sedici
Arrivai a Buenos Aires alle undici del mattino. Il mio aereo per New York sarebbe partito sette ore più tardi.
Era una domenica di maggio e l’autunno argentino iniziava con un’aria piacevolmente fresca.
Il sole, un grosso diamante di luce, sparava i colori. Il cielo di smalto irradiava un azzurro che entrava nelle vene.
Decisi di passare in città il tempo che avevo a disposizione. Salii su un taxi e chiesi all’autista di portarmi in una zona centrale, possibilmente verso il porto. Avevo voglia di respirare aria di mare.
Il tassista si fermò in una grande piazza e si affiancò a un palazzo dall’aspetto governativo.
«Le Poste Centrali. Se prosegui dritto da quella parte, trovi il Rio de la Plata e il mare».
Mi indicò una strada alberata di fronte a noi: «Dall’altra parte c’è la Casa Rosada e il centro della città», aggiunse.
Avevo lasciato i bagagli all’aeroporto e mi sentivo libero e soddisfatto per quello che avevo visto nel Chubut. Avevo maturato diversi elementi, sia riguardo alla storia di Butch Cassidy sia a quella di Louise Brookszowyc. In qualche modo adesso la sentivo più vicina, e con lei un pezzo della mia famiglia.
Era come se avessi riempito dei vuoti. Come se avessi marcato con tratti netti e decisi le linee sbiadite che cercavano di disegnare il mio passato. Avevo fatto chiarezza sulle ombre e sui fantasmi che popolavano i miei ricordi. E la cosa più importante era che adesso riuscivo a materializzare quegli spazi, li vedevo, perché li avevo riempiti di un contenuto reale, la mia storia.
Mi avvicinai a piedi a uno dei monumenti che popolavano la piazza, la statua di un certo Almirante Guillermo Brown, simbolo della gloria navale della Repubblica Argentina. Nato il 22 giugno 1777 a Foxford, Irlanda.
Un altro irlandese. Ne avevo incontrati diversi durante il mio viaggio.
A un tratto provai la sensazione di essere osservato.
Mi voltai e mi accorsi che un vecchio male in arnese mi stava scrutando. In mano aveva una bottiglia bianca di Vov, indossava una giacca sporca e consunta con le tasche scucite, pantaloni di due taglie troppo abbondanti, scarpe da ginnastica senza lacci e una cravatta a righe rosse e blu.
Alzò la bottiglia e m’indicò la statua. «Ammiraglio Guillermo Brown, il popolo argentino ti ringrazia!» Parlava con un forte accento italiano. «Ma se fossero stati più giusti, insieme a lui e a Cristoforo Colombo qui ci avrebbero messo anche un’altra statua. Una statua più grande delle altre, rivolta verso il mare. Dedicata alla puttana e al suo protettore. Un monumento per ricordare tutti gli emigranti che arrivarono da quell’oceano e trovarono solo loro ad accoglierli.»
Mi fissò. Aveva gli occhi lucidi.
«Puttane e protettori. Sono loro che hanno fatto grande questo Paese, perché hanno ricreato l’unica cosa importante, l’illusione dell’amore e dell’ospitalità. È solo grazie a loro che tutti quegli uomini sono rimasti.»
Mi avvicinai e lo guardai con un’espressione forse troppo sorpresa e divertita. Ma l’uomo continuò.
«Quando arrivammo, tanto tempo fa, chi credi che ci abbia aiutato? Il governo? La gente di qui? No, nessuno. Noi venivamo dai paesi più miserabili dell’Italia, o dal Galles, dall’Irlanda, dal Libano, dalla Polonia, dall’Ungheria, dai paesi più poveri del mondo. Abbiamo viaggiato su navi che puzzavano di sudore e di piscio, infestate di topi che di notte correvano sopra le nostre cuccette. Ma alla fine siamo arrivati qui e ci siamo dispersi in questa terra magnifica e lontana, una terra che ha fatto la fortuna di molti di noi, ma che per altri è stata un altro inferno o il cimitero.»
Bevve un lungo sorso di Vov e si tirò su i pantaloni.
«Eravamo soli e lontani. Lontani da tutto.» Aveva iniziato a gridare: «Dalle nostre famiglie, dalle nostre case, dal nostro modo di parlare e di mangiare, ma soprattutto eravamo lontani dalle nostre donne, e noi avevamo bisogno di donne. Loro soltanto ci hanno aiutato, le puttane. Erano le uniche che riuscivano a darci un po’ di calore. Dopo di loro c’erano soltanto solitudine e sudore».
Mi guardò negli occhi, aveva la barba lunga, occhiaie scure e rughe marcate, ma il suo sguardo era magnetico.
