Isole del Tesoro

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Isole del Tesoro

Isole del tesoro

Il vetro aveva un colore lattiginoso, ma era cangiante come l’arcobaleno.
S’intravedeva qualcosa che si muoveva dentro, come fosse un’ombra…
Robert Louis Stevenson
Il diavolo nella bottiglia” (1893)

Porte, chiavi e apritori di porte.

Un viaggio alla ricerca del Pacifico di Stevenson e di Pratt ormai si basa solo su visioni e ricordi letterari. Le palme, i velieri, l’azzurro del mare e la sabbia dorata non bastano per sognare davvero. Serve molto di più, o forse, invece, servono soltanto il dolce fruscio del vento fra le foglie o un tratto di costa dove un uragano ha spazzato palme e villaggi, un logoro baule di cuoio o la bianca visione di una solitaria casa coloniale immersa nel verde di una collina.
Oggi, per osservare il mondo, potrebbe essere sufficiente un buon collegamento internet, ma per vederlo davvero e, soprattutto, per riuscire a guardare oltre, servono i sogni e una chiave di lettura speciale, una chiave che ognuno di noi stringe in mano nel momento in cui si avventura fra le onde in compagnia di Corto Maltese o fra i segni tracciati sulla mappa di Billy Bones.
Il viaggio, il vero viaggio, non è rappresentato dall’effettivo raggiungimento del luogo, in realtà non c’è una vera meta, il racconto è racchiuso tutto nel percorso, nel cambiamento, nell’esperienza acquisita lungo quella strada, anzi quella liquida, instabile, rotta.
Le Isole del Pacifico rappresentano un sogno di bellezza e di pace. Un ricordo letterario fatto di romanzi e di avventure, di navigatori e di esploratori che hanno lasciato le loro tracce e hanno raccolto le perle di quella disordinata manciata di terre abbandonate nel grande spazio blu che separa l’America dall’Asia.
Boungainville, Cook, La Perouse, e poi Conrad, Melville, Stevenson, l’avventura del Bounty, il Trono Nero, Marlon Brando, Corto Maltese, i voli di Amelia Earhart, i film, le palme, la copra, i velieri, i gabbiani.
Bastano solo i nomi a far partire immaginazione e ricordi.
Apia è la principale città e la capitale dell’isola di Upolu, e Upolu, insieme alla più grande, Savai’i, e a un pugno di altre isolette o scogli coperti di palme, compone le Samoa occidentali, ma molto più di questo, Apia è il centro del sogno, il sogno che è stato di Stevenson e di Hugo Pratt, per questo, è la vera isola del tesoro.
Robert Louis Stevenson ci arrivò per cercare di continuare a vivere, per respirare con i suoi polmoni scassati. Stava male nella sua umida Scozia, stava male anche a San Francisco e al French Hotel di Monterey, ma quando arrivò da queste parti iniziò a ritrovare la serenità, a rifiatare senza ansimare, e sua moglie, Fanny, gli fece comprare un bel terreno in collina e iniziarono subito a costruire la grande casa di Vailima. Lei lo conduceva dolcemente per mano lungo la sua rotta e volle per lui l’unico salotto delle Samoa con un grande camino, forse serviva per scacciare l’odiata umidità, ma serviva soprattutto per farlo sentire come a casa, nelle Highlands scozzesi, il suo ambiente naturale. I servitori camminavano a piedi scalzi sui robusti pavimenti di quercia, indossavano i lava-lava polinesiani, ma il tessuto era un tartan scozzere con i colori degli Stevenson. Una nave postale collegava Apia con Sidney, così i manoscritti potevano essere spediti all’editore di Londra e RLS avrebbe potuto continuare a scrivere, a sognare e a pubblicare  le sue storie favorito da quel clima mite.
