Ore 11.
Puntuale la nave attracca al molo esterno del porto di Djibouti.
C’è una postazione di controllo francese, una torretta di guardia, antenne, filo spinato. Dietro c’è un deposito di carburante, più il là un container grigio che raccoglie l’immondizia, due uomini stanno caricando i sacchi neri sul camion, molto lentamente.
C’è odore di marcio. Un paio di gabbiani poco convinti controlla dall’alto.
Fa caldo, è umido.
Alle 18.30 c’è il rinfresco sul ponte di volo, in due ore i ragazzi sono stati capaci di tirare a lucido la nave e di allestire una magnifica accoglienza per le autorità locali, nell’hangar c’è un lungo tavolo carico di meraviglie della cucina italiana: polpette al sugo, pizzette, formaggi, salumi, orecchiette, perfino l’elicottero ancorato sul limite del ponte sembra sorridere soddisfatto.
Ore 20.
Abbiamo un appuntamento al Kempinski con una vecchia conoscenza di Hugo Pratt, “un amico di amici”. So solo che si chiama o si fa chiamare Carlo.
Ci avviamo a piedi.
Sull’altro lato del nostro molo c’è un grande barcone di legno, si chiama Hibrahim, è un grosso Dhow yemenita, tutta la zona di prua è carica di balle di fieno, hanno montato una larga passerella di legno e stanno caricando centinaia di pecore. C’è odore di sterco e un viavai di mosche nell’aria e poi c’è il suono di quei piccoli passi rassegnati sul legno. Più avanti una grossa mandria di cammelli aspetta il cargo che li porterà al macello ad Abu Dhabi.
Una stazione di rifornimento illumina il primo incrocio fuori dal porto. Un pulmino scassato seguito da una nuvola di fumo scuro ci sfila davanti, l’autista ci guarda, il braccio appoggiato fuori dal finestrino, la guancia gonfia di Khat. Mastica e ci guarda. Dietro di lui altri tre uomini sembrano la sua fotocopia, al finestrino dietro di lui, a quello successivo. Gli scatti di un film.
Qualcuno dorme per terra, la strada è dritta e scura, costeggia il mare che non si vede.
A un certo punto tutto diventa più luminoso e pulito, diverse donne camminano nella notte spazzando per terra, sono vestite alla maniera tradizionale, ma indossano un gilet arancione.
In fondo alla strada, prima del Casinò, c’è il Djibouti Palace Kempinski un albergone squadrato a 5 stelle.
Controlli di sicurezza al cancello, metal detector all’entrata, poi arrivano i marmi, le fontane, le luci, i ristoranti, il sigar bar, la musica “disco” in sottofondo.
Ci sediamo di fronte all’ingresso, dietro alla fontana, accanto a uno schermo che proietta immagini di mare: uno squalo, i coralli, le spiagge. Entrano ragazzi giovani e atletici, businessman con cravatte allentate e colletti slacciati, ragazze sinuose come gazzelle, cosce lunghe, pelle di cioccolata.
Il nostro “amico” è in ritardo.
Facciamo un giro nella discoteca al piano terra, salsa e altra musica sudamericana.
I marinai si muovono come possono, le ragazze sono eleganti, sensuali.
Più lontano, dall’altra parte della sala c’è un pianoforte a coda. Dietro c’è un bar molto fornito.
Poca gente, luci soffuse, qui si ritrovano quelli più in là con gli anni, bevono whisky e parlano d’affari. Nessuno ascolta il pianista, un tipo robusto, barba curata, aria scocciata, Lacoste verde. Ha un tumbler sul piano, dentro ci sono solo pezzi di ghiaccio, qualche foglia di menta e un residuo verde chiaro sul fondo, probabilmente era un Jack&Menta. Intonato con la maglietta. Un tipo raffinato.
C’è una ragazza appoggiata al piano, lei non beve, continua a scrivere messaggini sul suo IPhone dalla custodia dorata.
Appoggiata così, magra, di spalle, sembra una chiave di bemolle.
