24 aprile 2013, New York.
St. Ann’s Warehouse. Dumbo. Brooklyn.
Teatro sperimentale.
Il titolo della performance “Mayday Mayday” di Tristan Sturrock.
Un gruppo di amici appassionati di teatro mi parlano di uno spettacolo interessante, particolare, mi dicono solo il titolo Mayday Mayday, hanno già comprato il mio biglietto.
È una serata strana, ho mal di testa, poca voglia di uscire. Sarei stato pronto per andare a dormire, o a sentire un po’ di buon jazz per cambiare mood, o un film d’azione tanto per distrarmi con Jack Reacher e le sue scazzottate o con Ryan Gosling e la sua moto.
Poi penso al titolo dello spettacolo, Mayday, e penso che potrebbe essere qualcosa che ha a che fare col mio mondo, il mare, i marinai, terribili tempeste a Capo Horn…che ne so io dove mi stanno portando questi… Dal punto di vista nautico il Mayday rappresenta la chiamata di soccorso per un pericolo grave: naufragio, collisione o morte imminente. Lo sfortunato navigante chiama sul Canale VHF 16. È una chiamata che chiunque può comprendere, qualunque lingua parli. Sembra che la parola derivi dal francese “venez m’aider” (venite ad aiutarmi) contratta con questo Mayday Mayday ripetuto prima di colare a picco.
Se qualcuno sente e arriva in tempo c’è un’avventura da raccontare, altrimenti, arrivederci a tutti.
Queste erano le mie riflessioni da spettatore di teatro sperimentale impreparato.
Sono le 8 di sera e arrivo a Dumbo. Pure questa è un’abbreviazione. Stasera abbreviano tutto da queste parti, Down Under the Manhattan and Brooklyn Overpasses, in pratica il primo quartiere di Brooklyn dopo ponte di Manhattan.
La metropolitana sferraglia su un binario sopraelevato, le case sono dei vecchi magazzini trasformati in lussuosi loft, ci sono gli atelier di artisti, bar colorati come se fossimo in Giamaica o trendy e freddi di metallo opaco e vetro, locali per bere e incontrarsi, gente che cammina sbandando per qualche Mojito di troppo, molta vita…un posto cool come dicono da queste parti.
Il teatro una volta era un vecchio magazzino dove conservavano il tabacco, soffitti altissimi, scale, cemento, ferro, legno, si chiama St. Ann’s Warehouse. Avrei dovuto immaginare che c’era qualcosa di strano, altro che il Mayday delle barche che stanno per affondare.
Mi siedo, il teatro è quasi pieno, mancano 10 minuti. La scena è totalmente rivestita di nero, tendoni neri da cielo a terra. Il teatro è un grande scatolone rettangolare, c’è la scalinata con le seggioline e in fondo lo stage. Tutto nero. Sulla scena ci sono un paio di scheletri in plastica, tipo quelli che usano nelle facoltà di medicina per le lezioni di anatomia, uno da una parte uno dall’altra, c’è una sedia, una specie di barella ospedaliera, un’ambulanza giocattolo e un elicottero rosso, anche questo è un giocattolo, poi ci sono un bicchiere, un boccale di birra, una bottiglia e un mazzo di fiori. Non credo proprio che si parlerà di mare o marinai. Il mal di testa sale, vorrei trasformarmi in Jack Reacher per sparare a chi mi ha comprato il biglietto o chiedere a Ryan Gosling di portarmi via in moto al più presto.
La sedia accanto alla mia è vuota, c’è la brochure dello spettacolo. Sfoglio.
“A true story by the man who fell”. Questo è il sottotitolo. Mi assento dal mondo e inizio a leggere. Cacchio, una storia drammatica e vera. E’ la storia dell’attore, proprio lui Tristan Sturrock, quello che farà la performance fra pochi minuti. È la sua vera storia, la storia di quando, un giorno, dopo una festa nel suo paese di mare (l’unica cosa legata al mare) in Cornovaglia, dopo aver bevuto parecchio ed essersi seduto su un muretto per rispondere alla telefonata di sua moglie, cade all’indietro. C’è un dislivello di parecchi metri. Tristan cade dritto di testa…e si spacca il collo. Frattura scomposta della quinta vertebra cervicale. È a terra, paralizzato, non può muovere niente, non riesce a parlare, respira a fatica. Sta per morire.
