Hikikomori, da “Isole di ordinaria follia”

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Hikikomori, da “Isole di ordinaria follia”

Questo racconto fa parte del libro “Isole di ordinaria follia”, un libro che nasce dalle forti sensazioni/riflessioni/emozioni che ho provato dopo la lettura di una serie di schede di pazienti internati nell’ex-manicomio dell’Isola di San Servolo a Venezia.

Ho scelto di condividere questo racconto nel momento del nostro strano periodo di reclusione impostaci dall’epidemia di Coronavirus perché penso che in questo particolare momento d’immobilità forzata forse è più agevole riuscire a capire chi è costretto alla reclusione da una patologia o dalla “semplice” impossibilità nel riuscire a comunicare “normalmente” con gli altri.

Io e l’altro, è un tema molto importante, ma in questo racconto non si parla di comprensione o di empatia, qui si entra letterariamente nei panni dell’altro…

Buon viaggio.

Hikikomori

Non è difficile raggiungere l’isola, a me non serve il vaporetto, né le ali di un gabbiano e nemmeno le cartelle di un archivio da sfogliare con le fotografie dei pazzi. Mi basta una nota d’organo per entrare dalla chiesa, vanno bene anche gli accordi di una chitarra che segue le scie di sei note che volano come aerei sopra al deserto, non mi serve un microscopio per studiare fette di cervello, né le correnti azzurre dell’elettroshock che mi vorrebbero sbattere fra le nuvole del tempo o i fra i lampi di Zeus insieme alle frecce appuntite dei suoi figli, Apollo e Artemide, conficcate nel petto di quattordici disgraziati.

Che orrore di scena, roba d’altri tempi, io, per mia fortuna, vivo nel presente, sto bene qui e soltanto qui, in camera mia, anche perché da qui riesco ad arrivare ovunque, nello schermo del mio computer c’è un buco nero, un lungo tunnel interstellare che mi porta dove voglio e posso vagare, perdermi nello spazio, trovare storie e poi tornare al sicuro, nel mio nido tranquillo.

Mia madre non si chiama Niobe, lei si chiama Yume, che in giapponese vuol dire “sogno” e i suoi piccoli gesti sono tutto quello di cui ho bisogno.

Le mie necessità sono semplici, mi basta un po’ di cibo, l’acqua o il tè e una buona connessione alla rete.

In questo mio mondo c’è tutto quello che serve, posso comunicare con tutti, confrontarmi con tutti.

Voi non avete la minima idea della mia abilità con certi giochi.

Sono grasso e pallido, ho trent’anni e sto davvero bene in questo posto, l’ho già detto, a parte il fatto che quando mi ritrovo davanti allo specchio del bagno distolgo lo sguardo perché non mi piaccio. Non mi sono mai piaciuto, ma adesso ho trovato la soluzione. Non stavo bene a scuola e nemmeno al lavoro, perché per un breve periodo sono riuscito anche a trovare un lavoro, tanto per accontentare mia madre. Mi sudavano le mani, sbiancavo quasi sempre, non riuscivo a dire una parola con nessuno, non parliamo di quando i capi mi rivolgevano un ordine. Un giorno sono caduto a terra, svenuto, il capo mi aveva chiamato nella sua stanza, avevo bussato piano ero entrato e lui invece di parlarmi aveva continuato il suo lavoro, poi aveva alzato la testa e mi fissava con un’espressione strana, mi faceva paura, sembrava domandarsi chi fossi e cosa volessi. Rimase a fissarmi senza dire una parola e io mi sentii le gambe che cedevano e poi tutto diventò buio. “Crisi di panico” scrissero e me ne andai, non ce l’avrei fatta a sostenere un altro sguardo del genere. Anche mia madre fu contenta perché eravamo rimasti soli, mio padre era sparito con una donna molto giovane, ma i soldi che ci aveva lasciato bastavano per andare avanti. Da quel giorno sono rimasto a casa, adesso sono quasi dieci anni che vivo nella mia stanza.

Posso sapere tutto quello che succede ovunque,

m’è anche capitato di entrare nell’isola,

ho sfogliato le fotografie di Gianni Berengo Gardin sui libri,

ho visto la chiesa con le due torri

ho ascoltato l’organo Nachini su YouTube

ho visto i giardini, le stanze e i lunghi corridoi dell’isola con Google Hearth,

ho anche consultato gli orari del vaporetto linea n°20 che arriva fino all’isola.