«Sei sorpreso di vedermi ridotto così, non è vero, ragazzo? Ma tu sei giovane e bello, vieni dal paese dei ricchi, hai belle scarpe morbide e comode, forse sei uno di quelli che arrivano in Argentina per giocare a golf, o a polo, per andare a cavallo nelle estancias.»
Iniziava ad alzare troppo la voce. M’innervosii.
«Sei uno stronzetto qualunque che non sa un cazzo di quello che vuol dire una vita di privazioni e di solitudine…»
Ne ebbi abbastanza. «Senti amico, io sono irlandese e non vengo dal paese dei ricchi. Quelli, al massimo, li vedo passare per strada. Sono qui solo per trovare ciò che è rimasto delle tracce di una famiglia che non ho mai conosciuto, e non ho intenzione di farmi insultare da uno che non sa niente di me e si permette di definirmi uno stronzetto qualunque, perciò gira al largo, perché non ho voglia di rovinarmi la giornata prendendoti a calci nel culo.»
Il vecchio rimase in silenzio. Si rabbuiò. Appoggiò la bottiglia a terra e si pulì la mano strofinandola sul retro dei pantaloni, poi si avvicinò con espressione pentita e implorante. Mi strinse le mani fra le sue, quindi con un gesto m’invitò a sedermi su una panchina.
Accettai, ma rimasi in silenzio.
«Scusami.»
Continuavo a non dire una parola.
«Sono arrivato in Argentina nel ’23, insieme a mio padre. Avevo tredici anni, arrivavamo dalla Carnia, una delle zone più povere di una poverissima regione d’Italia, il Friuli. Nei giorni di festa mettevamo un pezzo di burro e una manciata di sale nella polenta e dividevamo una fetta di formaggio. Dopo la guerra le cose non migliorarono, così mio padre decise di partire in cerca di fortuna e mi portò con sé. Non tornammo più indietro. Mio padre morì qui, nel 1930, accoltellato da un polacco. In quello stesso periodo venni a sapere che mia madre si era risposata, e decisi di rimanere.»
Bevve un sorso, poi riappoggiò la bottiglia a terra e continuò a parlare fissando il vuoto.
«Mio padre lavorava in un bordello. Era alto e robusto e sapeva fare di tutto. Proteggeva le ragazze dai prepotenti, convinceva chi non le voleva pagare, faceva le riparazioni in casa. Era il fattorino, l’autista, l’uomo di fiducia della tenutaria, una bella francese che si faceva chiamare Madame Jolie. Io, con quelle ragazze, ci sono cresciuto. Il bordello era la mia famiglia e ho continuato a lavorarci anche dopo la morte di mio padre. Insomma, presi il suo posto in tutto, anche nel letto di Madame Jolie. Ma le cose cambiarono presto e così un giorno Madame Jolie ripartì per la Francia, mi offrì perfino di seguirla, ma io rimasi, ero stupido e romantico allora, mi ero innamorato di una delle ragazze. Ci siamo anche sposati, ma anche quella è storia ormai, e come tutte le storie é finita».
Raccolse la bottiglia di Vov e mandò giù un lungo sorso, poi mi guardò e sorrise. Aveva notato il mio sguardo alla bottiglia.
«Questo è l’ultimo gradino sulla via della disperazione, ragazzo. Qui dentro c’è tutto quello che serve a uno come me. L’alcol è per la solitudine, e l’energia dell’uovo per non elemosinare un pezzo di pane a nessuno. Piatto unico, è la mia dieta. Ma non preoccuparti. Quando me ne andrò, nessuno piangerà per me, e tu non azzardarti a compiangermi. Me la sono spassata, sai, e non dimenticare una cosa fondamentale per capire l’Argentina: nessuna donna balla il tango come una puttana, nessuna. Il tango l’hanno inventato loro, ecco un altro buon motivo per meritarsi una statua.» Si alzò e fece un brindisi con la bottiglia. «Alla puttana e al suo protettore, caro almirante Brown del cazzo!»
diciassette
Mi alzai anch’io e mi avviai verso la zona del porto. Ero stordito.
Riflettevo su quello che mi aveva detto il vecchio e, soprattutto, sul fatto che era arrivato a Buenos Aires proprio nel 1923, l’anno in cui si erano svolti tutti i fatti tra i quali io cercavo di indagare. L’anno in cui Corto Maltese era ripartito con la sua barca a vela e la piccola Mania.
Louise.
Per quello che era riuscita a fare, una statua se la sarebbe meritata davvero.
Nella zona del porto c’era fermento di lavori. Da tutte le parti si vedevano grandi cartelli con i progetti delle opere che sarebbero state realizzate. Portavano tutti la stessa sigla, Corporacion Antiguo Puerto Madero S.A.
