dieci
Avevo passato la giornata a leggere il dossier di Pedro Mangini e a confrontare i dati con il materiale che avevo trovato nella cartella di Betenson. Alla fine, ormai erano le dieci di sera, ero stanco e non avevo voglia di trovarmi un ristorante per mangiare. Uscii dalla stanza e provai alla reception. Trovai un nero assonnato e sopra di lui Butch Cassidy, che mi guardava con quella faccia da gatto sornione. Gli chiesi se poteva rimediarmi qualcosa da mettere sotto i denti. Non aveva una faccia sveglia, ma era gentile.
«Il bar è chiuso, ma vado a vedere nel mio frigo se è rimasto qualcosa.»
Si allontanò dal banco ed entrò in un bugigattolo alle sue spalle. Sentivo la sua voce che risuonava come un’eco dal frigorifero vuoto.
«Gelatina di ciliegia e di fragola, biscotti al pistacchio, miele e cioccolato, un sandwich di tacchino, provolone, insalata e cipolla, una Coca Light, succo di mango e papaia, e una Bud, ma se vuoi posso farti anche un caffè. Ah, qui sopra c’è anche un pacchetto di pop corn.»
«Vada per la birra e i pop corn, grazie, non chiedo di meglio. Sono stanco morto, mi guardo un film in tv e poi a nanna.»
Lasciai sul banco una banconota da cinque dollari e tornai in camera.
In pochi minuti buttai giù la mia fantastica cena, in realtà avevo solo voglia di bermi una birra fresca e andarmene a dormire. Dopo un certo numero di ore al computer ti prende una specie di nausea che svuota da ogni desiderio e l’unica necessità diventa chiudere gli occhi e lasciar riposare il cervello.
Mi addormentai all’istante, ma alle 03.50 i miei occhi si spalancarono e si fissarono su quei numeri rossi che lampeggiavano dalla radiosveglia che avevo di fronte.
Il cervello si era riposato e adesso avevo una fame da lupo, ma cercai di impormi di continuare a dormire.
Non c’è niente di meglio per svegliarsi del tutto.
Stavo per alzarmi, quando avvertii un leggero rumore. Rimasi immobile ad ascoltare. Un tramestio metallico contro la porta; qualcuno stava cercando di forzare la serratura. Nel buio della stanza, l’unica luce era quella dei numeri rossi che lampeggiavano sulla radiosveglia: 03.57.
A me bastava, ma non sarebbe bastato all’intruso.
Scivolai in silenzio a terra dal lato sinistro del letto e sistemai alla meglio le lenzuola. La porta era sulla destra del letto e davanti c’era una cassettiera con uno specchio rivolto verso l’ingresso. Non avevo la minima idea di quello che avrei fatto, anzi, di una cosa sola ero certo, il sangue mi si era gelato in tutto il corpo.
Il tizio scivolò dentro in silenzio e rimase immobile lasciando uno spiraglio aperto per far filtrare all’interno un po’ di luce.
Mi sembrava che il cuore mi rimbombasse talmente forte che avrebbe potuto sentirlo. Restai immobile.
L’intruso tese l’orecchio, il silenzio parve tranquillizzarlo e avanzò. Guardò nella mia direzione e vide il letto vuoto, quindi girò in fretta la testa in cerca di qualcosa da prendere.
Sul tavolo, accanto alla cassettiera, c’era il computer con la piccola luce verde che lampeggiava e, accanto, le chiavi della macchina.
Qualcosa dentro di me si mosse. Una specie d’istinto a reagire.
In realtà, se avesse preso solo le chiavi della macchina o i soldi, forse l’avrei lasciato fare, ma il computer, con gli appunti, le ricerche, le schede trascritte, quello non potevo permetterlo. E poi ero in vantaggio, mi trovavo alle sue spalle, e non mi sembrava troppo grosso, anzi.
Mi guardai intorno in cerca di qualcosa da usare come arma, ma non c’era nulla. L’incoscienza continuò a guidarmi e strisciai fuori dal mio nascondiglio dietro al letto.
Il tizio non si accorse di niente. Mi alzai. Adesso ero a un passo da lui, si era lievemente piegato per staccare l’attacco alla presa di corrente del computer.
Scattai in avanti come una furia e lo spinsi violentemente contro il muro. Il computer gli cadde dalle mani e lo schermo si frantumò in mille pezzi.
