La scala delle tartarughe
Tammy è americana, viene dall’Ohio, segue un progetto naturalistico, studia le Spider Monkeys, è qui da un anno, è sola, vive nella riserva naturale di Brownsberg nel Suriname, la Guyana olandese. Sylva è una guida turistica, ma è anche un’analista chimica e biologa, è nata a Paramaribo, ma i suoi antenati venivano dal Pakistan. Sono due ragazze che amano la foresta, stanno bene qui e non hanno bisogno di troppe comodità, studiano le scimmie e i cambiamenti della natura del parco. Hanno bisogne di poche cose, un buon paio di stivali, un binocolo, una cerata, una macchina fotografica, una borraccia per l’acqua. Camminare con loro è una continua scoperta, ogni seme per terra ha un suo significato, ogni pianta ha il suo nome corretto, i fiori sono punti di riferimento nel sentiero. Sanno guardarsi intorno, ascoltare i rumori, riconoscere i piccoli segnali della foresta, la rispettano, per questo non la temono. Hanno paura soltanto dei bracconieri e delle loro trappole per uccidere i cervi, le scimmie, il giaguaro.
Il sentiero scende ripido e viscido verso la valle delle scimmie, non c’è sottobosco, solo centinaia di alberi di specie differenti, le chiome, altissime, s’intrecciano e creano un verde e compatto soffitto, il cielo non c’è, il sole non filtra, forse splende, forse piove, non si riesce a capire. Le piante protendono i rami per raccogliere la luce là in alto, qui in basso conficcano radici per abbracciare la terra e raccogliere le sue umide essenze.
I rumori della selva s’intrecciano come lontani richiami. Gli uccelli cominciano a comunicare la nostra posizione, poi sembra di sentire una prolungata scossa elettrica, ma sono le ali di cicale giganti, ad un certo punto sembra di sentire il vento che s’incanala in una gola di pietre, ed è l’agghiacciante grido delle scimmie urlatrici, Tammy dice che mangiano solo foglie, per questo sono pigre e indolenti, si muovono poco e hanno un metabolismo e una digestione molto lenti. Se ne stanno in gruppo, sedute, e con la loro laringe grande quanto un’arancia emettono in continuazione il loro lugubre suono per tenere lontani i nemici.
Una farfalla blu attraversa il sentiero, segue un suo armonico e imprevedibile percorso, ma le leggende dei popoli della selva dicono che le Blue Morpho possono farci perdere la strada, possono portare in un altro mondo, un mondo di sogni perduti.
Il Ficus strangolatore inizia a scendere dal ramo di un albero come fosse un’innocua liana, raggiunge lentamente il suolo e assimila nutrimento dalla terra e dal suo ospite, fino a diventare sempre più grossa, sempre più forte, fino a trasformare il suo abbraccio in una simbiosi mortale, dove la morte di una creatura consente la vita ad un’altra più forte, dove la violenza è consentita perché conduce all’equilibrio della natura, dove il caos apparente è sintesi magistrale. Dove i cicli si succedono con regolarità e l’anidride carbonica del buio alimenta il verde e l’ossigeno della vita. Perfino l’anophele s’inserisce e rispetta questo ciclo e riduce l’eccesso di popolazione nei luoghi dove la vita dell’uomo potrebbe disturbare quel delicato equilibrio.
C’è un’altra strana liana che scende da un gigantesco albero sacro, è un Kankantri, o albero Kapok, il gigante della foresta, un colosso di 40 metri che s’innalza sulle grosse radici triangolari come fossero ali di sostegno. Nelle notti di vento e tempesta gli spiriti si riparano qui e ricevono le offerte di chi li rispetta o scagliano rami e pietre addosso a chi osa profanare la loro casa. La grossa liana si attorciglia in mille spirali, si sdoppia e si spezzetta come fosse una scala a chiocciola, una primordiale catena di un Dna vegetale. E’la scala delle tartarughe.
In un tempo molto lontano le scimmie organizzarono una grandissima festa in cui tutti gli animali erano invitati. Ovviamente la festa si svolgeva nell’ambiente naturale delle scimmie, in cima agli alberi. Gli animali salirono tutti, ma la tartaruga non sarebbe mai riuscita ad arrampicarsi in linea retta sulla liana, così prese a torcerla, lentamente, molto lentamente e, mentre la ripiegava ne ricavava dei piccoli gradini per non scivolare. Alla fine, anche la tartaruga riuscì a salire in cima all’albero, ma anche se lo spettacolo della foresta la lasciò senza parole, fu molto dispiaciuta perché la festa era già finita da un pezzo. Così, da quel giorno, quel tipo di liana nacque sempre così, pronta per le prossime feste, pronta per le tartarughe. Però bisogna fare attenzione, dicono che di notte, sulla Turtle ladder ci dorma il giaguaro.