I vecchi dock e gli edifici fatiscenti del porto sarebbero stati abbattuti per ricavarne una marina con ristoranti, uffici, alberghi, banche. Era un progetto di riqualificazione di una zona che in alcune parti mostrava ancora vecchie catapecchie cadenti, magazzini arrugginiti e montagne di detriti. Di lì a pochi anni Puerto Madero sarebbe diventata la zona esclusiva di Buenos Aires, ma in quel momento era un cantiere, e da quelle parti non avrei trovato niente da mettere sotto i denti. Decisi di spostarmi.
Il sole era più caldo, ma l’azzurro del cielo era rimasto splendido e il vento fresco profumava di mare.
Il mio sguardo fu attratto da una baracca bassa e fatiscente, ancora in piedi in mezzo a due montagne di detriti di mattoni, assi di legno e a due bulldozer gialli.
Mi avvicinai. Dall’esterno sembrava un pub irlandese, un cartello diceva Chiuso e altri indicavano Pericolo di crolli. La porta era socchiusa e le due finestre ai lati avevano alcuni vetri rotti e altri sostituiti col cartone.
Sopra la porta penzolava un’insegna sbilenca in caratteri gaelici: Soldati del ‘22. Più in basso, c’era la strofa di una vecchia canzone:
Ammainate la bandiera, traditori dell’Irlanda,
la bandiera che noi repubblicani vogliamo
non è quella del Libero Stato,
voi l’avete coperta di vergogna.
Avevo un vago ricordo di quella canzone. Evocava un periodo terribile della storia d’Irlanda, quello che seguì al trattato anglo-irlandese del 6 dicembre del 1921, l’accordo fra il governo inglese di Lloyd George, un riluttante Michael Collins e un ancor più riluttante Eamon De Valera.
Dopo l’accordo fra Irlanda e Inghilterra, il 1922, che avrebbe dovuto essere l’anno della pace, segnò soltanto un cambio di orientamento degli obiettivi della violenza. Fu l’anno della guerra civile fra le frange dell’IRA che avevano accettato di entrare a far parte dell’esercito del nuovo stato e quelle che vi si opposero.
I soldati del ’22 della canzone erano loro, gli irriducibili, quelli che pochi anni prima avrebbero dato la vita per l’eroe Michael Collins e adesso lo insultavano come un traditore.
Cercai di sbirciare da una finestra, ma il buio interno contrastava troppo con la luminosità di quella giornata.
«Che volete adesso? Sono ancora qui. E allora? Volete buttare giù anche me? Accomodatevi, vi stavo aspettando.»
La voce arrochita che proveniva da dentro sembrava quella di una donna anziana.
Fuori non c’era nessuno. Solo alcuni gabbiani facevano la spola fra le macerie e il mare.
Gridavano anche loro.
Ero indeciso. Non avevo voglia di farmi di nuovo insultare. Ma alla fine la curiosità ebbe la meglio.
Mi appoggiai alla maniglia della porta socchiusa. Non si mosse. Spinsi più forte e si abbatté a terra. Una nuvola di polvere mi avvolse.
Sobbalzai per il colpo, ma le sorprese non erano finite.
«Fermati dove sei, figlio di puttana, o ti ritrovi un altro buco in quella faccia da culo che ti ritrovi!»
Mi bloccai sull’uscio e alzai istintivamente le mani. Ero coperto di polvere, ma riuscivo ancora a ragionare. «Non sono venuto per la demolizione, sono un turista, un irlandese, volevo solo dare un’occhiata a questo vecchio pub.»
Parlai senza interrompermi sperando di non sentire il rumore dell’ultimo sparo della mia vita.
Silenzio.
«Ho letto la strofa di quella canzone e mi ha fatto venire in mente mio nonno. Non l’ho mai conosciuto, ma so che anche lui era sempre stato contrario a quel trattato.»
Silenzio. Poi la voce di prima, più calma.
«Da dove arriva il ragazzo che sa tutte queste cose? Vieni avanti, non avere paura, non ce l’ho con tutto il mondo, solo con quei bastardi del cantiere.»
La polvere cominciava a posarsi e io, sempre impalato in quel buco vuoto, ero un’ombra a mani alzate, gli occhi però incominciavano ad abituarsi all’oscurità.
Di fronte all’ingresso c’era un bancone di legno scuro, tavolini sparsi o accatastati, qualche sedia per terra, bandiere irlandesi, arpe celtiche, una testa bianca in fondo al locale. E una mano che impugnava una pistola.
«Da Cork, signora.»
