden, Karachi, Bombay, Colombo, Singapore e proseguì verso il Borneo e attraversò il Pacifico fino alle Marchesi, si fermò a San Francisco per rifare le vele e poi ancora via verso Panama, Haiti, le Antille e New York e poi di nuovo l’Inghilterra, a Falmouth. Mi ritrovai a Malta, ma poi iniziò un’altra fase, quella più triste della mia vita, quella dei “charter”, mi noleggiavano ragazzi viziati, famiglie benestanti, ricchi imprenditori, non ricordo o non voglio ricordare nessuno di loro, fino alla fine della mia vita, quando anch’io trovai l’amore impossibile.
Un ragazzo appassionato di barche, di vele, di mare, di sogni. Del resto uno che si chiama Corallo e che abita in via del Mare a Pozzallo, cos’altro potrebbe fare?
Un ragazzo che riuscì a comprarmi dopo il mio naufragio, dopo riparazioni sbagliate, dopo rattoppi con legni fradici per sostituire le mie ossa di quercia inglese.
Quel ragazzo s’innamorò forse di un sogno impossibile e provò a combattere come Tancredi per la sua bella Maria, ma anche lui non riuscì mai a realizzare il sogno, non navigò mai con me. Riuscì a fare un solo viaggio per mare. Uscì dal porto di Augusta trainato da un peschereccio, si sdraiò in coperta, come stai facendo tu, marinaio, forse si fumò una sigaretta, forse riuscì a brindare con una birra o un bicchiere di vino, ma doveva guardare sempre verso poppa, verso il mare, per non vedere il peschereccio che stava trainando il suo amore.
Fu così che arrivò al molo di Pozzallo, dove il mastro d’ascia che avrebbe dovuto riportare Irene agli antichi splendori lo stava aspettando. Ma non tutti i sogni si avverano, marinaio, il mastro d’ascia morì poco tempo dopo, il resto è solo attesa, rabbia, tempo che passa, gente che parla, pioggia che scende e legni che alla fine si sfasciano…

Questa è la mia storia, marinaio.
–       Sono rimasto senza parole, Irene
–       Non servono tante parole, marinaio…
–       Venezia, San Marco, la rosa, l’amore, la tua storia. Leggera, come una nuvola…
–       Già, forse era un destino che c’incontrassimo a Venezia, marinaio, perché ”Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti: Uno in calle dell’amor degli amici; un secondo vicino al ponte delle Meraveige; un terzo in calle dei marrani a San Geremia in Ghetto. Quando i veneziani (e qualche volta anche i maltesi..) sono stanchi delle autorità costituite, si recano in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie”.
–       Già, Irene, conoscevo questa frase, ma forse allora c’è anche un quarto luogo magico, proprio qui, alle Fondamenta degli Incurabili, e forse è proprio Corto Maltese che ci ha fatti incontrare qui…

–       Tu conosci Corto Maltese, marinaio?
–       Certo che lo conosco, l’ho incontrato una notte a Pechino, lui era un ragazzino io ero un fante di marina. Ero arrivato lì con la mia nave, l’Elba, era durante il periodo della Guerra dei Boxers, era il giugno del 1900, ma questa, Irene, è un’altra storia…

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 Testi di Marco Steiner © – Fotografie di Marco D’Anna ©

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Una barca in mezzo al mare

Una barca in mezzo al mare

Mercoledì 13 novembre 2013. 

Diindon…diidon…
Ore 07:15 Sveglia generale. Rotta verso Porto Said.
Oggi è San Diego, auguri al caporale…
Vento da sud est, 15 nodi.
La frase del giorno: “La pazienza è amara, ma il suo frutto è dolce”.

