otto
Il 25 novembre 1995 alle sette di mattino attraversai il Tappan Zee Bridge. A quell’ora il traffico dei pendolari in direzione Manhattan era già un tappeto di macchine. File compatte, ordinate, fari accesi e radio sintonizzate sui notiziari. Pioveva e i riflessi sul parabrezza mi davano fastidio.
Io filavo in direzione opposta verso il New Jersey, liscio come l’olio.
Non ricordo quanto impiegai ad arrivare. Forse una settimana.
Le prime ore guidai come un camionista a cottimo, senza soste, senza riposo, gli occhi arrossati che s’incrociavano e la testa che mi ordinava di rimanere sveglio. Ascoltavo musica, bevevo succo d’arancia e mangiavo panini al prosciutto e formaggio.
Guidai per un giorno e una notte interi, poi decisi di fermarmi in un motel. Ero sfinito, pentito di aver scelto la macchina e in preda a mille dubbi sull’utilità di quel viaggio.
Dopo quel primo sonno ristoratore decisi che me la sarei presa più comoda e mi imposi di dormire ogni notte in un letto. Mi tornò un po’ di ottimismo e la vecchia Dodge noleggiata a un prezzo stracciato soltanto perché era un po’ ammaccata divenne una fedele e docile compagna di viaggio.
Impostavo il cruise control sulla velocità massima consentita e non mi restava altro da fare che tenere in mano il volante. Sul sedile del passeggero avevo una custodia con cinquanta CD, una carta stradale, una bottiglia di succo d’arancia, un panino, gomme da masticare e caramelle alla menta glaciale. Mi servivano se cominciavo a sentirmi troppo rilassato, aprivo il finestrino, mi facevo schiaffeggiare dall’aria fresca e m’infilavo in bocca una di quelle piccole bombe che mi facevano salire il mentolo fino al cervello bucandomi il palato. E poi mettevo un po’ di rock. Roba nuova e roba vecchia, anche se di solito funzionava meglio la seconda: Pink Floyd, Led Zeppelin, Doors, Credence, Rolling Stones.
Attraversai New Jersey, Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Indiana e Illinois. Poi toccò a Missouri e Kansas e solo quando arrivai in Colorado, mi resi conto che il paesaggio era cambiato. Montagne e foreste avevano sostituito pianure e i campi di grano, al posto del giallo e del marrone adesso c’era solo verde.
Quando vidi il cartello che annunciava il mio ingresso nello stato dello Utah, sentii un brivido. Gli U2 cantavano I still haven’t found what I’m looking for, io pensai a Butch e provai a immaginare cosa volesse dire fare un viaggio del genere ai primi del Novecento.
Un branco di cavalli correva libero nel recinto di un enorme allevamento che costeggiava per alcuni chilometri l’autostrada. Svoltai nella prima stradina che incontrai e accostai alla staccionata. Mi fermai a lungo a osservare quei cavalli al galoppo.
Quando imboccai l’Interstate 89 guardai lo specchietto retrovisore e vidi che mi si era dipinto sul volto un sorriso da scemo che a lungo non riuscii a togliermi di dosso. Ero arrivato all’ultimo collegamento che avevo segnato sulla cartina, mi bastava seguire l’89ª e mi avrebbe condotto a Circleville, Contea di Piute, Utah.
Mezz’ora dopo ero arrivato.
Giravo senza meta, guardavo i cartelli che scorrevano ai lati della strada e cercavo di leggerli tutti. Guidavo piano e gli altri automobilisti mi suonarono prima gentilmente, poi più forte e alla fine iniziarono a sorpassarmi facendomi gestacci e lanciandomi insulti. Ma non li sentivo. Guardavo a destra e a sinistra. In cerca di cosa, non saprei.
Forse cercavo solo un segno, qualcosa che catturasse la mia attenzione. A un tratto lo trovai.
Butch Cassidy’s Hideout Motel & Café. Il posto per me.
Un po’ kitsch, ma era perfetto. Sulla parete dietro al banco della reception dominava un grande ritratto di Butch. Occhi stretti e azzurri, naso corto, bocca sottile incurvata in una specie di piega ironica, baffi color sabbia, mascella grossa, squadrata. L’espressione di un gatto soddisfatto. C’era la celebre foto che lo ritraeva insieme a Sundance Kid e a Etta, pistole incorniciate e messe sotto vetro come quadri, e varie foto con la dicitura Wanted. Dead or Alive. E le taglie, sempre più alte. Però Butch ce l’aveva fatta, ogni volta.
