Ho scritto un libro un po’ di tempo fa, si chiama “Isole di ordinaria follia” l’Editore è Marcianum Press, editore veneziano, che ringrazio.
ho lavorato con te grandi Amici: Marco D’Anna e Gianni Berengo Gardin,
fotografi e sognatori di un mondo migliore
e con Antonio Dragonettto psicoterapeuta e Guida di questo libro.
è una viaggio libero fra le schede di un ex-manicomio, quello di San Servolo, a Venezia.
Non voglio aggiungere altro, questa è una delle storie…
Guglielmo, il fabbricator di bussole.
Schedario Morti anno1849
n° 85
Tabella del maniaco: Guglielmo.
Indicazione genitori: nessuna.
Età: 35 circa.
Professione: fabbricator di bussole.
Stato: celibe.
Genere e specie della pazzia: imbecillità.
Epoca dello sviluppo:
Entrò il giorno 25 aprile 1844 con ordinanza dell’ I. R. Direzione Generale di Polizia.
Compendio storico della malattia:
Manca ogni documento.
Osservazioni:
1844 aprile 30: imbecille, stupido. Non parla, si nasconde a tutti, non conosce la lingua italiana, sano di fisico, innocuo. Se chiamato si chiude le orecchie per non rispondere. Sta sdraiato per terra. Vorrebbe fare bussole.
1848 gennaio 15: stupido ed aberrato sempre ma innocuo e taciturno, forse perché non parla l’italiano.
1849 gennaio: aberrato sempre, ricusa il lavoro. Febbraio: id. Marzo: id. Aprile: id. Maggio: id. Giugno: id. Luglio: id. Agosto 21 alle 4 antimeridiane cholera fulminante. 6 pomeridiane: prossimo a morte.
Morto il 22 agosto 1849 alle 4 antimeridiane da cholera.
Mi chiamo Guglielmo,
da quando sono arrivato in Italia,
prima ero Wilhelm,
nella mia città,
il porto di Amburgo.
Sono nato e cresciuto davanti al mare e ho continuato per il resto della vita. Adesso sono arenato sull’isola, ma vedo una striscia di mare, è dietro al muro.
Wil + Helm = Protetto dalla volontà, diceva così il mio nome,
mi viene da ridere perché la mia volontà non c’è più e forse non c’è mai stata.
Chissà chi avrà scelto il mio nome?
Mio padre? Mai visto.
Mia madre? Lei mi ha lasciato in un istituto quando non avevo nemmeno un anno.
Un giorno sono scappato dal collegio e mi sono imbarcato come mozzo, avevo freddo, volevo andare verso oriente, cercavo il calore del sole.
Fin dall’inizio mi abituai a non essere capito, su quelle navi sfasciate nessuno parlava il tedesco, ero in mezzo a cinesi, malesi, filippini, indiani, arabi, trasportavamo ogni genere di schifezza, olio avariato, rottami di ferro o legno, mandrie di vacche o greggi di pecore, una volta siamo arrivati ad Aden con duecento cammelli.
Anche loro andavano da un deserto all’altro senza capire, come me.
Non sono mai stato capace di imparare le lingue, in fondo non conoscevo nemmeno la mia, l’avevo praticata poco, da sempre. Non mi è mai piaciuto parlare, non serviva. Ci si abitua al silenzio, si sta bene, il silenzio avvolge come una calda coperta.
Sulle navi ci si capiva a gesti o per il tono di voce, di solito erano ordini, altre volte era una campana a stabilire qualcosa o un fischietto a farmi correre.
In genere mi rifilavano straccio e secchio per andare a lavare sudore, grasso, sangue o letame, quello era il mio lavoro, oppure c’erano sacchi o casse di legno da caricare e scaricare, ma io stavo bene.
Guardavo sempre il mare, grigio, giallo, marrone, a volte blu scuro, non era di grande compagnia, ma era meglio che restare rinchiuso nel freddo stanzone di Amburgo.
