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“La ruota delle cose”. Un racconto di viaggio sul cambiamento.

“La ruota delle cose”. Un racconto di viaggio sul cambiamento.

La Ruota delle Cose

 

Ho scritto tante pagine nella mia vita, progetti d’affari, visioni strategiche, business plan d’imprese, contratti, fusioni e smembramenti societari. Quello che non ho mai fatto è scrivere qualcosa che mi riguardasse personalmente. Le mie giornate scorrono sempre veloci, impetuose, una giostra che gira vorticosamente e il tempo non basta mai. Denaro, relazioni personali, lavoro, incontri, compromessi, cene, tutto s’infila nel ciclone, scivola via e non resta niente. Certe volte, mi alzo al mattino, esco di casa e mi ritrovo come lanciato a capofitto lungo una pista ghiacciata con un bob senza freni. Scendo la pista volando come un razzo e, lungo la discesa, divento un camaleonte rapido e vorace capace di arraffare le cose che m’interessano di più: i soldi. Come un guerriero vibro fendenti precisi: le mie percentuali sulle transazioni concluse. Sono un avvocato d’affari, sono nato e vissuto a Londra, possiedo e gestisco uno studio che dà lavoro e battaglie a dieci colleghi più giovani e arrivisti di me, ma non ancora spietati ed esperti come me. Ho avuto 3 mogli che mi hanno dato cinque figli, ho gestito tre divorzi ammorbiditi col tintinnio di milioni di sterline e adesso convivo con una giovane amante che è uno schianto. Li ho messi tutti d’accordo, hanno smesso di blaterare perché li ho riempiti di soldi per starmene in pace e continuare a fare quello che mi pare. Ma in fondo, in pace io non ci sono mai stato. Ho cinquantaquattro anni, sono indiano, anzi, sono di origine indiana, nel senso che ho la faccia e il colore della pelle di un indiano, ma la mentalità dell’ufficiale di sua Maestà la Regina o forse di un Raja: vorrei che tutti abbassassero la testa quando passo perché sono il migliore.

A volte però le cose cambiano, per questo ho deciso di scrivere questa storia. Di solito si cambia per un fatto traumatico, una malattia, un incidente, oppure quando arrivi al limite e ti rendi conto che tutto quello che fai lo stai facendo per gli altri. Ogni sera la dose di whisky per dormire aumenta e la parte vera di te stesso s’inaridisce, si consuma, alla fine la dimentichi e di solito non te ne rendi conto. Poi capita il giorno in cui butti giù un muro e ti ritrovi in una stanza nascosta, è un ambiente strano, diverso, un piccolo rifugio, scuro, scarno, essenziale, ma ci stai bene, meglio che nella tua grande casa “normale”.

Ma in fondo, chi di noi è normale?

Per questa storia il mio vero nome non serve, ne inventerò uno, Jamal, il primo nome indiano che mi passa per la testa.

Tutto inizia con una lettera che mi arriva da Nuova Delhi. Un amico di mio padre mi scrive che laggiù è morto mio fratello. Io quasi non lo ricordo, non lo vedo da trent’anni, il tizio aggiunge che mi ha lasciato degli effetti personali che mi vorrebbe consegnare personalmente. Strana richiesta. Mio fratello era l’ultimo filo che mi collegava con l’India. La storia della mia famiglia è una trama di fili e tessuti, la mia vita una matassa imbrogliata.

Mio nonno, classe 1887, era originario di Jaisalmer, una città fortezza infilata su una collina sperduta in mezzo al deserto del Rajasthan, la zona più nord occidentale dell’India.

Il vecchio era diventato ricco grazie ai tessuti. Commerciava con ogni genere di stoffa: cotone, seta, cashmere, lana. Comprava in Afghanistan, in Cina, in Mongolia, in ogni angolo dell’India, sceglieva le migliori partite e poi le rivendeva in Inghilterra, sotto forma di materiale grezzo oppure lavorato dai migliori artigiani. Mio nonno, studiando da solo, era diventato avvocato perché era fissato con la giustizia ed era finito nello studio legale dove lavorava Gandhi prima di dedicarsi alla politica. E Gandhi era un grande uomo politico, ma come avvocato non era niente di speciale. Il mio vecchio invece sì che era un tipo speciale, in particolar modo con i suoi operai, sceglieva i migliori e li pagava il doppio degli altri, ma dovevano mantenere altissima la qualità altrimenti erano fuori. Era un onore e una fortuna lavorare per lui. Mio padre mi raccontava che il giorno del suo funerale gli sembrò di assistere alla cerimonia funebre di un grande Maharajà. Non si erano mai visti turbanti, sciarpe, cappelli, mantelli, saree, coperture di selle, paramenti di cavalli, cammelli ed elefanti colorati come quelli sfoggiati in quel giorno.

Mio nonno guardava sempre in avanti e per migliorare le condizioni culturali ed economiche della famiglia mandò mio padre a studiare in Inghilterra e daddy ci rimase per sempre creando le strutture necessarie per organizzare un’importante rete di vendita, dai magazzini lungo i dock del Tamigi fino ai negozi eleganti nel centro della City.

Io e mio fratello siamo nati a Londra. Mio padre, dopo la morte del nonno, andava e veniva dall’India sempre più spesso. Io non avevo voglia di seguirlo, d’impolverarmi le scarpe, mangiare curry e piatti piccanti, annusare gli odori nauseanti e speziati dell’India. Da vero bastardo viziato mi ero sempre rifiutato di seguire gli affari di famiglia, a me piaceva far fallire, smembrare e rivendere società, trovare il sistema di esportare capitali illegali o proventi illegittimi, mi piaceva il lavoro dell’avvoltoio di lusso. Mio fratello invece andò in India dopo aver compiuto i diciotto anni e ci rimase, folgorato come Siddharta dall’illuminazione mistica. Sembra strano che gli stessi genitori possano generare due figli che convivono sotto lo stesso tetto e diventano l’uno l’opposto dell’altro. A noi è successo proprio così.

Dieci anni fa è venuto a mancare mio padre e, dato che mia madre era morta di parto poco dopo la nascita di mio fratello, gli eredi eravamo noi due. Mio fratello mi comunicò dall’India che era diventato un sacerdote jainista, uno di quelli che vivono in povertà assoluta e girano cercando la verità del cosmo indossando una tunica bianca e spazzando la strada davanti a loro per evitare di calpestare e uccidere insetti e formiche perché ogni essere vivente dev’essere rispettato lungo il ciclo delle reincarnazioni. Lui cercava la coscienza cosmica e, non avendo alcun interesse per i beni materiali, rinunciava all’eredità di mio padre rendendomi immensamente ricco.