Presi una camera. Il motel doveva essere completamente vuoto. La stanza era spartana, al limite dello squallore. Feci una doccia e scesi a mangiare un boccone, un hamburger passabile e una birra fresca.
Insieme al caffè, chiesi l’elenco telefonico della zona e trovai quello che cercavo. C’erano tre Betenson a Circleville, e una era Alicia Betenson-Sanchez, avvocato. Tutto può essere nella vita, ma non me la vedevo Alicia, parente di Butch Cassidy, fare l’avvocato da quelle parti. Gli altri due erano Mark Betenson e James Betenson. L’indirizzo era lo stesso. Era lui. James doveva essere il figlio di Mark. Me lo sentivo.
La casa era fuori mano e dovetti chiedere diverse indicazioni prima di trovarla. Era piuttosto malandata, ma emanava lo stesso fascino decadente della Mustang nera e arrugginita che vi era parcheggiata accanto.
Una di quelle case in legno che conoscono diverse aggiunte al nucleo originale, si deformano e crescono insieme alla famiglia e poi nel tempo decadono con il ridursi della famiglia stessa. Il tetto aveva bisogno di riparazioni e si capiva con un’occhiata che una parte della casa non veniva usata da anni. C’erano cartoni su due finestre e tavole di legno che rappezzavano quella parte di tetto. Nel giardino – ma ci voleva una certa fantasia per definirlo giardino – si vedeva una piscina prefabbricata da pochi soldi, una grande tinozza azzurra dai bordi alti a cui si accedeva tramite una scaletta bianca. Nell’acqua giocava un bambino di quattro o cinque anni con la voce di uno di dodici. All’ombra, sotto un pergolato di vite americana, sedevano quelli che avevano tutta l’aria di essere i nonni del piccolo.
Lei era piuttosto malandata, capelli bianchi e volto attraversato da solchi di rughe profonde. Seduta su una vecchia poltrona a dondolo, una coperta a scacchi sulle ginocchia, fissava un punto imprecisato davanti a sé. Non fosse stato per il movimento, sarebbe sembrata una statua. Ma non era una statua, perché tremava. Ininterrottamente. La testa, le mani che volevano appoggiarsi ai braccioli, i piedi che non trovavano pace.
Lui sembrava un ippopotamo seduto nel fiume. Era enorme e ondeggiava sulla sedia a dondolo ricoperta da un grande cuscino fiorato e stinto. Oltre a quella leggera oscillazione, eseguiva, sporadicamente, soltanto due rapidi movimenti: con la mano destra si portava alla bocca un’enorme lattina di birra, mentre con la sinistra vibrava rapidi colpi con lo scacciamosche agli insetti che cercavano di gustarsi i suoi polpacci.
Mi convinsi che quel viaggio era stato del tutto inutile.
«Salve ragazzo, come va?» chiese l’ippopotamo alzando la mano con la birra.
«Bene, signore, vengo da New York, mi chiedevo se conosce Mark Betenson.»
«Perché t’interessa il vecchio Mark, ragazzo?»
Guardò soddisfatto lo scacciamosche. Aveva fatto centro.
«Sto facendo una ricerca su Butch Cassidy e sono convinto che Mark Betenson fosse suo nipote.»
L’ippopotamo si alzò in piedi. Era quadrato. Non propriamente grasso, ma grosso. Le braccia, le gambe, il collo erano impressionanti, ma una volta in piedi non sembrò impacciato come mi sarei aspettato e nell’insieme la sua mole era proporzionata. Era come se qualcuno gli avesse infilato un tubo in bocca e l’avesse gonfiato con un compressore.
«Vieni dentro che ci facciamo un caffè.»
Lo seguii in casa. L’interno non era diverso dall’esterno.
Con un po’ di fantasia si poteva immaginare che una volta potesse essere stata una bella casa, ma ora cadeva a pezzi.
Mi fece il gesto di accomodarmi in salotto. Era angusto e due poltrone di velluto marrone lo occupavano quasi interamente. Scelsi la più piccola e mi guardai intorno.
«Mark Betenson non c’è più, ragazzo, è morto tre anni fa. Era mio padre, eccolo là.»