Un giorno un arabo mi vide buttato in disparte sul ponte, fumavo una cicca raccattata in un angolo. Si sedette vicino, rollò una sigaretta e me la passò, poi ripeté la stessa operazione per lui e fumammo in silenzio. Si mise una mano nella tasca dei suoi larghi calzoni e tirò fuori una bussola, allora non sapevo nemmeno cosa fosse.
Mi spostai, non capivo cosa volesse da me, pensai che con quel gesto mi dicesse che era interessato a scambiare qualcosa, ma io non ero interessato a niente e voltai la testa. Quello invece rimase in silenzio e iniziò a montarla e smontarla, e io, attratto dall’abilità delle sue mani iniziai a guardare.
– Compass. – Disse e continuò ad avvitare e svitare, era velocissimo.
Era bella, gialla, d’ottone, sul fondo del quadrante c’era la rosa dei venti, i nomi erano scritti con magnifici svolazzi, i punti cardinali erano frecce più grandi e colorate. Aveva un anello all’esterno, forse per legarla a una catena. Da un lato usciva un piccolo pulsante che serviva a bloccare il quadrante per fermare l’oscillazione dell’ago magnetico. Fece quel gesto un paio di volte, poi mi guardò. Aveva occhi marroni, calmi, vellutati, sembravano buoni, in uno dei due c’era una piccola macchia verde. Mi avvicinò la bussola tenendola fra le mani scure e rugose, sembrava una grossa pietra preziosa. In realtà non avevo mai visto un oggetto del genere, non capivo a cosa potesse servire, ma sembrava un oggetto magico, una scatola delle meraviglie.
Guardai l’arabo e lui alzò il mento, rapidamente, e me l’avvicinò.
Sembrava un uomo nell’atto di offrire un pezzo di cibo a un animale.
La presi in mano e mi persi immediatamente fra i numeri, i segni, le righe, i nomi dei venti e i minuscoli simboli. Lui sorrise e mi fece capire che la potevo sbloccare, l’ago iniziò a girare e si fermò esattamente davanti al mio petto.
Ero spaventato. Lo guardai.
Disse lui e sorrise.
Rimasi a fissarla, non riuscivo a staccare gli occhi da quell’oggetto. Mi sembrava di entrare in un mondo diverso, le linee mi portavano lontano, m’infilavo là dentro, scomparivo, risucchiato, leggero. I cerchi mi avvolgevano di un meraviglioso stupore, oblio, era quasi un incanto.
Non avevo mai provato una sensazione più bella.
In realtà non ne avevo mai provate.
Mi sentivo calmo, sereno.
Rimisi il fermo, il quadrante si bloccò, l’incanto sparì e la voltai, avevo il terrore che mi cadesse di mano.
“Stanley, London. Pocket Compass”.
Era scritto così in mezzo ai regolari cerchi concentrici incisi nel metallo dorato.
La riconsegnai all’arabo a fatica, era come se mi fossi dovuto staccare una mano, abbassai la testa, gli ero grato. Sorrisi.
Mi spiegò a lungo cos’era, lui sapeva parlare in tedesco.
Fu la più lunga conversazione della mia vita.
Da quel giorno, prima di ogni notte, mi ritrovavo sempre nello stesso posto con lui e m’insegnò tutto, fino a quando non fui capace di montarla e smontarla anch’io a occhi chiusi. Dopo un po’ di tempo si presentò con una scatola di legno che conteneva una bussola molto più strana, ossidata, scheggiata, il contenitore di legno era completamente scassato. Seppi che gliela aveva affidata il capitano, da quel giorno il mio lavoro cambiò, ero il suo assistente, potevo lavorare nel suo piccolo angolo e continuare a imparare. Levigavo il legno, lucidavo l’ottone, dipingevo quadranti scoloriti con minuscoli pennelli, eliminavo le tracce di ruggine dai metalli e la muffa dai legni e poi c’erano le colle per riparare le mappe, i righelli e i compassi per ripassare le rotte.
Era cambiato il mio mondo di odori, da sterco, grasso e carbone ero passato all’olio d’oliva mischiato all’aceto per ripulire il legno, alla cera d’api per lucidare oppure l’aceto mischiato con sale, limone, farina e qualche goccia di sapone di Marsiglia per far brillare l’ottone.