In giro c’è un buon profumo di sigaro. Tutta la scena, con una grande sforzo di fantasia e ironia, fa pensare a Ingrid Bergam che chiede al pianista Sam di suonare ancora la “loro” canzone …mentre il tempo passa…e poi arriva Rick, Humphrey Bogart, con la sua giacca bianca. Ma poi mi risveglio e il mio contatto è in ritardo, forse non verrà più e qui, invece, è tutto diverso, il pianista strimpella il genere di musica “da aeroporti” che non sopporto e non è assolutamente affascinante e nemmeno sorridente, la ragazza appoggiata al piano, invece, è tutta un’altra storia. Non è certo elegante come la Bergman, lei ha un vestito viola di seta e il viso triangolare di una pantera, la pelle è scura, lucida come metallo, ma sicuramente morbida come velluto. Se ne sta appoggiata al piano di spalle e quel vestito impalpabile racconta tutte le linee. Sul viola del tessuto ci sono dei fiori, li guardo, immagino senza troppa fatica il suo corpo, ma me ne vado molto più lontano con la musica di Duke Ellington e il suo “Fleurette Africaine”, un brano scritto in onore di quei fiori che sbocciano solo nel pieno della giungla africana…
Il telefono squilla. Carlo non verrà, ci dice di raggiungerlo a casa, ha mandato qualcuno a prenderci, vuole farci un regalo. Ha detto proprio così.
– Voglio farvi un regalo… vi voglio far incontrare qualcuno che al Kempinski non ci può entrare…
– Venite a casa mia, ci sarà una macchina appena uscite da quel posto, la riconoscerete facilmente, è rossa. Tutte le altre sono Toyota bianche…
Addio pantera fiorata, addio Sam…
Gibuti appare come una città tutta bianca dai tetti piatti. Quando la si vede emergere all’orizzonte, all’avvicinarsi del piroscafo, sembra galleggiare sul mare: poi, a poco a poco, si intravedono serbatoi metallici, braccia di gru, cumuli di carbone, infine tutte le schifezze che la civiltà occidentale è condannata a portare ovunque con sé. A destra, montagne grandi e cupe si ergono come una gigantesca muraglia dall’altro lato del golfo di Tagiura. Le loro alte falesie di basalto difendono questo misterioso paese dancalo, ancora inesplorato e popolato da tribù ribelli. Dietro la città, un deserto di lava nera, coperto da cespugli spinosi, estende su una superficie di 300 chilometri un’inesorabile solitudine fino all’altopiano dell’Harrar. La civiltà si arrende davanti a questa natura selvaggia che non dà nulla per la vita delle sue creature. Solo gli Issa, selvaggi e crudeli vi vivono da nomadi, con la lancia ed il pugnale sempre pronti per finire il viaggiatore bianco che il sole non abbia ancora ammazzato. (I segreti del Mar Rosso. Henry de Monfreid)
– Come spiega sig. Pratt il fatto di aver simpatizzato così facilmente con gli Etiopi pur essendo cresciuto in un clima nazionalista?
– Mi sono posto diverse volte questa domanda. È certamente curioso che la persona che ammiravo di più non fosse, ad esempio, uno dei miei professori di liceo, ma Brahane, un ragazzo abissino di qualche anno più vecchio di me che lavorava da noi come domestico. È stato lui che mi ha insegnato l’amarico, che mi ha iniziato all’”Etiopismo” che mi ha fatto comprendere cos’era questo paese al di là del colonialismo e mi ha aiutato a fare delle scelte dandomi un senso analitico della libertà. Quando poi è scoppiata la guerra e gli eserciti alleati, appoggiati dagli indipendentisti, hanno iniziato la loro guerra di liberazione, ho dovuto affrontare un problema di coscienza nei riguardi della patria, della bandiera, ma è stato anche un altro problema di coscienza che mi è nato: quello dell’amicizia. Avevo amici da entrambe le parti e l’unico principio che ho sempre osservato è stato quello di non tradire mai gli amici.
(Hugo Pratt. “Il desiderio di essere inutile”. Rizzoli-Lizard)
Carlo è un uomo alto e atletico, potrebbe avere intorno ai 70 anni, forse di meno. Ha una faccia normale, gli occhi no. Sono chiari, ma non sono azzurri, né verdi, sono grigi. Anche il suo sguardo è grigio, non si sofferma, sfugge.
Zoppica leggermente, deve avere un problema al ginocchio destro.
Seduto sul divano di stoffa chiara c’è un somalo, potrebbe avere la sua stessa età. È immobile, sembra far parte del divano.