Abissi di sogni diversi
Prima della conquista portoghese, l’Amazzonia brasiliana contava otto milioni di Indios in completa armonia con la selva, oggi ne sono rimasti solo duecentomila. La nostra civiltà ha un continuo bisogno di materie prime e per cinquecento anni i conquistatori hanno cercato di carpirne tesori d’oro e smeraldi, gli affaristi hanno spianato foreste e costruito città per estrarre il petrolio dal suolo, il lattice o la cellulosa dagli alberi, hanno smosso montagne di terra per estrarre ferro e bauxite. Scavare, estrarre, raffinare, sfruttare, ma anche convertire, educare, sono tutti verbi che fanno parte di un sogno: conquistare, materialmente o spiritualmente. Per fortuna, nella storia di queste conquiste c’è stato anche qualcuno che è partito con un atteggiamento diverso, o che lungo la strada ha imparato il rispetto e la disponibilità, qualcuno che, spinto da curiosità e disponibilità, ha imparato a guardare, ascoltare, sognare.
Alvar Núñez Cabeza de Vaca era partito nel 1528 come tesoriere della spedizione di Pánfilo de Narváez, un novello Cortés privo del magnetismo del capo e della determinazione del conquistatore, era solo un grasso e presuntuoso comandante credulone carico di smanie di ricchezza e di potere. Il suo obiettivo era una città tutta d’oro da cercare in un luogo indistinto fra le foreste e le lagune della Florida e i deserti del Nuovo Messico. L’esito fu il disastro completo di un’intera spedizione che portò invece un pugno di uomini a provare il potere e la generosità di Madre Natura e a scoprire la vera forza dell’uomo.
L’avventura di Cabeza de Vaca è un percorso di progressive privazioni durato otto anni. Dei 578 gentiluomini spagnoli carichi di corazze e certezze, rimasero quattro scheletri derelitti che vagarono in terre desolate spogliati di tutto. Avevano visto uomini tuffarsi in mare perché resi pazzi dalla sete, implorare l’aiuto delle loro madri e poi gonfiarsi e morire, avevano visto soldati rosicchiare i cadaveri dei loro compagni e avevano pianto implorando la clemenza della natura. Indios implacabili li avevano decimati con frecce avvelenate, altri indios dalla pelle di rame li avevano derisi e trattati come bestie da soma, spogliandoli delle loro ultime certezze e speranze di uomini europei. Proprio a quel punto, nell’estremo abisso dell’annullamento, quegli ultimi uomini nudi e senza speranze avevano trovato una nuova forza, il vero potere, quello di riuscire a guarire altri uomini. Si trasformarono in sciamani in mezzo a quei selvaggi, guaritori carichi di energia proprio quando pensavano di aver perso ogni fibra di umanità. La loro vera e unica ricchezza era proprio quella forza essenziale che la natura aveva rivelato loro solo dopo un progressivo e terribile percorso di spoliazione, una forza che arrivava senza nessun segno, come il vento o la pioggia.
“ Insegnerò al mondo il modo di conquistare con la dolcezza, non con le stragi” (Alvar Núñez Cabeza de Vaca).
A quel punto in quegli uomini, la vita si moltiplicava in conseguenza degli sforzi e delle cure donate agli altri. Anche questa fu una grande, silenziosa conquista.
Estanislao Pryiemski era un tranquillo agronomo di Varsavia, era arrivato in Amazzonia negli anni ‘60 e aveva iniziato una classica storia di ricerca di denaro e di conquista. Aveva provato a fare soldi con la pelle dei coccodrilli, con le noci di cocco, con strane bacche afrodisiache, o con pesci che divoravano uova di zanzara. Poi, un giorno, decise di abbandonare la ricerca degli affari e s’incamminò verso la strada di un sogno: voleva registrare il suono della foresta.
Ci provò per vent’anni, nel Pantanal amazzonico, una delle regioni più inospitali del mondo, inondata per sei mesi all’anno dalle acque dei fiumi che l’attraversano, infestata da zanzare, serpenti d’acqua e caimani. Il professore polacco si armò di microfoni e imbuti sempre più grandi, voleva cablare i rami degli alberi e le acque, voleva raccontare la poesia di quei suoni, voleva raggiungere un sogno troppo lontano per essere descritto. Morì nel 1983 nel lebbrosario di Campo Grande, fuori dal cimitero dei conquistatori, ma ben dentro alle delicate e, a volte, incomprensibili righe dei poeti. “I lombrichi fanno respirare la terra come i poeti fanno respirare le parole”. (Estanislao Pryiemski, Le voci del Pantanal).
Un giorno, il sogno assurdo di un poeta può trasformarsi in una magnifica realtà, i sogni assurdi di conquista portano solo macerie e solitudine.
Marco Steiner, Union Island, 3 aprile 2009.
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