La porta della mia casa è sempre aperta.
Vivo in cima alla collina,
poco sotto alla chiesa,
all’ombra di San Matteo.
La mia casa è una grotta,
entrano tutti senza bussare.
Qui non c’è dove bussare.
Una porta non c’è.
Io vivo tranquillo,
non mi muovo mai,
ma un giorno mi è capitata una strana storia,
mi sono ritrovato in un laboratorio segreto…
Se volete vi porto con me, i disegni di Claudio Patané ci aiuteranno a viaggiare e a sognare.
Basta cliccare sulla parola “Sostanze” qui sotto
Francesco Cafiso,
ho appena ascoltato il tuo disco, “Irene of Boston conversation avec Corto Maltese” e inizio dicendoti sinceramente: “Grazie”.
Sembra una frase ovvia, banale, ma vuol dire molte cose, Grazie per il Tempo che mi hai regalato ascoltando la tua musica.
Ho scritto Tempo con la maiuscola perché mi hai fatto fare un viaggio avanti e indietro non solo nel mio tempo, mi hai portato a ripensare e a ricordare momenti vissuti e momenti sognati.
Da dove viene questa tua musica?
Da dove viene il nostro incontro?
Chi è che combina certi ingredienti?
Chi è che mischia le carte?
Chi decide da quale parte spira il vento?
Sono passati tanti anni dal giorno in cui Vincenzo Cascone mi portò a Pozzallo su quella spiaggia che i pozzallesi chiamano “ A’ Valata” o “Balata” o, per le mie orecchie, Ballata, come la storia più famosa di Corto Maltese, “Una Ballata del Mare Salato”.
E guarda caso c’era un veliero spiaggiato laggiù su quella costa siciliana che guarda verso Malta e si chiamava “Irene di Boston 1914” quella barca sfasciata.
Era scritto proprio così con belle lettere nere sulla poppa del veliero.
Grazie a Vincenzo Cascone, alle amicizie, al caso, alla curiosità, siamo riusciti a trovare l’ultimo proprietario e a scoprire la lunga storia di quella barca e a lasciar partire l’immaginazione per un viaggio che Lei meritava.
Ma perché la storia è andata avanti?
È questo che mi chiedo proprio ora. Sarebbe stato molto più facile fare una bella fotografia nostalgica e romantica di quel vecchio veliero adagiato sul fianco e pronto a sparire per sempre.
Quando sei arrivato hai portato la tua grande energia, c’erano le foto di Marco D’Anna, i disegni di Giovanni Robustelli, ma da lì siamo partiti per realizzare un grande sogno:
la performance multimediale di quella barca, Irene di Boston, che dialoga con Corto Maltese al Festival di Filosofia e Musica di Tournai in Belgio, era il 1° settembre del 2017, ma questo lo sai.
Quel giorno c’erano gli attori, i video di Vincenzo, la danza magica di Marielle, Giovanni che disegnava dal vivo, tu che suonavi sax, pianoforte e flauto, i disegni di Corto che fluttuavano sulle vele e una cattedrale piena con 700 persone incantate.
E dopo tutta questa meraviglia tu che cos’hai fatto?
Con tutta la tua energia hai continuato quel sogno, hai continuato il viaggio di Irene con la tua musica. L’avevo scritto che c’era un’anima dentro a quel veliero usurato dal tempo e tu l’hai ascoltata, l’hai afferrata col cuore e ce l’hai raccontata in una maniera meravigliosa.
Bisogna essere caparbi e visionari per comporre una serie di brani dedicati a questa storia e poi andare a Londra per inciderla insieme alla London Symphony Orchestra e un equipaggio di magnifici solisti.
Non mi metterò a scrivere un commento musicale su questo tuo lavoro, Francesco, lo faranno meglio di me tanti grandi esperti di jazz perché tu sei un grande del Jazz, ti ho visto a New York dialogare con Wynton Marsalis e suonare in jam session improvvisate nei locali Downtown, no io ti racconterò soltanto le sensazioni che ho provato ascoltando la tua musica.
E così ti racconterò il motivo per cui ti dico grazie, come se fosse un titolo:
perché mi hai regalato una cosa rara, mi hai regalato il Tempo.
Oggi sono uscito di casa e ho iniziato a camminare lungo la sponda del Tevere dove la città sembra così lontana e si vedono soltanto i ponti e le grandi meraviglie immortali di Roma, Castel Sant’Angelo, la cupola di san Pietro, l’isola Tiberina, i gabbiani che volano rasenti al fiume e l’acqua che scorre fra queste pietre antiche.