«Abbassa quelle mani, ragazzo, entra e dimmi subito come ti chiami.»
«Bo… Bob Collins.»
«Bob Collins di Cork, ma certo. Devi essere il figlio di Liam, giusto, Bob?»
Rimasi senza fiato.
«Vieni avanti, vieni avanti e non avere paura della vecchia Darsee, mi fa piacere parlare con qualcuno che mastica la mia stessa lingua.»
«Come fa a sapere chi sono?»
«Noi irlandesi in esilio ci siamo sempre tenuti in contatto, specie con un certo tipo di connazionali, e io conosco parecchia brava gente delle tue parti. Ho conosciuto tuo padre Liam, e tua madre Elisabeth. Mi dispiace per come è andata a finire. Troppi morti e forse non è ancora finita. Tuo nonno Seamus è stato una grande persona, e anche Mania, che Dio l’abbia in gloria.»
Spalancai gli occhi e probabilmente anche la bocca.
«Non devi stupirti. Io e Mania eravamo coetanee, classe 1920, ma io ho avuto più fortuna di lei e la pelle più dura. Ho messo al mondo cinque figli, che vorrei ricacciarmi in pancia per quanto sono stati ingrati, mentre quella poveraccia di tua nonna è morta mettendo al mondo il suo unico figlio.»
Fece una pausa e mi fissò in fondo agli occhi.
«Esatto, tuo padre. Un uomo eccezionale, Bobby, parlo sul serio.»
Mi diede una pacca sulla spalla e me la strinse quasi con affetto.
Ero paralizzato.
«Non si direbbe, vero?, ma ho compiuto 75 anni due giorni fa, anzi…» Prese due bicchieri e una bottiglia da sotto il bancone. «Dobbiamo festeggiare.» Allungò la mano. «Mi chiamo Darsee O’Malley.»
Mi si piegarono le gambe. Non potevo crederci. Era di certo una coincidenza, O’Malley è un cognome molto diffuso in Irlanda. Ma dovevo capire.
«Conosceva per caso un certo Patrick O’Maley, morto in Patagonia in circostanze misteriose nel 1923?»
«Sicuro che lo conoscevo, Bobby, non me lo posso ricordare perché è morto quando io avevo tre anni, ma era il fratello di mio padre Ernie, era un poliziotto pulito, lavorava agli archivi criminali, ma forse era stato un po’ troppo curioso…»
«Ma lui si chiamava O’Maley, con una sola “l”.»
«Una svista di quelle teste di cazzo dell’immigrazione. A quell’epoca c’erano file di disgraziati che sbarcavano dall’Irlanda, dall’Italia, dalla Polonia, dall’Ungheria e da altri paesi dove facevano la fame. Arrivavano a frotte in cerca di fortuna, i commissari copiavano alla bell’e meglio i loro cognomi e gli davano un lasciapassare, ma erano più le volte che sbagliavano.»
Riempì fino all’orlo due bicchieri di Jameson e prima di scolarsi il suo brindò con un sorriso.
Come per l’incantesimo di una fiaba, quel sorriso compì una magia: la megera scomparve, tramutata in una ragazza piena d’entusiasmo e di ricordi.
«Alla salute di Tom Barry e alla tua, Bobby Collins di Cork.»
Mi girava la testa.
«Lo sai chi era Tom Barry, vero, Bobby?»
«Veramente no, signora O’Malley.»
«Sono Darsee per te, Bobby, la vecchia zia Darsee che ti racconta un po’ di storia irlandese. Cominciamo con Tom Barry. Prendi una sedia e mettiti comodo.»
Mi sedetti in silenzio.
«C’è una canzone che ricorda Tom. “Il 28 novembre, fuori della città di Macroon, i Tans sui loro grossi Crossley andarono incontro al loro destino…” Questa canzone ricorda il più importante successo dell’IRA contro i Black and Tans.»
Dovette leggermi in faccia il buio.
«Lo sai almeno chi erano i Black and Tans, vero, Bobby?»
«No.»
«Ma tu dove sei cresciuto, Bobby?»
«Mi hanno tirato su i nonni materni a New York.»
«Allora ti devo raccontare un po’ di cose, ragazzo, le cose che tuo padre non ha fatto in tempo a dirti.»
Buttò giù un sorso di whiskey e si accomodò di fronte a me. Il suo viso era segnato dalle rughe, l’espressione era dura, ma quando iniziò il suo racconto, in quegli occhi azzurri si accese una luce.