Anche quella comunicazione mi arrivò con una lettera inviata dalla stessa persona che mi aveva scritto l’ultima missiva da Delhi, un grande amico di mio padre.

Lo chiamerò Mr. George. Non è il suo vero nome ed è altrettanto banale di Jamal, perché anche lui è un personaggio conosciuto.

Avevo incontrato Mr. George una sola volta a Londra, aveva una magnifica barba, modi eleganti e uno sguardo che non si dimentica. Era uno di quei tipi che ti mettono in soggezione senza dire una parola e non capisci il perché. Mio padre mi aveva sempre detto che in qualsiasi situazione mi sarei potuto fidare di lui.

Jamal e Mr. George, due nomi finti, per una storia vera. E tutto inizia nel migliore dei modi: per caso. Dopo aver letto la lettera, stavo per cestinarla, però la busta continuava a girare sul tavolo e me la trovai fra le mani dopo il rinvio di un appuntamento che mi avrebbe impegnato tutto un venerdì fuori Londra con un sabato e domenica da dedicare allo shopping con le mie due figlie più viziate, quelle della prima moglie. La mia donna, conoscendo la situazione, si era organizzata una gita di shopping a Parigi.

Mi versai un whisky e ripresi in mano la lettera.

La carta e la calligrafia di Mr. George erano roba d’altri tempi, del resto non ricordavo di aver ricevuto un’altra lettera scritta a mano. Mi scolai il terzo whisky liscio e mi accorsi che quella pagina profumava di un qualcosa che non respiravo da troppo tempo: l’imprevisto. Mi attirava perché ero stanco delle mie solite cose patinate.

Ero libero, avrei potuto andare a giocare a golf e poi bere whisky fino a stordirmi, come al solito. Oppure sarei potuto partire per l’India.

Con una carta Platinum non ci sono problemi a prendere un volo nella serata dello stesso giorno, un giovedì, per arrivare a Nuova Delhi il venerdì all’ora di pranzo. Bastò una telefonata per fissare un appuntamento con Mr. George all’Hotel Imperial di New Delhi per l’aperitivo delle 18. Il “1911” non è solamente il Coktail Bar di un magnifico vecchio albergo. È una meraviglia fuori dal tempo: legni, ottoni, foto di Maharajà e ufficiali in divisa, squadroni di Gurka nepalesi, poltrone in pelle verde, mobili liberty, classe, ricordi dell’antico splendore coloniale britannico.

Mr. George era vestito con l’eleganza semplice di chi non deve dimostrare niente a nessuno: jeans, maglietta nera, un orologio strano, un braccialetto di perle di legno di sandalo e un’imponente barba bianca.

Dopo qualche sorriso e poche parole iniziò a ordinare cocktail Martini scherzando con un barman imponente che indossava un turbante arancione e un’impeccabile giacca rossa con bottoni e alamari dorati. Mr. George rideva a ogni giro con il gigante chiedendoli sempre più freddi, sempre più secchi. Scendevano come acqua di montagna e lui reggeva impassibile.

  • Tuo fratello non era un pazzo, era l’altra faccia dell’India. In mezzo al fango lui cercava purezza, in mezzo al caos lui esprimeva la pace.
  • Magnifico ritratto… – Non volevo, ma usai uno sgradevole tono ironico.

Mi fulminò attraverso il Martini. Provai a recuperare.

  • George, mi è bastato vedere le facce dell’India nella polvere, negli odori e nel traffico caotico dall’aeroporto fino a quest’oasi di bar. Qui mi sento a casa e sono contento di rivederla, però come lei sa sono molto impegnato e, dato che dovrei rientrare in ufficio entro lunedì, mi piacerebbe sapere cosa avrebbe lasciato mio fratello per giustificare questo mio viaggio in India.

Sorrisi. Lui mi guardava come fossi un quadro astratto che non capiva e non apprezzava.

  • Jamal, ricominciamo dandoci del tu.
  • Come preferisci, George.

Socchiuse gli occhi con indulgenza e lo immaginai intento a scrivere quella lettera dopo aver scelto la carta giusta e aver posato sulla sua scrivania una preziosa pipa di radica. Cominciai a pensare che stavo perdendo il mio tempo.

  • Jamal, m’immaginavo che tu fossi così, tuo padre ci ha messo troppo impegno per farti diventare un vero businessman inglese, ma ricordati una cosa: le tue fortune vengono dalla polvere del deserto, dai tessuti ricamati dagli zingari e dai pastori Rabari, da tanti artigiani che lavoravano per tuo nonno in giro per il mondo non per denaro ma per rispetto. Non bisognerebbe cancellare il passato. Comunque, per tua informazione, anch’io mi occupo di affari e non sopporto le parole inutili.
  • Allora ci capiamo, George. Che cosa mi ha lasciato mio fratello?
  • Una motocicletta, una vecchia Royal Enfield, e un cappello da marinaio.

A questo punto devo aggiungere qualcosa. Possiedo ogni genere di oggetto di lusso: orologi, automobili, case, dipinti, arredamenti, libri antichi, oggetti d’antiquariato, ma se c’è una cosa che amo in maniera irrazionale sono le moto. Eppure non ne possiedo nemmeno una. Forse il periodo più bello della mia vita è stato quando, allo scoccare dei diciotto anni mio padre mi regalò una Triumph Bonneville. Mi basta ripensare al rombo metallico di quel motore per tornare ragazzo e rendermi conto da quanto tempo non mi diverto più.

La Royal Enfield è un perfetto simbolo del mondo coloniale, un connubio fra India e Inghilterra, acciaio e progettazione in solido, imperfetto e affascinante stile britannico; semplicità ed essenzialità indiane. “Built like a cannon, runs like a Bullet” (costruita come un cannone corre come un proiettile). Questo è il motto della fabbrica Enfield nata per costruire fucili e cannoni che avevano conquistato imperi, perfettamente logico che in seguito avrebbero costruito motociclette per percorrerli in lungo e in largo con orgoglio britannico.

  • Allora, George, mi gusterò un altro Martini e ascolterò il motivo per cui mi hai fatto venire fin qui per un relitto di Enfield e un cappello da marinaio.

Non so quante volte riempimmo i bicchieri, ma quel racconto toccò una corda nascosta perché cominciai a ragionare come non avevo mai fatto. Era senz’altro colpa dell’alcool.