Ma non muore.
Dopo qualche anno, dopo essersi salvato, insieme alla moglie scrive questo testo teatrale e lo interpreta. È la sua vita, anzi il suo ritorno alla vita.
Inizia lo spettacolo, non racconterò tutto, solo il senso generale, non abbiate paura.
È una ragazzo simpatico, magro, vestito di bianco, pantaloni e camicia. Piedi nudi, si presenta e inizia a raccontare la festa, il suo paese, Padstow, in Cornovaglia. La festa è quella del 1° di maggio, cioè il May Day (anche l’attore lui ha giocato con le parole, May Day cioè il primo giorno di maggio e il Mayday la chiamata di soccorso). In Inghilterra il May Day è la festa della primavera, è il momento in cui l’inverno, quello vero, quello che s’infila nelle ossa, finisce e inizia la bella stagione. Allora bisogna scendere in piazza, tutti lo fanno, e tutti si vestono di bianco e si formano due fazioni nel paese, quelli bianchi col fazzoletto azzurro e quelli bianchi col fazzoletto rosso e si sfidano, ballano, giocano e sfilano per le strade del paese seguendo l’Obby Oss, il mostro dal largo e altissimo cappello nero. Chi lo riesce a toccare avrà fortuna, le ragazze che s’infileranno sotto al mantello rimarranno incinte entro l’anno. Poi ad un certo punto il mostro si accascia, cade a terra, muore. Ma la gente canterà la canzoncina magica ed ecco che Obby Oss si rialza.
La morte e la resurrezione dell’Oss. (Quando si parla di simmetrie con lo spettacolo).
Tradizioni pagane, feste antiche, Calendimaggio, fiumi di birra, del resto Padstow si trova nella Cornovaglia settentrionale, sul fiume Camel che sfocia nel Mare Celtico, solo questi nomi fanno pensare alle favole.
Torniamo alla storia. Prima di andare alla festa Tristan chiama la moglie – dai andiamo, sono le 7 faremo tardi – Lei è incinta, al quinto mese. – Vai tu Tristan, io rimango qui sono stanca, non mi sento d’infilarmi in quel casino…ma mi raccomando, tu non bere troppo…-
Tristan mima il percorso, dalla sua casa, in cima alla collina, fino al paese, la festa. Mima l’Oss col cappellone in testa, mima le bevute. I bicchieri di vino. I boccali di birra. Le risate con gli amici. È bravissimo a mimare se stesso che passa da una parte all’altra della scena infilandosi fra la gente di un locale affollato, musica alta, vino con certi amici, la birra dall’altra parte della scena. Poi la musica finisce con una porta che si chiude e inizia il silenzio, la notte, la salita difficoltosa verso casa. L’ubriaco naturalmente piscia contro un muro, sbanda, si appoggia al muro e riprende a pisciare (il tecnico del suono è perfetto), poi Tristan continua a salire la collina verso casa, sembra di vederlo, d’immaginare questo sentiero pietroso che si arrampica zigzagando sulla collina. È quasi arrivato. Il telefono suona, lui si guarda intorno, sembra quasi non capire cosa sia quel suono. È proprio intronato. Poi risponde. È la moglie. Allora si siede sul muretto per rispondere con più calma. Il muretto è proprio lassù, in alto. Tristan si sbilancia. Va all’indietro, il telefono gli scivola di mano. Cerca di afferrarlo. Un movimento di troppo. Cade all’indietro.