Poi mi sono annoiato perché non c’è un’interfaccia interattiva, potevo soltanto guardare e dopo due minuti avevo già visto tutto. Io così non mi diverto.

Vivo nella mia stanza, è piccola ma c’è quello che serve, sembra poco, ma è il mio mondo, quello che non mi fa paura.

Là fuori c’è Tokio, la grande città.

Provavo terrore ogni volta che uscivo, c’era sempre tutta quella gente che camminava e non sapevo dove andavano, tutti avevano fretta, era un vortice che mi girava intorno, quella giostra mi stordiva e quasi tutti indossavano una mascherina bianca sulla bocca e io no, avevo paura di ammalarmi e le macchine erano tutte troppo colorate, troppo veloci, suonavano, frenavano, esalavano fumi irrespirabili e la pioggia era grigia e amara, mi rigava la pelle, l’epidermide si raggrinziva, poi penetrava e mi corrodeva le cellule del connettivo.

Le metropolitane si riempivano di milioni di corpi appiccicati che si stringevano e ondeggiavano alle fermate mentre milioni di acari e insetti continuavano a salire con loro, passavano di giacca in giacca e, stridendo sull’acciaio, quelle mostruose grandi scatole di latta chiudevano le porte e correvano sibilando e io restavo senza parole, in mezzo ai loro odori, alle ragazze che mi strofinavano i capelli in faccia mentre io volevo solo annullarmi nell’infinito e sparire.

Nelle strade bagnate le insegne luminose si rispecchiavano, mi abbagliavano e ammiccavano, i volti delle modelle mi guardavano, ridevano fra loro e mi prendevano in giro perché non ero bello, non ero elegante, ero soltanto grasso e puzzavo di sudore. Tutte quelle donne dei manifesti mi accecavano con colori intermittenti, si arrampicavano sui vetri dei palazzi e salivano sempre più in alto solo per riuscire a oscurare il cielo, dovevo abbassare la testa, sentirmi sempre più insignificante e, continuando a guardare milioni di scarpe che si muovevano come scarafaggi, dovevo evitare gli sguardi che continuavano a fissarmi.

Io preferisco la mia stanza, ci sto bene qui dentro, sono tranquillo.

C’è tutto: il mio letto, le ciabatte di panno morbido, la sciarpa marrone, il cappello di lana, i miei fumetti sparsi in giro e poi c’è Yume, mia madre, che come un bel sogno arriva sempre al momento giusto, bussa alla porta e mi lascia fuori il cibo, il tè verde e scappa via, scompare perché sa che non mi piace parlare.

Entro nel mio schermo e parlo con chi voglio, leggo, cerco, trovo e mi perdo lontano, dove voglio.

Non c’è una finestra nella mia stanza,

a me basta lo schermo che colora il mio mondo d’azzurro.

Entro là dentro e non mi serve altro,

mi perdo e sono felice,

c’è tutto,

le scariche di luce

la mia dose di sogni

la distanza,

il silenzio pulito

e la mia solitudine convive coi fantasmi di chi vive come me dall’altra parte del mondo o della mia strada

questa è la mia isola, ma posso uscire se voglio o restare a guardare,

e qui nessuno potrà mai entrare.

Poi una notte è successo qualcosa che m’ha sparato laggiù,

come un razzo mi sono conficcato nell’isola.

Dormivo, non ricordo con precisione né il giorno né l’ora, ma non ha importanza, la cosa certa è che anche se stavo dormendo, mi sentivo diverso, come se anche nel sonno fossi già stanco. Quando mi alzai dal letto ebbi la netta impressione che il mio corpo fosse cambiato, ero vecchio e nello stesso tempo avvertivo una specie di corrente elettrica nel corpo.

Il vero shock lo provai dopo.

Come al solito m’ero seduto davanti allo schermo e la cosa incredibile era che nel riflesso del vetro vidi un’altra faccia, non ero più io, o almeno non il solito io, avevo i capelli lunghi e disordinati, bianchi, avevo i baffi, ma se toccavo quella faccia sentivo che era la mia.

Poi, come facevo ogni giorno, toccai il tasto di riavvio dello schermo e quella faccia scomparve, mi toccai il viso, era di nuovo io, il vero io.