Allungò un dito che poteva pesare mezzo chilo. Su un tavolino vidi una foto che avrei giurato fosse di Butch, ma era recente e non poteva trattarsi di lui. Eppure la somiglianza con Butch era stupefacente.
«Mi chiamo James Betenson, sono il figlio di Mark, e lui era il figlio di Lula Betenson Parker. Tutto chiaro?» Sorrise e capì il mio stupore. «Quindi io sono il pronipote di Butch Cassidy in persona. Non si direbbe, vero?»
Mi guardò e in quel momento intuii una luce speciale nel fondo dei suoi occhi, una sorta di vitalità imprigionata in quell’aspetto monumentale.
«Sto facendo una ricerca sulle amicizie e sulla vita di suo zio in Argentina.»
«A dire la verità, non ne ho mai saputo granché di Butch, però mio padre, e soprattutto Lula, tenevano tutto, un sacco di ricordi, lettere, cartacce.»
Fui percorso da un brivido.
«A me interessa solo questo.» E da una credenza bisunta e ripiena di ogni genere di mercanzia, James estrasse un vecchio cappello da cowboy. «Ecco, questo era il cappello di Butch, e mi sta alla perfezione, puoi scommetterci tutte le birre che vuoi.»
Il caffè scese gorgogliando e me lo versò in una grossa tazza sbeccata e senza manico. Senza chiedermi niente ci infilò tre zollette di zucchero e l’appoggiò con delicatezza sul mio tavolino, senza cucchiaio né piattino, la grazia del movimento mi sorprese. Eseguì gli stessi gesti con la propria tazza e poi si lasciò cadere sulla poltrona di fronte a me. Sembrava sfinito.
«Non chiedermi date e spostamenti, di questo io non so niente, ma se vuoi sapere qualcosa sui suoi amici, ti dirò quello che mi diceva sempre mio padre. Butch aveva un amico che si chiamava Sundance Kid e non lo uccise in Bolivia, quelle sono tutte cazzate dei professoroni imbecilli e dei giornalisti coglioni, lui non sarebbe mai stato capace di uccidere il suo migliore amico. Un altro grande amico era Elza Lay, l’elegantone di Boston, il cervello del gruppo, ma forse a Butch interessava di più sua sorella, chi può dirlo.»
Risucchiò un lungo sorso di caffè mentre io non riuscivo a sollevare la tazza, rovente e senza manico com’era.
«Un altro amico si chiamava Cleophas, Cleophas Dowd, mercante di cavalli irlandese. Veniva dalla California, ma alla fine si stabilì da queste parti, verso lo Sheep Creek Canyon. Dowd fu uno di quelli che non lo tradì mai, neanche quando Butch aveva una taglia enorme sulla testa e lui era diventato sceriffo e poteva trovarlo in qualsiasi momento. Quelli erano uomini d’onore, ragazzo, ci puoi scommettere.»
Altra sorsata e altro risucchio.
«Se vuoi sapere qualcosa di più sul periodo passato in Argentina, devi leggerti le lettere che hanno messo da parte Lula e mio padre, io so che lavorava per un riccone di Chicago che si era trasferito laggiù con mandria e mandriani. Più di questo non so dirti, ci puoi scommettere, ma se vuoi puoi prenderti tutta quella cartaccia, te la porti a casa, te la studi, ti prendi i tuoi appunti, ci fai un compitino e poi, se vuoi, torni e mi lasci qualcosa per il disturbo. Mi affido al tuo buon cuore, ragazzo, un paio di bistecche e qualche birra per me e per la mia vecchia basteranno. Magari, se sarai contento di quello che avrai trovato, mi potrai portare anche una buona bottiglia di bumba, vedi tu. Per me ormai va tutto bene, basta che sia liquido e forte e mi scaldi il cuore.»
M’indicò una cartella di cuoio legata con lo spago e infilata fra la credenza e la stufa. Misi cento dollari sul tavolino e la presi.
«Ehi, ehi, ma allora sei un tipo generoso, ragazzo. Per quel centone ti puoi pure tenere tutta quella cartaccia e anche la cartella. Me lo sentivo che eri un tipo giusto, oggi è proprio la mia giornata fortunata.»
«La ringrazio, signor Betenson, ma le riporterò tutto. Forse un giorno quella roba potrebbe essere importante per qualcuno.»
Mi guardò. Era contento. Non aveva capito quello che intendevo dire, ma probabilmente nessuno lo aveva mai chiamato signor Betenson.
