dodici
Prima di partire per l’Argentina, oltre a raccogliere il denaro che mi sarebbe servito per il viaggio, decisi di prepararmi come potevo all’atmosfera che avrei trovato. Ascoltai fino alla nausea il bandoneon di Astor Piazzola, le canzoni di Gardel e il tango moderno di Luis Rizzo. Studiai tutto quello che trovai sulla Patagonia e in particolare sul Chubut.
Lessi quello che c’era da sapere su Albert Londres, ma non trovai riferimenti al dossier di Louise e Pedro. Non era obbligatorio citarli, ma conoscendo la loro tragica fine, avrebbe dovuto almeno accennare a quei due disgraziati che avevano cercato di bloccare un meccanismo feroce e perverso infilandosi direttamente nei suoi ingranaggi.
Mi convinsi che quelle pagine non erano mai arrivate ad Albert Londres. Forse non sarebbe cambiato niente, ma mi dispiaceva per la memoria di Louise e per il lavoro di Pedro Mangini.
Per completare la mia preparazione la sera andavo al circolo di biliardo dove Gilberto Vendramin, un vecchio italiano di Castelfranco Veneto dai capelli bianchi e arruffati che davanti al tavolo verde si trasformava in un atleta e un artista ispirato, m’insegnò a non sfigurare in un’eventuale partita di Goriziana.
Dopo migliaia di tiri di mattonella corta e di garuffe, abbracciai Gilberto, mi feci consegnare dal proprietario dell’enoteca per cui lavoravo la paga di nove mesi in contanti e decisi che avevo tutto quello che mi serviva per partire.
Domani parto e questa notte è una bella notte. Un cielo blu con una falce perfetta di luna e un lungo tappeto di stelle.
Viene voglia di stare così, sdraiati per terra e la faccia per aria. Tira un’aria fresca, ma non la sento, mi sono bevuto una bottiglia di Pinot Nero argentino. Me l’ha regalata il mio capo dell’enoteca quando gli ho detto che partivo per la Patagonia.
«Beviti questo Newen prima di partire, viene dalla Bodega del Fin del Mundo. Varrebbe la pena di andare laggiù solo per vedere com’è fatta una cantina alla fine del mondo.»
Adesso, se stringo un po’ gli occhi, di lune ne vedo due. Due parentesi perfette. Come la mia vita. Una vita fra parentesi.
Nella casa dei nonni, generosi, protettivi, assenti. Senza mio padre, senza mia madre e senza ricordi.
Sono stato fortunato.
Ho vissuto un’adolescenza serena. Fra parentesi.
Forse era meglio saltare sulla Mustang insieme a loro.
Forse devo ancora piangere tutte le lacrime che non sono riuscito a versare.
Il vino mi ha sbattuto nel fondo della mia malinconia.
Eppure è strano.
Penso a Louise.
La sento vicina.
È qui.
– Sono venuta a trovarti, Bob…
-…ma non è possibile…
– Tutto è possibile se lo vuoi veramente…
– …non bloccarti sul passato, Bob, la vita è adesso, è quello che ti lascerai dietro.
– Perché hai vissuto così, Louise?
– Perché dovevo continuare a vivere per lei. Solo per lei. Non m’importava quello che avrei dovuto sopportare, ma dovevo sentirmela accanto e darle un futuro. Quando entravo nel letto, lei dormiva, ma mi sentiva sempre, a qualunque ora arrivassi. Continuava a dormire, ma allungava la manina e mi sentiva. Questo era quello che contava per lei. Questo era quello che contava per me. Quando sentii che ero in pericolo chiesi aiuto a Corto Maltese perché sapevo che lui era abbastanza pazzo e generoso da non chiedermi un perché.
Voglio vedere la Patagonia, sentire il vento del Chubut, bere il mate e sentire l’odore dei larici, degli spazi sconfinati, della solitudine e della libertà. Non so se riuscirò a trovare le tracce di Butch Cassidy e dei suoi amici, ma so che devo partire, sento che devo andare là, perché se devo trovare qualcosa la troverò solo là.
In realtà nel Chubut non c’è nessuno con cui io debba per forza parlare, nessuno da incontrare né da ascoltare. È soltanto un richiamo.
Non è solo perché ho bevuto, è che non sono più solo.