Il vento portava l’aria fresca del mare e la vista poteva spaziare lontano e lui continuava a sognare e a inventare altri viaggi e altre Isole del tesoro. In città, vicino al porto, viveva un altro scozzese, William John Swann, che per giunta era anche un farmacista, così era lui che riusciva sempre a procurare i farmaci di cui Robert aveva bisogno. Anche Swann era arrivato ad Apia nel 1889 e aveva una figlia che si chiamava Aggie Grey. Oggi, ad Apia, c’è ancora lo stesso albergo, con quel nome, è comodo e moderno, ma ha lo stesso fascino che doveva avere nel 1930, c’è ancora sua nipote a dirigerlo, anche lei si chiama Aggie, come la nonna, lei è una bella signora bionda con un fiore fra i capelli che balla come una vera polinesiana, ma si ricorda che sua nonna appena la vide decise di darle il suo nome, anche lei avrebbe continuato qualcosa, ricreare un’autentica ospitalità. Stevenson e Swann se ne andavano a mangiare insieme, nei posti semplici e veri, quelli che piacevano a loro, andavano da un cuoco cinese che si chiamava Kai Sue e diceva di essere stato il cuoco di bordo di Bully Hayes, il pirata. Ma Stevenson, oltre a mangiare il pollo alla cinese e a farsi arrivare le ostriche da San Francisco, i vini dalla Francia, insieme a una scultura che Rodin in persona gli aveva regalato, frequentava molto tutti i samoani, dal re fino all’ultimo dei pescatori e i contadini che vivevano nelle piantagioni di taro e banani. Lui amava la semplicità di quella gente, gli piacevano perché non erano “troppo” civilizzati, perché erano sempre felici e sorridenti senza avere bisogno di tutte le cose che servivano per rendere contenti i borghesi, il clima era dolce e non servivano vestiti, la natura della terra era generosa di frutti squisiti e di fiori bellissimi e profumati, il mare era carico di pesci e bastava una fiocina appuntita o una semplice rete per riportare a casa il pranzo o la cena.
Così Stevenson ad Apia diventò “Tusitala”, che significa “il narratore di storie”, e continuò a scrivere, a raccontare e a vivere qui, fino alla fine.
Stava lavorando al Weir di Hermiston quando, un giorno in cui Fanny era in ansia, perché aveva il presentimento che stesse per succedere qualcosa di grave, andò a prendere una bottiglia di Borgogna per berla insieme a lei e farle sparire quell’inutile angoscia, ma fu il suo ultimo gesto. Era il 3 dicembre del 1894, e RLS si accasciò, travolto non da un uragano né dalla sciabola corta di un pirata, ma da un’emorragia cerebrale. Il giorno dopo, anzi quella stessa notte, più di duecento volontari, tutti i suoi amici samoani, quelli che avevano ascoltato le sue storie, quelli che avevano ballato e suonato con lui, tutti insieme, strapparono alla foresta un ripido sentiero per portarlo a riposare per sempre in cima al monte Vaea, quello che RLS amava tanto. Quel sentiero lo chiamarono The road of the loving hearts, e allora, cosa c’è di più rudemente romantico per uno scrittore che ha raccontato storie di feroci pirati tagliagole, di uomini che si sdoppiavano in bestiali e violenti Mr Hyde, di ragazzi rapiti e trascinati in mari lontani, che guidare i suoi lettori ancora una volta attraverso quella “strada dei cuori innamorati”?
Il sentiero è difficile e insidioso, la salita é ripida e costante, le scarpe scivolano su un terreno          viscido di pioggia e d’umidità che cola da una foresta che, per discrezione, vorrebbe richiudersi su se stessa come una pianta carnivora. Si sentono i richiami degli uccelli e il ronzio d’insetti d’ogni dimensione che si accaniscono sulle caviglie e su ogni pezzetto di pelle bianca e sudata. C’è un leggero ticchettio sulle foglie, sembra pioggia, ma sono soltanto i fragili fiori di frangipani che si staccano col vento, profumano di fresco e pulito, di antica semplicità. I Sagasegamau’u, o Cardinal Honeyeater sono piccoli uccellini dal corpo scuro e dalla testa rosso fuoco, dei piccoli cardinali, che succhiano il miele da fiori rossi come gli schizzi di colore di un pennello fantasioso stanco di dipingere un mare di sfumature di verde.