Buio. Un tonfo. Una luce lo inquadra nel nero, sembra che la sua testa sia disassata rispetto al corpo. Non serve che racconti il resto, solo poche cose. La moglie capisce che è successo qualcosa, esce di casa immediatamente, incontra un vicino di casa, un uomo che non ha mai conosciuto, prendono una torcia e cercano, cercano, cercano. Tristan li sente, vede la luce ma non può gridare, muoversi, non può fare proprio niente. Alla fine lo trovano, l’uomo riferirà che aveva sentito un lamento flebile, come quello di un animale ferito. La prima fortuna di Tristan. Quell’uomo era stato un militare e nell’esercito era un infermiere. Capisce che Tristan ha avuto un trauma alla colonna e decide di non muoverlo. È la decisione più importante del mondo per Tristan, il suo midollo cervicale era totalmente esposto, una mossa sbagliata l’avrebbe mandato all’altro modo, in pochi minuti. Arriva l’ambulanza. Tristan riesce ad essere veramente divertente nel mimare la corsa sconclusionata di quella piccola ambulanza che gira per la Cornovaglia in cerca della collina giusta, perde perfino una ruota, ma alla fine arriva e poi c’è l’elicottero che vola fino a Plymouth. Tutti che gli dicono di stare calmo, che tutto andrà bene, ma Tristan vede solo soffitti, corridoi, lampade al neon, luci che si accendono, rumori di monitor che segnano e blippano il suo battito, la pressione, ogni cosa e vede gente che gli infila aghi nelle vene, che gli punta lampade negli occhi, che gli alza una mano, poi l’altra, un piede, una gamba, punzecchiano di qua di là…ma lui non sente niente, sente solo il suo respiro che è diverso, è profondo, è faticoso, è lontano. Ci sono due soluzioni, gli racconta il medico: un collare rigido per bloccargli il cranio e tenerlo sollevato senza pesare sulla colonna da portare per circa 18 mesi, oppure un intervento, piuttosto delicato. – Che vuol dire piuttosto delicato? – Potrebbe riprendere a vivere normalmente dopo una lunga riabilitazione, oppure potrebbe rimanere definitivamente tetraplegico…o morire sotto ai ferri.
Tristan ha scelto l’intervento. Ce l’ha fatta. I fiori alla fine della performance erano per tutti quelli che hanno fatto si che si avverasse questo miracolo.
Il chirurgo, proprio quello che l’ha operato era in sala e ha descritto l’intervento, la colonna, le vertebre, il midollo osseo, il sistema nervoso, le minuscole arterie, le minuscole viti in titanio che ha dovuto infilare. Esattamente in quella posizione, proprio lì, altrimenti Zac, fine dei giochi. La descrizione forse è stata un po’ troppo tecnica, ma bravo il chirurgo, e brava la moglie che ha diretto lo spettacolo. E che ha trovato il marito. E che l’ha seguito nell’ambulanza. E nell’intervento. E nella riabilitazione. E che ha partorito e ha tirato su sua figlia…
Applausi per tutti.
Io non ho più mal di testa.
Torno verso York Street, verso la metropolitana, linea F, quella arancione.
C’è un’ambulanza davanti all’entrata. Luci blu che illuminano i loft, i locali giamaicani, i vetri dei bar trendy, l’asfalto, i pezzi di binari rimasti, la gente che cammina sbandata dai mojitos, l’entrata della stazione. Un altro treno passa proprio sopra le nostre teste, fa un gran casino.
I due infermieri sono grossi e atletici, hanno divise nere con varie sigle scritte in bianco, sembrano due poliziotti, o addirittura Marines, capelli rasati, ma dietro alle spalle gigantesche c’è scritto “Paramedic”.
C’è gente lungo le scale che scendono alla Metro. C’è un uomo per terra. Proprio in fondo alle scale. Un vecchio cappotto bisunto, capelli arruffati, pantaloni bagnati.
– I’m Ok, I’m Ok…- è l’unica cosa che grida.
I due ragazzoni lo prendono sottobraccio e lo alzano come una piuma. Lo portano fino in cima alle scale, di fuori. È una bella serata. Sembra che stia iniziando la primavera.
– I’m Ok – ripete il tizio malmesso. Ha gli occhi imploranti, ha paura.
I due Superman si guardano, la gente non segue la scena, ormai sono abituati. Uno dei due si avvia verso l’ambulanza, apre lo sportello posteriore.
Una coperta, poi prende anche un panino e un caffè che probabilmente si era appena comprato.
Il tizio li guarda e sorride.
I’m Ok I’m Ok… è molto meglio di Mayday Mayday.
Storie che succedono. marcosteiner
I used to be very happy to seek out this web-site.
I needed to thanks to your time for this wonderful learn!
! I undoubtedly having fun with each little bit of it and I’ve you bookmarked to take a look at new stuff you weblog post.
Thank you my friend
mi fai felice
E proprio questa la voce che deve assolutamente emergere!
One day One day