Quando il mio computer si apre, la pagina iniziale è pronta, basta un click per far partire il mio gioco preferito, è un tunnel scuro nel quale m’infilo e inizio a scendere sempre più velocemente, lungo le pareti devo aprire minuscole finestre, toccare pulsanti e scegliere velocemente fra continue deviazioni, saltare ostacoli che arrivano all’improvviso e superare vuoti che si aprono sotto ai miei piedi. Sono bravissimo, non ci credereste, c’è solo qualcuno in Australia che ha un punteggio più alto del mio, ma presto lo batterò.

Il percorso lo conosco alla perfezione, è il mio modo per entrare rilassato nella giornata e trascorrere le mie ore preferite. Però quel giorno c’era qualcosa che non quadrava, c’era qualcosa di diverso, l’ambiente del gioco, i colori, i suoni erano cambiati. All’inizio erano minuscoli dettagli che notavo a malapena, poi la cosa aumentò con l’avanzare vorticoso della discesa e a quel punto non sapevo più cosa fare, ma potevo solo continuare. La sensazione di panico iniziò a montare, era diventato tutto troppo veloce, come se il tunnel mi stesse risucchiando senza controllo verso un luogo. Sentivo strani rumori, fruscii, scricchiolii, avevo la sensazione fisica di qualcosa che mi strusciava addosso, sembravano alghe putride e dopo un po’ tutto cambiava, erano rami secchi e spinosi che mi graffiavano. A un certo punto il ticchettio imperioso di un metronomo iniziò a battere sempre più forte. Era un conto alla rovescia.

Alla fine tutto si bloccò e mi ritrovai in una stanza bianca, totalmente bianca.

C’erano un tavolo e due sedie,

io ero seduto su una delle due sedie e sul tavolo c’era una scheda ingiallita,

aperta davanti a me.

Iniziai a leggere:

Manicomio Centrale Maschile di S. Servolo in Venezia

Tabella Nosologica

N.° d’Ordine 10

Anno 1897

N.° Progressivo 229

Generale 22

Mendel Samuele

Entrato il 14 marzo 1897

Affetto da Follia Morale

E poi luogo e la data di nascita

 

C’era la fotografia di un uomo e il cuore iniziò a battere forte perché era la stessa faccia che era comparsa sul mio schermo dopo il sogno, gli stessi capelli bianchi, lunghi, arruffati, i folti baffi scuri. Era il volto di un uomo elegante, ma quello sguardo inquietante mi entrava dentro e rovistava fra i miei pensieri.

Sulla scheda c’erano i campi precompilati con i soliti dati anagrafici da un lato: paternità, maternità, età, religione, luogo di nascita, residenza, provenienza, mentre dall’altro lato erano elencate le informazioni sanitarie: costituzione fisica, stato della nutrizione, epoca dell’invasione, recidività, indole del delirio, tendenze e altri dati.

Dopo aver guardato la fotografia, letto il nome ed essermi fatto un’idea della cartella stavo per iniziare a leggere le frasi compilate probabilmente da un medico dell’epoca. Era una bellissima calligrafia, estremamente precisa e ordinata, il mio sguardo però venne attratto dall’angolo inferiore della scheda, c’era una croce stampata a caratteri più grossi.

Esito:

Morto il 27 luglio 1908, ore 4.30 per Paralisi Cardiaca

Girai il foglio e mi ritrovai davanti quattro pagine della stessa calligrafia fitta e ordinata. Viste in sequenza sembravano uno spartito musicale o la tranquilla distesa di un mare rigato dalle onde pettinate da un vento leggero, o i fili d’erba di un prato profumato.

In fondo c’era una firma bellissima, riuscii a leggere quel nome: Cesare Salatelli. Il lato inferiore della “C” si prolungava in un elegante svolazzo che sottolineava tutto il nome, Cesare, e dalla curva finale dello svolazzo partiva un tratto più marcato, quasi perfettamente lineare che sottolineava il cognome, Salatelli, la cui “S” iniziale si collegava magicamente alla “e” finale di Cesare. Non avevo letto nulla della storia, ma sentivo che quel modo di firmare esprimeva soddisfatta distanza e in quelle pagine intuivo un compiaciuto e forse sofferto finale.

Ripensandoci adesso non posso non notare che, nonostante la situazione fosse assurda, io non mi stavo creando problemi, ero seduto a quel tavolo, non capivo dove mi trovassi, ma era naturale sfogliare quella cartella clinica.

Voltai le pagine all’indietro per riguardare gli occhi dell’uomo ancora una volta e poi iniziai a leggere il resto della storia. Proprio in quel momento una porta che non avevo visto si aprì con un rumore violento e venne richiusa sbattendo nella stessa maniera rabbiosa.