E allora, Tusitala racconta ancora tante silenziose storie da lassù, in silenzio, da quella tomba, che sembra una solida nave con la quale partire, che sembra una casa, dove poter sempre tornare.
Pratt era partito per il Pacifico alla ricerca, o forse, all’inseguimento di quel sogno. Aveva appuntamenti a metà strada fra la realtà e la fantasia e, in quei luoghi, tutto veniva filtrato fra i ricordi e le immagini, fra i sogni e l’irraggiungibile pietra bianca della tomba di Stevenson.
In quel 1990, una tempesta aveva sradicato gli alberi, fatto scivolare pietre e fango, aveva reso impossibile quel pellegrinaggio spirituale e giovanile, ma il sogno non sente ragioni, il sogno deve raggiungere sempre la meta prima di svanire e trasformarsi in realtà, e Pratt rese omaggio a Tusitala come poteva, dall’alto, da un elicottero neozelandese.
La pietra tombale bianca venne spazzata dal vento delle pale di quel calabrone moderno, eppure quella candida icona rimarrà silenziosa e carica di significati negli occhi di Pratt e quelle immagini rubate dall’alto innescheranno le visioni acquarellate di Stevenson, di Corto Maltese e di Emma Coe, di velieri e di soldati fijiani, perché quando la vista è bloccata bisogna salire su un altro gradino oppure chiudere gli occhi e lasciare libera la fantasia e nessuno poteva liberarla meglio di Hugo Pratt.
“Tatou moni Tusitala. Ua Tagi le fatu ma le eleele”. Disse il grande capo Tuimaleali’ifana seduto a gambe incrociate davanti al corpo esanime di R.L.S.
“Caro, nostro Tusitala, anche le pietre e la terra versano lacrime per te”.

THE SEA COOK

Steven è il cuoco di bordo, il “sea cook”, del catamarano Te Matau a Máui, una splendida riproduzione, con materiali moderni, dell’imbarcazione tradizionale polinesiana, la Waka, una lunga canoa a doppio scafo e due alberi di 22 metri di lunghezza e 13 tonnellate di peso che ricorda tanto quella con la quale Rasputin raccolse Corto Maltese dopo il naufragio.
Te matau a Máui, “l’amo di Maui”, naviga soltanto con mezzi tradizionali, come strumenti moderni ha soltanto un Gps per la sicurezza dell’equipaggio e un grosso pannello solare per alimentare un piccolo motore elettrico che serve per manovrare nei porti. Per il resto del viaggio, ci sono soltanto il sestante e le stelle, le vele, il timone e il Pacifico.
Qui nel porto di Apia, nel giugno del 2010, non lontano dalla casa di Stevenson, quello che raccontava le storie, di catamarani così, ce ne sono quattro.
Le imbarcazioni di questa singolare regata che, in realtà, è un vero viaggio iniziatico, si assomigliano tutte, ma si differenziano per i colori e i disegni caratteristici delle rispettive isole, le ha costruite un modernissimo cantiere di Auckland che si chiama Salthouse Boatbuilders, “Costruttori di barche della casa salata”.
Anche la traduzione letterale del nome ha un notevole ricordo prattiano.
Il progetto, basato solo sulla raccolta di fondi privati, è quello di rivitalizzare la tradizione della navigazione a vela, la costruzione d’imbarcazioni tradizionali e la condivisione delle conoscenze marinare di tutti i popoli che abitano l’infinita collana di isole dei mari del Sud, in uno spirito di generale unione Polinesiana. Sembra di risentire le riflessioni di Tarao, ma invece è il vero progetto che ha consentito la realizzazione di questo sogno.