La testa dell’intruso picchiò contro il muro e sentii un rumore come di una mazza da baseball che colpisce la palla. Cadde a terra, intontito dal colpo, ma si voltò e mi guardò incredulo. Era un ragazzino, poteva avere al massimo diciassette anni.
Il mio corpo continuò ad avere reazioni di cui non l’avrei mai creduto capace. Gli diedi un calcio in faccia con l’energia che avrei usato per tirare il calcio piazzato più importante della mia vita, e provai un dolore tremendo irradiarsi a tutte le ossa del piede. Poi lo colpii sotto il mento, e questa volta sentii un orribile rumore secco di denti che sbattono fra loro. Mi chinai e lo colpii ancora più forte, con un pugno alla tempia, e la sua testa seguì quel colpo come inerte.
Era svenuto e perdeva sangue dalla bocca. Io tremavo come una foglia e non riuscivo a fermarmi. Uscii dalla stanza e cominciai a gridare.
Dopo dieci minuti il ragazzo era in manette e con la testa fasciata. Non dimenticherò mai lo sguardo d’odio che mi lanciò.
Passai ore al posto di polizia a spiegare la scena e a dire che non volevo sporgere denuncia, che mi bastava che non avesse rubato niente, e alla fine mi lasciarono andare.
Erano le 9 del mattino, avevo bevuto cinque pessimi caffè e mangiato un panino al formaggio che non sapeva né di pane né di formaggio.
Prima di uscire, il sergente che aveva redatto il rapporto mi si avvicinò con un sorriso. «L’ho sempre detto che è importante sapere giocare a football.»
Sorrisi.
«Ascoltami, Bob, questo stronzetto è un teppista piuttosto conosciuto da queste parti, ma ha sedici anni e senza la tua denuncia non so per quanto tempo potremo tenerlo al fresco. Se fossi in te, cambierei aria, o almeno motel, non si sa mai. Potrebbe avere un amico o un fratello più grosso di lui.»
Alzò la mano per salutarmi e tornò in ufficio.
Andai al motel e presi la mia roba. Ero diventato famoso, tutti mi volevano stringere la mano, ma io non mi sentivo troppo orgoglioso, avevo solo dato uno spintone e un calcio in faccia a un ragazzino. Se al posto suo ci fosse stato un delinquente vero, forse in quel momento mi sarei ritrovato una pallottola in corpo.
La prima cosa che feci una volta fuori di lì fu andare in un negozio di assistenza tecnica per il computer.
Mentre lo riparavano, pranzai. Dopo poco più di un’ora ritirai il mio computer e mi feci salvare su un dischetto tutto quello che avevo scritto, andai all’UPS e mi spedii il dischetto a casa. Adesso potevo ripartire.
Sapevo che il viaggio di ritorno mi sarebbe sembrato più lungo di quello dell’andata, ma volevo riflettere su quello che avevo saputo e su quello che mi era successo, e non c’è niente di meglio di un viaggio in macchina per pensare.
Ero uscito da Circleville da una ventina di minuti, quando un cartello luminoso attirò la mia attenzione: Finnegan’s Liquor Shop.
Accostai ed entrai. Non mi ero sbagliato, quel cognome non poteva essere casuale. Oltre ai soliti liquori, c’erano birre e whiskey irlandesi. Comprai una bottiglia di Bushmills di dieci anni e uscii.
Voltai la macchina e tornai indietro.
Erano le cinque del pomeriggio e Betty Betenson sedeva sotto la veranda, guardava davanti a sé, ma non mi vide. James si affacciò aprendo la porta della cucina. Aveva una paletta unta in mano, mi vide e sorrise.
«Bentornato, ragazzo, ti sei dimenticato qualcosa?»
Entrammo in cucina, era piena di fumo e puzzava di olio bruciato. La radio gracchiava una canzoncina degli anni Sessanta, Love potion number nine, The Searchers.
«Volevo darle questo prima di partire», dissi scartando la bottiglia di Bushmills.
«Lo sapevo che eri un tipo giusto, Bobby, un gran paraculo, bastardo figlio di un maledetto cazzone irlandese. Mettiti immediatamente seduto e non muovere quelle chiappe secche, perché Jimmy adesso ti prepara il tuo bel bisteccone speciale.»