Comincia così la giornata.
Con quel suono che è la voce della nave stessa, e precede ogni annuncio, diidon

Taranto è ormai lontana, i saluti delle mogli e dei figli, la pioggia, probabilmente le lacrime, lontane. L’ultima cima scende in acqua. Il rimorchiatore giallo tira fuori la nave Etna dal porto.
Siamo in mezzo al Mediterraneo, le Cicladi oltrepassate, Creta a Est, puntiamo diretti a Sud, verso il Canale di Suez, l’Africa.
Hugo Pratt viaggio africaNon posso non pensare a un’altra nave, il piroscafo Italia, era il 1937, partiva da Venezia, la stessa direzione, fino a Massaua. Hugo Pratt era a bordo, nato nel 1927, dunque era un ragazzino di dieci anni:
“…partire per l’Africa rappresentava certo per me una grande avventura. I ricordi di questo mio lungo viaggio mi sono rimasti indelebilmente impressi nell’animo, nitidi e numerosi. Alla partenza, avvenuta di notte, la nostra nave, che si chiamava Italia, lascia Venezia. Tutte le imbarcazioni attraccate nel porto sono illuminate. Mi inebrio di profumi: gli odori della nave, quelli delle cucine che mi fanno pensare a lauti banchetti, l’aria dell’alto mare…” (tratto da: Hugo Pratt ,“Il desiderio di essere inutile”, Rizzoli-Lizard)

Anche questa è un’avventura, molto diversa, tanto tempo dopo, ma è pur sempre un lungo viaggio per mare ed è comunque un distacco, da tutto.
Prima c’è quella cima che scivola in acqua e viene ritirata a bordo, poi c’è l’uscita dal porto e là c’è il mare aperto, il viaggio. Il Mediterraneo, un incontro tra passato e presente.

“Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une alle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa sprofondare nell’abisso dei secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle pirami d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto alla barca del pescatore che è ancora quella di Ulisse, il pescatore devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere”.
(Fernand Braudel. “Il Mediterraneo”. Bompiani)

Leggevo queste frasi proprio ieri sera. Poi oggi dalla nave è partito l’elicottero, un mezzo molto moderno, la missione era quella di fare da “occhio” oltre la nave, lungo la rotta che la nave avrebbe seguito.
Abbiamo sorvolato una grande petroliera la Torm Gudrun di Copenhagen, poi un grosso cargo carico di container che veniva da St. John, Antigua, l’isola nei Caraibi residenza di Corto Maltese…mi sembrava mescolare pagine di tanti libri e di tante memorie, fra la storia di Braudel e le storie di Pratt, ma poi è arrivata lei.
Una barca in mezzo al mare.
Sola.

–     Unità sospetta… – gracchiava il radar di controllo al nostro pilota.
–     Ci avviciniamo, sembra un peschereccio vuoto.
–     Approcciare con la massima discrezione e rilevare posizione.
–     Confermo trattasi di peschereccio vuoto, sono visibili salvagenti di vario colore.
–     Tango Control a Vulcan…confermate assenza di persone a bordo.
–     Facciamo un altro giro di verifica. Ci abbassiamo.
–     Tango Control a Vulcan riconfermate posizione e descrizione.
–     34.52 Nord 02.12.12 Est
–     …imbarcazione in legno, tipo peschereccio, lunghezza circa dieci metri, colore verde chiaro, salvagenti di vario colore a poppa, non c’è presenza di segni di vita in coperta…

Sembrava proprio la barca di Ulisse, un piccolo peschereccio color verde chiaro, la nave era lontana, ma facevano parte dello stesso popolo del mare. Il passato e il presente.
Quale era la storia degli uomini a bordo di quella barca, una barca vuota in mezzo al mare?
Ci potrebbero essere molte risposte, ma fanno tutte parte del desiderio di vivere meglio, di uscire dalla povertà o dalla disperazione.
Cercare una fuga, o una possibilità di lavoro, scappare o fare lo scafista, il pescatore o il marinaio, il pilota di elicottero o l’infermiere pronto a intervenire?