Da ragazzo, quando stavo coi nonni facevo spesso un sogno, sempre uguale. Me ne andavo in giro insieme a mio padre e a mia madre con la nostra macchina, il paesaggio era quello della campagna irlandese. A un certo punto entravamo in una nuvola di nebbia, non si vedeva più niente. La radio trasmetteva una musica dolcissima, era If dei Pink Floyd, e all’improvviso la bomba scoppiava.
Saltavamo in aria, ma non c’erano schegge, né sangue o dolore, non c’era niente. In quel momento mi sentivo bene, leggero, volavo nel cielo, sentivo le gocce di pioggia irlandese che mi arrivavano in faccia, guardavo quei prati verdi dall’alto, il mondo che si allontanava sempre di più. Ero felice e volavo come una farfalla, senza peso, nel vento, mio padre e mia madre lì, poco distanti. Anche loro volavano, si tenevano per mano, mi guardavano e sorridevano. Sembravamo tre piume nel vento in un dipinto di Chagall.
Poi mio padre alzava la mano e la muoveva in segno di saluto, mi sorrideva e guardava mia madre. Allora anche lei faceva lo stesso gesto, ma abbassava la testa, non le vedevo più gli occhi, forse piangeva. E lentamente scomparivano fra le nuvole mentre io ripiombavo a terra, come un sacco vuoto.
Le prime volte mi svegliavo piangendo, poi lentamente mi abituai. In fondo mi piaceva il silenzio della casa vuota, la penombra del mattino, le righe del sole che filtrava fra le tende o il rumore della pioggia sui vetri, il ronzio del frigorifero.
Dopo la bomba ci sono stati i nonni, la scuola, i compagni, gli insegnanti, qualche amico, alcune ragazze, ma in fondo sono sempre stato solo. Mi sono abituato a restare da solo senza soffrire troppo, ma c’era qualcosa che non riuscivo a digerire: il fatto che ero solo dentro, nell’anima.
Mi mancava una parte di me, mi mancava il mio passato.
Quando mi svegliai, l’angolo dello spicchio di una sola luna spuntava da dietro la collina, ma un debole grigio cominciava a intaccare quel blu perfetto.
Mi sentivo leggero come se mi fossi tolto un sacco di cemento dalle spalle.
Mi preparai un caffè e raccolsi le mie cose prima di partire.
Sbarcai a Buenos Aires alla fine di aprile del 1996. Avevo imparato la Goriziana, ascoltato i tanghi di Gardel e El Nuevo Tango di Astor Piazzolla. Sapevo riconoscere l’armonica dell’orchestra di Eduardo Arola, El Tigre del Bandoneon, e sapevo che Aleman Bernstein era l’unico capace di bere birra continuando a suonare il bandoneon. Avevo ascoltato Leguisamo solo e sapevo che Gardel l’aveva dedicato al suo amico jockey, quello che montava il purosangue Lunatico, mentre 86 l’aveva dedicato a Domingo Torterolo, che nel 1910 aveva vinto ottantasei corse.
Sapevo anche che nello stadio dove si erano svolti i funerali di Gardel, il pugile argentino Firpo, dopo un incontro memorabile, aveva battuto Dempsey.
Habban aveva perso la scommessa.
Il volo si era preso tutta la notte, ma ero riuscito a dormire, seppure un sonno agitato da sogni e pensieri.
Erano le 11 del mattino quando atterrai. Il volo Aerolineas Argentinas 1698 per Esquel sarebbe partito alle 12.50. Avevo il tempo di mangiare un boccone.
Presi un panchito e una birra argentina. Il panino traboccava di ottimo filetto e la birra era perfettamente amara. Si cominciava bene.
Gironzolai per l’aeroporto Jorge Newbery e notai che sulla pista erano parcheggiate autocisterne con la scritta YPF. Le cose non sembravano cambiate più di tanto negli ultimi settant’anni.
Le vetrate dell’aeroparque si affacciavano sul Rio de la Plata e l’estuario sembrava un mare dipinto con un colore sbagliato: ocra-rossiccio. Una fila di acacie agitate dal vento costeggiava la riva e la strada ampia come un lungomare. Al di là della vetrata, oltre il dedalo di piste, si alzavano i grattacieli della città. Nel cielo si ammassavano nuvoloni carichi di pioggia estiva anch’essi orlati da una punta di colore rosso-mattone. Come se, nell’acqua e nell’aria, la presenza della terra non potesse mancare.