Laggiù, sul Lungotevere, mi sono infilato le cuffie e la musica è iniziata.
Prima di ascoltarla mi avevi detto solo questo:
È stato proprio così, Francesco, camminavo e ogni cosa diventava lontana, ci si è messo pure il sole a bucare i grandi nuvoloni carichi di pioggia e a indorare le pietre di ponti e bellezza.
Ero sopraffatto da tanta bellezza che a ogni passo veniva sottolineata e lucidata dalle tue note, in certi momenti, ascoltando il tuo sax in Corto Maltese mi sembrava di viaggiare nel vento in barca insieme lui…
Poi, all’improvviso, è arrivato “Fluid Remembrance” è ho iniziato a sentire le note leggere del pianoforte di Mauro Schiavone e l’orchestra che lentamente entrava con fiati e corde pizzicate e poi violini, percussioni…lì sono entrato in un film.
Ho aspettato fino alla fine cercando il suono del tuo sax che in ogni altro pezzo regalava quella magia che conosco molto bene, ma tu non arrivavi mai.
Ho pensato che avessi suonato il flauto e che le mie orecchie non ti avessero riconosciuto.
Invece non c’eri.
È un capolavoro tutto questo tuo disco, amico mio, il brano Corto Maltese non poteva essere più centrato e Bocca Dorata e Seasons of a Dream e tutto il resto, ma te l’ho già detto, io non voglio fare un commento musicale, voglio solo raccontare quello che è successo a me lungo il fiume.
Francesco, ci vuole un grande musicista come te per decidere di non partecipare a un pezzo come Fluid Remembrance, ci vuole un grande musicista per vedere così lontano, per sapere quando lasciare andare la nave libera nel vento per godersi soltanto lo scivolare sul mare.
Mi hai fatto tornare ragazzo, Francesco, e te lo voglio raccontare.
Quando andavo alle Medie, ai miei tempi c’era un insegnamento che oggi sarebbe considerato inutile e anacronistico, lo chiamavano Educazione Musicale, non dimenticherò mai quel professore perché è stato, in fondo, il mio Maestro Segreto, è lui che ha iniziato a farmi scrivere.
Il maestro entrava in classe in silenzio, appoggiava un piccolo giradischi sulla cattedra, collegava la spina, tirava fuori da una cartella di cuoio un vinile, nascondeva la copertina, lo posava con cura sul piatto e lo faceva partire senza dire altro che queste parole:
La lezione durava un’ora, la metà era dedicata all’ascolto, poi c’era il resto. Molti si guardavano perplessi, ma alla fine tutti scrivevamo qualche cosa, poche frasi, un tema, quello che volevamo, quello che ci veniva in mente, a lui non interessava la lunghezza.
La settimana successiva prima di farci ascoltare qualcos’altro leggeva il tema migliore della lezione precedente.
Quel giorno toccò al mio tema, fu una grande sorpresa.
Avevo raccontato la storia di un fiume che scorre verso il mare con vari passaggi che, ovviamente, adesso non ricordo, quello che non dimenticherò mai è che lui mi fece i complimenti e ci fece vedere la copertina, era “La Moldava” di Smetana.
Quella musica mi aveva raccontato lo scorrere del fiume, ma adesso, Francesco, mi è successa la stessa cosa e questa volta sei stato tu che mi hai riportato a quel momento, in quella classe, ma non soltanto a quel momento e non solo perché stavo camminando lungo il fiume, il viaggio che le tue note sono in grado di aprire è quello verso l’Immaginario.
C’è un’avventura di Corto Maltese, la mia preferita, che s’intitola Mū, parla di un continente perduto o forse sognato, ma la chiave di questa storia, quello che coincide con questo tuo lavoro è che la musica aiuta a raggiungere livelli diversi, passaggi, transiti fra concetti razionalmente impensabili.
Oggi, guardando Roma dal basso del Tevere mi hai fatto ripensare al primo momento in cui ho ascoltato i tuoi accordi iniziali per Irene, quelli che hai suonato al pianoforte a Venezia e in questo momento mi succede la stessa cosa, cammino lungo l’acqua che scorre e la città è lassù, in alto e il mio sguardo scopre le volte e i mattoni dei ponti, le cupole delle chiese, le nuvole, esattamente come a Venezia, una città che bisogna guardare dall’acqua, con il naso all’insù per vedere i merletti dei palazzi, per godersi la bellezza in tutto il suo silenzioso splendore.