Anche i miei viaggi cambiarono, da quel momento imparai a capire dove stava andando la nave, il resto non m’interessava, i porti erano tutti diversi, ma per me erano tutti uguali, facevano tutti paura. Passeggiavo incerto lungo i moli, poi m’infilavo nei vicoli, restavo accostato ai muri e m’inoltravo in mezzo agli odori di spezie e di cibo che mi stordivano, non mi allontanavo mai troppo dal luogo di attracco, dal mio minuscolo angolo, dalle mie bussole, le mie carte, le città erano difficili per quelli come me, io non sapevo e non volevo parlare.
Poi, un giorno l’arabo scese con me, aveva un grosso fagotto sulle spalle, mi fece cenno di seguirlo, era notte e il porto era grande, non sapevo in quale città ci trovassimo, la rotta era sempre andata verso est. Ogni mattina vedevo sorgere il sole davanti alla prua e quando la notte calava andavo a fissare la scia rossa della nave che danzava sul mare.
Nel porto c’erano barche di tutte le forme, cupole tonde, torri appuntite, minareti e mezzelune dorate, vele e tende che si muovevano nel vento, c’era sentore di marcio vegetale, ma lo stesso vento portava un lontano vago profumo di rose. Sentivo il richiamo del muezzin che affidava la sua preghiera nell’aria. Camminavo spaurito seguendo l’arabo come avrebbe fatto un cane, con la coda infilata fra le zampe. Mi fece salire gradini, passare attraverso un mercato pieno di spezie, semi, legumi, albicocche e prugne secche, caffè e sacchi con polveri di tutti i colori. Ero frastornato dalla vista e dagli odori, ma soprattutto dagli sguardi. Finalmente si fermò davanti a una porta scrostata e con una chiave che teneva nascosta fra le pieghe del mantello aprì un grosso lucchetto e liberò la catena.
Entrò e mi fece cenno di seguirlo, richiuse e rimasi immobile, io tremavo. L’ambiente era buio, sentivo l’odore di chiuso, polvere e muffa, ma l’arabo si muoveva sicuro, spalancò le ante di una grande finestra e la stanza fu inondata di luce. Rimasi incantato.
I vetri erano sporchi, scheggiati, incrostati di polvere e ragnatele, ma dalla finestra si vedeva un minuscolo giardino carico di piante dalle foglie di ogni dimensione e sfumatura di verde e i raggi del sole fecero brillare una pioggia di stelle di polvere che si librava nell’aria senza alcuna voglia di appoggiarsi ai tanti oggetti che i miei occhi non riuscivano ad abbracciare. La stanza era piccola, squadrata, davanti alla finestra c’era un vecchio tavolo di legno massiccio, era ingombro d’ogni genere di meccanismi, molle, lancette, viti, anelli, lenti d’ingrandimento, strumenti per piallare, avvitare, levigare, lucidare, e poi pennelli, vasi e boccette di ogni colore e centinaia di casse di bussole di ogni forma e materiale.
Le pareti erano coperte da scaffalature sovraccariche di libri, volumi, atlanti e scatole di legno che contenevano un’infinità di altri oggetti che non potevo vedere.
Ogni cosa era coperta da un morbido tappeto di polvere, sembrava la corta pelliccia di un gatto grigio.
L’arabo mi guardò e fece un ampio gesto con la mano per descrivermi il suo regno, sorrise e sgombrò un minuscolo tavolo su cui erano appoggiate pile di fogli, mappe e disegni e dopo avermi indicato una sedia, mi fece capire che quello sarebbe stato il mio posto di lavoro.
Non ricordo quanto ci mettemmo per ripulire ogni cosa dalla polvere che si era infilata in ogni pagina, piega, angolo, buco o fessura, ma alla fine, quel laboratorio diventò un paradiso di pace.
L’arabo abitava di sopra, c’era una scala a pioli che portava direttamente al soppalco dove dormiva, per me c’era una piccola stanza poco lontano, nello stesso vicolo, forse era stata una stalla, ma per me andava benissimo, c’era un materasso di paglia, un tavolo, un catino per l’acqua, qualche candela, mi bastava per dormire, la mia vita si svolgeva nel laboratorio, in mezzo alle bussole dove potevo vagare e viaggiare al sicuro.