«In quegli anni le forze di polizia irlandesi fedeli all’Inghilterra si chiamavano Royal Irish Constabulary, ma in quel periodo, dopo tante provocazioni ricevute da parte dei ribelli, le forze locali non bastavano più, servivano rinforzi, e allora vennero arruolati in Inghilterra. Questi gentiluomini non erano certo dei bravi studenti di Oxford o di Cambridge con le giacchette con lo stemma e le cravatte regimental, e nemmeno soldati di leva regolari. Erano bastardi senza lavoro, gente violenta senza futuro e senza rispetto per nessuno, avanzi di galera e sbandati che avevano preferito arruolarsi piuttosto che finire in gattabuia. Sapevano quello che li aspettava, ma in Irlanda avrebbero avuto una buona paga e l’occasione di picchiare e sparare. Era quello che avevano sempre fatto, ma a casa, per farlo, non li pagavano. Quando questi teneri piccioncini arrivarono in Irlanda, le uniformi tradizionali, quelle color verde bottiglia, non bastavano per tutti, e così i nuovi arrivati si arrangiarono prendendosene delle parti, a volte i pantaloni, a volte la giacca, e poi ci aggiungevano quello che capitava, gli stivali, la cintura e un berretto nero. E così nella contea di Tipperary gli appiopparono il soprannome di una famosa razza di cani rabbiosi, i Black and Tans. E il nome rimase.
«Non erano tanti, ma sapevano bastare. Bisogna riconoscere che quei bastardi erano coraggiosi e soprattutto spietati. Giravano per le campagne irlandesi a bordo dei loro autocarri, i Crossley, e per i ragazzi dell’IRA diventarono l’obiettivo fondamentale, il nemico numero uno.
«In agguati notturni l’IRA uccideva singoli individui, poliziotti o informatori civili, sabotava le strade o i ponti, per bloccare o spesso per attaccare le forze di sicurezza inglesi; i Black and Tans bilanciavano questi metodi incendiando le case dei ribelli o di chi li aiutava, negli interrogatori li torturavano fino a farli parlare e poi li ammazzavano lo stesso.»
Darsee ebbe un attimo di esitazione, poi continuò.
«L’esercito regolare, formato da irlandesi fedeli agli inglesi, veniva guardato con un certo rispetto e talvolta perfino con affetto, in confronto all’odio feroce che si andava concentrando sui Black and Tans. L’impresa di Tom Barry rimase leggendaria perché fu la più grande vittoria dell’IRA contro quei bastardi.»
Guardavo Darsee come in trance, ascoltavo le emozioni profonde che trapelavano dalla sua voce, osservavo il buio e i lampi di luce che saettavano da quegli occhi carichi di energia.
«Era la fine di novembre e gli uomini di Barry avevano camminato per tutta la notte sotto una fitta pioggia irlandese per prendere posizione dalle parti di Kilmichael, una zona perfetta per un agguato. Si erano sdraiati a terra, immobili, senza alzare la testa, invisibili in mezzo ai cespugli che costeggiavano la strada. Erano rimasti così per ore ad aspettare senza che nulla succedesse, senza mangiare, senza bere. Continuavano a fissare le gocce d’acqua che cadevano dai loro capelli e quelle che scivolavano lungo i fili d’erba davanti ai loro occhi, ma soprattutto sentivano il freddo e l’umidità che salivano dalla terra, si infilavano sotto le loro giacche e penetravano dentro le ossa. Continuò a piovere tutto il giorno. I ragazzi erano mezzo assiderati, stanchi e sfiduciati. Sembrava che fosse stato tutto inutile. Erano pronti ad alzarsi e a rinunciare all’imboscata, quando, al calare del sole, sentirono il rombo dei camion. I Crossley avanzavano in mezzo alla nebbia e al fumo dei loro stessi motori, sobbalzavano nelle buche, schizzavano fango con le ruote artigliate e con i fari minacciosi illuminavano quel grigio pomeriggio rigato di pioggia. I ragazzi dell’IRA li osservarono arrivare a tiro. Avevano le dita intirizzite, così tormentavano i grilletti cercando di far circolare il sangue per essere pronti a sparare.
«Tom Barry in persona, da solo, si fece avanti con un’uniforme verde dei Volunteers che assomigliava a quella britannica e rimase immobile lungo il ciglio della strada. I camion rallentarono per controllare quell’uomo solo sotto la pioggia, e in quel preciso momento gli uomini di Barry cominciarono a lanciare bombe e a sparare sui Tans. Quell’inferno di fuoco e frastuono durò pochi secondi, poi calò il silenzio. Nove Tans furono uccisi, contro un solo uomo dell’IRA. Il resto degli ausiliari, gettati i fucili a terra, scese dagli autocarri e si arrese.