Il volo per Esquel durò tre ore, scalo a San Carlos de Bariloche compreso.
La pampa dall’alto sembrava ricoperta da un panno di velluto marrone, rigato da pieghe dei rilievi e segnato dalle linee chiare sottili delle strade che l’attraversavano.
Esquel è una cittadina piatta e tranquilla che un gruppo di immigrati gallesi fondò all’inizio del Novecento su un altopiano incastonato fra imponenti catene di montagne di ogni forma e colore.
Picchi brulli e rocciosi si alternano a vallate di foreste e, più in alto, si stagliano i ghiacciai eterni, il Pirámides e il Torrecillas, che creano sfondi da cartolina a laghi pescosi e colorati delle più incredibili tonalità di verdi e di azzurri. I fiumi si intrecciano ai torrenti e insieme fanno un’ultima corsa per tuffarsi nel Pacifico.
Oggi Esquel è uno dei principali snodi di comunicazione dell’Argentina meridionale, in particolare del Chubut andino. Poco distante, il Parque Nacional Los Alerces, il Parque Nacional Lago Puelo e soprattutto Cholila, la mia meta, la dimora argentina di Butch Cassidy.
Dormii a Esquel una sola notte, perché a Esquel non c’è niente da fare né da vedere. Si fanno gli ultimi acquisti prima di ripartire verso zone più solitarie e affascinanti, si ripara la macchina, si comprano buoni scarponi, viveri, tende, carte geografiche dettagliate, si fa una doccia calda, si mangiano le lasagne. E poi si va via, verso il cuore della Patagonia.
Avevo saputo che il proprietario di un albergo sul lago Futalaufquen era la persona più adatta per darmi le informazioni di cui avevo bisogno per mettermi sulle tracce di Butch Cassidy. Chiamai l’albergo e prenotai una stanza.
Il lago Futalaufquen è a una trentina di miglia da Esquel, verso ovest, in direzione del Cile, ed è una specie di smeraldo incastonato fra foreste di cipressi patagonici, gli alerces.
Qui è normale pescare una trota di quattro chili o viaggiare per ore sull’unica strada sterrata senza incrociare un’altra macchina o un’altra persona, immersi in paesaggi sconfinati.
L’albergo di Jorge Goicoechea è una costruzione in legno e pietra che si affaccia sul lago accompagnata da tutta la sua decadente signorilità. Gli ambienti sono coperti da listoni di quercia e i mobili sono scuri e massicci. Il bar è rifornito di ogni sorta di liquori e di bicchieri di cristallo, dalle pareti occhieggiano teste di animali imbalsamati fra vecchi moschetti e Frank Sinatra è la colonna sonora.
Mi venne assegnata una enorme stanza con balcone sul lago. Feci una doccia e scesi nel salone per la cena.
Frank Sinatra cantava Night & Day, quindi sedetti in una poltrona di cuoio e ordinai un drink.
«Cosa desidera, señor?»
«Quello che vuole, anzi quello che prende di solito el señor Jorge.»
Dopo pochi istanti, un uomo si presentò con un vassoio d’argento, due Martini ghiacciati, bicchieri perfetti, patatine, olive, scaglie di queso. Si accomodò con un sorriso davanti a me. «Sono el señor Jorge. Vogliamo parlare della sua gita a Cholila? Così sarò in grado di capire che cosa le serve.»
Gli dissi del mio desiderio di ritrovare dei documenti storici su Butch Cassidy e la sua banda, anzi più che documenti storici dei segni, anche piccoli, delle suggestioni che mi facessero comprendere meglio quel periodo. Non ero uno studioso e nemmeno uno storico, e forse nemmeno uno scrittore.
«Allora io sono quello che le serve per andare en busca de Butch Cassidy, señor!»
Sorrise, divertito e malizioso.
Jorge Goicoechea poteva aveva cinquanta, forse cinquantacinque anni, ma era atletico e giovanile, indossava jeans scoloriti, una cintura di cuoio intrecciato e una camicia di velluto blu. I capelli erano folti e chiari, pettinati all’indietro, lunghe basette brizzolate, pelle abbronzata e rugosa, denti bianchi e squadrati. Una specie di Clint Eastwood.
