l’ultima pista
“C’è una verità elementare,
la cui ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani:
nel momento in cui uno s’impegna a fondo,
anche la provvidenza allora si muove,
infinite cose accadono per aiutarlo,
cose che, altrimenti, non sarebbero avvenute…
Qualunque cosa tu possa fare,
o sognare di fare.
Incominciala.
L’audacia ha in sé genio, potere, magia.
Incomincia adesso.”
Wolfgang Goethe
uno
Qualche anno fa.
Pomeriggio di un giorno qualunque.
La radio trasmette una vecchia canzone, Summer 68, e i Pink Floyd riescono a essere la Musica: dolce, intensa, nostalgica, classica, moderna. Magica. La colonna sonora di una lettera da leggere, forse da scrivere. In una grafia minuta e regolare, fitta di annotazioni, correzioni, ricordi.
Il mio nome è Bob Collins. Sono irlandese, anche se sarebbe meglio dire che a essere irlandese era il lato paterno della mia famiglia. A questo punto sono rimasto solo io, una specie di bastardo nato lontano dalla verde terra dei Gaeli, dalle bombe e dalla musica degli U2.
Sono nato a New York il 16 maggio 1970 da Liam Collins, attivista militante dell’IRA e robusto bevitore di Guinness, e da Elisabeth Pierce, americana di Tarrytown, scrittrice di favole per bambini.
Mio padre parlava poco, aveva una faccia magra, pelle su osso. Due rughe profonde gli partivano dalle ali del naso, giravano intorno a una bocca indignata e si fermavano ai lati del mento.
Era nervoso. Si muoveva in continuazione.
Mia madre cucinava un pessimo stufato, ogni domenica. Per questo detestavo l’odore dei giorni di festa. Mia madre amava i vestiti a fiori, le tendine ricamate alle finestre, il tè nelle tazze di porcellana cinese. Camminava china e non fissava mai nessuno negli occhi.
In un modo che capivano solo loro, si amavano.
Un giorno mio padre portò a casa un mazzolino di violette avvolte in un foglio di carta di giornale e lo porse a mia madre come un gelato. Lei lo odorò estasiata, socchiuse gli occhi e se lo strinse al petto, poi incollò i suoi occhi celesti slavati in quelli neri di mio padre.
È il ricordo più bello che ho di loro.
Li persi per sempre quando avevo dieci anni.
Saltarono in aria insieme alla nostra vecchia Mustang nel momento in cui mio padre girò la chiavetta d’accensione. Un piccolo contatto e un grande botto sotto la nostra casa di Brooklin.
Era mattina presto e in quel momento non passava nessuno. L’esplosione provocò un bel po’ di trambusto nel quartiere, i vicini si svegliarono, i vetri delle case andarono in pezzi.
Un dito di mio padre fu ritrovato appiccicato sul muro del palazzo di fronte.
Nel complesso – scrissero i giornali – vista la potenza della carica, i danni potevano dirsi limitati e la notizia fu riportata nelle pagine interne senza particolare risalto.
Non se ne parlò molto anche perché la sera di quello stesso 8 dicembre 1980, Mark David Chapman sparò cinque colpi di una pistola calibro 38 nella schiena di John Lennon. L’aveva aspettato con pazienza, sulla 72ª strada, davanti all’entrata della casa americana di John, un antico palazzo gotico dove avevano abitato Judy Garland e Leonard Bernstein, dove Roman Polanski aveva girato Rosemary’s baby e dove si diceva si aggirasse il fantasma di un altro inquilino celebre, Boris Karloff. L’edificio era il Dakota Apartment Complex, il primo palazzo residenziale costruito a Manhattan alla fine del 1880.
«Quel palazzone è talmente fuori mano che sembra di andare a finire fra le montagne del Dakota.» Così aveva detto la gente, e il nome era rimasto.
Erano quasi le 11 di sera e Central Park era buio e silenzioso. Poi i cinque colpi.
John Lennon morì per dissanguamento nella macchina della polizia. Aveva 40 anni e aveva appena registrato “Double Fantasy”, dedicato a suo figlio Sean e alla moglie Yoko Ono.