Poi si rabbuiò all’improvviso. «No, quella roba tienila tu, ragazzo, qui non servirà più a nessuno ormai.»
«Un giorno potrebbe interessare a quel bambino là fuori.»
«A chi, a Jimmy Allister? Al figlio di Bob Allister il pompiere? E per quale motivo?»
«Pensavo che fosse…»
«Mio figlio o mio nipote? No, io non ho più nessuno ormai, se si esclude il rudere di Betty là fuori.»
Adesso non mi sembrava giusto andarmene così. Tirai fuori un pacchetto di sigarette e mi alzai per offrirgliene una. L’accesi e poi tornai a sedermi. Fumammo per un po’, in silenzio. Mi guardava attraverso gli occhi semichiusi. Aspettai.
«Per noi, da quando Katy è scomparsa, tutto è finito.»
Non dissi niente, espirai solo una lunga boccata di fumo insieme a un sospiro.
«Scomparsa nel nulla. Aveva cinque anni. L’hanno cercata dovunque, hanno pubblicato annunci sui giornali, alla televisione, ci si è messa di mezzo pure l’Fbi, ma adesso sono passati vent’anni. Missing, dicevano le foto segnaletiche, ma le hanno tolte da un pezzo, ormai non la riconoscerebbe nessuno.»
Si interruppe.
Per fare qualcosa, spensi la sigaretta cercando di farmi spazio in un posacenere stracolmo.
«Avrebbe la tua età, ragazzo. Ti sembrerà impossibile, ma era bellissima.»
Anche lui spense la sigaretta schiacciandola con un’energia superiore al necessario. Con entrambe le mani m’indicò la pancia enorme.
«Da allora guarda come mi sono ridotto, questa corazza di ciccia serve a nascondere lo schifo che ho dentro. E Betty, là fuori, è una specie d’automa e non mi fa più molta compagnia. Se ne sta così tutto il giorno e se non fosse per il Parkinson starebbe immobile. D’inverno è peggio, perché mi ritrovo di fronte quella sua faccia vuota e quegli occhi tristi, in questa baracca che sta cadendo a pezzi, come noi.»
«Signor Betenson, se posso fare qualcosa per lei…»
Non sapevo cosa dire e fare.
«Vattene pure, ragazzo, e prenditi tutto. Noi di ricordi del passato non ne vogliamo più. Il nostro passato è una schifezza e il futuro non sarà migliore.»
Si alzò con uno slancio elastico inaspettato e sorrise, mi fece scomparire la mano destra fra entrambe le sue, poi mi diede una pacca sulla spalla.
«Addio, ragazzo, e fai un buon lavoro. Butch era in gamba e a quei tempi anche i peggiori fuorilegge erano dei signori, avevano delle regole loro e non sgarravano.»
«Grazie di tutto, signor Betenson, mi dispiace per Katy.»
Non riuscii ad aggiungere altro.
Quando la macchina si mise in moto, Betenson alzò una mano in segno di saluto.
nove
Nella cartella di cuoio c’erano parecchie cose interessanti. Trovai una copia della lettera del 10 agosto 1902, quella che Butch aveva scritto a Mathilda Davis, la sorella del suo amico Elza Lay, nella quale descriveva la sua terra in Patagonia. Era una copia con tanto di timbro degli archivi della Utah State Historical Society, che confermava che l’originale era conservato nell’archivio di Stato. C’era anche una lettera di Dan, il fratello più giovane di Butch, indirizzata a Lula. Si trattava di una semplice lettera di saluti, ma verso la fine Dan diceva a sua sorella che Butch, qualche giorno prima, era andato a trovarlo a casa sua, a Milford, una cinquantina di miglia a ovest di Circleville, e che aveva giocato e cantato a lungo per Max, il figlio appena nato. La lettera era datata 1930 e confermava quanto sosteneva Lula, Butch era rientrato negli Stati Uniti.
C’erano ritagli di giornali dell’epoca, fotografie di famiglia, una serie di foto segnaletiche di Butch, rapporti della polizia di numerosi stati.
E un’altra lettera del giugno 1923. Da Habban, il latifondista americano, a Butch Cassidy.
Caro Butch,
come te la passi a Buenos Aires? Spero non ti stia spendendo con le tue amiche señoritas bonitas tutti i soldi che hai nascosto.