Il mare darà sempre spazio a tanti tipi di vite e di uomini, regalerà loro il suo profumo e il suo impagabile senso di libertà, ma ogni tanto si prenderà la sua di libertà, quella di dimostrare a quegli uomini che può stravolgere tutto, in un solo momento.
Forse sta proprio anche in questo la sua dura bellezza.

Intanto il cielo si è fatto basso e grigio, sempre più scuro.
Piove.
Creste bianche si staccano dalle onde come schegge di un mare lucido come il ferro.

–       Si ritorna… – dice il pilota. Si chiama Fred, è di Cervia.
–       So misty today…

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 Testi di Marco Steiner © – Fotografie di Marco D’Anna ©

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Conversazione a Venezia

Conversazione a Venezia

…acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio.
Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato…”

– mi venivano in mente questi versi a Venezia, “Le Fondamenta degli Incurabili” di Josif Brodskij…
– già…la bellezza è l’eterno presente…

Era notte, ero solo e non riuscivo a capire da dove potesse venire quella voce.

– sono io marinaio, sono Irene…

C’era solo una barca ormeggiata lungo le Fondamenta, un ketch con una vela aurica, una prua a piombo, una poppa strana. Non sembrava una barca italiana.
Mi guardai intorno. Non c’era nessuno. Poi udii un leggero scricchiolio del legno, un ondeggiamento della prua.

– …niente è impossibile, marinaio…

Sul molo non c’era nessuno, ma fece due passi indietro per guardare meglio l’altra murata di quella barca bianca, sulla poppa c’era scritto “Irene of Boston. 1914”. Forse ero diventato pazzo, o avevo bevuto troppo.

– …niente è impossibile, marinaio. Se sei disposto a sognare ti racconterò una storia, la mia storia…

Incominciò tutto così, quella notte. Una notte fuori dal tempo e dalle regole del tempo. A Venezia. Solo a Venezia, la città dove nascono i sogni, possono accadere cose del genere. E quella storia, la storia di Irene, mi ha accompagnato per tutta la vita.
Anzi, forse è stata qualcosa di più, il sogno della mia vita.

