Il giovane psichiatra (Una storia)

You think it's good?

Il giovane psichiatra (Una storia)

Il giovane psichiatra

Quando sono arrivato, ero giovane, entusiasta, ma poi è bastato poco, spesso succede così, non solamente in un manicomio. Le regole, i superiori, qualcuno, non importa chi, comunque quelli che seguono sempre la corrente, provano a tirarti in basso, nella corrente, con loro, se hai idee nuove ti legano al molo e buttano un’ancora in più, tanto per essere sicuri che non riuscirai a mollare gli ormeggi e partire.

La diversità spaventa, sempre e comunque.

Io arrivavo presto al mattino, volevo aiutare, invece non dovevo pensare, non dovevo fare niente di mia iniziativa, lui arrivava all’alba, aveva già fatto il giro di visite, controllato le terapie e guardato tutti dall’alto al basso, aveva setacciato il suo regno da cima a fondo e tutto filava regolare e ordinato come piaceva a lui, nella corrente. La macchina era oliata e a quel punto poteva fare l’unica cosa che gli piaceva: rintanarsi nel suo mondo preferito, la sala anatomopatologica, lì segava crani e sezionava cervelli e studiava quello che usciva dal controllo, cercava l’errore, il pezzo rotto nella testa dei suoi matti.

Io ero uno dei soldatini, dovevo eseguire le terapie che il Direttore lasciava scritte nelle salette dell’infermeria. All’inizio per me furono docce fredde, forse peggiori delle “docce” e dei bagni “idroterapici” riservati ai malati.

Quando vedevo girare l’infermiera con il carrello delle terapie, quando sentivo il cigolio delle ruote e l’odore delle medicine mi si attorcigliavano le budella.

Sono dimagrito molto in quegli anni.

Di quel periodo, sopra ogni cosa, mi rimase impressa una scena.

Quel giorno, come al solito, stavamo facendo il giro delle corsie, lui in testa e nell’ordine, medici, suore e infermieri, il codazzo del suo esercito.

Il direttore si fermò davanti a uno stanzone aperto, un grande ambiente, era la sala mensa, non c’era niente e nessuno, eccetto tavoli e sedie, un vago odore di minestra, e lui, dopo uno sguardo attento, si precipitò dentro per riallineare una sedia, una sola, rimasta fuori posto.

Continuammo il giro, mi sembrò di leggergli in faccia un sorriso soddisfatto.

Io ero il più giovane, non avevo trovato una stanza in città e rimanevo a dormire sull’isola. Mi fece diventare lo specialista dello shock insulinico.

Un’iniezione lenta d’insulina, il sonno profondo, quasi una morte, e poi, lentamente lo zucchero, il risveglio. Non capivo perché lo stavo facendo, ma in qualche modo era un gesto di comprensione, per i malati era quasi un sottile piacere.

Il Direttore, burbero, sempre sgarbato con tutti, un giorno mi disse che “avevo la mano”. Rimasi sorpreso, per lui era un gran complimento.

Ma forse non era solo la mia mano.

Li ascoltavo e ci parlavo. La medicina mi diceva che era lo zucchero a svegliarli dal coma, io preferivo pensare che fossero le mie parole. Mi piaceva pensare così e decisi di continuare. Le mie erano le prime parole che quei disgraziati sentivano dopo il sonno artificiale.

Volevo dire e fare non soltanto quello che sapevo, cercavo quello che sentivo.

E poi, dato che non dovevo riprendere il vaporetto per Venezia, di notte continuavo a parlare con i matti.

Senza allineare tavoli, sedie, matite e pensieri.

Li ascoltavo o restavo in silenzio con loro, aspettavo, raccoglievo le storie, le loro e quelle delle famiglie, m’interessavano soprattutto quelle più assurde e i pensieri più staccati dalla realtà, li lasciavo liberi di ridere, di strafare, avevo un unico sistema, non giudicare, lasciarli parlare a briglia sciolta, sempre.

Mi piaceva ascoltarli, mi piaceva parlare con loro, mi sentivo più vicino a loro che alle suore nevrotiche, agli infermieri ignoranti, ai colleghi menefreghisti.

Ero diventato invisibile e stavo bene così. Quello che facevo non era previsto né ordinato dal Direttore. Non potevo nemmeno scrivere le mie note sulle cartelle cliniche, solo lui le poteva compilare.

Ma conservavo e annotavo tutto sui miei manoscritti.

Dopo tre anni me ne sono andato. Da allora ho sempre continuato a parlare con i “matti” e ovunque andavo, ascoltavo, parlavo, cercavo le fantasie e lottavo contro i deliri. Ho imparato dalla mia invisibilità, ho imparato da quella sedia spostata, ho imparato a non mettere ordine e distanza.

Ho imparato a non seguire la corrente della distinzione ma solo il sogno della comunicazione.

E sono rimasto solo.

I percorsi sotto la linea del mare sono lunghi e tortuosi, ormai l’ho capito.

Ora anch’io non ci sono più, sono stato fulminato dalla freccia del tempo, ma a San Servolo ci torno. È bello vagare libero nello spazio e nel tempo, non cercavo mia madre Niobe né i miei fratelli e sorelle, quelle erano soltanto storie passate, io volevo ripercorrere i corridoi, anche adesso sono invisibile e sono ancora più libero di ascoltare le voci che raccontano, è un passato che vive.

Basta chiudere gli occhi, sentirsi addosso il dolore, solo così si riesce ad ascoltare ed entrare.

Io non dovevo avere un nome, volevo soltanto essere uno dei tanti.

Non lo sono stato.

Il mio nome è stato scritto e pronunciato mille volte, dopo.

Sono uno di quelli che hanno provato a cambiare.

 

2 Comments


  • El poder en manos de gente obtusa, cerrada, es nefasto en toda clase de ambientes y situaciones. En medicina es terrible pues , con avances tan veloces, quedarse atrás y no permitir ningún cambio perjudica a quienes debiera proteger. El Psicologo es una muestra preciosa de extremo de poder y de impotencia de quien dispone de herramientas que no puede utilizar. Horribles Establecimientos Hospitalarios que no hospitaban sino que torturaban.

    Rispondi

  • grazie Martha

    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Vai alla barra degli strumenti