Piuttosto, a proposito di soldi, ti consiglio di puntare quello che ti è rimasto su Dempsey, sono sicuro che Firpo non saprà resistergli a lungo. El toro selvaje de la pampa ce la metterà tutta, ma contro quell’armadio americano non potrà farcela.
Cerca di non perderti l’incontro, è il match del secolo.
Ma veniamo a noi. Avrei un lavoretto facile da proporti, una cosa di tutto riposo, da pensionato, quello che sei adesso. Dovresti fare da balia a una nostra vecchia conoscenza. Ti ricordi Corto Maltese? Bene, lo devi tenere d’occhio per qualche tempo. L’abbiamo incontrato alla estancia di George e Ralph Newbery, i dentisti. Corto Maltese adesso si sta interessando alla storia di quella ragazza polacca, Louise Brookszowych, l’amica del giornalista, quelli che facevano un sacco di domande sulla Warsavia e sulle compagnie petrolifere della Patagonia.
Bene, ora i due piccioni sono volati via e non possono più fare altre domande, e questo Corto Maltese sembra più interessato alla figlia di Louise che alle cose che interessano a noi, perciò tu lascialo fare, è troppo individualista e romantico per andare a cercare di sbrogliare vecchie matasse attorcigliate, specie se queste matasse sono fatte di spine. Corto è un tipo in gamba e conosce come funzionano i giochi, forse pesterà qualche piede di troppo, ma alla fine si prenderà la bambina e se ne andrà come è arrivato.
Tu lascialo libero di fare, ma stagli addosso, poi fa’ in modo che riparta da qui tutto intero. In questo periodo c’è tanta carne al fuoco, e tanti interessi che si incrociano, la Warsavia ha i giorni contati e noi non abbiamo bisogno di altro chiasso. Anche Estevez mi sta dando sui nervi e non so quanto durerà, non mi piacciono quelli che non riescono mai a fare i giochi puliti, per questo sono sempre andato d’accordo con te.
Ho nostalgia delle nostre bevute e di Buenos Aires.
A proposito, per tornare ad argomenti che sicuramente t’interessano di più, apri bene le orecchie perché voglio farti un regalo. Consideralo un anticipo per questo lavoretto.
Vai in Calle 25 de Mayo y Viamonte, c’è un locale che si chiama La Parda, bussa al portone e di’ che ti mando io. Ti chiederanno qual è la mia cantante preferita e tu rispondigli Pepita Avellaneda. Ti faranno entrare e ti chiederanno su quale cavallo vorresti puntare, tu rispondigli Melgarejo, e a quel punto ti potrai godere la meraviglia che non ti meriti.
Te la serviranno su un piatto d’argento. O, meglio, su un divano di velluto.
È una bruna magnifica, un’india con la pelle del colore della cannella e del miele bruciato, ha due occhi obliqui e scuri che sembrano due cioccolatini Suchard. È bella, anzi bellissima, e indossa solo un paio di mutandine di pizzo bianche, ha la pelle profumata e due labbra di pesca. Si muove come una pantera, ma non aver paura, non morde mai…
Poi mi dirai se non sono un amico.
Habban
Stavo riordinando i nuovi documenti ricevuti da James Betenson inserendoli fra quelli che già possedevo, quando una pagina del dossier mi colpì in modo particolare perché parlava proprio di Habban.
… credo, signor Londres, che il problema principale, oltre al valore intrinseco delle terre possedute dalle famiglie inglesi e americane, e quindi dalle banche che le finanziano, sia legato ad altri fattori, decisamente più importanti. Nell’area di Comodoro Rivadavia, situata nella provincia patagonica del Chubut, a sud di questo fiume, nella zona dei due laghi Colhué e Musters, sono stati ritrovati importanti giacimenti d’idrocarburi che, secondo le prime analisi, risulterebbero cospicui
Queste notizie le ho apprese da un mio amico geologo che è stato mandato laggiù di recente per fare dei carotaggi in quel terreno e, secondo lui, là sotto c’è un mare di petrolio. Ho letto da poco un libro scritto da un nostro eminente connazionale, l’ingegnere Jorge Newbery, in collaborazione con Justino C. Thierry, il mio amico. Il libro s’intitola El Petroleo e i due autori parlano dell’importanza di questo materiale per un’infinita serie di applicazioni energetiche.