Un gatto rossiccio si aggira fra le nostre gambe e poi ritorna al suo posto.
Il somalo abbassa la testa, impercettibilmente, noi facciamo lo stesso, senza dire una parola.
Carlo prepara un thé, aspetta che sia abbastanza scuro e poi lo serve a tutti in piccoli bicchieri panciuti di vetro, i tulipani dei turchi. Poi si alza, sceglie un disco, un vinile fra i tanti che riempiono uno scaffale e lo mette sul piatto. Qualche crick crack di puntina e di polvere e poi inizia una voce:
– the next tune is an original composition of mine…
– …inspired, dedicated to…mother Africa.
– …the title of this tune is…
– Kush
– (Il prossimo brano è una mia composizione originale…
– …ispirata, dedicata alla…madre Africa.
– …il titolo di questo pezzo è…
– Kush)
È la voce di Dizzy Gillespie…conosco benissimo l’inizio di questo pezzo perché l’ho ascoltato tante volte, è il grande trombettista che presenta questo brano che ha voluto comporre e dedicare alla sua terra d’origine, l’Africa, e per questo, oltre a suonare con i suoi classici giganti, James Moody al flauto e sax tenore, a Kenny Barron al piano e gli altri introduce le congas con Daniel Ray, il mitico Big Black.
16 minuti di musica.
Il disco gira, nessuno si muove. Dopo cinque minuti il somalo si accende un sigaretta, Carlo fa lo stesso, il gatto dorme sotto alla sua poltrona.
Quando il brano termina Carlo si alza, rimette il disco al suo posto, lancia uno sguardo di un attimo al somalo che continua a far parte integrante del divano, poi ci viene incontro come se avessimo passato una bella serata di chiacchere insieme.
Protende la mano e noi ci alziamo.
Saluti.
Saluti.
Ci sentiamo domani.
Il somalo rimane inchiodato.
Usciamo increduli e senza parole. L’autista di Carlo ci riporta alla nave. Solo qualche sigaretta prima di andare a letto. Alla luna questa sera manca un bel pezzo, i cammelli sono nel loro recinto, la nave è bagnata di umidità.
Dopo un’ora sono nel letto.
Squilla il telefono.
– Al mio amico siete piaciuti…non avete fatto domande inutili. Ci vediamo domani alle 3 davanti al cartello stradale “Golf” è lungo la strada verso la Somalia.
Non abbiamo fatto domande? Non abbiamo proprio parlato…non capivo molto quello che stava succedendo, avevo semplicemente chiesto a questo fantomatico Carlo se mi poteva spiegare qualcosa sulla pirateria nel Corno d’Africa, sapevo che lui viveva qui da tanti anni, ma non riuscivo a capire quello che stava succedendo.
Dopo aver passato l’aeroporto di Djibouti, dopo la base francese, quella americana, quella giapponese, dopo i sobborghi, dopo i cantieri turchi, dopo la baraccopoli, c’è una discarica a cielo aperto, l’immondizia viene rovesciata e bruciata col fuoco, è una distesa di sassi, polvere e mosche. Gli arbusti sono bassi e spinosi, migliaia di sacchetti di plastica volano, rotolano e si agganciano ai rami spelacchiati, alle spine aguzze e restano lì come assurdi fiori bianchi, rosa, azzurri. Tutto l’insieme è condito dall’odore di diossina che s’infila nel naso. Ogni tanto passa un camion giallo stracarico di merci che si dirige verso la Somalia e si porta dietro una nuvola di polvere.
Più avanti c’è il cartello che indica la deviazione verso un surreale campo da Golf.
Ci fermiamo e aspettiamo. A parte quel cartello, non c’è niente. Anzi si, polvere e mosche.
Carlo mi ha avvisato, il suo amico potrebbe farsi aspettare, non perché sia il tipo che arriva in ritardo, ma perché sicuramente controllerà tutta la zona, prima di farsi vedere.
Ha un mandato di cattura internazionale e una taglia dai suoi ex-amici somali.
Dopo un’ora, alle 16, arriva una Toyota bianca. Vetri oscurati.
Il somalo scende da solo, è vestito esattamente come ieri.
– Volete sapere qualcosa sui pirati?
– Si, se possibile…- accenno.
– I pirati da queste parti, sono di due tipi…- parla un francese perfetto.