Mio fratello non aveva voluto una briciola dell’immensa fortuna di famiglia, ma aveva chiesto a George di conservare la Royal Enfield modello 180 di mio nonno e quel cappello perché secondo lui erano il momento fondamentale della nostra storia. L’unico che valesse la pena ricordare. Il fatto successe nel 1912, quando il nonno, allora giovane avvocato, si ritrovò nel collegio legale di cui faceva parte Gandhi in difesa di un marinaio, un certo Corto Maltese. Quel tipo era stato arrestato appena sbarcato a Porbandar, un porto del Gujarat, lo stato indiano affacciato sul golfo Arabico. George mi raccontò che un paio di anni prima Corto Maltese era l’ufficiale in seconda sul S.S. Bostonian, una nave che trasportava bestiame fra Boston e Liverpool e in uno di quei viaggi si erano arruolati come mozzi due studenti in cerca di avventure, si chiamavano Reed e Pierce. I due americani non erano abituati a quel tipo di vita, Pierce in particolare non reggeva il lavoro di bordo, così, un giorno, senza dire una parola, nemmeno all’amico, in un porto sgusciò giù dalla nave e alla partenza, invece di risalire a bordo, ritornò diretto in patria con una nave di linea. Durante la navigazione gli ufficiali si accorsero della scomparsa di Pierce e dopo aver ritrovato nella cabina che condivideva con Reed vestiti, documenti e soldi, sospettarono e arrestarono Reed per l’omicidio dell’amico. Quando la nave arrivò in patria, Reed, si ritrovò davanti alla corte di Manchester accusato dell’omicidio dell’amico scomparso. Corto Maltese aveva intuito quello che era successo e, dopo aver mobilitato le amicizie che aveva fra i marinai sulle due sponde dell’Atlantico, riuscì non solo a trovare, ma anche a riportare Pierce, vivo e vegeto, nel tribunale a Manchester.

Il comandante del Bostonian, gli avvocati accusatori e l’intera corte ci fecero una magra figura, Reed felice e per sempre grato al marinaio fu rilasciato, ma Corto Maltese, da quel momento, diventò un “indesiderato” al comando delle navi britanniche. Aveva salvato un uomo, ma aveva perso il lavoro, fu così che iniziò a dedicarsi ai traffici e al contrabbando fra Antille e Brasile diventando un famoso Gentiluomo di fortuna. Il caso volle che dopo un anno il capo della Procura di Manchester fosse inviato in India, nella regione del Gujarat, relegato dai suoi capi ai confini dell’Impero. Il resto è facile da immaginare, appena si ritrovò fra i documenti dei velieri appena attraccati nella “sua” colonia il nome di quel Corto Maltese che gli aveva fatto fare la figura dell’idiota in patria, lo fece arrestare senza lo straccio di un motivo. Ed ecco che subentra mio nonno, il giovane avvocato giustiziere.

Non c’erano motivi per arrestare quel marinaio, non c’era l’habeas corpus. Il collega Gandhi aveva già iniziato la discussione del caso, ma la prendeva alla larga così, alla seconda udienza, il mio vecchio fece in modo di dirottare il collega a Bombay con la scusa che avrebbe potuto seguire le problematiche di un altro processo legato a uno sciopero e subentrò nel processo al marinaio maltese pronunciando un’impeccabile requisitoria sulla salvaguardia delle libertà individuali sancita dalla Magna Charta.

Il giudice rilasciò subito Corto Maltese. Il processo si era svolto nella capitale dello stato, Ahmedabad e per il marinaio c’era il problema di ritornare alla sua barca, il mare era molto più a sud. Ed ecco che il nonno, non solo non richiese un compenso per i servizi legali, ma date le sue relazioni con mercanti, magazzinieri, artigiani e negozianti di tessuti in tutto il Gujarat gli offrì la sua moto personale per raggiungere la barca. E quando Corto gli domandò come avrebbe potuto riportargliela, il nonno gli consegnò un suo biglietto da visita.

  • Se ti servirà aiuto mostra questo biglietto a chiunque abbia a che fare con le stoffe: mercanti, negozianti, trasportatori. Quando sarai arrivato alla tua barca fatti dare quello che ti serve, cibo, denaro, vele e lascia la moto a uno di loro, sono tutti miei amici. Un giorno, ricambierai il favore con qualcuno che ne avrà bisogno, vedrai, farà bene anche a te.

George continuò a raccontare la storia come se avesse assistito alla scena, mi parlò del miglioramento del karma grazie ai gesti generosi mentre io lo guardavo parlare e non riuscivo a staccarmi da quella barba bianca che sembrava una nuvola e mi faceva perdere la nozione del tempo. Era una strana storia di quelle che normalmente non avrei minimamente considerato, invece, non so per quale motivo, mi coinvolgeva, soprattutto il gesto successivo di mio fratello. Per lui, quel momento, quel gesto di generosità era l’unica cosa che contava. E io mi sentivo ancora più bastardo.

Intanto eravamo entrambi ubriachi, la bottiglia di Gin era quasi finita, quella di Martini praticamente piena. Mi diede un appuntamento per l’indomani alle 9 davanti alle scale dell’Imperial.

Si presentò in sella a una Royal Enfield nera. Dopo quella bevuta mi sembrava di avere la testa infilata in un frullatore che continuava a girare. Mi consegnò un casco e, senza dire una parola, fece rombare il motore e si buttò nel traffico guidando come un ragazzino, millimetrico, con i riflessi pronti e senza esitazioni. Ero entrato in un videogioco in cui bisogna schivare e superare ogni essere e ogni oggetto in movimento. Fermò la moto e mi ritrovai a seguirlo nei vicoli di un mercato affollatissimo, si chiamava Chandni Chowk. Camminava deciso, la gente, i motorini, i cani, le biciclette lo schivavano ma io facevo fatica a stargli dietro in mezzo alla folla che si richiudeva come un sipario dopo il suo passaggio. In fondo a un vicolo lercio aprì il lucchetto di una porta scassata, c’era odore di piscio, un grosso topo ci attraversò la strada. Entrammo nel minuscolo cortile di una casa che sembrava fosse stata bombardata, doveva essere un vecchio magazzino, una scala ripida saliva al piano superiore, sul muro scrostato avevano inchiodato una corda per reggersi sui gradini viscidi di melma. Fra i vetri spaccati s’intravedevano scritte sui muri. La parola che si leggeva era sempre la stessa: textiles.

  • La fortuna di tuo nonno è cominciata in questo cesso di magazzino, se non impari a convivere con la puzza di fogna e lo sterco di pecora non riuscirai mai a capire l’odore di una fabbrica di cotone e quello dei colori naturali fatti con erbe, fiori, pollini, conchiglie, pietre tritate e non riuscirai mai a sentire la musica delle mani di una tessitrice sul telaio. I disegni ricamati sulle stoffe seguono le migrazioni dei nomadi, i ricami scolpiti sulle pietre dei templi, quelli della cera che cola, dei sogni che si perdono nel fumo dell’oppio.