«Gli uomini di Barry uscirono allo scoperto, si avvicinarono per immobilizzarli, ma in quell’istante i bastardi estrassero le pistole Webley e cominciarono a sparare uccidendo altri due uomini. Barry ordinò di annientarli senza pietà, e così, in pochi minuti, i diciotto Black and Tans del convoglio furono crivellati di colpi. Ci volle l’autorità di Tom Barry per frenare la rabbia dei suoi uomini, che continuavano a sparare e a prendere a calci con rabbia i cadaveri dei loro nemici.»
Ero rimasto ammutolito, affascinato dal modo in cui Darsee nel frattempo aveva mimato tutta la scena.
«Mio padre era Ernie O’Malley di Castlebar, Contea di Mayo. Aveva iniziato a studiare medicina a Dublino, ma nel ’17 si unì ai militanti dell’IRA e partecipò all’attacco alle Hollyford Barracks e a quello alle Rearcross, poi fu catturato e torturato dai Black and Tans, ma riuscì a fuggire anche dalla loro prigione per beccarsi, un anno dopo, ventuno pallottole in un’altra azione. Non bastarono neanche quelle. Nel ’23, per protestare contro quello sporco trattato, fece uno sciopero della fame in carcere che durò quarantuno giorni. Non riuscì ad ammazzarsi neanche così. Uscì di galera nel luglio del ’24, fu uno degli ultimi prigionieri a essere rilasciato, era conciato piuttosto male. Decise di darsi alla letteratura e cominciò a girare l’Europa, a visitare musei e a scrivere. Nel ’28 andò in America, ma so che tornò in Irlanda nel ’35 e se ne andò dalle parti di Achill Island, un posto meraviglioso da dove veniva la sua famiglia. Io mio padre non l’ho conosciuto, perché nacqui da una relazione che ebbe con una donna che aiutava i militanti dell’IRA nascondendoli in casa sua. So solo che quella donna si chiamava Debby. Mia madre morì dandomi alla luce e lui non seppe mai di avere una figlia. Bella famiglia, non è vero?»
Un lungo sorso di whiskey.
In testa avevo una trottola.
«Mi allevò un’amica di mia madre che decise di trasferirsi qui a Buenos Aires dopo la guerra. Fu lei che mi raccontò tutte queste storie su mio padre e sui suoi amici ribelli. Così, per cercare di rifarmi uno straccio di famiglia, sono rimasta sempre in contatto con tutti gli irlandesi che laggiù avevano avuto dei problemi e avevano bisogno di un posto dove nascondersi. Venivano qui, mi davano una mano nel pub e quando la situazione si era calmata, se ne andavano per la loro strada.»
Si versò ancora un bicchiere e si alzò per prendere un’altra bottiglia. La pistola rimase sopra il bancone del bar.
«Forse ti annoio con tutte queste storie, ma non mi capita spesso di incontrare qualcuno che viene da Cork. È un evento che va festeggiato.»
«Mi piace ascoltarti, Darsee», riuscii a balbettare. E poi aggiunsi: «Sono qui per conoscere il mio passato. Tu sai cosa vuol dire non avere ricordi.»
«I ricordi non servono a un cazzo, Bobby, serve quello che hai dentro. E se hai avuto un padre con i coglioni, come ce l’ho avuto io e come ce l’hai avuto tu, il resto viene da sé. Noi siamo gente che la vita se la costruisce da sola, giorno per giorno. Sapere chi è stato tuo padre serve a darti un esempio in più, una carica particolare, ma ti lascia una dura eredità: non possiamo tradire il loro passato, ecco a cosa servono i nostri ricordi. Il resto sono solo puttanate. Lo sai insieme a chi ha combattuto mio padre?»
«Veramente no.»
L’energia di quella donna mi affascinava. Gettai uno sguardo all’orologio senza farmi notare, erano le due, avevo tempo.
«Mio padre faceva parte della Brigade Flying Column di Liam Lynch, tuo compaesano di Cork. C’era gente come George Power e i fratelli Fanning, gli Sweeney, Michael O’Keeffe, i fratelli Sheehan e tanti altri. Era il primo battaglione della Fermoy Company. Mio padre era il capitano istruttore, quello che doveva insegnare loro a preparare un agguato, strisciare di notte nel fango verso le baracche dei Tans, preparare bombe, usare la mitragliatrice Hotchkiss e i fucili Thompson. I Thompson venivano dall’America, glieli rimediava mio zio Patrick, quello di cui parlavi prima, tramite un trafficante d’armi che viveva fra l’Argentina e gli Stati Uniti.»
Un altro tuffo al cuore.
Adesso toccava a me. Scolai il mio mezzo bicchiere di whiskey e poi con voce tremante buttai lì la domanda. «Si ricorda come si chiamava quel trafficante amico di O’Maley?»
