Cush
Corto Maltese, nel suo girovagare, ha sempre un alter ego, nelle Etiopiche non c’è Rasputin, ma un altro grande personaggio prattiano, Cush, il Dancalo, anzi, il guerriero Beni Amer.
Corto è ironico, Cush è integralista. Corto è l’occidente, Cush, l’Africa, ma le distanze non sono così nette. Hugo li mette a confronto, ma in fondo mescola e integra i loro caratteri. Corto e Cush, sono la stessa cosa, personaggi di Hugo Pratt, uomini che conoscono il rispetto.
Viaggiano insieme nel deserto, incuranti del caldo e degli scorpioni. Discutono sull’orario più giusto per bere il tè e combattono con gli scozzesi contro i turchi nello Yemen, e contro gli abissini di Ras Yaqob nemici dei Dancali e poi fuggono e si sentono vigliacchi, soltanto perché hanno cercato di salvarsi la vita dimenticandosi reciprocamente dell’amico.
Cush, masticando foglie di khat, rifiuta il whiskey che Corto gli offre, ma quando il comandante inglese, stizzito, blocca Corto ricordandogli che è proibito dar da bere agli indigeni all’interno del fortino, allora Cush pur di affermare la sua insofferenza all’autorità, trasgredisce la regola del profeta e affronta l’offesa e la prigione.
Cush beve l’alcool soltanto perché in certi momenti è meglio dimostrare la sfida all’imposizione dell’autorità che seguire i precetti religiosi.
Tanto il profeta conosce bene la fede dei suoi uomini. Gli uomini sciocchi hanno bisogno di dimostrazioni.
Harar
Una sera qualunque. Quando si gira senza una meta, quando si cerca l’ultima birra.
Quando è presto per andare a dormire.
La musica s’infila nella strada come un profumo sottile. Viene da una tenda di strisce di plastica. Unte, scolorite. Dietro c’é una specie di bar. Un posto cadente, pareti azzurre scrostate, la paglia delle sedie sfondata. Silenzio e occhi che osservano. Due persone si spostano, un cenno, un breve sorriso, un invito. Sediamo, e due sgabelli di legno stridono nel silenzio.
Il cantante s’é fermato a fumare una sigaretta, mastica foglie di khat.
La birra é fresca e il ragazzo ricomincia a suonare. Uno strano strumento, una specie di arpa a sei corde, il Krar. Lui é un Azmari, il menestrello, ha una voce forte e vibrante come un nastro d’argento. La nenia si ripete e penetra nell’odore di legno, di paglia, di camicie sudate, dipinge l’ocra del deserto e la terra rossa che abbiano negli occhi.
Racconta una storia. Le frasi sono lente e staccate, lasciano il tempo d’immaginare.
L’uomo che mi siede accanto vuole una sigaretta, puzza di whisky scadente, ma parla in inglese. Mi traduce quelle parole:
“Padre,
non portarmi più a vendere radio di plastica al mercato di Harar.
Padre,
non portarmi a dormire fra quattro muri di latta,
ad allungare la mano verso un turista sudato.
Lasciami qui, padre, nella nostra campagna.
Voglio dissodare le zolle appoggiandomi all’aratro.
Voglio veder crescere il grano dalle pieghe della terra.
Padre,
mi sembravi un eroe
quando alzasti quei muri di pietra
e chiudesti di paglia l’azzurro del cielo.
C’era odore di pane e di fumo mentre dormivo per terra.
Non voglio sbirciare da un buco fetente il futuro del mondo.
Lasciami qui padre.
Masticherò khat per sognare un futuro,
mi romperò la schiena dietro a quel mulo,
ma sarò libero,
fino al mio ultimo suono.”
Moulhoulé. Il fortino.
Le pale dell’elicottero militare continuano a girare sollevando mulinelli di polvere gialla. Il mare, non lontano, attraverso quel filtro sembra un prato verde spazzato dal vento. Siamo fuori dal forte, ma all’interno di un perimetro di sassi sbilenchi accatastati a mano. Intorno c’è filo spinato arrugginito, copertoni sfasciati, mezzi militari in disuso, lo scheletro di un camion, un paio di jeep, un camion cisterna. La bandiera sbrindellata di Djbouti sventola presuntuosa.
I militari smettono di giocare a bocce, si calcano i cappelli in testa e si riparano gli occhi, un paio di capre scappano verso il mare, poi come se ci ripensassero cambiano direzione e scompaiono fra le rocce.
Il nostro pilota scende, ci precede, spiega qualcosa e poi passa ai soldati il suo thermos di caffé.
– No photo. – ci grida strizzando l’occhio.
Poi guida i soldati verso i 5 o 6 alberelli striminziti, l’unica ombra visibile in tutto il paesaggio, c’è un tavolino sgangherato e quattro sgabelli, iniziano a giocare a carte e noi ritorniamo parte del paesaggio. Siamo liberi per un’ora.
C’incamminiamo verso il mare per dare uno sguardo all’insieme, non dista più di trecento metri, ma il pilota si alza di scatto e agita la mano violentemente.
– No. No. No. Danger…Bouum.
Fuori dal perimetro di sassi è tutto terreno minato, per questo i soldati se ne stanno tranquilli in calzoncini a giocare a bocce. Nessuno li verrà a disturbare, lo sanno tutti, perfino le capre.
Peccato perché il mare era turchese e la spiaggia bianca di migliaia di frammenti di conchiglie.
Restiamo a fissare quel vuoto, quella calma surreale, quella fragile pace.
Il tempo sembra non sia mai passato da Moulhoulé.
– “Ci sono cose misteriose in questo paese…dimmi dove andrai adesso?”
– “Non so, Cush”.
– “…lontano.”
( Hugo Pratt, “…e di altri Romei e di altre Giuliette”)
– “Dobbiamo andare e non fermarci finché non saremo arrivati”
– “Dove andiamo?”
– “Non lo so, ma dobbiamo andare”
( Jack Kerouac, “Sulla strada”)
Ha ragione Umberto Eco quando dice che “Pratt rende materia di narrazione avventurosa la propria nostalgia della letteratura, e la nostra.”
©Marco Steiner
Tratto da “I luoghi dell’avventura” Rizzoli-Lizard Editore
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