Dhow. La Barca.

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Djibouti 22/11/2013. Ore 17:35.

Il sole sta tramontando dietro alle gru di carico, s’infila dentro alle montagne della Dancalia etiope e tutto il golfo diventa viola.
Un rimorchiatore esce dal porto per andare ad accogliere un altro cargo mentre un Dhow rientra trascinandosi dietro due barche dagli scafi allungati.
Due strisce bianche che tagliano la linea del mare.

_DSC9110 copiaI Dhow di oggi non hanno più vele, ma mantengono più o meno la stessa forma e spesso, a prora, hanno ancora il simbolo di un occhio. Da queste parti è l’occhio di un cammello, l’occhio di Osiride, un talismano divino, uno sguardo attento e propizio alla rotta giusta, perché una barca non è solo un mezzo di lavoro, una barca è una compagna di viaggio, una barca ha il suo spirito e il suo carattere che va conosciuto, compreso e accettato.
Dhow significa semplicemente “barca” e il Sambuco, “al-Sambuq” è il tipo più diffuso di dhow.
Il mastro d’ascia imposta la struttura della barca senza un disegno preciso, la sente, la modella, la vede prima di mettere mano al legno con cui la realizzerà e in questa visione ci sarà la vera gestazione della barca, poi ci sarà il parto, quando uscirà dalle tettoie del cantiere e infine ci sarà il battesimo quando entrerà per la prima volta nel mare.
Non è forse il rituale di una vera e propria nascita? 

Il Dhow era nato per la pesca delle perle quando questa era la principale attività nel Golfo Persico.
Si raccontava che c’erano montagne calamitate in grado di strappare tutti i chiodi e i ferri dagli scafi, così in queste barche i legni di teak e le tavole di mangrovia erano tenute insieme da un sistema di assemblaggio a clincker tramite fibre di foglie di palma e queste “cuciture” erano non solo robuste e flessibili, ma consentivano facili riparazioni durante le navigazioni.
Il Kas Kazi, il monsone di nord-est invernale le portava verso l’India e la Cina cariche di perle, sale, incenso, avorio, conchiglie o schiavi che venivano dall’Africa, il Kuzi, il monsone estivo le riportava indietro con le stive ricolme di porcellane, sete e tessuti cinesi, pepe, pinne di pescecane, pesce secco. Una prora affilata, la poppa squadrata e massiccia per sfruttare la spinta dell’onda lunga, il cassero alto, uno o due alberi inclinati, le vele latine, triangolari per risalire il vento di bolina.
Marco Polo le considerava barche pericolose, Vasco de Gama diceva che erano troppo fragili, eppure sono ancora le stesse. 

_DSC9102Oggi c’era un Dhow proprio così, arenato tristemente nel fango della fine del porto, nel nulla, oltre l’azzurro del mare, oltre le gru, oltre i moli e i gabbiani, nella linea d’ombra della fine di una barca, nell’oblio totale della sua storia. 

Tutto quello che era stato di Kurtz se n’era andato fuori dalle mie mani: la sua anima, il suo corpo, la sua stazione, i suoi progetti, il suo avorio, la sua carriera. Non restava più che la sua memoria…
L’importante era capire a chi apparteneva lui, quante potenze della tenebra lo rivendicassero come loro proprietà. Quella era la riflessione che vi faceva accapponare la pelle. Era impossibile – e anche malsano – cercare di indovinarlo. Aveva occupato un posto molto elevato fra i demoni di quel paese, lo dico letteralmente. Voi non potete capire.
(Cuore di tenebra. Joseph Conrad) 

Nei primi anni del ‘900, tra le unità della Regia Marina comparvero una decina di Sambuchi, i primi tre furono catturati ai pirati: Camoscio 1, Capriolo e Zebra e poi arrivarono gli altri fra quelli sequestrati e quelli come Daino, ordinato e costruito per la Marina ad Aden. Erano tutti a vela latina (Antilope, Camoscio1, Camoscio 2, Capriolo, Cervo 1, Cervo 2, Daino, Gazzella 2, Gazzella  3, Zebra) tranne il più grosso, Gazzella 1 che aveva una grande vela aurica.
Le operazioni partivano di solito dal porto di Massaua, inizialmente con attività di controllo pesca e antipirateria, ma poi, dal 1903 in flottiglie di 3 unità allargarono il raggio fuori dal Mar Rosso, verso  le coste della Somalia. Erano comandate da un tenente di vascello, ma fra gli arruolati indigeni c’era sempre il Nacuda, un graduato locale che guidava la barca pur non rivestendo più il ruolo di vero comandante e venditore dei prodotti acquistati, ma mantenendo quello di uomo di assoluto rispetto.
Il basso pescaggio consentiva ai Dhow di muoversi in tranquillità fra i pericolosi fondali del Mar Rosso e di avvicinarsi alle imbarcazioni contrabbandiere senza destare sospetti.  
Erano barche da sultani, con legni di teak provenienti dall’India e pesanti vele del Bahrein, il cotone e il grasso non fanno entrare l’acqua si diceva a quell’epoca e così quegli scafi leggeri erano rivestiti di grasso di squalo o di quello più raro d’ippopotamo.

Sono storie di mare e velieri, sono storie di gente che conosce il viaggio e la solitudine del viaggio.
Nave Etna è una nave grigia, non ha certamente la leggerezza di un Dhow, ma ha sicuramente la sua personalità e a prua, il suo “occhio di Panama” verrà colorato di rosso una volta passato l’equatore, perché in mare le tradizioni si rispettano e il viaggio continua a far sognare. 

“Una voce dietro di me disse in un odioso tono equivoco: – Spero, capitano, che ne siate soddisfatto – . Non voltai neppure la testa. Era il comandante del piroscafo, e qualsiasi cosa intendesse dire, qualsiasi cosa lui pensasse della nave, sapevo che, al pari di alcune rare donne, essa era una di quelle creature la cui semplice esistenza è sufficiente a suscitare un diletto disinteressato. Uno sente che è bello essere al mondo, quel mondo in cui essa esiste”.
Joseph Conrad. La linea d’ombra. 

Ringrazio Nave Etna del Viaggio.
Ringrazio il Presidente dei Marescialli Massafra non solo perché mi ha accolto da marinaio nel quadrato marescialli, ma perché l’ha fatto parlando con me di Conrad, cioè di Mare e di Vita.

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