«Certo che me lo ricordo, Bobby, anche perché era uno famoso. Uno che aveva contatti importanti. Si chiamava Butch Cassidy.»
Chiusi gli occhi.
«Lui trovava i Thompson, le munizioni, le pistole Smith & Wesson, un marinaio con un veliero veloce faceva un carico, lo stipava in uno spazio nascosto sottocoperta, si faceva una traversata oceanica e sbarcava dalle parti di Kinsale. Tutta gente con le palle, Bobby.»
Fece un gesto esplicito.
«Palle vere. Quel marinaio oltre a essere uno che il mare lo conosceva come le sue tasche, era anche un pazzo romantico, il tipo che partiva alla ricerca del Santo Graal, delle Miniere di re Salomone o di chissà quali tesori da trovare in ogni angolo del mondo. Mi hanno detto che nel Pacifico, durante la prima guerra mondiale, avesse fatto il pirata insieme ai tedeschi, ma la gente racconta un sacco di stronzate, ma per quanto ne so io, era un vero signore. Pensa che da quelli dell’IRA non volle mai denaro, solo merce di scambio. Così loro gli davano casse del miglior whisky o libri rari che parlavano di formule magiche e di tesori, preziose bottiglie di vino, documenti segreti che non riuscivano a decifrare, montagne di cose trafugate agli inglesi. Era in gamba, Corto Maltese, chissà che fine avrà fatto.»
Adesso non stavo più nella pelle, ero eccitato come un ragazzino appena entrato al lunapark. Era come se la nebbia che aveva velato un mondo che avevo potuto soltanto immaginare si stesse dissolvendo e incominciassi a distinguerne i particolari. Di tanto in tanto intervenivo con qualche domanda o qualche parola di commento per confermare a Darsee il mio interesse, ma non volevo indirizzare i suoi ricordi, il suo monologo disordinato era talmente perfetto da non sembrare reale. Avevo la sensazione di vivere in un sogno.
«Butch Cassidy, quello del Wild Bunch con Sundance Kid», azzardai.
«Ed Etta Place, esattamente. Anche la dolce signorina Ethel contrabbandava armi. Però aveva un debole per la causa messicana e i suoi Thompson andavano ai guerrieri di Pancho Villa. Se penso che la gente era convinta che li avessero ammazzati in Bolivia… Era il sistema migliore, bastava una bella sparatoria, tre disgraziati che facevano da coniglietti al tiro a segno, un bel funerale, una croce di legno sopra un mucchietto di terra e pietre, e tutto poteva ricominciare, da un’altra parte e con un altro nome. Semplice come cambiarsi il vestito e tagliarsi barba e capelli finti.»
Darsee riempì i bicchieri e mi indicò una vecchia foto ingiallita. Era il ritratto di un uomo magro, con gli occhiali e un lungo impermeabile scuro.
«Eccolo là, quello è il grande Liam Lynch, di Barnaguraha, Anglesboro, il comandante della Prima Divisione del sud, ammazzato il 9 aprile del 1923 fra le montagne di Tipperary, dalle parti di Limerick. Lo sai quali furono le sue ultime parole, Bob?»
«No, non lo so.»
“Dio abbia pietà di me. Ma è un vero peccato, tutto questo non sarebbe mai dovuto accadere. Povera Irlanda, povera Irlanda.”
Aveva capito che era tutto finito. Lui era l’ultimo che poteva pensare di continuare quella guerra. Erano morti tutti, Michael Collins, Erskine Childers, Rory O’Connors, Liam Mellowes. Aveva ragione. Pochi mesi dopo, Eamon de Valera diede l’ordine di cessare il fuoco. Era il luglio 1923. Da allora la guerra è finita, ma non per noi, Bob. Quello che è stato scritto non è sufficiente e, mi dispiace per il tuo cognome, ma Michael Collins non doveva firmare quel cazzo di trattato. Sarebbe successo lo stesso, ma non doveva farlo lui. Se l’avesse firmato un altro politico bastardo, sarebbe stato diverso. La sua firma, invece, voleva dire rinnegare il sangue che era stato versato per lui. Beviamoci l’ultimo goccio, Bob.»
Riempì il proprio bicchiere fino all’orlo e versò il poco che rimaneva nel mio.
«Brindiamo alla libera Irlanda e a quanti sono morti per questo sogno.»
Scolammo i bicchieri.
«Adesso, prima che tu te ne vada, ti faccio vedere un’altra cosa interessante.»