La chiamano “Wayfindind”, letteralmente “La ricerca della strada”, è la navigazione non strumentale, navigare seguendo le stelle, i segni del cielo, il soffio naturale degli alisei, la spinta delle correnti, o forse, perfino la pinna di un pescecane.
Te Matau a Maui, “L’amo di Maui” è la canoa che rappresenta la Nuova Zelanda; Marumaru Atua “Sotto la protezione del Signore” è quella delle Isole Cook, Uto ni Yalo è la barca delle Fiji; Hine Moana quella dei marinai misti che vengono da Samoa, da Tonga, da Vanuatu.
Sono bellissime, solide e leggere, come i sogni. Arrivano a toccare i dieci nodi quando filano nel vento giusto. In ogni porto c’è un’aka, la danza maori, che la gente del posto balla e urla percuotendosi il petto, le cosce e gli avambracci, in ogni porto ci sono preghiere, strette di mani, abbracci, fiumi di birra, barbecue, occhi lucidi, palme piegate dal vento, racconti a voce alta e risate, ma, soprattutto, la sensazione di ritornare a vivere qualcosa di vero, di riuscire a navigare nel silenzio, senza pensare al gasolio, senza preoccuparsi troppo di venti e di onde, perché quelle vele a forma di cuore, chiudendosi come ventagli li lasceranno sfogare, e quegli scafi arcuati, pesanti e sgraziati non le vorranno sfidare, ma le sapranno assecondare e cavalcare morbidamente, senza preoccuparsi troppo del tempo e della meta, perché una meta reale non c’è.
Quando le “canoe” salpano leggere dal porto di Apia dirette verso Tonga si sente solo il soffio del fiato di un marinaio maori all’interno di una grossa conchiglia e quello del vento che apre le vele di stuoia color ruggine. Quando quelle vele doppie di dissolvono nel grigio della lontananza e della pioggia, sembra di rivedere un acquarello di Pratt.
Una lama di sole s’inventa perfino un arcobaleno, forse è quasi troppo.
– Steven, che significato ha per te questo viaggio?
– La realizzazione di un sogno…anzi, forse…una specie di rinascita.
Steven è un uomo grosso e pesante, ha sicuramente più l’aspetto del cuoco immerso nella cucina fumosa di un ristorante cittadino che dell’agile marinaio maori calato in questi gusci leggeri.
E’ vestito soltanto con il tipico gonnellino polinesiano nero, il lava-lava, ha il torso massiccio, la pancia e il cranio rasato sono lucidi di minuscole gocce di pioggia, ma i suoi occhi dicono che è un uomo speciale. Per parlare non servono domande, forse, ha solo voglia di raccontare. Segue col dito un percorso ideale su una cartina umida e macchiata dell’Oceano Pacifico. Parte dalla Nuova Zelanda e poi spiega che Maui, dalla sua barca, ha pescato con l’amo l’isola su cui sorge Auckland e questo è il significato del nome della barca neozelandese, quella su cui lui sta vivendo l’avventura, il sogno.