Questo disco, Francesco, è un veliero che naviga nella bellezza, è un tappeto volante incurante del tempo e dello spazio, sei riuscito a spargere fra i brani suoni orientali e percussioni caraibiche, sentori di spezie lontane e poi c’è il sorriso di Corto Maltese, il suo contagioso desiderio di viaggio e poi c’è lei, Irene, una donna che avrebbe potuto incontrare, una donna che noi abbiamo incontrato…
Grazie davvero, Francesco,
mi hai fatto viaggiare come piace a me, con la Fantasia.
Marco Steiner
Passi silenziosi nel bosco
di Hugo Pratt, Nicola Magrin, Marco Steiner
è un nuovo libro Nuages che sarà disponibile dal 23 novembre 2020 e che, se possibile in questo strano periodo, verrà presentato giovedì 10 dicembre presso la Galleria Nuages a Milano in via del Lauro 10.
Questo libro è nato da un’idea di Cristina Taverna, la storica gallerista e amica di Hugo Pratt che, oltre ad aver creato un magnifico spazio espositivo dove sono passati e continuano a passare tutti i grandi nomi dell’illustrazione italiana e internazionale, ha creato una casa editrice che non pubblica solamente bei libri curati nella grafica, nell’impaginazione, nella scelta di carta, caratteri e colori, no, Cristina Taverna fa molto di più: inventa libri.
Inventare un libro per Cristina vuol dire unire testi e immagini; vuol dire associare idealmente uno scrittore e un disegnatore o viceversa in base alle loro affinità e alla sua intuizione; vuol dire regalare alle parole disegni o illustrazioni attraverso i quali andare ancora più lontano, oppure, consentire alle immagini, attraverso lo scorrere dei testi, un tempo di osservazione maggiore per poterle penetrare più a lungo tramite la musica di determinate parole.
Non serve che elenchi i libri che Cristina Taverna ha inventato, basta guardare il catalogo di Nuages, quello che vorrei dire è che per me è un onore far parte di questa galleria di libri ed è la seconda volta che accade dopo i miei racconti-deviazioni prattiani illustrati da José Muñoz in “Miraggi di memoria”.
Ma cos’è “Passi silenziosi nel bosco” e com’è nato?
Questo libro è nato davanti al mare in una conversazione del genere:
È iniziato tutto così.
Conoscevo Wheeling e Ticonderoga di Pratt, avevo visto le copertine di Nicola Magrin disegnate per tanti grandi autori, da Jack London, a Robert MacFarlane, Primo Levi, Tiziano Terzani, Paolo Cognetti e tanti altri, ma non sarebbe stato facile entrare delicatamente e con il rispetto necessario in quel “bosco”, serviva un’idea.
Così ho iniziato a leggere storie e leggende indiane e una in particolare mi aveva colpito molto, era quella di Hi’nun, il cacciatore indiano che venne sorpreso da una violenta tempesta e per ripararsi si rifugiò sotto a un grande pino, ma da quel momento visse una strana avventura.
Ho cominciato da questa leggenda e ho iniziato a raccontarla a modo mio:
Il mio nome è Ni’nun, sono un cacciatore, quel giorno ero andato a cacciare, ma mi sorprese la grande tempesta.
La luce del giorno lasciò il posto a una coltre buia squarciata da lampi di fuoco,
le nuvole s’inseguivano, m’inseguivano, sembravano mandrie di bufali e bisonti impazziti.
Il buio completo mi avvolse e mi sovrastò.
Le nuvole si accavallavano, scalpitavano, bramivano, muggivano,
annerivano il cielo di volute d’inchiostro e piume di corvo.
Il sole infuriato scagliava frecce incandescenti per spezzare quel nero sipario,
voleva ritrovare il suo ruolo, illuminare e scaldare la terra,
ma le nubi ferite sanguinarono fiotti di lacrime e pioggia.
Io fuggii veloce, ma non bastava e allora mi rifugiai sotto a un immenso pino e lo abbracciai con tutta la forza,
cercavo un sostegno, per la prima volta avevo paura,
mi strinsi al legno aspettando la mia fine o la fine del mondo,
nella corsa ero caduto e mi ero ferito, ero debole, rassegnato come non ero mai stato,
ero come il pettirosso che mi aveva invitato a volare, tremavo.
Penetrai nel legno,
mi sentii protetto da quella corazza di foglie e di rami,
mi dissolsi nell’albero
partecipai l’essenza del bosco…
La leggenda continuava con la salita in cielo di Hi’nun ancora stretto al suo albero, l’ultimo rifugio. Il cacciatore ormai era convinto d’essere morto, stava per raggiungere la sua ultima destinazione. E invece Hi’nun si trovò al cospetto del Grande Spirito e di tutte le altre divinità e scoprì che si erano riuniti in cielo perché stavano cercando di cacciare da lassù il grande serpente malvagio, la fonte di tutti i mali degli uomini.