Mio padre ne aveva 39 e non mi aveva dedicato neanche cinque minuti della sua vita.
A volte, per un motivo stupido, una vecchia colpa, la pazzia di qualcuno o semplicemente per un destino bastardo, un giorno qualunque diventa il tuo ultimo giorno. Fine della storia. Puoi chiamarti John Lennon, Liam Collins o Elisabeth Pierce. Non ha importanza. Sei finito.
Qualsiasi cosa avresti voluto fare non la farai più.
Oggi sono vivo perché i miei mi avevano portato dai nonni materni, dalle parti di Tarrytown.
Una villetta bianca, bassa, tranquilla e discretamente nascosta fra i boschi che circondano la tenuta Rockfeller.
Un posto da lasciare, un mondo da ricordare.
Una vita ancora da vivere.
Un piccolo quadro di pace borghese.
Verde rotondo di alberi senza una ruga e linee regolari di prati pennellati di fresco. Bianco di ville cariche di tende e finestre. Fiori. Riflessi di macchine grandi lustrate col panno di daino.
Bambini biondi che corrono.
New York è a un’ora di traffico, grigio, lento e imperturbabile. Una fila di solitudini.
Da queste parti, invece, è tutto sereno.
Poi arrivano le nuvole. Si accalcano qui sopra, pressate da altre più scure. Non la smettono più, continuano ad arrivare.
Gli alberi che sonnecchiavano adesso si scuotono pigri. Alzano la testa. Si stirano. Muovono le braccia. Mulinelli di foglie si staccano e si cercano nei viali. Si alzano vortici.
L’aria rinfresca di colpo.
Tutti riparano in casa.
Alla fine, piove. Piano, fitto. Poi scroscia a dirotto.
Non c’è più pace.
Neanche qui.
A mio nonno, Marcus Braddock-Pierce, mio padre non era mai piaciuto.
Il nonno era un tipo concreto, mio padre un sognatore; il nonno era schietto e diretto, mio padre misterioso e sfuggente. Di sicuro non era il tipo d’uomo con il quale mio nonno potesse andare d’accordo, anzi non riusciva a capire come sua figlia si fosse innamorata di lui ma, soprattutto, non capiva perché quell’irlandese si fosse innamorato di lei. Ma di questo non si era mai immischiato.
In quel periodo, pochi giorni prima del botto, aveva concordato con i miei che sarebbe stato più prudente tenermi lontano da casa per qualche tempo. Mia madre ci avrebbe raggiunti nel giro di pochi giorni.
Mio padre aveva avuto delle minacce, un fantasma del suo passato, una lettera anonima e alcune telefonate sospette, niente di cui preoccuparsi – gli avevano detto alla centrale di polizia – non c’erano problemi, eravamo a New York, mica a Belfast o a Dublino.
Eravamo a New York, ma dopo quel giorno di lui e di mia madre non mi è rimasto niente.
Il luogo della mia nascita e il mio nome di battesimo erano stati scelti di proposito per tenermi lontano dalla mia terra, dalla sua violenza e dal nostro passato.
Niente Michael, Patrick, Seamus, nessun nome che potesse far pensare alla verde Irlanda, alle riunioni segrete, alle bombe.
Solo Bob. Bob Collins di New York. Insignificante e difficile da individuare in un elenco telefonico.
Non era stato lo stesso per mio padre Liam.
Sono passati quindici anni dall’esplosione. Ho venticinque anni e sono solo. Intorno a me non è rimasto nessuno.
Nonna Valery se n’è andata in un mese per un cancro al pancreas, il vecchio con un’ex-attrice di Miami che dopo averlo stordito di viaggi, sesso, drink e pasticche, l’ha schiantato secco con un infarto.
Chiuso il capitolo delle mie ultime parentele.
Quel che mi è rimasto è una mansarda a Tarrytown dalle parti della stazione. Me l’ha lasciata la nonna insieme a qualche spicciolo in banca.
Ora sono solo e ho una gran voglia di andare.
Come una nota della chitarra di Ry Cooder.
Lascia un commento