L’ultima pista (Un racconto a puntale) Finale

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L’ultima pista (Un racconto a puntale) Finale

Diciotto

Alle cinque avevo imbarcato lo zaino. Misi il passaporto nella tasca della camicia e andai in bagno. Mi sciacquai la faccia e mi pettinai.

Ce l’avevo fatta, rimaneva solo il controllo doganale. Avevo paura ed ero mezzo ubriaco, ma non era possibile che avessero già trovato la vecchia e addirittura diramato ordini di ricerca alle stazioni e agli aeroporti.

Avevo le mani sudate. Tornai in bagno e mi lavai di nuovo, poi mi avviai a passo deciso verso la dogana. Misi la borsa col computer sul nastro e passai sotto il controllo elettronico.

Si mise a suonare.

Mi bloccai.

Se avessi seguito l’istinto, sarei scappato. Invece, rimasi immobile.

Uno dei due agenti seduti dietro lo schermo spostò la sedia e con calma mi si avvicinò. Mi fece cenno di togliermi da sotto quella maledetta campana e di alzare le mani, poi mi fece scorrere il metal-detector lungo le braccia e sul petto, quindi si mise lentamente dietro di me e continuò lungo la schiena, dietro i pantaloni, in mezzo alle gambe, poi di nuovo davanti.

Muoveva quel coso lentamente, appoggiandosi al tessuto con decisione. I suoi occhi di carbone che sbucavano da sotto la visiera del cappello non mi lasciavano un istante.

Arrivato all’inguine, il metal-detector gracchiò. Il poliziotto sorrise, un sorriso freddo, di sfida. Senza dire una parola mi avvicinò un vassoio di plastica e mi fece cenno di svuotare le tasche dalle monete. Mi ripassò di nuovo e l’aggeggio non suonò più.

Cercai di rimanere calmo, mi ripetevo che era finita, ma mi sbagliavo.

Mi chiese il passaporto e cominciò a sfogliarlo. Girava le pagine con una lentezza esasperante, sembrava un bambino affascinato da tutti quei segni, dai simboli, i numeri, i timbri. Una volta arrivato all’ultima, lo chiuse e mi fissò. Riuscii a sostenere quello sguardo. Lui riaprì il passaporto, lo sfogliò distrattamente, e per la prima volta parlò.

«Americano?»

Tu che dici?, avrei voluto sibilargli, ma non era il momento di mettersi a giocare. «Sì.»

«Americano di dove?»

«Di New York» risposi sforzandomi di fare il bravo ragazzo.

«Intendo dire, da dove viene la tua famiglia. Los norteamericanos y los argentinos, todos emigrantes, verdad?»

«Dall’Irlanda.»

«Ah, irlandese, testa calda…»

Stavo per spazientirmi, ma dovevo rimanere calmo. E tacere.

«Hai usato armi qui in Argentina?»

La domanda mi piombò addosso come un cazzotto nello stomaco. I nervi stavano per cedere e per un istante mi passò per la testa di sfogare tutta la tensione accumulata e gridare: si è suicidata, giuro che si è suicidata, mi ha fatto credere che sparava a una foto e invece si è tirata un colpo in testa, ma io non la conoscevo nemmeno.

Invece dissi: «Una guida nel Chubut mi ha fatto sparare qualche colpo con la  sua arma».

«Adesso capisco», disse avvicinandosi alla borsa del computer appoggiata sul tavolo. «Lì dentro cosa c’è?»

«Se vuole gliela apro, c’è il mio computer.»

Se ne occupò lui e da una piccola tasca laterale sfilò il bossolo di Remington 223.

«Hai sparato questi nel Chubut?»

Tutto riprese come per magia il proprio posto. Avevo dimenticato il proiettile che mi aveva regalato Jorge, il ricordo dal Chubut. Il poliziotto aveva solo voluto mettermi alla prova, controllare le mie reazioni. Ma ora tutto gli tornava. Rimaneva la curiosità.