Steven, il cuoco, è messo male coi denti, ci sono larghi spazi e finestre, ma non ha problemi a sorridere e riesce a masticare benissimo dei pezzetti di carne di cervo che si è portato dalla Nuova Zelanda e a suonare il flauto d’osso che s’è intagliato da solo. Racconta, con uno sguardo solare e l’entusiasmo di un ragazzino che non vuole più smettere di giocare:
– Il Creatore di tutto è Io Matua Kore – indica un cielo grigio di pioggia sottile – il significato del suo nome è “Il nulla”, ma nel nulla c’è la potenzialità d’ogni cosa. – Silenzio. E lo spazio di tempo necessario a fissarsi negli occhi. Un sorriso che vuol dire “Capisco”, poi il sea cook continua – Per questo motivo, Hine Kahu Ataata, la prima donna, la “Donna delle sabbie”, ha generato tutta l’umanità ed è così che in ogni donna c’è la divinità della potenzialità. Perché la donna, dal suo grembo può generare ogni cosa: l’uomo più grande, un Signore della guerra, o la nullità più assoluta…
Il sottotitolo dell’Isola del Tesoro di Stevenson era proprio The sea cook, perché il grande RLS sapeva, fin dalle prime pagine del suo grande sogno, che a quel bravo ragazzo di Jim Hawkins la vera svolta della vita non sarebbe certo capitata fra i tavoli della locanda dell’Ammiraglio Benbow, non certo nell’aiutare sua mamma, né dietro ai consigli del buon dottor Livesey o del simpatico Trewlaney, né del capace capitano Smollet, ma il suo “apritore di porte” sarebbe stato proprio un bastardo come il cuoco dell’Hispaniola, John Long Silver, il pirata.
C’è un ricordo importante citato dallo stesso Pratt in un intervista, l’Isola del tesoro, la sua copia personale del libro, nell’edizione Heinemann di Londra, fu l’ultimo regalo di suo padre, ma proprio quel rigido volume nero sarebbe stato l’inizio di tutto. L’inizio di un viaggio, di ricerca, questo sicuramente, ma anche un viaggio divertente, perché, in fondo, non è poi così importante trovare, ma partire per cercare qualcosa, anche se spesso non si sa esattamente che cosa.
La meta da ricercare è la vera grande eredità, perché ognuno di noi deve ricercare la propria Isola del tesoro.
Per questo, per Pratt, rendere omaggio alla tomba di Stevenson in cima al monte Vaea era una sorta di pellegrinaggio, un omaggio dovuto. Perché lassù il colore del mare sarebbe stato più vivo, il profumo del vento più intenso e la fantasia sarebbe stata più vera.
Eppure Pratt non ce l’ha fatta, la strada era sbarrata dai tronchi abbattuti dall’uragano, il fondo era scivoloso per le piogge, così, lui la tomba di Stevenson la vide soltanto dall’alto, non toccò la pietra umida e bianca, non riuscì a sentire la delicata fragranza del frangipani che cade nel vento né i richiami degli uccelli dalla testa rossa, lui vide quel simbolo attraverso il frastuono delle pale di un elicottero neozelandese, ma Pratt era andato molto oltre, quel ragazzo che aveva sognato attraverso un libro nero regalato da un padre che sarebbe scomparso come il padre di Jim Hawkins, quel ragazzo era riuscito a inventare Corto Maltese e aveva insegnato a tanti altri ragazzi a sognare, e soprattutto, ad osare, anzi molto di più, ad andare oltre.
Il momento più bello nell’Isola del Tesoro è, sicuramente, il momento in cui Jim riesce ad impossessarsi e a condurre, anche se brevemente, ma da solo, fino ad arenarsi in un banco di sabbia l’Hispaniola, la nave, la vita.
Jim Hawkins che conduce la nave da solo e Ben Gunn che dopo aver trovato il tesoro vorrebbe solo un pezzo di formaggio sono la sintesi di tutto, l’avventura, il sogno, l’ironia di Stevenson e di Hugo Pratt tutti messi insieme, scrittori che non hanno mai preteso di spiegare niente, ma hanno soltanto voluto raccontare le loro storie e invece hanno detto molto di più.
L’omaggio a una tomba è il ringraziamento alla vita che la persona scomparsa è riuscita a trasmettere. Non c’è soltanto la malinconia del ricordo, c’è la gratitudine per quel ponte sottile che ha consentito un passaggio. Hermann Hesse, Yeates, Stevenson, sono le tre tombe simboliche di Pratt, gli “apritori di porte”, ma Corto Maltese ha saputo bere alla loro fonte e trasmettere un altro segnale, trovare una chiave che, partendo da loro, può guidare, anzi accompagnare, in leggerezza, verso un mondo salmastro e fantastico, un mondo fatto di vele e tesori, d’incontri e sorrisi, di silenzi e ballate.