Le mie capacità tecniche aumentarono presto e l’arabo iniziò a lasciarmi da solo al lavoro, lui scendeva al porto per ritirare oggetti da riparare o per vendere ai mercanti le bussole più preziose.
Le cose gli andavano bene, mi portava bottiglie di vino, nuovi strumenti e ciotole con saporiti cibi fumanti.
Io ero felice, ma non durò a lungo.
Una sera mi diede il denaro per andare a mangiare in una taverna e mi disse di non tornare al lavoro, di solito m’arrangiavo col pane, qualche aringa che mi davano al porto oppure con il formaggio di pecora che mi portava, non ero mai andato in una taverna. Quella sera mi sentivo un signore, mangiai zuppa di ceci e carne stufata con peperoni cipolle e patate e perfino del vino, ma all’alba mi svegliai con una strana sensazione, qualcosa mi bruciava dentro, ma non era lo stomaco, erano il petto e la testa, era successo qualcosa, lo sentivo.
Corsi al laboratorio, la porta era spalancata, ogni cosa era spaccata, buttata all’aria e l’arabo era a terra, davanti al suo tavolo, sembrava dormisse, mi avvicinai e lo toccai, era gelido, immobile. Lo girai e il suo mantello candido era intriso dal sangue che si allargava dal ventre.
Mi guardai intorno e vidi il mio paradiso distrutto.
Piansi come un bambino e scappai, corsi nei vicoli senza sapere dove andare né cosa fare, poi da un angolo vidi una striscia di mare azzurro in mezzo ai muri scrostati e scesi fino al porto, iniziai a cercare una barca pronta a partire.
Volevo solo allontanarmi dall’orrore.
I soldati mi bloccarono lì, mi stavo per imbarcare. Mi sbatterono subito in cella. Patii ogni genere di schifezza e umiliazione là dentro, ma capii subito che non serviva gridare, non serviva parlare. Volevo soltanto morire. Dopo tre anni entrarono le guardie e mi tolsero le catene, qualcuno mi spiegò che avevano preso gli assassini dell’arabo, avevano continuato a vendere bussole per tutto quel tempo, mi portarono al porto e dissero che potevo partire.
Lessi un cartello prima di salire a bordo di una grande nave scura: Istanbul-Venezia.
Fu così che arrivai qui.
I miei occhi vagavano persi e i miei passi mi condussero nei luoghi più scuri e abbandonati nella zona dell’Arsenale, io desideravo soltanto il silenzio.
Di quei giorni ho un ricordo confuso, la mia mano scura che lottava contro gatti, ratti e gabbiani per arraffare scarti di cibo, i miei capelli sporchi e arruffati, le croste sulla testa e sul corpo a furia di grattare, i miei vestiti lerci appiccicati addosso.
E poi ricordo il profumo del pane.
Mi sembrò di seguire una scia che mi avrebbe portato ancora una volta fino al mio paradiso, mi ritrovai davanti a una porta aperta, c’erano solo lunghe strisce di paglia intrecciata, le scostai ed entrai nella bottega, tutto era coperto di farina e rividi la polvere che ricopriva il laboratorio, c’era perfino una finestra che si affacciava sul giardino. Ero tornato nel sogno. Afferrai una pagnotta chiara con le mie mani nere e la morsi, strappandone un pezzo coi denti, poi chiusi gli occhi. Mentre quel sapore dimenticato si scioglieva in bocca e mi accarezzava la lingua sentii le grida, i colpi in testa e mi ritrovai con le mani legate, ancora.
Ma era giusto, e non c’era niente da dire.
Adesso sono sull’isola, sto bene, sono in pace, guardo il cielo lassù e ogni tanto vedo anche il mare, aspetto,
ma non ho voglia di parlare,
spiegare,
tanto non serve.
Che nelle giornate piene di nebbia la bussola di Gugliemo ci sia di guida
serve sempre una bussola di fantasia per non perdere la rotta,
grazie Luciano