Così com’eravamo arrivati, altrettanto rapidamente ripartimmo per ritornare alla moto. Mi sentivo un marziano atterrato su un pianeta bloccato nel tempo mentre la mia testa continuava a girare. Svoltato un angolo stavo per inciampare sui piedi di un vecchio accovacciato per terra. Era pelle e ossa, in testa aveva un turbante bianco, addosso una tunica che un tempo lo era stata. Mi fissò e mi puntò un dito scheletrico in faccia. Era minaccioso. Mi bloccai sorpreso, quasi impaurito. George tornò indietro e urlò due parole. Il vecchio continuava a indicarmi, ma sorrise. Aveva gli occhi più chiari che avessi mai visto, non erano azzurri, erano del colore del mare all’alba, grigi con la promessa di celeste, ci si perdeva là dentro. Aveva due dadi sbeccati fra le gambe incrociate, me li indicò. Buttai un rapido sguardo a George e lui annuì. Li presi in mano e m’invase una strana sensazione, era come se attraverso il palmo irradiassero una leggerezza che mi penetrava e si diffondeva in tutto il corpo. Li strinsi e la testa cominciò a svuotarsi dai pensieri. Buttai i dadi e notai che non avevano i soliti segni, solo simboli rossi.

  • Si sceglie sempre fra due strade, ma il giorno dell’incontro bisogna decidere. Una è la strada che rotola verso la fine, quella che stai percorrendo a occhi chiusi, l’altra ti farà perdere il tempo, ti farà uscire dalla Ruota delle Cose e là ritroverai il tuo sorriso disperso nel vento. Sarai libero, distante e nulla avrà più valore perché tutto si dissolve, tranne quello che saprai trovare nella stanza nascosta.

George mise qualche banconota fra i dadi e fissò il vecchio, vidi una scintilla fra i loro sguardi, ma non riuscii a godermi l’attimo perché George era già ripartito. Mi ritrovai in sella alla Enfield con la testa annacquata che vagava fra i segni rossi dei dadi e il grigio degli occhi di quel vecchio.

Ma che ne sapeva lui della mia stanza nascosta?

Ci sedemmo in silenzio al bar 1911. Era sabato di un pomeriggio afoso. George mi fece un cenno interrogativo, ma io non avevo voglia di niente, non capivo dov’ero. Ordinò due tè.

  • George, dove sono la Enfield del nonno e il cappello di Corto Maltese?
  • In un magazzino a Varanasi.
  • È lontana da Delhi?
  • Dodici ore di moto, un’ora di volo.
  • Allora perché mi hai fatto venire qui e non a Varanasi se sapevi che domani ho il volo per Londra?
  • Se vuoi possiamo partire fra un’ora e tornare in tempo per il tuo volo di domani, ma avevo un’idea e quell’indovino me l’ha confermata.
  • Sentiamo anche questa.
  • La generosità e la giustizia di tuo nonno hanno cambiato la vita di molte persone, innescando una spirale positiva, è il karma della tua famiglia. Non ci s’incontra per caso, è tutto concatenato perché la casualità è nella natura del vivere. Tu vuoi continuare o buttare via tutto quello che hanno fatto tuo nonno e tuo fratello?
  • Mi fai ridere. Prova ad aggiungere qualcosa di più pratico e convincente…
  • Hai ascoltato le parole di quell’uomo? “L’altra ti farà perdere il tempo, ti farà uscire dalla Ruota delle Cose, ma troverai il sorriso disperso nel vento”. La mia proposta è questa: domani andiamo a Jaisalmer, ho un appuntamento che può essere importante anche per te. Laggiù sono iniziate tante cose della tua famiglia, ti farò trovare una Enfield e potrai girare quanto vuoi nel vento in cerca del tuo sorriso.

Probabilmente ero completamente rincretinito, oppure, a volte, scattano reazioni imprevedibili nei momenti in cui ci troviamo fuori dal nostro ambiente e non dobbiamo seguire per forza il solito modo di ragionare, si rompono gli schemi. Oppure mi ero talmente stancato dei miei ritmi londinesi che quella stranezza mi sembrava la strada più illogica e giusta per spaccare davvero qualcosa. Spaccare qualcosa è un sistema per sfogarsi, ne avevo bisogno. Insomma non ho alcuna idea del perché non gli scoppiai a ridere in faccia. Potevo capire se mi avesse proposto di andare a Varanasi a vedere quel vecchio trofeo. Invece no, mi voleva portare a Jaisalmer con lui. Ma che c’entravo io che avevo rifiutato ogni contatto e legame con la mia famiglia, con quel posto? Che c’entravo io col ritmo delle reincarnazioni, col karma? Legami, fili, tessuti, trame nascoste s’infilavano in quella barba bianca che mi faceva dimenticare la faccia dell’uomo che parlava. Quelle parole e quella situazione assurda venivano dalle nuvole e dalla confusione che avevo in testa. Poi entrò in gioco la mia logica razionale: avrei potuto spostare il volo di qualche giorno per divertirmi a immaginare cosa avrebbero fatto quelli che mi aspettavano a casa. Questo sarebbe stato l’aspetto divertente della situazione e poi, l’unica cosa che m’importava davvero era andarmene in giro in moto.

Da quanto tempo non tornavo ragazzino? Troppo.

  • Sai che ti dico, George?
  • Che verrai.

George, il vecchio saggio mi stava sulle scatole.

Il giorno dopo eravamo a Jaisalmer nella casa di un Maharaja trasformata in albergo. I tappeti coprivano ogni angolo del pavimento, stoffe preziose rivestivano le pareti. Le finestre si affacciavano sul nulla vibrante del deserto. Lampade antiche e candele contribuivano a far traballare i sensi anche all’interno delle stanze mentre i profumi di gelsomino e legno di sandalo stordivano quanto i Martini del giorno precedente.

L’appuntamento era in mezzo al deserto con una carovana di pastori Rabari che consegnarono a George montagne di scialli, stoffe, tappeti, tessuti ricamati. Fu così che scoprii che George era il fornitore principale di tutti gli importatori della mia ditta, che aveva continuato a girare come faceva mio nonno e passava lunghi mesi insieme agli artigiani persi nei deserti del Kutch, quella carovana veniva da laggiù. Dopo due ore eravamo seduti intorno al fuoco in un campo tendato, alcuni uomini cominciarono a suonare, nacchere, tamburi, sitar e una specie di libro che si apriva e chiudeva come una fisarmonica mentre un paio di ragazze iniziarono a ruotare come dervisci in una danza ipnotica e sensuale. La mia testa continuava a girare, ma ormai mi ero abituato a quello stato. Ridevamo e arrotolavamo pezzi di chapati caldo per intingerlo in curry piccanti e dal di lenticchie fumanti, poi la notte ammantò di freddo il deserto, ci salutammo stringendoci le mani come fanno gli amici che si capiscono e non vogliono aggiungere parole inutili e poi mi rannicchiai sotto le coperte ancora vestito.