Ma la situazione era strana perché gli dei scagliavano le frecce, ma nessuno riusciva a colpire il serpente e così, il Grande Spirito, dopo aver unto gli occhi di Hi’nun con un fluido magico che gli avrebbe consentito di vedere alla perfezione ogni cosa del mondo, lo incaricò di tirare la sua freccia.
Hi’nun non sbagliò e, da quel giorno, diventò il grande cacciatore, colui che riuscì a eliminare ogni male che affliggeva gli uomini.
La mia storia era iniziata da quelle parole, “partecipai l’essenza del bosco…”, erano parole che mi erano entrate dentro, forse come era successo al cacciatore con l’albero che l’aveva salvato. Sono andato avanti così, sono entrato lentamente in quel posco, ma non ho più seguito la leggenda di Hi’nun, ho provato a seguire un testo poetico che Pratt aveva scritto nella prima edizione di Wheeling e a quel punto le parole sono scaturite da sole.
Poi sono arrivati gli acquarelli di Nicola Magrin che non avevo mai conosciuto di persona, e sono andato a Grandvaux in Svizzera, dove aveva vissuto Hugo Pratt e dove ho trovato i vecchi libri che volevo rileggere e lì ho camminato nei boschi che circondano la casa dove Pratt ha vissuto e dove ha disegnato.
E il testo è sgorgato fresco come un ruscello di montagna. Ho lavorato di taglio, di rifinitura sul ritmo, sulle singole parole e poi l’ho spedito a Cristina e a Nicola e alla fine abbiamo tolto la leggenda di Hi’nun, perché raccontava una storia, mentre in questo libro, serviva soltanto la musica di certe parole:
Per vivere il bosco bisogna essere
bosco,
non entrare, passare, guardare, raccogliere, cacciare, bere, riposare, uscire.
No,
non è così,
l’inizio del viaggio è immersione completa,
è come nel mare,
basta chiudere gli occhi,
mollare gli ormeggi
entrare nel flusso,
lasciarsi penetrare dalle fibre, dagli umori del bosco…
Questo è l’incipit.
Ho cercato di partecipare l’essenza del bosco…
Non serve che riporti i commenti di Nicola alle mie prime parole, posso dire soltanto che ho immaginato il suo pennello scorrere veloce, ho cercato la musica nelle mie frasi e, forse, Nicola l’ha sentita e ha visto quelle note scorrere mentre intingeva il pennello nell’acqua e poi nel colore che lasciava scivolare sulla carta proprio come avrebbe fatto un ruscello su un prato.
Avrei voluto restare in silenzio e guardare mentre lui disegnava.
Sembra impossibile, eppure è stato così, in questo periodo di isolamento io e Nicola ci siamo ritrovati in tempi diversi e in luoghi diversi a seguire gli stessi passi silenziosi, in boschi lontani, ma che avevano lo stesso colore, la stessa freschezza e lo stesso profumo.
Abbiamo guardato tante volte i disegni di Pratt io e Nicola Magrin, grazie a lui si è arricchito il nostro immaginario e il concetto stesso di bellezza e poesia, abbiamo provato a ringraziarlo con questo libro, speriamo di esserci riusciti, speriamo si senta.
Grazie Cristina, bisogna essere sensibili e liberi per inventare un libro come questo.
Marco
Black Pearl
è la mia nave, la mia casa, tutto quello che porto dentro, poca roba, schegge di ricordi, odori, cicatrici e qualche sogno.
Ci sono gli uomini dell’equipaggio, li ho raccolti in fondo al pozzo, al Dos Mares, laggiù a Tarifa, davanti all’Africa.
Lascio un posto per chi troverò lungo la rotta e per chi si affaccerà nei miei incubi sudati.
Lascio spazio alle sorprese che arrivano dal niente, come dentro a un temporale.
Annuso l’aria per andare avanti in qualche modo, fino a quando ce la faccio.
Sugli scaffali ci sono libri, bussole e binocoli per cercare il cambiamento,
giorno e notte,
vento fresco e piatta fradicia,
poi ci sono le altre cose, le più belle, quelle che arrivano col blu.
Questa nave non punta i porti e la rotta cambia senza vento.
A bordo c’è un cartografo che possiede mappe antiche e conosce isole inesistenti,
un naturalista che racconta piante e animali leggendari se la notte è troppo buia,
poi c’è un cuoco che maneggia spezie, succhi e profumi prodigiosi,
un pazzo che riesce a rovistare nel futuro, e la scorta del mio rum per dimenticare tutto il resto.