Nonostante da quelle parti fossero tutti appassionati di pesca, Jorge amava la caccia, come i suoi antenati, e per questo conosceva così bene la zona.
«Per prima cosa parliamo della macchina. Le serve una buona jeep e a questo posso pensare io. Ma le voglio fare un’altra proposta, se le interessa.»
Scolò il Martini e fece cenno al cameriere di portarne altri due. Sembrava un ragazzino alla prospettiva di un programma eccitante.
«Fra due giorni ho un appuntamento con degli amici a Cholila, per una battuta di caccia. Se è d’accordo, possiamo partire insieme domani, girare un poco da quelle parti, e poi potrà venire con noi. Altrimenti le lascio la macchina e potrà andarsene in giro da solo alla ricerca del suo Butch, che da queste parti si faceva chiamare Santiago Ryan.»
«Mi sembra perfetto, señor Goicoechea.»
«Jorge.»
L’idea mi allettava e Jorge dimostrava di conoscere la storia. Si alzò, mi diede appuntamento per l’indomani mattina alle otto e mi lasciò cenare da solo.
Partimmo rombando su una vecchia Nissan Patrol verde. Solida, ma un po’ ammaccata.
Jorge notò la mia perplessità.
«Questa camioneta può salire sui muri, señor. È vecchia, ma io la curo personalmente perché voglio essere sicuro che non mi lasci in mezzo alla pampa o in cima a una montagna.»
La strada che costeggiava il lago iniziò con un piacevole tratto asfaltato, poi, in un’ora soltanto, percorremmo una cinquantina di miglia di sterrato.
Jorge guidava veloce e con disinvoltura. La macchina volava sopra le buche e assecondava con docilità i colpi di controsterzo del guidatore. Gli schizzi d’acqua e di fango ci avvolgevano in una nuvola di melma, ma due colpi di tergicristallo e un po’ d’acqua sul parabrezza ci rimettevano in condizione di vedere il percorso.
I rami degli alberi sfrecciavano vicini e sul lato opposto lo strapiombo sul lago era privo di protezione.
Dopo aver costeggiato la riva orientale c’inoltrammo in un bosco fitto finché, dopo diverse salite e discese lungo il fiume Arrayanes, arrivammo sulle sponde del lago Rivadavia.
Il tempo cambiava di continuo, nuvole infinite nascondevano il cielo e abbassavano di colpo la temperatura. Scaricavano secchiate di pioggia poi si aprivano a un sole violento e accecante.
Ero frastornato dai suoni, dagli sbalzi della jeep, dalle visioni fugaci e mutevoli. Mi sembrava di essere finito all’interno di un videogioco.
Una volta superata un’ultima collina, si aprì come per incanto la vallata di Cholila.
L’emozione che provai fu talmente intensa che dovetti chiudere gli occhi.
Jorge rallentò fino a fermarsi, scese e mentre io m’inebriavo di quel paesaggio, si mise a pisciare sul bordo della strada.
Non c’era anima viva. Scesi a godermi quella pace improvvisa. Il silenzio della campagna si era fatto assoluto.
Campi coltivati che si stendevano a perdita d’occhio e macchie di alberi dalle foglie gialle che si alternavano ad altre verdi o rosso-arancio. Mandrie di mucche al pascolo e gruppi di cavalli, casupole sparse e la strada sterrata che tagliava la vallata in tutta la sua lunghezza.
«Ai tempi di Butch non doveva essere troppo diverso», disse Jorge. Rimise in moto e continuò a volare fino alla cittadina.
Non si può dire che Cholila sia particolarmente attraente. Ci sono poche case sparpagliate lungo una strada che forma un anello, cani rinsecchiti, meticci che guardano immobili, muri diroccati, cartelli che penzolano nel vento e pochi trattori arrugginiti.
Jorge circumnavigò Cholila e si immise sulla strada 71, quella con l’indicazione per Epuyen, percorse poche miglia e svoltò a sinistra davanti a un edificio sul quale si trovava l’insegna Stacion de Policia. Parcheggiò la macchina e mi guardò indicandomi un’altra insegna di legno che penzolava da una staccionata.
Cabaña de Butch Cassidy.
C’era una freccia, ma indicava il nulla.
«Curioso, no? Oggi la loro casa sarebbe di fronte alla polizia.»
Ma io non vedevo niente.
Jorge scavalcò la staccionata e lo seguii.