Gli brillavano gli occhi per la gioia. Tirò fuori dal frigo un pezzo di angus che sarà pesato un chilo e lo buttò a sfrigolare insieme all’altro già mezzo carbonizzato.
«Adesso ci facciamo un bell’aperitivo con quella tua bella bumba irlandese e poi mi racconti cos’hai trovato di così bello nelle cartacce di papà Mark.»
Versò due bicchieri colmi fino all’orlo di whiskey. Alla radio The Mamas and Papas avevano attaccato con Monday, Monday.
Bevemmo in silenzio. Lui scolò il suo whiskey come fosse Coca-Cola.
«La mia bistecca va bene così, James, a me piace al sangue.»
«Come preferisci, vampiro.»
Preferivo evitare che carbonizzasse anche la mia. Iniziammo a mangiare continuando a chiacchierare. La carne era eccellente, quello che ci voleva per tirarmi su, e scoprii che pasteggiare a Bushmills non era poi così male.
Stavo mangiando nella casa in cui aveva vissuto Butch Cassidy.
Dopo tre quarti di bistecca e un bicchiere di whiskey, gli raccontai quello che mi era successo al motel. Divorata la sua carne, mentre io ero ancora a metà dell’opera, James era sprofondato in poltrona e si ingozzava di piccole meringhe ricoperte di zuccherini di tutti i colori. Rimase ad ascoltarmi a bocca aperta.
«Sei stato in gamba, ragazzo. Spero che a quel bastardello brufoloso la lezione sia servita, ma se mi capiterà d’incontrare un ragazzo con tre denti spaccati, cercherò di completare il tuo lavoro, Bobby, puoi scommetterci.»
Strinse il pugno di quella manona e lo picchiò contro il bracciolo della poltrona. Il pavimento vibrò.
«A proposito, l’altro giorno mi sono dimenticato di dirti una cosa. Butch aveva un altro amico con cui era rimasto in contatto, un altro irlandese come te, mi sembra che si chiamasse O’Malley, credo fosse il fratello di un poliziotto ammazzato. Questo O’Malley era uno che trafficava armi per i ribelli irlandesi, Butch rimediava il materiale e un marinaio con un veliero lo scaricava in Irlanda, a sud, su una spiaggia dalle parti di Cork.»
Un tuffo al cuore.
La sensazione che il cerchio si stava chiudendo.
Cercai di rimanere calmo, ma sentivo come una scossa elettrica attraversarmi il corpo.
«Si ricorda per caso se quel marinaio poteva chiamarsi Corto Maltese?»
«Sì, certo, lui. Ma tu come fai a saperlo?»
«È una strana storia d’incastri…»
Rimanemmo in silenzio per un po’.
Erano quasi le sette e avevo voglia di bere un caffè e di partire. Marvin Gaye cantava How sweet it is to be loved by you.
Guardai James Betenson. Si era addormentato.
Sembrava un bambino soddisfatto e felice. Un cristallo di zucchero verde gli era rimasto incastrato fra le labbra.
Presi un pezzo di carta da cucina e gli scrissi un saluto, poi ci misi sopra quello che era rimasto della bottiglia di Bushmills.
Me ne andai mentre Roger Miller sincopava Dang me.
Non riuscii a resistere, feci un passetto in avanti, uno a destra, uno a sinistra, uno indietro e solo dopo uscii da quella cucina fumosa.
Puzzavo di fumo, di olio fritto e di bistecca, ma stavo bene, forse come non mai, e l’aria fresca mi avrebbe ripulito in fretta mentre il sole tagliava a fette tutte le cose con luce radente.
James dormiva. Betty, seduta sotto le frasche, non mi vide passare.
undici
Puntai la prua a nord e salpai le ancore, ma quando mi ritrovai a Sevier mi resi conto di non avere alcuna intenzione di ripercorrere la stessa strada. L’Interstate 70 mi aveva stancato, ma c’era poco da cambiare, dovevo tornare a New York. Eppure avevo voglia di continuare a sentire quell’aria fresca, così proseguii verso nord, verso Salt Lake City, e da lì imboccai l’Interstate 80. Mi avrebbe portato dritto a casa, dovevo solo seguirla per 2189 miglia.