Il passeggero più importante è l’imprevisto,
lo nascondo in mezzo a cime e vele, ma lui esce quando vuole, non avvisa,
sa che sono sempre pronto.
Jack Blake,
il Comandante della Black Pearl
Tutte le elaborazioni fotografiche sono di Marco D’Anna.
Il progetto nasce come idea di una futura Fotographic Novel.
Marco Steiner
Paramaribo, Suriname, Guyana olandese.
C’è una veranda stretta e lunga in una pensione di Paramaribo, si affaccia sullo scorrere lento del fiume marrone, ha il tetto e le persiane azzurre, balaustre bianche di legno scrostato, larghe poltrone di vimini, un gatto che dorme. Pigri ventilatori al soffitto cercano di mischiare l’umidità all’aria ghiacciata che filtra fumando dal condizionatore.
Nel silenzio si sente solo il ronzio e il cigolio delle pale, ma fa caldo lo stesso. Non è la pensione di madame Java, ma gli assomiglia. Alla reception c’è una brasiliana con un sorriso carico d’inviti.
L’atmosfera è sonnolenta, c’è odore di burro e pane tostato, un vago sentore di curry, spezie e cipolla che sfrigola. Il porto è in fondo alla strada, il mercato a due passi. Lì c’è di tutto, frutta colorata e verdure appassite, pesci affettati a colpi di machete, polli appesi e magliette piegate, orologi, radioline e cd falsi, ma anche vecchie bottiglie scariche di rhum, ma riempite con pezzi di corteccia d’albero, semi, foglie secche, piccoli arbusti o bacche. Basterà aggiungere un liquore chiaro, rum non invecchiato, vodka o gin. E aspettare. L’alcool assorbirà le proprietà di tutte quelle essenze. In pochi giorni il liquido diventa bruno-ambrato, amaro come il fiele, pungente come la schiena di un istrice, rugoso come pomice. Ogni bottiglia é una combinazione specifica per un preciso problema, il mal di schiena, il potenziamento sessuale maschile, per favorire le gravidanze, per la prevenzione o la cura della malaria, o soltanto per leggere qualcosa di strano nel futuro.
Una vecchia, nera e lucida come un pezzo d’ebano strofinato negli anni, spiega il funzionamento delle varie combinazioni. Ti fissa negli occhi, vuole conoscere chi le sta davanti, ma non le servono troppi discorsi. Ha un banchetto in un angolo scuro, i suoi occhi, bianchi come due lune bucate, sono scanner primordiali. Scavano, indagano, fulminano, o ignorano e se ne vanno lontani. Vende bottiglie magiche, ma anche bicchieri intagliati nel legno di china, radici nodose e unguenti profumati. Basta chiacchierare un po’, essere diretti e sinceri, dire qualcosa e poi farsi raccontare una storia. Sotto al banco ci sono bambole di pezza e spilloni, bottiglie scure con un liquido verde, altari di legno, candele colorate di varie dimensioni e tutto quello che serve per organizzare un rito vudù.
Poco fuori dalla città c’è la grande fabbrica, il cuore pulsante di tutto il paese, si chiama “Suralco”, loro lavano ed estraggono la bauxite dalla terra rossa dell’Amazzonia e poi la trasformano in allumina, la base per arrivare all’alluminio, uno dei metalli più diffusi nella nostra società, non solo nelle pentole. Per arrivare all’alluminio si passa attraverso un processo costoso, sono necessari quantitativi di energia elettrica impressionanti, qui non è possibile, lo faranno da qualche altra parte. In Suriname non è economico produrre energia, ma c’è tanta terra e tanti uomini che possono lavare la terra. Quattro tonnellate di bauxite per una tonnellata di alluminio, sfornato in lingotti di nove metri che pesano come sei elefanti. Sui giganteschi camion “Suralco” campeggia un motto che è tutto un programma: “We move the mountains. (Noi spostiamo le montagne)”.
Dopo quell’immenso castello di ferro, fumo e cemento, la strada è una striscia rossa d’argilla martoriata da piogge e pneumatici che s’infila come una cicatrice nel sud, nel verde della foresta, verso altre inguaribili piaghe scavate nella terra, le miniere d’oro.
I camion gialli vanno e vengono sbattendo ruote e sospensioni nelle buche e nel fango e si trasformano in mostri color rame. Quel frastuono metallico rimbomba nelle gallerie vegetali e fa rintanare i giaguari e le scimmie, ma a poche centinaia di metri la giungla torna di nuovo padrona. Per migliaia di chilometri c’è solo foresta amazzonica, giù, sempre più in fondo verso il sud del mondo.