– I terroristi, e quelli come me, che sono la maggioranza…
– Io adesso ho smesso, faccio il commerciante, sto bene, mi basta…
– Io sono diventato pirata perché avevo fame e voglia di fare soldi…
Si ferma e mi punta un dito davanti agli occhi e dice:
– E tu…
Si ferma e sorride. Poi continua.
– Guardatevi in giro…
– Ditemi cosa vedete…
Giriamo le teste.
– Niente…
– No, no, aspettate, non dovete fare così, giratevi come una giostra, a 360 gradi, giro completo…
Obbediamo, naturalmente.
– Bene. Rispondetemi adesso. Cosa vedete?
– Niente…solo polvere, sassi e buste di plastica…
– Esatto, non c’è niente qui, e continua così per parecchi chilometri…è tutto qui. Niente…
– Non ci sono né soldi né lavoro qui.
– …e tu – continua a puntarmi il dito in faccia, ma sorride – …tu sei l’ostacolo fra me e il benessere…
– Sai perché ho smesso?
– No.
– Perché adesso sto bene. Ho fatto i soldi che mi servivano per comprare il mio piccolo supermercato…e così ho smesso.
Ci accendiamo 3 sigarette nel vento. Le buste rotolano e la polvere dei camion che passano s’infila nelle magliette.
– Io non sono il male…ma tu, occidentale, sei l’ostacolo…
– …non fra noi e il bene…
– ma fra noi e il benessere…
La nostra udienza è finita il somalo alza la mano e si avvia verso il suo mezzo e scompare a sud nella polvere.
Siamo nel fuoristrada e ritorniamo in silenzio verso Djibouti. Dopo pochi minuti squilla il telefono, è Carlo.
– Vi siete comportati bene ieri…- mi ha detto – siete stati capaci di ascoltare Kush e la musica del silenzio senza chiedere niente…
La macchina continua a sobbalzare sui sassi e sulla polvere rientrando a Djibouti.
Una fila di ragazzi cammina a piedi nella stessa direzione. Vengono dalla Somalia. Sono degli Issa, niente lancia, niente pugnale, solo un bastone sulle spalle, una latta e qualche busta di plastica.
– …per conoscere le cose…
– …non devi guardare le cose. Devi entrare nelle cose.
Click. Fine della comunicazione.
Corto Maltese, nel suo girovagare, ha sempre un alter ego, nelle Etiopiche non c’è Rasputin, ma un altro grande personaggio prattiano, Cush, il Dancalo, anzi, il guerriero Beni Amer.
Corto è ironico, Cush è integralista. Corto è l’occidente, Cush, l’Africa, ma le distanze non sono così nette. Pratt li mette a confronto, ma in fondo mescola e integra i loro caratteri. Corto e Cush, sono la stessa cosa, personaggi di Hugo Pratt, uomini che conoscono il rispetto.
Viaggiano insieme nel deserto, incuranti del caldo e degli scorpioni. Discutono sull’orario più giusto per bere il tè e combattono con gli scozzesi contro i turchi nello Yemen, e contro gli abissini di Ras Yaqob nemici dei Dancali e poi fuggono e si sentono vigliacchi, soltanto perché hanno cercato di salvarsi la vita dimenticandosi reciprocamente dell’amico.
Cush, masticando foglie di khat, rifiuta il whiskey che Corto gli offre, ma quando il comandante inglese, stizzito, blocca Corto ricordandogli che è proibito dar da bere agli indigeni all’interno del fortino, allora Cush pur di affermare la sua insofferenza all’autorità, trasgredisce la regola del profeta e affronta l’offesa e la prigione.
Cush beve l’alcool soltanto perché in certi momenti è meglio dimostrare la sfida all’imposizione dell’autorità che seguire i precetti religiosi.
Tanto il profeta conosce bene la fede dei suoi uomini.
Gli uomini sciocchi hanno bisogno di dimostrazioni.
Testi di Marco Steiner © – Fotografie di Marco D’Anna ©
Scrittura in continua evoluzione…. bellissime descrizioni…
Ci fanno “entrare nelle cose” con te.
Ci fanno sentire vicino.
[…] Come ha scritto un amico pochi giorni fa: per conoscere le cose non devi guardarle, devi entrare nelle cose. […]