Il giorno dopo tre grossi camion si portarono via i tessuti, ma da uno dei bestioni gli uomini scaricarono due Royal Enfield Bullet identiche, nere. Sorrisi come un ragazzino e George mi fece cenno di seguirlo. Sulla moto dopo tanto tempo mi sentivo impacciato, ma era splendida. La prima in basso le altre sopra, la vibrazione metallica stonata era un ruggito sommesso, la sella era larga e comoda come una poltrona. Lentamente mi abituai ed era magnifico filare nel deserto, libero, senza casco, nel vento caldo e secco. All’improvviso George s’inoltrò in un sentiero sterrato, sentivo le ruote slittare, avevo paura di cadere come un imbecille, invece accelerai e mi affiancai a lui. Due cavalieri solitari. Sorrise e allungò. Alzavamo due lunghe nuvole di polvere che rimanevano sospese nell’aria, mi guardai intorno e sentivo le note delle chitarre di Ry Cooder e di John Lee Hooker che mi attraversavano la testa e danzavano con i granelli di sabbia.

Ci fermammo su una collina da cui si poteva osservare l’immenso vuoto che ci circondava. C’erano una serie di altari e steli di pietra su cui erano scolpite figure umane. George indicò a oriente, il sole stava sbucando da una striscia di nuvole grigie, s’intravedeva una riga rossastra di mura crollate.

  • Quel villaggio distrutto si chiamava Kuldhara, dicono che adesso ci vivano i fantasmi. La popolazione che abitava là se ne andò all’improvviso, in una sola notte, abbandonarono anche altri villaggi soltanto perché qualcuno aveva tradito una promessa. La parola data è sacra da queste parti. La tua famiglia veniva da quel paese. La collina dove ci troviamo adesso era il luogo delle cremazioni, se vuoi sentire la polvere del tuo passato, prova a chiudere gli occhi e annusa il vento.

Era un posto strano, sentivo solitudine, un fascino desolato, ma nient’altro, anzi il vento mi diceva che avevo voglia di rimontare in sella, sentire il rombo della moto e andarmene lontano lasciandomi dietro una nuvola di polvere e una traccia sottile.

Anche il tono da guru di George mi aveva stancato, come tante altre cose. Volevo sparire. Mi lesse nel pensiero. Mi propose di andare a sud, solo, verso il Rann, i deserti di sale del Gujarat, verso le città della costa dov’era sbarcato Corto Maltese, Porbandar, Veraval, Diu, Bhavnagar e arrivare ad Ahmedabad, la capitale dei tessuti, la città dove s’era svolto il processo, dove mio nonno aveva la sua base commerciale. Da lì sarei potuto volare a Delhi e tornare al mio mondo.

  • Il modo migliore per viaggiare è perdersi, abbandonare vecchi schemi e fantasmi. Il modo migliore per dimenticare è andare lontano, anche dal tempo, riempire il proprio silenzio.

Bastava davvero. Risalimmo sulle moto.

  • Ma questo l’hai capito e hai voglia di seguire il tuo vento.
  • Come farò a ridarti la moto quando sarò stanco di perdermi?
  • Come ha fatto mio nonno con Corto Maltese, la lascerai al primo mercante di tessuti che trovi, ovunque tu sia.

Immaginavo quella risposta. Sorrisi, misi in moto la Enfield e puntai a sud.

Lo salutai come fanno i marinai, alzai una mano e non mi voltai indietro.

Avevo voglia di restare solo. Da troppo tempo non ci riuscivo. Non ricordavo un momento così carico di possibilità, guardavo la strada e avevo soltanto voglia di andare, senza pensare.

Ero sempre stato solo, ma c’era sempre qualcuno che aveva bisogno dei miei soldi. Mentre continuavo a puntare a sud pensai alla situazione, il mio bagaglio era rimasto all’Imperial, avevo portato con me uno zaino con un ricambio, il telefono, il caricatore, il passaporto, il portafoglio con 300 dollari, il corrispondente in Rupie di 200 dollari e la carta di credito. Sarebbe bastato, potevo andare ovunque. Dopo due ore la strada iniziò ad allargarsi, cominciò il caldo e aumentò la puzza degli scarichi e delle montagne d’immondizia sparse lungo i bordi d’asfalto e nei canali. Non c’erano regole, bisognava evitare le vacche che passeggiavano sulla corsia di sorpasso, le greggi di pecore che attraversavano, le macchine che s’infilavano fra camion scassati e ogni altro genere di veicolo fumante e quelli infine che percorrevano un tratto di strada contromano. Sulla corsia opposta mi capitò di vedere una nave, non trainata: era un camion che aveva la forma di una nave. Ormai mi aspettavo di tutto e non mi sorprendevo più. C’era solo una cosa che accomunava ogni veicolo: tutti suonavano in continuazione. Dopo altre tre ore il casino aumentò esponenzialmente, in maniera vorticosa: eravamo alla periferia di una città, non riuscivo a leggere i cartelli perché erano piccolissimi o coperti da pannelli pubblicitari. Dovevo fare benzina, avevo sete, dovevo andare al bagno. La pompa di benzina che scelsi era la base di sosta di almeno trenta grossi camion arrugginiti ma pieni di luci, colori, disegni e nastri appesi per scacciare chissà quale demonio. Non c’è bisogno che descriva i cessi, il cibo che mangiai e le camere dove mi trovai a dormire nei due giorni che ci misi ad arrivare a Bhuji. Laggiù trovai un albergo che un cartello pretenzioso definiva “Resort”. Entrare in una di quelle camere dozzinali ma pulite, sentire che esisteva un collegamento wi-fi, che avrei potuto pagare con la carta di credito e immaginare che avrei potuto anche cenare, fare una doccia e ricaricare il telefono mi sembrò un sogno. C’erano decine di chiamate ed email da tutti, non risposi e non aprii alcun messaggio. Avevo bisogno di tempo, dovevo ricaricarmi anch’io. Il manager dell’albergo era un uomo strano, una specie di sacerdote laico, un bramino, si chiamava Raj. Aprì una carta geografica e mi mostrò dov’eravamo. Ero circondato da deserti e lagune salate, mi propose di andare a vedere il Rann, nel punto in cui il deserto di sale s’incontra col mare. Partimmo il giorno dopo, all’alba, lui guidava la sua vecchia Honda Hero scassata. Lungo la strada il paesaggio diventava sempre più spoglio e a me succedeva la stessa cosa. La moto s’infilava nel vento ed io ero un albero a cui il vento staccava le foglie, una a una.