Si alzò dalla sedia. Si era scolata i tre quarti della bottiglia ed era fresca e arzilla. Si voltò e mi guardò con uno sguardo pieno di tenerezza. «Bob Collins, devo dirti che sono contenta che tu sia venuto qui oggi. Domani potevi non trovare più niente, domani butteranno giù tutto e io sarei rimasta per sempre in silenzio. Credo che oggi sia una giornata importante per tutti e due, molto importante.»
Mi puntò l’indice in faccia e mi fissò.
«Tu sei il mio angelo nero, Bobby.»
Arrivò al banco di legno del bar, prese la pistola e tornò al tavolo. Rimase in piedi al mio fianco e l’appoggiò sul ripiano. Era una piccola arma, sembrava un giocattolo. Sulla canna era incisa una parola. Avvicinai la testa e lessi Destroyer.
«È una pistola spagnola, una calibro 32, una di quelle che le donne portavano nella borsetta, ma questa pistola ha una grande storia. Prima ti racconto la storia e poi sarà tua, sei la persona giusta a cui darla.»
«Ma io…»
«Taci, ascolta e impara. È importante quello che ti devo dire, e non azzardarti a discutere. A causa di questa pistola morì un grande irlandese. Si chiamava Erskine Childers. Venne fucilato perché gli trovarono in tasca quest’arma. Secondo la legge d’emergenza di quegli anni, l’Emergency Power Bill, ogni repubblicano catturato con le armi in pugno doveva essere fucilato. E quella pistola fu la condanna di Childers. A te sembra pericolosa?»
Non sapevo cosa dire, Darsee sembrava colta da un raptus, aveva la faccia contratta, stava tornando a essere la megera inquietante che avevo incontrato poche ore prima.
«Sembra un giocattolo.»
Diedi una sbirciata all’orologio. Si stava facendo tardi, erano le tre passate, ma non potevo interromperla in quel momento.
«Infatti era ridicolo fucilare un uomo come Childers per un’arma del genere. E lo sai cosa disse Childers al suo plotone d’esecuzione prima di morire?»
«No…»
«“Fate un passo avanti, ragazzi, così sarà più facile.”
E lo sai chi regalò questa pistola a Childers? Proprio quel bastardo di Michael Collins.»
Prese in mano l’arma e si avviò dietro al banco.
Rimasi seduto come se fossi l’unico spettatore invitato a una recita teatrale, ma ero un po’ distratto, la testa mi girava per il whiskey e per tutto quello che avevo sentito, e in più cominciavo a preoccuparmi per l’aereo.
«Allora, Bob, prima di regalartela e di farti andare per la tua strada, lontano da questa vecchia pazza, voglio vedere se questa pistola riesce a sparare ancora un ultimo colpo.»
Appoggiò la mano sinistra al bancone e allungò il braccio destro mirando sopra la porta del bar.
Da bravo spettatore, voltai la testa e vidi il suo obiettivo.
La foto di Michael Collins.
«Lo sai invece cosa disse Collins dopo aver firmato il trattato?
“Posso dirvi una cosa soltanto. Ho firmato un impegno con la mia morte.” Aveva ragione, Bobby.»
Udii lo sparo, ma la foto di Michael Collins rimase dov’era, intatta.
Darsee, invece, era caduta dietro il bancone.
C’era sangue dappertutto.
Aveva inclinato la testa a sinistra e si era sparata dal lato destro del collo. Il piccolo proiettile doveva aver trapassato la giugulare prima di entrare nel cervello. Era stata precisa.
Non capii più niente.
Ero sconvolto.
Poi, lentamente, cercai di farmi forza e di riacquistare lucidità. La pistola le era scivolata di mano, era poco distante da lei. Cercai di riflettere e di ricordare tutto quello che era successo dal momento in cui ero entrato. No, non l’avevo mai toccata. La lasciai lì.
Presi il mio bicchiere e lo strofinai tirando fuori dai pantaloni la camicia, poi, sempre tenendolo con il tessuto, lo scagliai contro il muro più lontano, ma non si ruppe e ruzzolò invece sotto una montagna di tavolini ammucchiati. Lasciai dov’era anche quello, non avevo altro tempo.
Lanciai uno sguardo al locale, avevo voglia di prendermi tutto, la foto di Michael Collins, la piccola pistola spagnola di Erskine Childers, ma non potevo rischiare di farmi incolpare per omicidio, così non portai niente con me. Soltanto il ricordo indelebile di quel posto, di quella donna e di tutto quello che mi aveva detto.
Fuori continuava a non esserci nessuno.
Un gabbiano mi passò sopra gracchiando qualcosa.
Tornai in fretta nella piazza da dove era iniziato quel folle giro turistico di Buenos Aires e mi precipitai alla stazione dei taxi.
Mancavano due ore alla partenza del mio aereo.
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