Percorremmo qualche centinaia di passi seguendo i cespugli che costeggiavano un corso d’acqua. Dirigevamo verso un gruppo di alberi e finalmente, semicoperta da uno di essi, la vidi.
La capanna di Butch era costituita da tre basse costruzioni in legno, piuttosto malconce e mimetizzate nella vegetazione.
Entrai e guardai dappertutto nell’assurda speranza di trovare un pezzetto di qualcosa, un oggetto qualsiasi, magari un proiettile, ma là dentro non c’era assoltamente nulla, a eccezione delle tracce di una vecchia carta da parati a righine e fiori blu, del residuo incenerito di quello che doveva essere stato un camino e di una generale atmosfera di abbandono totale.
«Ti basta?» mi domandò Jorge mentre ci allontanavamo.
Non risposi e continuai a guardarmi intorno.
«Non erano fessi i tre norteamericanos. Dalla strada, anche oggi, non si scorge niente. Il fiume è il Rio Blanco e l’acqua a portata di mano è importante. Anche per cavalcare nel letto del fiume se si vogliono far perdere le tracce.» Indicò le montagne. «E poi, oltre le vette della Cordillera, c’è il Cile. Si erano stabiliti da queste parti come allevatori pacifici, ma tenevano sempre la porta aperta in caso di pericolo, e infatti… Ma sono faccende di cui ti occuperai più tardi, adesso andiamo a provare una cosa.»
Tornammo alla macchina. Accanto alla staccionata si era fermato un baio che ci guardava. Nel silenzio si avvertiva solo il ronzio di una mosca e il soffio lieve del vento. Il baio, d’un tratto, come se avesse sentito qualcosa, scosse la testa, emise un lungo nitrito e si allontanò al galoppo. Fui percorso da un brivido.
Ci fermammo a bere un caffè e a mangiare un paio di sandwich, quindi proseguimmo verso il lago Cholila, a una decina di miglia dal paese.
Il percorso per il lago Cholila è una specie di pista, poco diversa dal letto di un fiume parzialmente asciutto, quindi in parte sabbiosa e in parte fangosa, anche perché il fiume vero le scorre a fianco, senza argini né protezioni.
«Quando percorri una strada sterrata, la velocità migliore è intorno alle 55, 60 miglia all’ora. Se vai più piano, senti tutte le buche e diventa un inferno, se vai più forte, devi avere un gran manico. Su queste piste sabbiose devi ascoltare quello che ti dice il volante, devi essere morbido e sensibile. È come guidare sulla neve, mai fare movimenti bruschi, altrimenti la macchina s’incazza. Fai solo attenzione a non finire nel fiume. Ci sono sempre quattro solchi in queste piste, due li fanno le macchine che vanno nella tua direzione, due quelle che vengono dall’altra. Regolati sui solchi interni, così te ne stai in mezzo della strada e hai più spazio per gli imprevisti, ma non ti distrarre mai, altrimenti ti ritrovi a ruote all’aria. Se ti va bene.»
Sfiorava il fiume, e la macchina provava di continuo a imbarcarsi, ma lui la correggeva con gentilezza, controsterzando nella direzione opposta a quella della curva. Andava veloce, ma mi stavo abituando, anzi, per dirla tutta, mi divertivo.
«Bueno, siamo arrivati» disse Jorge infilando la macchina in un sentiero che passava su un piccolo ponte sospeso e largo pochi pollici più della jeep.
Dopo qualche secondo si fermò in una larga radura circondata da una collina che formava un anfiteatro naturale.
Cosa voleva dire che eravamo arrivati? Lì non c’era niente.
«Adesso ti farò sentire un poco più vicino a Butch.» Aprì il portellone posteriore della jeep e tirò fuori una sacca che, a giudicare dai suoi movimenti, doveva essere piuttosto pesante. Ne estrasse due fucili mitragliatori e varie scatole di munizioni. «Sai cosa sono questi?»
«Mitra.»
«Per l’esattezza sono due AK-47, più comunemente Kalashnikov, tra le migliori armi al mondo. Hanno un caricatore da trenta colpi e raggiungono un bersaglio fino a mille piedi, sparano anche se li metti nell’acqua o nel fango. Senti com’è leggero.»
Me ne porse uno. Gli brillavano gli occhi.