Un tappeto carico di verde e ossigeno che si srotola oltre il confine, lungo tutto il Brasile.
Le puttane vengono da lì, dalle zone povere del Brasile. Loro sono le vere schiave di oggi. Un tempo, gli schiavi venivano dall’Africa: Costa d’Avorio, Dahomey, Ghana, li caricavano come bestie sulle navi e li sbattevano qui, servivano per coltivare le terre, per tagliare le foreste, guardare le mandrie, spaccare le pietre e fare tutto quello che nessun bianco avrebbe mai fatto. Alcuni di loro si ribellarono e fuggirono addentrandosi nella selva, e i loro discendenti sono rimasti ancora lì, adesso li chiamano maroon, ma fra loro si chiamano Longwe Samma (gente che scappa).
Sono i maroon che si occupano di cercare l’oro nella foresta, le concessioni sono canadesi oppure olandesi o di chissà quale ex-dittatore, ma chi scava, chi si prende la malaria, chi maneggia e s’intossica col mercurio, chi si prende l’Aids con le puttane brasiliane, chi viene ucciso dalle bande dopo aver ricevuto la paga o aver trovato una pepita, sono sempre loro, gli schiavi che hanno scelto la libertà, il gruppo più numeroso è quello degli Ndjuka. Loro però hanno una fonte di energia particolare. Si chiama Obeah, è un’antica forma di pratiche magico-religiose che proviene dall’Africa centrale, sono le divinità più potenti di tutte, non hanno paura del teatrino degli altri dei caraibici. Loro sì che fanno paura, bisogna chiedere a loro il permesso di toccare la terra, di ricevere la forza di scavare e di sopravvivere nella buia umidità della foresta.
I rituali magici vanno dalla magia bianca a quella nera e nessuno può davvero sapere che genere di sacrifici si facciano in certe notti molto scure. Sicuramente un cocktail per rinforzare lo spirito è composto da sangue di gallo, plasma di capra sgozzata, succo di canna da zucchero, rum e polvere da sparo. A Paramaribo c’è un negozio attrezzato in ogni genere di prodotto che serva per i rituali vudù, loro si occupano solo di magia bianca, magia positiva, dicono. La cosa più antica che c’è nel negozio è una serie di calderoni.
– “Il calderone serve a tutto – dice Héctor, un negro con dei bicipiti solidi e scuri come tronchi – si possono far bollire le erbe per lavarsi, o preparare una pozione per purificarsi, cucinare il cibo che serve per mangiare o che serve per la divinità da invocare, oppure può fare da casa per qualcosa che si è stata sacrificata per darci la forza di andare avanti…
Gli altri schiavi rimasero al loro posto e poi, nel 1863 furono liberati e rimasero in città, a lavorare per proprio conto. Oggi, i discendenti dei maroon, gli ex-schiavi fuggiaschi e di quelli liberati non si amano molto fra loro. Si ignorano e vogliono dimenticare i loro rispettivi passati.
Tanto per mescolare ancora di più le razze, dopo l’abolizione della schiavitù arrivarono in Suriname altri lavoratori, non erano più veri schiavi, ma venivano da altri miserevoli mondi, avrebbero accettato qualunque paga, qualunque condizione di vita pur di cercare un avvenire diverso e di riuscire a sfuggire dai loro problemi. Arrivavano dall’Industan, da Giava e dalle isole dell’arcipelago malese e indonesiano, dal sud della Cina, dall’India e dal Bangladesh e naturalmente dai paesi più poveri del Brasile.
Nazaré da Silva Nascimento, era una di loro, lei veniva dall’isola di Marajó, sulla foce del Rio delle Amazzoni, nello stato del Pará. Nazaré era nata in un villaggio di legno marcio e lamiera, costruito su fragili palafitte, non c’era niente di buono laggiù, tranne suo nonno. Lui modellava la ceramica di giorno e suonava la chitarra quando calava la sera. I vasi e i piatti che plasmava avevano colori delicati, ma le note delle sue corde lo erano ancora di più e Nazaré amava la musica più di ogni altra cosa. Un giorno, a dodici anni, diventò all’improvviso pallida e sudata, aveva la pancia dura come un sasso e un dolore lancinante nel ventre, dopo cinque terribili ore di barca arrivarono finalmente a Belém, dal medico. Il dottor Sachs la operò e la salvò, l’attacco di appendicite si stava trasformando in peritonite.
Quando si risvegliò nella stanzetta dell’ospedale di Belém non c’era nessuno dei suoi, solo il vecchio dottore, in una mano stringeva una bottiglia di rhum e beveva, con l’altra la stava accarezzando, ma c’era una musica celestiale in quella stanza.