All’altezza di Evanston, entrai nel primo motel che incrociai. Erano le due di notte. Mi buttai come un sacco sul letto e mi svegliai alle undici. Continuavo a stare bene, il dischetto con dentro tutto quello che sapevo doveva essere arrivato a casa, il computer funzionava, avevo messo fuori combattimento il ragazzo di Circleville e conosciuto James Betenson.
Ma, soprattutto, avevo una nuova pista. Avevo deciso, sarei andato fino in fondo. Sarei andato in Argentina.
Non che avessi le idee troppo chiare su quello che volevo cercare, ma sapevo che avrei trovato qualcosa. Io non cerco, io trovo, diceva Pablo Picasso. E poi l’istinto che fino a quel momento non mi aveva tradito adesso mi reclamava a voce alta.
Guidare, bere, mangiare, dormire. Ma questa volta i paesaggi erano più interessanti e i nomi erano quelli che avevano eccitato la mia fantasia di ragazzino: Wyoming, Nebraska, Iowa, bistecche favolose, Illinois, Indiana, Cleveland.
Fino a quel punto ero stato piuttosto veloce e ormai mancavano appena 466 miglia. Ma non c’era fretta di tornare a casa, potevo starmene tranquillo in un posto qualunque, a riflettere e a organizzare quello che sapevo.
Continuai verso nord costeggiando le sponde infinite del lago Erie. A Utica decisi che avrei attraversato le montagne Adirondack, il lago Saranac e sarei arrivato a Lake Placid, ma c’era troppa gente per i miei gusti e proseguii fino a Keene Valley. Avevo voglia di riposarmi e di sentire il sole scaldarmi la faccia e le ossa. Mi fermai per un paio di giorni.
A Elisabethtown affittai per una settimana una casetta di legno che si affacciava su un lago splendido e minuscolo, il Lincoln Pond, insieme a una bicicletta e a un kajak.
Finii di leggere il dossier di Pedro Mangini e studiai le «cartacce» di James Betenson. Vogai sul lago col fresco delle prime luci dell’alba e nel rosa di tramonti silenziosi.
Può sembrare strano, ma mi sentivo meno solo. Come se quella storia mi avesse aperto gli occhi. Scoprivo infinite forme di vita intorno a me e finalmente mi sentivo scorrere dentro la mia. Scivolavo in silenzio su quell’acqua immobile e i miei sensi si riempivano di sensazioni che mi inebriavano, il profumo dei pini, della resina, dell’erba.
Mi tornò alla mente una frase di mio padre: «Fai in modo che il tuo passaggio attraverso la vita sia come quello di un carro carico d’erba appena tagliata. Il carro va, ma sulla strada rimane sempre qualche filo e rimane il suo profumo. Prova a lasciare un segno, o almeno un buon ricordo.»
C’era solo un aspetto che non riuscivo ancora a capire completamente, che tipo di legame ci potesse essere stato fra Louise e Corto Maltese, da quanto avevo capito, quel marinaio si era preso cura di Mania, ma il perché non mi era ancora perfettamente chiaro.
Poi, un giorno, prima di ripartire, proprio mentre ero lì a riordinare i documenti e i miei appunti, trovai un’altra lettera di Louise, era rimasta attaccata in mezzo alle foto di Butch, Sundance e Etta, per questo non l’avevo ancora vista.
Fu la chiave di tutto.
Caro Corto,
quando leggerai questa lettera, probabilmente io non ci sarò più, ed è per questo che ti scrivo, perché sei l’unico di cui mi fido fino in fondo.
Ti ricorderai, credo, di quando ci siamo conosciuti a Venezia. Mi trovavo là col signor Bessone, una brava persona, anche se mi viene una gran tristezza a ripensare a lui.
Gli avevano detto che aveva un cancro e che gli restavano pochi mesi di vita. Lui aveva fatto la valigia ed era uscito di casa senza dire niente alla famiglia, mi aveva chiamata e mi aveva detto che saremmo partiti per un po’.
Io non avevo fatto domande ed ero partita con lui.
Mi spiegò tutto durante il viaggio. Mi disse che voleva rivedere il suo paese, l’Italia, che voleva rivedere Parigi e che voleva farlo con me, perché ero l’unica che gli dava un po’ di gioia. Era il suo ultimo viaggio, la famiglia avrebbe capito, anche perché nel giro di pochi mesi gli avrebbe lasciato tanto di quel denaro che si sarebbero dimenticati di quel suo ultimo capriccio.