Tenere in mano quell’arma mi procurò un misto di sensazioni contrastanti: timore, ribrezzo, rispetto ma, soprattutto, voglia di provare a sparare.
«Pesa poco più di otto libbre. Da questi è stato tolto il meccanismo automatico, così sparano un colpo alla volta e quindi sono autorizzati anche per la caccia. Ma andiamo a provarli.»
Tirò fuori dal bagagliaio una serie di bersagli e li fissò con alcuni pezzi di legno a circa centocinquanta piedi di distanza, poi raccolse delle bottiglie di birra e le piantò a terra un po’ più vicine, prese un sacchetto di mele e le sparse intorno, quindi mise in fila dei tappi di bottiglia contro un sasso.
«Ecco fatto. Vari livelli. Comincio io o tu?»
Feci solo un gesto con la mano.
«Bene, prima di tutto le regole: carichiamo un’arma alla volta e la puntiamo sempre a terra. È un gioco, ma le regole sono ferree e devono essere sempre rispettate. Si spara uno alla volta, l’altro deve rimanere indietro, almeno di sei piedi. La seconda arma deve restare scarica e a terra.»
Imbracciò, mirò e iniziò a sparare, con estrema calma, verso il bersaglio più lontano. Ogni colpo provocava un frastuono d’inferno. Dopo i primi due, quando vidi alzarsi in volo una coppia di uccelli, pensai che ogni genere di animale fosse sparito dalle vicinanze. Sparò una decina di colpi, poi mise la sicura e appoggiò l’arma a terra prima di avvicinarsi al bersaglio.
«Non male, l’AK è preciso e regolato bene, ma dopo tutta quella guida tremo ancora un po’, mi devo rilassare. Prova tu adesso.»
Imbracciai il Kalashnikov e pensai a quanti ce n’erano in giro per il mondo. Capii all’istante che anche un ragazzino avrebbe potuto sparare con quell’arma.
Lasciai partire il primo proiettile verso il bersaglio e mi resi conto che, nonostante la potenza, non produceva il minimo contraccolpo. Feci centro varie volte, ma l’esaltazione vera era data dalle bottiglie e dalle mele che sembravano esplodere.
Mi fermai solo quando il grilletto non ottenne risposta e la canna era incandescente. Avevo le orecchie otturate e mi sentivo né più né meno come il caricatore, svuotato.
«È pauroso e fantastico allo stesso tempo», dissi.
«Adesso capisci cosa vuol dire avere un’arma in mano, giusto?»
Andammo avanti per un’ora. Non c’era più niente da colpire, avevamo distrutto ogni possibile bersaglio.
«Verrai a caccia con me?»
«No, io preferisco un altro genere di caccia, diciamo caccia di storie. Ma ti ringrazio, è stata un’esperienza che non dimenticherò.»
Rimise tutto in ordine con estrema cura, poi raccolse da terra il bossolo di un proiettile e me lo porse: «Prendi è una Remington 223, così ti ricorderai sempre dei Kalashnikov e di Jorge».
Ritornammo sulla strada per il lago e dopo un miglio arrivammo a un lodge di pesca, una graziosa costruzione vicino al lago Cholila che si chiamava El Pedregoso. Mangiammo asado e bevemmo una bottiglia di Cabernet-Sauvignon proveniente dai vigneti di Luigi Bosca a Mendoza.
L’indomani mattina alle otto Jorge era già partito con i suoi amici per la battuta di caccia. Mi aveva lasciato un biglietto:
Caro Bob,
sono sicuro che passerai bei momenti alla ricerca di Butch. Guardati in giro e portati a casa tutte le sensazioni e i ricordi che puoi. Parla anche con la gente, è naturale, ma ricordati che da queste parti raccontano tutti un sacco di frottole.
Non hanno niente da fare, e allora parlano, così, anche se non sanno niente, per passare il tempo.
Sono contento che tu non sia venuto a caccia; sparare a un animale è un’emozione troppo forte e può fare male. O piacere troppo.
A proposito, ricordati una cosa: se anche per una volta sola hai dovuto usare un’arma per fermare qualcuno che ti stava cacciando, dopo non potrai più farne a meno. Forse anche Butch cominciò così.
Usa la jeep come vuoi e non essere troppo prudente, divertiti. Tanto da queste parti non passa mai nessuno.
Buena busca,
Jorge
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