Lo specchio della verità
“Il Sole ne è padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice.
Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura”.
(Ermete Trismegisto, Tabula Smeragdina. Corpus Hermeticum. Bompiani. Il pensiero Occidentale/Filosofia. 2005)
Istanbul. Quartiere di Sultanahmet. Autunno. Una mattina di sole. Negozio elegante di antiquariato. Ufficio sul retro. La scrivania è ingombra di monete antiche suddivise in mucchietti. L’uomo seduto è in parte coperto dallo schermo piatto di un computer, ha una camicia bianca e un foulard verde al collo, capelli lunghi e disordinati, sta catalogando le monete usando una grossa lente d’ingrandimento dal manico in avorio. In primo piano una bilancia di precisione.
Dopo un’ora il signor Khaftaj lascia il suo ufficio ed entra nel negozio. E un mercoledì mattina di ottobre e Istanbul è inondata di sole.
Jusuf infilò la busta nella tasca della giacca e andò a casa. Chiuse la porta a chiave, si sedette in poltrona e aprì la busta elegante.
Conteneva soltanto un biglietto da visita.
“Cristoforo Cybo. Erede di santi e di navigatori”.
Poi aggiunto a penna con una calligrafia elegante e perfetta: “Sono venuto in possesso di un testo raro di Ermete Trismegisto, edizione Turnèbe, anno 1554 che troverebbe opportuna collocazione nelle vostre mani in cambio della parte “scomparsa” della mappa di Piri Reis che ci risulta attualmente in Vostro possesso”.
Josuf compose immediatamente un numero sul suo cellulare.
Josuf incrociò le gambe e si sedette sul morbido tappeto. Accese un piccolo braciere e iniziò a pregare. Dopo mezz’ora si alzò, versò dei grani di povere sul braciere incandescente e inspirò lungamente quel fumo, poi incrociò le braccia davanti al petto e si toccò le spalle abbassando la testa.
Iniziò a girare, a girare ancora e poi, lentamente, aprì le braccia e le mani continuando a girare, la destra in alto, la sinistra in basso, fino a quando la stanza scomparve e lui vagò nello spazio infinito, sopra le moschee ed il cielo, si sciolse nelle particelle sottili e poi volò via dissolvendosi come fumo nel vento.
Quando tornò a terra si distese sul letto e dormì a lungo.
Il negozio antiquario di Jusuf Khaftaj non era lontano dalla Moschea Blu e da Aya Sofya, la Santa Sapienza dei Greci. I turisti seguivano le guide e continuavano a scattare immagini che sarebbero rimaste per qualche altro giorno sugli schermi digitali delle loro macchinette fotografiche perfette. Ekrem preparò un’eccellente spremuta di melagrana per il signor Khaftaj scegliendo quattro fra i frutti più sodi e maturi. Poi Jusuf Khaftaj entrò nell’imponente moschea e salì le rampe di scale che lo portarono alle gallerie del piano superiore, buttò uno sguardo alle imponenti e leggerissime volte, ai segni delle croci strappate e passò davanti alla tomba del doge Enrico Dandolo. Si fermò e fece una smorfia pensando a quel povero vecchio cieco arrivato con le sue galee veneziane fin lì per morire ed essere sepolto a Costantinopoli a 98 anni e poi perdere le ossa, disseppellite e date in pasto ai cani dalle orde di Mehmed II un quarto di secolo dopo. Sulla scrivania aveva lasciato due Grossi Matapàn d’argento, ma soltanto uno era perfetto, l’altro aveva una grossa scalfittura proprio sui volti del doge e di San Marco.
Mancava poco all’appuntamento. Un striscia di luce dorata s’infilava da una delle finestre che inquadravano le punte aguzze dei minareti e illuminava perfettamente il muretto di marmo sul quale era stato inciso, forse dai Templari, quel misterioso simbolo di tre quadrati concentrici che stavano a indicare la particolare sacralità energetica del luogo.
In quel preciso momento, Jusuf fu percorso da un brivido e da uno stato di allerta generale. Il cacciatore si sentì preda. Si allontanò dal luogo e girò dalla parte opposta della moschea. Da quel lato poteva osservare perfettamente il luogo dell’appuntamento e la lama di luce che lo stava illuminando. Dopo pochi istanti vide l’uomo e rimase pietrificato. Era come se si fosse guardato allo specchio, oppure attraverso una finestra invisibile sospesa al centro della moschea.
L’uomo che doveva incontrare era identico a lui. Si guardò intorno come se la gente si fosse potuta accorgere della presenza del suo doppio. Per istinto e per fortuna aveva scelto il lato giusto della galleria, l’uscita era da quel lato, s’avviò verso la scala con passo deciso.
Scomparve e non si guardò mai più indietro.
Marco Steiner
le foto sono di ©Marco D’Anna
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