Tutta la mia presunta tranquillità si frantumò all’istante come fossi stato una statua di cristallo e qualcuno mi avesse dato una martellata secca in testa.

Crollai in pezzi.

  • Samuele, quante volte ti devo dire che i pazienti non possono permettersi di leggere le cartelle cliniche!

Era come se la mia lingua fosse diventata di pietra ed era talmente gonfia da riempirmi la bocca e impedirmi un qualsiasi movimento e conseguente suono, era come se quella figura di medico fosse arrivata da un altro mondo, un mondo con cui io non potevo comunicare perché c’era un muro fra noi, anzi un vetro invalicabile, riuscivo a vederlo, a sentirlo, ma non potevo fare altro.

Ero paralizzato e la rete infinita di miei pezzi di vetro incrinato aspettava soltanto il momento opportuno per sbriciolarsi a terra.

  • Samuele, sai benissimo che ti facciamo lavorare qui perché sei intelligente e hai dimostrato di saper stare tranquillo, ma non puoi leggere le cartelle! E in particolare modo la tua!
  • Altrimenti ti faccio rinchiudere nella stanza, oppure ti sbatto fuori e finirai ancora una volta in prigione…

Tacqui naturalmente.

  • Mi hai capito, Samuele?
  • Ti ricordi tutto quello che ho fatto per te, vero? Io me ne frego che tu sappia parlare sette lingue, che tu sia stato un professore stimato, che tu conosca la Cabala e non m’importa affatto se sei stato anche un ufficiale nel Regio Esercito e che hai avuto rapporti di stima e amicizia con il Patriarca Cardinale Agostini! Io me ne frego perché dopo essere stato ebreo, volevi farti prete, e da ufficiale hai rubato la cassa del Reggimento e siccome non ti bastava hai anche dilapidato al gioco la non piccola dote della tua povera moglie! Hai preso in giro i Carabinieri e la Procura di Venezia, hai preso in giro monache e medici e gli osti di mezza città!
  • Io me ne frego che tu non sia un vero pazzo! Tu sei un folle scriteriato, Samuele, e io me ne frego che tu sappia scrivere poesie meravigliose e canti indiani sulla carta che avvolge la verdura dell’orto!
  • Lo so bene che sei entrato qui dentro a 66 anni e che anche tu sei stanco di quello che hai combinato e non hai più la forza di continuare, ma non mi farò prendere in giro da te!
  • Basta!
  • La tua si chiama Follia morale!
  • Questa è la diagnosi che scriverò perché il mondo là fuori non ti vuole più, Samuele!
  • E tu invece vorresti rimanere qui per lasciarti andare nel nulla.

Mi puntò un dito dritto in faccia e sentii la forza di tutta la sua rabbia.

  • Sai cosa sei per me, Samuele?

Rimasi in silenzio, avrei voluto sparire, anzi desideravo che lui sparisse dalla mia vista, che si sbriciolasse come un vaso di cristallo colpito dal colpo di un martello.

Volevo essere quel martello.

  • Tu per me sei una grande sconfitta!

In quell’esatto momento sentii un colpo al centro dello stomaco, una palla di cannone, un’onda d’urto violenta, una massa indefinita mi colpiva al centro del corpo, qualcosa che proveniva direttamente dal tavolo, da quelle parole, dai fogli della cartella e che mi era stata sparata addosso con una violenza indicibile.

Mi piegai in due, ma la cosa strana fu che non provai dolore, mi accartocciai in due metà come se il mio corpo fosse diventato un coltello a serramanico ripiegato di scatto.

Sdlang!

E partii, scagliato lontano dalla sedia, dalla stanza, fuori dal mondo, volavo nel buio più nero, avevo la sensazione di scivolare all’indietro in una materia grassa, gelatinosa, mi richiudevo in me stesso, ripiegavo le spalle in avanti, abbracciavo le ginocchia, mi facevo piccolo e volavo, sparato in un vortice umido che mi risucchiava e vibrava.

Mi ritrovai seduto davanti al monitor del mio computer,

tutto s’illuminò con un lampo improvviso.

Ero madido di uno strano sudore consistente e appiccicoso,

ero felice, anche se non capivo il perché.

Mi guardai intorno,

lessi la frase che campeggiava sul mio monitor,

ero diventato il numero 1,

avevo battuto il mio amico Hikikomori australiano,

il record del gioco, finalmente, era mio.

 

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