Dopo quel giorno per Nazaré, l’unico spettacolo che riuscì a vedere dal suo villaggio fu la “pororoca”, la formazione di onde gigantesche provocate dall’incontro fra le acque fluviali e quelle dell’Oceano Atlantico. Quando le acque del mare rientravano, portandosi dietro il color ocra di terra nel blu, lasciavano distese fangose punteggiate soltanto dalle macchie nere delle mandrie di bufali. Nazaré guardava quella laguna popolata da miseria e zanzare e sognava una cosa soltanto: scappare, andare via, lontano.
Non avrebbe mai pensato di finire peggio di là. Non avrebbe mai pensato di diventare la schiava di Luciano Brust. Il fornitore ufficiale di puttane per i cercatori d’oro del basso Suriname.
Il pugno è l’arma preferita di Luciano e può fare male, molto male. È nero e potente, lui sa dove colpire e ogni dito è rivestito da un grosso anello. C’è una spiegazione per ognuno di loro.
The star, la stella fortunata, quella di Lucky Luciano.
Una pietra rossa come il sangue, the blood, il sangue dei nemici.
Darkness, una pietra nera come il buio, il mistero dell’obeah, la potenza delle antiche divinità africane.
Freedom, la libertà, la cosa che Luciano ama di più.
Un’ancora marinara, perché lui vuole essere steady, stabile. Come una barca pronta a salpare, come una barca che si lascia cullare incurante dei capricci del mare, ma che resta lì, aggrappata sul fondo. Con lo sguardo nel blu e le dita di ferro aggrappate alle rocce.
Quella mano può accarezzare la pelle di Nazaré, spettinarle i capelli, può minacciare, o può massacrarle la faccia, renderla irriconoscibile, ridurla in brandelli con quel pugno armato con i suoi cinque simboli. Lui l’ha portata oltre il confine, l’ha portata via dalla violenza dei fratelli, ha pagato la sua famiglia, ha pagato il suo viaggio, le ha dato una casa e continua ogni giorno a darle cibo, e protezione. Adesso lei è una sua proprietà e deve fare contenti quegli uomini che frugano nella terra. Nazaré deve restituire il suo debito, deve riscattare tutto quello che Luciano ha fatto per lei, solo così potrà evitare quel pugno.
Ci sono altri schiavi moderni nel Suriname, in generale sono cinesi. Arrivano qui per costruire le strade, vengono dalle province meridionali del loro grande paese. I contratti da fame delle ditte appaltatrici durano sei mesi, loro hanno i permessi e lavorano duro, ma poi dovrebbero tornare, invece scompaiono nel nulla, nel verde di quelle foreste. Qualcun altro si occuperà di loro, come Luciano con Nazaré, qualcuno troverà loro una baracca e li spedirà a spargere mangime e ormoni ai gamberi che allevano lungo il fiume, antiparassitari alle canne da zucchero, a dissodare pietre nelle piantagioni di caffé, a spruzzare il diserbante nei campi, a cucire reti o pezzi di stoffa in qualche umido magazzino.
I piccoli lavoratori cinesi non hanno più un nome, sono clandestini in una terra libera, schiavi di chi li ha condotti attraverso i meandri di quella falsa libertà. Fra loro parlano una lingua speciale, parlano “Hakka” per capirsi senza farsi capire dagli altri, per avere ancora qualcosa di personale e speciale nel buio delle loro capanne di lamiera, di fronte al solito pugno di riso.
Del resto, Hakka, vuol dire “straniero” oppure “ospite”.
Fotografie di Marco D’Anna
Jean Claude Guilbert conosceva molto bene Hugo Pratt, non era soltanto un suo amico. A vederlo camminare in Etiopia sembrava di osservare il passo di uno dei soldati coloniali delle storie di Pratt. A guardarlo negli occhi si capiva subito quante cose si erano detti insieme quei due, sulla vita, sull’Africa e sull’Etiopia in particolare.
Hugo stava morendo in una clinica ai bordi del lago Lemano, nell’agosto del 1995, quando arrivò Jean Claude.
Il soldato mise fra le mani di Hugo una chiave e lui lo guardò con un ultimo guizzo che arrivava da quel magico azzurro, strinse le mani sulla chiave e se ne andò via.
Lasciando un gran vuoto.
“L’opera e la vita di Hugo si confondono e appaiono nell’ombra proiettate su un trittico di pietra. Ce ne sono molti di trittici in Etiopia, i grandi si mettono nelle chiese, i medi nelle borse, i piccoli in tasca.”