Una lucida mandria di bufali d’acqua attraversò la strada al galoppo e una nuvola di polvere ci avvolse. Rimasi a guardare la polvere, uno dei profumi dell’India che non dimenticherò. Rimase sospesa, come la mia vita.

Anche la polvere, non aveva voglia di continuare a volare, voleva godersi il distacco, come me.

Ci fermammo davanti a un vuoto orizzonte azzurro. Solo una linea sottile separava il cielo dal mare, il mio sguardo aveva voglia d’infilarsi proprio là in mezzo. Quella linea era un collegamento fra quello che vedevo e un passato sconosciuto che si voleva affacciare. Rimasi nel Resort per una settimana, avevo paura di abbandonare le comodità, di continuare sulla strada della polvere, del distacco, ma riuscivo a ignorare telefono, email, notizie. Parlavo a lungo con Raj, anzi era lui che parlava, io lo ascoltavo. Mi spiegò la condanna dell’anima a reincarnarsi di corpo in corpo nel ciclo infinito delle rinascite e che solo un buon karma determina la qualità della vita nel presente, ma influisce sul futuro per arrivare alla liberazione, al nirvana. Ripensai a mio nonno, a Mr. George e a quello che mi aveva detto il vecchio dagli occhi grigi nel mercato di Delhi.

Il Gujarat è una regione selvaggia, i turisti non ci arrivano, è scomoda, per legge non si può vendere alcool, la cucina è esclusivamente vegetariana. Io mangiavo poco, non bevevo, camminavo, e ogni giorno mi sentivo meglio. La pelle s’induriva nel sole e nel vento, la testa cominciava a girare in maniera diversa. Era tornata la voglia di andare. Pensai a certe frasi di Jack Kerouac che quand’ero studente m’erano sembrate senza senso, roba adatta a quel periodo di scema contestazione: “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare.” Ma che voleva dire? Se non hai una destinazione e un obiettivo preciso, non concludi niente nella vita.

Invece adesso capivo quanto fosse bello perdersi, perdere la strada, la velocità, e soprattutto il senso del tempo.

Non avevo mai avuto un pensiero o un atteggiamento religioso né spirituale, ma cominciavo a capire cosa fosse il dharma, l’insieme di atteggiamenti positivi che portano alla liberazione dal ciclo di vita e morte. Nello stesso tempo mi rendevo conto che sarebbe stato difficile togliermi la pesante corazza che m’ero cucito addosso da solo, i muri che m’ero costruito intorno. Ma volevo vedere il mare, ancora più a sud. Volevo immaginare il molo dov’era ancorato Corto Maltese prima d’essere arrestato. Non capivo il perché, ma dovevo andare a cercare quel profumo di libertà.

Salutai Raj e lui mi sfiorò con due dita la fronte, le mosse rapidamente di lato come volesse togliermi una macchia dalla pelle. Non disse una parola, fece un inchino e unì le mani davanti al petto in segno di saluto. Fine.

Non so quante volte rischiai di farmi agganciare dai paraurti dei camion o di sprofondare in buche non segnalate che tagliavano la strada in due. Quando il frastuono e la puzza delle strade principali mi faceva storcere la bocca per il disgusto deviavo verso le campagne e la pace. La mia Enfield col suo rombo mi regalava il sorriso che cercavo, non avevo fretta, non avevo appuntamenti. Imparai a conoscere i capricci della moto, ad assecondare le sbandate. Era una magnifica sensazione stringere fra le cosce quel serbatoio panciuto, sembrava di andare a cavallo. Era una compagna, eravamo una cosa sola. Muovevo i fianchi e la facevo scodinzolare come un cane felice. Certe volte mi mettevo a fischiare le canzoni di Johnny Cash, altre volte urlavo ritornelli stupidi inventando le parole. Un giorno stavo per finire in una pozza di fango solo perché volevo rifare sul serbatoio la rullata di batteria di Moby Dick dei Led Zeppelin con entrambe le mani. Moby Dick, Melville, un’altra storia di marinai, sentivo che dovevo raggiungere il mare e stavo diventando sempre più libero e sempre più scemo. Stavo cambiando o ritrovavo il ragazzino che avevo tradito e rinchiuso in quella stanza nascosta? Non mi fermavo più nei punti di sosta organizzati per i turisti, mi davano fastidio i pacchetti di biscotti allineati, le buste di patate fritte, le bibite fresche, i cessi puliti, le collanine e le statuette di Ganesh. Mi fermavo nei ristoranti dei camionisti, mangiavo lenticchie piccanti, chapati con patate e cipolle, bevevo tè masala e dormivo vestito, senza lavarmi. E stavo bene. M’indurivo e lasciavo sciogliere i pensieri nel vento. Mi fermai a Veraval, ma il porto puzzava di mare stantio, di pesce rancido e fogna. C’erano centinaia di pescherecci ancorati come grappoli di mosche ai moli luridi come latrine, lungo l’unica strada decine di cantieri costruivano barche o smontavano le assi marce di quelle rovesciate a pancia all’aria. Era un mondo di scheletri di legno protesi nel cielo e di naufraghi che si trascinavano nel fango o nel sole cocente. Ovunque c’era povertà, degrado, desolazione, eppure, carpentieri, marinai, pescatori, tutti seduti in cerchio all’ombra delle barche, mi sorridevano, mi parlavano in hindi e m’invitavano a mangiare con loro. Era la prima volta che accadeva, forse ero cambiato e se ne accorgevano. Anch’io ero diventato un naufrago come loro.

Mi tornò in mente il marinaio che mio nonno aveva aiutato ad essere libero, Corto Maltese, mi stava restituendo il favore regalandomi un percorso imprevisto fra memoria e libertà.

Bhavnagar, un’altra sosta in un albergo “civile” e un’officina specializzata in Bullet. Pezzi di motore ovunque, il pavimento coperto da uno strato di polvere e grasso, due uomini in maniche di camicia, le pance prominenti, gli occhiali appannati, ma dopo due giorni di cura la moto cantava senza battere in testa, le candele pulite, i freni tirati. Lasciai il sud verso Ahmedabad, mi servivano altre cinque o sei ore per completare quel viaggio ed ero confuso. Il motore girava regolare come un orologio, ma era più silenzioso di prima, un po’ triste, come me. Un cartello indicava l’inizio del Velavadar National Park. La civiltà degradata svaniva sostituita da una natura scarna, la strada tirava una linea dritta fra distese basse e piatte, deserti da un lato, saline candide dall’altro. In mezzo, mucchi di sale, capannoni scassati, carrelli elevatori, rulli dentati. Un po’ più avanti un fiume marrone si faceva strada nella grande pianura, intorno alle placide anse la terra era arsa e spaccata, il fango era incrostato come la pelle di un elefante. Linee e incroci di terra, d’acqua e sole. Accostai la moto. Non passava nessuno. Un raggio di sole colpì il marchio cromato e Bullet mi strizzò l’occhio, era contenta di quella sosta nel vuoto. Mi girai intorno e lo sguardo si perse. Oltre un ponte il fiume formava una bassa laguna, centinaia di fenicotteri la punteggiavano di macchie rosa, mi avvicinai, per la prima volta m’era venuta voglia di scattare una foto. I fenicotteri si allontanarono lenti, rimasi solo sul nastro d’asfalto che tagliava uno spazio deserto e pulito dell’India, del mio viaggio.