– Che lavoro fai Steven?
– Sono uno studente.
C’è sempre tanto da imparare da un cuoco maori che a cinquant’anni si definisce uno studente e  che regala un amo intagliato in un osso di balena e poi rimane in silenzio e si mette a suonare il flauto pensando al niente di Io Matua Kore. Anche Stevenson suonava il flauto seduto nel giardino della sua casa di Vailima, forse anche lui pensava alla vita che vola via troppo veloce, ma quel suono è ancora forte, almeno qui, nel porto di Apia.

TROPICAL ISLANDER

La Tropical Islander, è la mia nave, è una grossa nave dallo scafo nero. E’ fredda e piena di scatole metalliche di ogni colore. E’ una portacontainer della New Guinea Pacific Line. Siamo partiti da Hong Kong il 28 aprile e dovremmo arrivare ad Apia il 14 giugno, abbiamo toccato i porti di Kobe, Yokohama, Tarawa, Nomea, ma poi ci hanno bloccati al largo del porto di Lautoka, nelle Fiji. L’ordine l’ha dato un ufficiale medico, il dottor Tarid Ali. Doveva essere un semplice controllo sanitario, ma a bordo hanno trovato tre tipi d’insetti strani, dovranno analizzarli, e allora siamo stati messi in quarantena, adesso siamo bloccati qui, a tre miglia dal porto.
Non manca molto al porto di Apia, a Upolu, la mia isola, ma se non riusciremo a partire al più presto io diventerò pazzo.
Il mio nome é Niuu, sono originario di Matautu, un villaggio di pescatori sulla costa meridionale della mia isola. L’anno scorso, all’alba del 29 settembre, una data che non dimenticherò mai, lo tsunami investì proprio quella costa e con quattro onde più alte delle palme, mi portò via tutto, mia figlia di dodici anni, mio padre e mia madre, la mia casa, la mia moto e il mio cavallo, elencati nell’ordine d’importanza. Mi ero svegliato di notte e avevo sentito il rumore, sembrava un ruggito nella terra, poi ci fu solo silenzio, un grande silenzio, senza un alito di vento, il richiamo di un uccello, poi arrivò il mare, quattro schiaffi di fango gelido, sembrava che tutto dovesse finire. Io rimasi attaccato al tronco di una palma, lei era riuscita a resistere ed era rimasta in piedi, elastica, leggera. Le altre, con le loro radici infilate nella sabbia e i tronchi spezzati, sembravano tristi ballerine su di un palco senza più musica.
Prima ero un uomo felice, anzi, ero quasi un benestante, ma da quel momento in poi, non ho avuto più niente. Soltanto tre tombe, una moglie infelice, il ricordo della mia Fale e dieci palme spezzate, come la mia vita.