«Con che cosa avete sparato?»

«AK 47.»

«Cazzo, Kalashnikov.» Mi squadrò con una certa ammirazione. «Un’arma magnifica, potente e senza rinculo. E di che sei andato a caccia nel Chubut, Bob Collins?»

«Di parenti… Como todos los emigrantes norteamericanos», aggiunsi.

«E li hai trovati?»

«No, ma mi sono divertito a cercare. A volte andare a caccia è meglio che cacciare.»

Il poliziotto mi restituì il passaporto e le sue labbra si schiusero su una candida esplosione di denti. «Quando arrivi a New York, quel proiettile ficcatelo in valigia, è un consiglio d’amico. Agli agenti delle dogane non piacciono quelli che se ne vanno in giro con quei cosi.»

Accennai un sorriso e una specie di saluto militare.

Misi la borsa del computer in spalla e mi avviai verso la mia uscita.

Mi tornarono in mente le parole di Stairway to heaven.

To be a rock and not to roll.

 

Epilogo

 

Ventotto ore dopo ero a casa.

La cassetta della posta era piena di cartaccia. Oltre alle bollette da pagare e alla pubblicità, c’era una lettera.

Busta e carta leggera, azzurro chiaro.

Veniva da Circleville, Utah.

Salve, ragazzo,

come ti butta?

Io adesso sono rimasto davvero solo.

La mia Betty mi ha lasciato per sempre. Ma non ho pianto.

Di lacrime non me ne sono rimaste. Le ho consumate tutte tanti anni fa, e i litri di alcol che ho bevuto non sono riusciti a rimpiazzarle.

Forse però è meglio così.

Adesso so che Katy non è più sola e che Betty ha finito di tremare.

A volte mi faceva talmente pena che avrei voluto legarla alla sedia.

Da quando sei comparso, devo dire che la mia vita è cambiata. Mi hai dato un calcio in questo mio culone flaccido e mi hai fatto riaprire gli occhi.

Dopo la bottiglia di Bushmills che ci siamo scolati insieme, non ho toccato più un goccio, anzi, per essere sincero, me ne sono fatta un’altra intera il giorno in cui Betty mi ha lasciato, ma era solo il gran finale.

Poi ho smesso completamente e devo riconoscere che è stato grazie a te, dannato ragazzaccio irlandese.

Sono dimagrito di quindici chili e ho cominciato a riparare il tetto e a ripulire la stanza dove viveva mio padre Mark.

Perché non bisogna dimenticare né rinnegare il passato.

È vero, Bob?

Là dentro c’è sempre un pezzetto che ci appartiene.

Se un giorno ti verrà voglia di seguire un’altra pista, torna pure a Circleville.

Ci sarà una stanza tutta per te e un buon amico che ti cucinerà delle ottime bistecche.

Stammi bene, Bobby.

Alla fine, non siamo mai davvero soli.

 

Il tuo amico

James Cassidy

 

 

Ringraziamenti

 

Voglio ringraziare innanzitutto Hugo Pratt che mi ha insegnato a inseguire i sogni, e a cercare sempre di realizzarli. Questa storia prende spunto da una delle sue storie più belle, Tango.

Ringrazio Patrizia Zanotti, Fabrizio Paladini, Paolo Cazzaro, Peter Zegarelli, Daniela e Pierluigi Ferrari, Piero Morelli, Gabriella Galluzzi, Anne Lynch, Lele Vianello, Pedro Mangini, Margherita e Carlo Anderson Scimone, Marco D’Anna, Ernesto Franco, Carmen Llera Moravia, Stefano Tettamanti, Manuela La Ferla, il mio editore e tutti quelli che ci hanno creduto e mi hanno aiutato.

Un ringraziamento speciale ai Led Zeppelin, ai Pink Floyd e a tutti i musicisti che mi accompagnano in ogni momento della vita.

 

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