Passò un grosso camion, il solito clacson, mi ricoprì di polvere rossa. Infilai la chiave nella moto, ma mi bloccai e lo vidi arrivare. Era sbucato dal nulla. Un uomo in cammino. Scalzo, un bastone in mano, procedeva lento, l’andare senza tempo dei nomadi. Nell’altra mano teneva una sacca, c’era solo una coperta. Era vestito di bianco, lercio, le unghie lunghe, lo sguardo si perdeva in fondo alle cose, oltre le cose, dove gli altri non riescono a vedere. Eravamo di fronte, e non c’erano parole. Serviva quel viaggio, dovevo perdere la strada, il tempo. Quello sguardo era memoria. Gli occhi dell’uomo fenicottero mi trapassarono lasciandomi dentro lo sguardo di mio fratello. Avevo un appuntamento con lui.

Lo abbracciai e mi lasciò fare, esile, spariva fra le mie braccia. Avrei voluto dargli tutto quello che avevo, ma sarebbe stato inutile. Riprese il cammino, io rimasi lì.

Guardandolo scomparire all’orizzonte mi lasciai riempire dal vuoto.

Percorsi la stessa strada, nella medesima direzione, ma non lo vidi più.

Ad Ahmedabad mi fermai in un magnifico albergo, cento anni prima era stata la casa di un mercante di tessuti, su una parete era disegnato l’albero genealogico della famiglia, all’ultimo piano c’era un museo dei tessuti. Ripensai alla nostra famiglia: un albero dal tronco mozzato. Ero rimasto solo, i miei fili erano aggrovigliati ma quell’abbraccio aveva sciolto molti nodi e quella pista di ghiaccio che era stata la mia vita.

L’Adalaj Vav poco fuori dalla città, è un antico pozzo, dove bisogna scendere molti gradini: un capolavoro di colonne, piattaforme, scalini e pareti decorate. Lo fece costruire una donna, la moglie di un capo locale, per onorare gli dei del bene più grande, l’acqua. Quando arrivai là sotto, faceva fresco, l’acqua era di un bellissimo verde, ci si specchiavano pietre, archi e decorazioni. Mi fermai a guardare, seguivo un lento fluire di pensieri. Nel corso del viaggio l’acqua e la polvere mi avevano aiutato a sciogliere le certezze, a trovare la distanza.

E quel marinaio aveva innescato ogni cosa.

Non sapevo chi fosse Corto Maltese, eppure mi rendevo conto che un personaggio sconosciuto, quasi irreale, mi aveva aiutato a cambiare.

Chiamai George e ci trovammo a Varanasi.

Gli lasciai la vecchia Enfield modello 180. Era un capolavoro, conservata in maniera perfetta, adatta a chi sapeva scrivere una lettera come aveva fatto lui.

  • Tienila tu, George, un giorno faremo un giro nel deserto con lei, insieme ai nostri fantasmi.

Il cappello da marinaio lo portai con me perché rappresentava tutto il resto.

Passeggiammo lungo il Gange verso il luogo delle cremazioni, il sole stava calando e lo spettacolo era incredibile, c’erano decine di pire e i corpi ardevano in un’atmosfera di strana normalità, almeno per il vecchio Jamal. Il nuovo Jamal, grazie ai fantasmi del passato aveva capito quello che da sempre è chiaro agli indiani, che la morte è parte della vita e che certe persone arrivano da un luogo oltre il tempo per raccontarci che la realtà più vera è quella che si fonde con la memoria.

È da un po’ di tempo che giro l’India sulla mia Enfield fregandomene di tutto, dopo i deserti ho visto la pioggia rigare i templi rossi di Orchha, i fiori di loto ricoprire il lago di Khajuraho e la nebbia avvolgere i pellegrini che camminano scalzi per purificarsi nel Gange.

Cerchiamo la libertà come naufraghi persi in acquario appannato e continuiamo a vagare in cerca di un’uscita o di uno spiraglio di luce.

Ieri ho scritto una lettera a George tanto per non sparire del tutto, almeno con lui:

Salve George, stai tranquillo, io sto bene e ho imparato a cavarmela senza aiuto.

Mio fratello c’è riuscito, forse l’ho incontrato lungo la strada oppure ha mandato un suo amico a spiegarmi come fare per staccarmi dalla Ruota delle Cose. Un proverbio indiano mi ha fatto capire quello che serve: “Per la vacca malata, il corvo; per l’uomo malato, il bramino.” Forse ho incontrato un bramino, forse sto guarendo da solo. A volte dormo negli alberghi a cinque stelle, altre volte sotto alle stelle.

Non ho più intenzione di tornare a Londra a combinare affari per gli altri per poi arraffare la mia commissione. Un giorno forse tornerò, ma solo per pensare alla mia ditta di fili perduti.

Per il momento mi guardo intorno, ho imparato a pensare, ad aspettare, a digiunare. Rimarrò lontano per un po’. Loro ti cercheranno, vorranno notizie,

ma tu non dire niente, la mia famiglia e quelli che mi aspettano non moriranno certamente di fame e io potrò divertirmi a immaginare come faranno a cavarsela.

Comunque grazie per la storia di Corto Maltese e per la Enfield,

non li dimenticherò,

sono stati un passaporto per la libertà.

Certe cose adesso me le voglio godere,

dalla distanza.

Mi manca molta strada per il Nirvana e non so nemmeno se m’interessa.

Resterò in mezzo alla polvere del mondo,

ma avrò bisogno di tempo perché sono uscito dalla Ruota delle Cose.

 

Jamal

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by in / Miraggi di memoria / Una Storia
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Miraggi di memoria

Miraggi di memoria

Molto tempo fa ho incontrato per caso Hugo Pratt, ho conosciuto prima lui e poi Corto Maltese, il suo personaggio più famoso.

Ho avuto la fortuna di imparare da lui, perfino di collaborare con lui.

Non sapevo niente di fumetti e questa, forse, è stata la chiave giusta, parlavamo di storie da raccontare, ma intorno alle storie c’erano sempre i suoi disegni, gli acquarelli, le strisce, gli story-board, riuscivo a vederle meglio quelle storie.