Fu così che accettai l’ingaggio del comandate giapponese di questa nave nera come la notte. Mi ha venduto un container per 500 dollari di Samoa, praticamente per niente, ma per le carte di navigazione quel container blu sarebbe stato mio durante quei viaggi, lui non aveva nessuna responsabilità per quello che poteva contenere. Le autorità portuali fanno controlli a campione oppure guardano le provenienze, le destinazioni e il tipo di merci trasportate, quando c’è qualche dato sospetto controllano i container. Nel porto di Hong Kong non ci sono più barche, ma un’impressionante distesa di container di tutti i colori, la prima volta che l’ho vista mi sembrava un’immensa città, o il disegno di un bambino che non riesce a parlare. Non ho mai capito come facciano quelle braccia meccaniche a scegliere il cubo giusto e a caricarlo sulla nave giusta, ma in fondo, la cosa non mi ha mai interessato troppo. A me bastava sapere che il mio container blu viaggiasse sempre con me e che nessuno mi chiedesse di aprirlo per curiosarci dentro. Ho fatto tre viaggi da Hong Kong al Giappone e ogni volta ho infilato un sacchetto di coca in mezzo ai tonni congelati, oppure in mezzo ai materiali da costruzione, questo era il mio lavoro, anche se facevo finta di fare il marinaio. Al terzo viaggio, proprio questo, il mio incarico si sarebbe dovuto concludere, il container tornava al comandante e io mi sarei preso il mio premio, 30.000 dollari americani. Con quei soldi avrei ricostruito tutto, mi sarei ricomprato una moto e un cavallo, avrei pregato per mia figlia e per i miei antenati, avrei costruito una tomba proprio nella veranda della mia nuova casa, l’avrei rifatta proprio sopra al pavimento di quella che le onde s’erano portata via. Mi bastava un piccolo muro per il perimetro, un po’ di colonne azzurre e un tetto. Qui ad Apia, le nostre case sono fatte così, bastano tende leggere, non servono muri, porte, finestre, chiavi, basta un tetto per ripararci dalla pioggia. L’aria, il vento e gli amici possono sempre entrare. Io, con quei soldi, avrei rifatto tutto, e avrei ricominciato da capo.
Ma la Tropical Islander adesso è bloccata qui, per una stupida ispezione medica e per tre stupidi insetti di cui non saprò mai il nome. Sono qui, sudato e col cuore che batte come un tamburo.
Il mio corpo è quasi completamente tatuato, perché sono un uomo di rispetto, almeno secondo le nostre tradizioni, ma io non sono poi tanto contento di quello che ho fatto, e se mi dovessero scoprire vorrei strapparmi questa pelle di dosso.
Un ragazzo, per guadagnarsi il diritto al suo tatuaggio deve dimostrare il valore, e per fare questo, deve superare le tre prove: il mare, la terra, la famiglia. Con la mia fiocina ho dimostrato di saper pescare, con la vanga, di saper coltivare la terra e di saper far crescere e mantenere la famiglia, per questo ho avuto il diritto di ricevere il tatuaggio. Non sapevo quale disegno il Maestro avrebbe scelto per me, ma lui l’avrebbe sentito da solo, senza parole, e avrebbe iniziato, senza alcuno schema. Ho sofferto tutti i giorni, per quattr’ore filate, per una settimana intera.
Il rumore del martelletto che picchiava sulla punta irta di aghi, sottili come spine, che s’infilavano nella mia pelle, ormai mi si era infilato in testa come un chiodo. Non riuscivo più a dormire perché continuavo a sentire quel picchiettio, ma avevo voglia di svegliarmi per potermi sdraiare di nuovo e ascoltarlo davvero, avevo solo voglia di finire.
Oggi, mentre sono qui ad aspettare il mio destino a braccia incrociate, riguardo i miei muscoli e i segni che mi ricoprono il corpo, ma non ho più orgoglio, vorrei soltanto graffiare via questi segni con tutta la pelle e la mia anima ferita. Quei soldi, forse, riusciranno a ricostruire la mia casa, a ricomprare la moto, un cavallo, ma non mi ridaranno più il rispetto.
Poi ripenso a una cosa, al Pacifico.
Lui ci ha dato tutto, e per questo ha il diritto di riprendersi ogni cosa. Allora, se avrò la fortuna di ritornare a casa senza essermi sporcato troppo con questa nave nera, dimenticherò e andrò oltre. Per prima cosa ricostruirò la mia canoa e tornerò a pescare, perché quando sono solo in mezzo al mare, non importa se piove o se c’è il sole, se vedo le stelle in una notte profumata o il vento e le onde mi vogliono trascinare con loro, lì soltanto, io sono libero e vero.
Forse dovevo perdere tutto, per comprendere quanto sono ricco e felice nella mia isola del tesoro.
©marcosteiner
testo tratto e modificato dalla postfazione a:
“L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson interpretata da Hugo Pratt e Mino Milani edito da Rizzoli-Lizard 2010

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