Era il 1919, ed era maggio quando arrivammo a Venezia. Bessone era gentile con me, spesso si sentiva male e rimaneva in albergo ma insisteva che io uscissi, che mi godessi quella vacanza, che non rimanessi in una camera d’albergo con un vecchio malato.
Venezia era meravigliosa e ti incontrai. Non dimenticherò mai la gita in barca all’isola degli armeni. Non dimenticherò mai il colore della laguna e il profumo delle rose sull’isola.
Ma non volevo parlarti del passato, Corto, quello ormai è andato. Volevo parlarti del futuro.
Da quando Lara è sparita – e per questo mi sento in colpa, visto le persone che le ho fatto incontrare – Laurentino non è più lui, si è chiuso nel suo dolore infinito e non vuole pensare che ai ricordi. Ogni mattina prepara la colazione per due e continua a sperare che Lara ritorni.
Pedro è il mio migliore amico, è una persona speciale, è buono, è intelligente, ma ha un problema riguardo a quello che sto per dirti: lui lavora, vive e pensa come un argentino.
Lui vivrà sempre qui, in Argentina.
Corto, ti scrivo per parlarti della mia bambina, Mania, che oggi ha tre anni ed è la cosa più bella, più pura e più vera che io abbia fatto in tutta la mia vita.
Forse l’unica.
Non preoccuparti, non voglio parlarti di date e di possibilità, anche se in un angolo del mio cuore vorrei che fosse figlia tua.
Non è per questo che ti scrivo.
Ti scrivo perché vorrei che Mania vivesse lontano da qui, lontano dal posto dove sua madre sarà ricordata per sempre come la bella Louise.
Corto, tu conosci il mondo e tanta gente. Ti chiedo solo questo: portala via da qui, falla crescere a Venezia, o dove vorrai, ma lontano da qui. Nient’altro.
Mi fido di te, perché sei diverso da tutti e vorrei che lei prendesse qualcosa da te. Non ti chiedo di farla crescere come un bravo zio premuroso, non ti ci vedo, ma sono certa che saprai scegliere il meglio per lei.
Lo so, è un grande favore quello che ti sto chiedendo, ma alle persone speciali si chiedono cose speciali. Una cosa ho imparato: i favori speciali hanno un prezzo, e io sono sempre stata giusta, almeno credo.
Se quando arriverai non ci sarò più, Mania sarà da una mia amica. Si chiama Faria Gomez, la chiamano China per il suo sguardo orientale, è una brava ragazza, sa tutto di me e sa perfettamente cosa dovrà fare quando t’incontrerà. Non ridere, ma Faria è una nipote di Habban.
Bene, allora eccoti una notizia carina tutta per te.
Quando sarai in Argentina, vai a sud, fatti una gita fino a San Carlos de Bariloche, sul lago Nahuel Huapi, è un posto magnifico, vedrai, ne varrà la pena. Quando arrivi vai dritto al porto, affitta una barca e dirigi la prua a nord. Supererai l’Isla Victoria che terrai a sinistra. A destra supererai la penisola Huemul, dove hanno terre i Newbery. A quel punto, dirigiti verso un porto naturale che si chiama Puerto Manzano.
Puerto Manzano è all’altezza della penisola Quetrihue, una lunga striscia di terra coperta da alberi dal tronco color cannella che qui chiamano arrayanes. Getta l’ancora e goditi il paesaggio.
Quando sarai sceso a terra, vedrai una casetta di pietra e legno, te la troverai sulla sinistra della spiaggia, non puoi sbagliare perché c’è una grande targa di legno che dice chi fu il primo colono ad arrivare lì nel 1902. L’attuale proprietario si chiama Ernest Jewell ed è uno scozzese. Bene, adesso fai attenzione, perché di fronte alla casa, cioè alle tue spalle, c’è un gande albero strano, è un’araucaria. A destra, a una ventina di passi, c’è una sequoia.
Gira intorno al tronco e spostati sul lato opposto alla casa, lì troverai una pietra larga e chiara, sollevala e scava un po’. Dovrai darti da fare, ma ti basteranno le mani.
Sotto c’è una cassetta con tre lingotti d’oro puro da un chilo ciascuno. Prendili e usali come vuoi, per comprarti una nuova barca, per fare il giro del mondo…
Ma porta Mania via da qui, ti prego.
Louise
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