L’ingegner Jorge Newbery frequenta, naturalmente, data la sua posizione sociale, la più alta borghesia e l’aristocrazia argentina; al suo club ippico, El Jockey, si fanno feste favolose e lo stesso dicasi per l’Estancia, che la sua famiglia possiede al sud. Uno dei personaggi che frequenta la famiglia Newbery più assiduamente è un certo signor Habban, un americano trasferitosi in Patagonia da molti anni, come del resto il padre dell’ingegner Newbery, Ralph, il dentista. Bene, secondo il mio amico Thierry, questo signor Habban sarebbe il proprietario di tutta la terra che si estende a sud della penisola Váldes, all’altezza del Golfo de San Jorge. Tenga presente, e basta che consulti una cartina geografica, che stiamo parlando di un’estensione immensa. Habban possiede personalmente enormi appezzamenti, mentre avrebbe fatto acquistare ad alcuni «buoni amici» e a vari prestanome tutte le terre inframmezzate ai suoi possedimenti, creandosi una scacchiera perfetta di proprietà personali e altre controllabili.
Un’altra cosa interessante è che quelle terre dovrebbero essere demaniali e quindi lasciate in concessione solo per un certo numero di anni ai coltivatori e agli allevatori che le sfruttano, tuttavia, secondo alcune vecchie leggi ancora in vigore, dopo un certo periodo quegli stessi coltivatori e allevatori potrebbero diventarne i legittimi proprietari. Dunque Habban, col tempo, possiederà mezzo Chubut. Nel frattempo guadagna con il commercio della lana e con la carne delle pecore e con la carne e il latte delle vacche. Dietro a tutto questo c’è un’organizzazione perfetta che tiene sotto controllo i politici e che ha solo bisogno di stabilità e continuità. Perché tutto vada a buon fine, nulla deve cambiare e perché nulla cambi si usa il sistema più antico del mondo: i bordelli e le puttane.
Un caso fra tutti. In Calle 25 de Mayo y Viamonte c’è un locale elegante, si chiama La Parda, che significa india provinciana, che non vuol dire provinciale, ma piuttosto dalla pelle color del mate. Il locale appartiene alla Warsavia, ma in pratica è un locale riservato all’uso esclusivo degli «amici» del signor Habban. È impossibile entrare senza un suo preciso invito personale. So per certo, e questa notizia viene dal mio amico Laurentino C. Mejias, che la polizia stessa evita qualunque controllo del locale per evitare spiacevoli incontri con eminenti politici o con colleghi di alto grado. Si entra con parole d’ordine che cambiano ogni giorno e si scelgono le ragazze puntando su nomi di cavalli.
L’ambiente è splendido e gli arredamenti raffinati, si bevono solo i migliori champagne francesi o liquori invecchiati delle migliori etichette del mondo, si usano bicchieri di cristallo e le ragazze sono tutte selezionate e discrete. Cercano sempre di soddisfare i gusti più stravaganti dei loro ospiti e rispettano una regola ferrea: non conoscono i nomi dei clienti e non ricordano i loro volti e le loro inclinazioni, anche le più strane. Alla prima trasgressione per loro c’è lo sfregio, alla seconda un trattamento che nessuna ragazza ha mai potuto raccontare. Per questo motivo le ragazze vengono sempre da lontano, dalla provincia, sono giovani e ignoranti, non conoscono i personaggi più in vista del paese e sono obbedienti. Dopo un periodo che può andare dai due, tre mesi fino a un anno, vengono allontanate da Buenos Aires e finiscono in Uruguay o in Cile o anche più lontano.
Altre due piccole notizie interessanti: la principale compagnia petrolifera a pompare petrolio dai giacimenti di Comodoro Rivadavia è la Standard Oil, e indovini chi ne è un grosso azionista?
Giusto, el señor Habban. Tenga presente che la Standard Oil detiene anche il controllo della raffinazione del prodotto e della distribuzione della benzina e del kerosene da autotrazione.
E, per finire, uno dei proprietari di un bell’appezzamento nella zona del Chubut di cui parlavamo prima, precisamente a Cholila, è stato, nei primi del ‘900, un certo signor Santiago Ryan, che ha comprato un ranch di 12.000 acri insieme al signor Harry e alla signora Etta Place. Lo sa chi erano questi tre bravi allevatori amici del signor Habban?
Butch Cassidy, Sundance Kid ed Etta Place.
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