Poi un giorno Hugo Pratt se n’è andato non so dove e sono rimasto in silenzio, ho aspettato, ho ascoltato e assaporato lo scorrere del tempo.

Dopo un po’ ho iniziato a viaggiare con un fotografo, un grande Amico, Marco D’Anna, il miglior compagno di viaggio. Cercavamo storie da raccontare lungo gli Itinerari delle Avventure di Corto Maltese. Lui fotografava, s’intrufolava negli ambienti, aspettava la luce giusta e io mi guardavo intorno, cercavo spunti, volti e scrivevo racconti, ma grazie alle sue fotografie le vedevo meglio quelle storie, le sentivo crescere lungo la strada.

Alcuni anni fa ho iniziato a scrivere romanzi, Corto c’era, ma era volutamente un riflesso del Corto Maltese di Hugo Pratt, volevo inventare qualcosa di personale, qualcosa che avevo imparato da lui: non inseguire ma tenere la distanza, percorrere i sentieri meno battuti, rovistare fra fatti e personaggi secondari, soffermarmi sugli incontri casuali e così ho provato a raccontare l’avventura di un Corto Maltese giovanissimo, un ragazzino al suo primo imbarco che naviga dalla Scozia alla Sicilia.

Il Corvo di Pietra, pubblicato da Sellerio è nato così.

E mentre rileggevo il manoscritto appena terminato pensavo ai disegni che avrebbe potuto realizzare Hugo Pratt e allora mi sono buttato, ho chiesto a uno degli artisti che apprezzavo di più se aveva voglia di immaginare qualcosa per farmi vedere meglio la storia e Sergio Toppi ha dedicato al Corvo alcune splendide illustrazioni, è stato un immenso onore.

Poi è arrivato Oltremare, pubblicato ancora da Sellerio, e ho vissuto un’altra grande e sorprendente gioia, vincere il Premio Emilio Salgari di Letteratura Avventurosa nel 2016.

È stato proprio Emilio Salgari lo scrittore che da ragazzo mi ha aperto la porta al mondo dell’Avventura e del Viaggio.

Nella stessa occasione ho ricevuto un altro premio molto prezioso, un premio che non potrò dimenticare perché me lo hanno attribuito i detenuti della Casa Circondariale di Montorio in provincia di Verona.

Sono stati incontri intensi, ma la motivazione al premio che hanno scritto i ragazzi e le ragazze recluse è pura poesia:

“Le pagine di Oltremare per un po’ ci hanno fatto viaggiare, ci hanno fatto assaporare il sapore della libertà, siamo andati oltre i muri e le sbarre”.

 

 

 

 

 

Adesso arriva Miraggi di Memoria edito da Nuages.

Cristina Taverna, la storica gallerista di Hugo Pratt e di tanti grandi illustratori non solo italiani ha proposto a José Munoz di realizzare le sue illustrazioni per i miei 6 racconti.

Allora certe volte i sogni possono continuare.

Scrivere storie e poi ritrovarle nei disegni, acquarelli, fotografie, nei sogni degli altri significa vederle vivere in maniera diversa, attraverso altri occhi.

È un dono bellissimo, le parole viaggiano verso destinazioni impreviste. È come vivere in un incanto.

Siamo fatti di Memorie e di Sogni, le Memorie sono le nostre radici, ci fanno resistere al vento che ci vorrebbe strappare via o buttare a terra, i Sogni sono il nostro desiderio di andare, continuare, d’inventare qualcosa di nuovo per vivere davvero, sono i nostri rami che si protendono, sono le foglie che cercano un profumo nuovo, nel vento.

Quella che segue è la Sinossi di Miraggi di Memoria, nel libro ci sono 6 racconti nei quali la figura di Corto Maltese diventa un miraggio sempre più indistinto, però con José abbiamo navigato nel suo stesso mare e, forse, l’abbiamo incontrato.

Miraggi di Memoria

Corto Maltese è un eroe che non ha mai voluto essere un eroe ma soltanto un viaggiatore, questi racconti sono nati in viaggio lungo gli itinerari vagabondi di Corto.

Hugo Pratt, in tutte le sue storie ha lasciato piste, segnali da seguire, personaggi da sviluppare, luoghi e tesori da inventare per continuare a cercare perché il valore principale di Corto Maltese è proprio l’invito al viaggio, fisico e mentale.

Queste storie vogliono essere un omaggio ai valori di curiosità, fantasia e libertà che mi ha trasmesso Hugo Pratt.

Corto non è mai stato un fine, ma sempre un tramite verso qualcosa di diverso.

Una veranda su un’isola caraibica può essere il punto di partenza per un viaggio alla ricerca della musica e della sofferenza che si respirano fra le piantagioni di canna da zucchero o nei desolati porti dell’oriente cubano.

Le vette dei vulcani sudamericani, le isole perse nell’Oceano e lo sguardo dei Moai ci spingono a ricercare mappe e tracce dei mondi perduti di Atlantide e Mū.

Le frastagliate coste scozzesi sono l’ambiente adatto per provare a immaginare una storia che profumi di whisky, erica, muschio e nebbia come nei racconti di Stevenson.

Le storie di Corto Maltese non sono soltanto avventure, sono inviti a superare le apparenze.

Quando Hugo Pratt disegnava ho visto bellissime visioni scaturire dai suoi acquarelli, sembrava di guardare attraverso un cristallo magico.

Ho provato a raccontare quello che c’è oltre le immagini, ho provato a incamminarmi lungo itinerari fantastici che partivano dalle sue avventure o da percorsi reali, perché Corto è un invito a viaggiare liberi e leggeri oltre il tempo e lo spazio.

In un tango argentino c’è una frase che dice: “Oggi entrerai nel mio passato”.

Ci sono tre tempi in queste poche parole, il presente, il passato e il futuro.

I “Miraggi di memoria” sono questo: emozioni, visioni e ricordi lungo una strada vagabonda.

Chi meglio di José Muñoz poteva camminare lungo queste strade polverose o navigare fra queste liquide, ipnotiche rotte?

Ci voleva il suo realismo magico, i suoi vuoti e pieni, il jazz dei suoi segni neri, la musica dei suoi silenzi per raccontare un altro Tango nel cortile di un gommista di San Isidro, per seguire il viaggio di un gruppo di cacciatori di balene che incrociano un giovane Corto Maltese, per farci sentire il suono lontano di un tamburo africano o il profumo speziato delle ballerine caraibiche.

Non c’è un tempo preciso in queste storie, ci sono atmosfere, assenze, deviazioni, cambi di rotta per raccontare ancora una volta quel mondo di avventure che Corto ci invita sempre a ricercare.

Marco Steiner

ottobre 2018

 

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