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Dentro Irene of Boston

Dentro Irene of Boston

Dentro Irene of Boston

Vorrei entrare fra i tuoi legni stanchi, Irene.
Vorrei chiudere gli occhi e sentire la pioggia sottile di quel giorno di giugno del 1914, in quel Lincolnshire che non conosco, nel sud-est dell’Inghilterra. Non c’è il mare a Boston, c’è solo un fiume e un porto che avevano scavato qualche pugno d’anni prima per farci arrivare i mercantili a caricare il carbone.
Tu, invece, profumavi di legno e vernice in quello spento grigiore.
Irene, come la figlia del mastro d’ascia che ha saputo scegliere, toccare, odorare quel ceppo di legno originale sul quale ha modellato e incurvato ogni tavola.
Quel mastro, non poteva chiamare il sindaco a spaccare la bottiglia contro il mascone, per poi farti partire.
Ha chiamato sua figlia, per guardare quel lungo bacio sul legno.
Chissà se era bella Irene. Sicuramente lo era. E suo padre felice.
C’era una chiesa laggiù con un gran campanile a seguire dall’alto tutta la scena.
Strana chiesa quella di St. Bandolph a Boston.
Una chiesa che racconta, a suo modo, il passare del tempo.
12 pilastri come i mesi, per reggere il tetto. 52 finestre come le settimane, per far entrare la luce. 7 porte, come il numero dei giorni, per entrare ed uscire. 365 gradini, come i giorni dell’anno, per salire in cima alla torre. 24 gradini, come le ore del giorno, per arrivare alla Biblioteca. Altri 60 gradini, come i minuti e i secondi, per raggiungere il tetto.
E poi, St. Bandolph con le reliquie sparse in tanti luoghi da farlo diventare il patrono dei viandanti e dei viaggiatori. 17 giugno per St. Bandolph. Chissà in quale giorno di giugno sei scesa in acqua per nascere anche tu.
Hugo Pratt era nato lì intorno, il 15 giugno.
Forse è il destino che mi ha portato qui, Irene, a guardare fra i tuoi legni che sembrano sfiniti, ma che raccontano altre storie e memorie di quel mare di cui si sono imbevuti.
Boston, mi fa venire in mente un’altra nave, la “S.S. Bostonian” il cargo che trasportava bestiame dalla Boston americana a Liverpool.
Tu, Irene, non eri ancora nata, nel 1910, e su quella rotta, Corto Maltese era il secondo ufficiale.
In uno di quei viaggi s’imbarcarono due ragazzi americani, John Reed che sarebbe diventato un giornalista e un suo amico, un certo Pierce. Ma la vita a bordo non era facile, Irene, e quelli erano ragazzi universitari con le mani eleganti che si spaccavano a forza di tirare scotte, spazzare il ponte e sbucciare patate su una nave che puzzava di vacche ammassate nelle stive. Così mentre John Reed, il più tosto, resisteva, alla prima occasione, Pierce disertò e saltò su una ben più comoda nave di linea che l’avrebbe riportato a casa a mangiare bistecche e aragoste del Mayne.
Ma quando un uomo scompare su una nave, il Comandante fa partire un’indagine, e se finisce che nella cabina che Pierce divideva col compagno Reed ci sono ancora i documenti e i soldi di Pierce, si fa presto a condannare l’ignaro Reed di quell’omicidio senza cadaveri.
Del resto bisogna anche dire che non è poi così raro che due marinai facciano a cazzotti ubriachi sul ponte e che qualcuno di notte cada fuori bordo risucchiato dal nero.
Fu così che Corto, quando venne a sapere come erano andate veramente le cose dalla voce di John Reed, gli diede fiducia. Quel ragazzo che veniva da Portland, nato nel 1887, proprio come lui, e che si era appena laureato ad Harvard scrivendo poesie e racconti, in quel preciso momento, secondo l’esperienza di Corto, stava dicendo la verità. Quello non era il solito viziato uscito dalla classica famiglia benestante e borghese, anzi, Reed aveva preso quella nave proprio per capire come vivono gli uomini veri, i marinai, e per girare il mondo, per sentire e vedere quello che stava succedendo in Europa.
C’era ben poco da fare sulla nave, Corto provò a convincere il Comandante, ma non ci fu nulla da fare e così Reed finì ai ferri. Corto allora mobilitò i marinai che viaggiavano su navi più veloci e grazie a questi contattò i suoi amici che vivevano in Inghilterra.
Fu così che quando Reed comparve davanti al Tribunale di Manchester per rispondere della pesante accusa di omicidio, Corto fece la cosa più eclatante e conclusiva senza fare ricorso a inutili avvocati, trascinò in aula Pierce, rintracciato attraverso i suoi amici. E Pierce, vergognandosi per quello che stava per provocare, a testa bassa, spiegò tutto.
La gente iniziò a ridere e ad applaudire, i ragazzi si abbracciarono, Reed fu, ovviamente, assolto e rilasciato, ma chi non digerì la commedia a lieto fine fu proprio il Comandante.
Non perdonò Corto per la figura ridicola che gli aveva fatto fare.
Questa storia, costò a Corto Maltese la carica e l’essere per sempre additato come un membro non gradito fra i capitani della Marina mercantile.
In pratica, Corto, grazie a quella storia di Reed e del “Bostonian” divenne un “gentiluomo di fortuna” e iniziò i suoi traffici fra le Antille e il Brasile.
Ma perché ti sto raccontando tutto questo, Irene? Ah, già, per Boston, la tua città.
No, non è solo per questo, forse soprattutto perché quando sono davanti al mare, accanto ad un legno imbevuto di storie che profumano di salmastro e libertà, non m’interessa se le tue fibre si sono spaccate, se i chiodi sono arrugginiti e le schegge appuntite, tu sei sempre un grande invito ad andare.

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