Ha ragione Jean Claude: Cultura-Natura-Avventura sono il trittico di pietra, la solida base delle storie di Pratt.
Tutto il resto è magia.
Un esempio fra tutti è una storia “L’ultimo colpo”.
La Cultura è Arthur Rimbaud che recita i versi del suo “Bateau ivre” mentre scorrono le immagini che ci raccontano la Natura. Muri bianchi calcinati dal sole, cespugli di fichi d’India, minareti e scorpioni, cammelli immobili nel sole e mitragliatrici pronte a spezzare il silenzio.
L’Avventura è quella che si drappeggia sull’eroica bandiera dei King African Rifles, ma anche nella storia del capitano Bradt, il vigliacco, quello che un tempo viveva in Irlanda, ma era un altro uomo, aveva un altro nome. Bradt preferiva Rimbaud a Kipling, ma non poteva dimenticare il tradimento nei confronti di suo fratello. Uno sfogo virile fra combattenti diversi, un whiskey e il ricordo di una poesia. Un flashback dalla verde e piovosa Irlanda infilato in una scena che si svolge fra il bianco e la polvere di un fortino attaccato dai ribelli.
Una scena. Frasi staccate, vuoti, malinconia, prima del rumore, del “Crack” “Crack” dei fucili Enfield che riporteranno il silenzio, forse la giustizia.
Una cruda realtà che spazza il sogno, il rimpianto, la vita.
Ci mancano le note di Jan Garbarek e potremmo vedere il film che Hugo ha disegnato per noi, riusciremo a sentire il calore vibrante e i suoni del deserto, le lunghe ombre, la desolazione, i contrasti.
Anche il maledetto francese era una contraddizione vivente, vendeva armi ed era un grande poeta. La sua carovana di trenta cammelli affrontò il lungo viaggio che lo portò dalla regione del Tajoura attraverso deserti e foreste alla ricerca del re Menelik II per vendergli duemila fucili e settantacinquemila cartucce. Ma il poeta non fece un grande affare perché il sovrano gli confiscò gran parte delle armi e un codazzo di falsi creditori si accaparrò il resto.
“Il poeta deve farsi veggente attraverso un lungo e ragionato sgretolamento di tutti i sensi” diceva Rimbaud scrivendo poesie leggere ed eleganti come gli acquarelli di Pratt e cariche di significati come le sue storie e i suoi colori.
Marco Steiner
“Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.” (J.D. Salinger, Il giovane Holden. Einaudi)
Salinger è morto il 27 gennaio del 2010 a 91 anni. Il suo romanzo “Il giovane Holden” é uscito nel 1951 e da allora, mentre il suo autore si ritirava in un ferreo silenzio e in volontario isolamento, ha venduto più di 60 milioni di copie in tutto il mondo e generazioni di ragazzi l’hanno letto e hanno trovato similitudini con i loro processi di crescita e con le loro problematiche esistenziali, insomma, il Giovane Holden è un tipico romanzo di formazione, come Demian, Davide Copperfield, Il rosso e il nero, Gli Indifferenti e tanti altri.
La Ballata ha le stesse caratteristiche perché il vero protagonista, in fondo, non è Corto Maltese e nemmeno l’Oceano Pacifico, ma sono Pandora e Cain, due ragazzi che all’inizio della storia non sono altro che due viziati rampolli di una ricca famiglia australiana e alla fine, dopo un anno di vagabondaggi si ritroveranno diversi e in un mondo reso diverso dalla guerra.
Le spedizioni di James Cook vennero commissionate dalla Royal Society per dimostrare l’esistenza della Terra Australis, ma gli intenti dello scettico Cook erano quelli di andare oltre: “…al di là di dove chiunque è andato prima, ma fin dove è possibile per un uomo andare”.
Il suo secondo viaggio iniziò da Plymouth il 13 luglio del 1772.
A bordo della Resolution c’era un giovane tedesco di diciassette anni, Georg Forster, che si era imbarcato col padre, Johann Reinhold Forster, il naturalista della spedizione. Forster “padre” era stato incaricato di redigere il resoconto del viaggio, ma il carattere di Johann Reinhold non era facile da digerire per Cook e tantomeno per Lord Sandwich che aveva commissionato il suo lavoro, ma che voleva poter dire la sua, guidare e correggere la linea di quel resoconto. Il rigido naturalista tedesco, secondo le sue stesse parole, non aveva alcuna intenzione di essere trattato come uno scolaro a cui si correggono i compiti e fu così che si arrivò alla rottura del contratto e alla decisione di Cook di pubblicare la sua personale storia della spedizione. Il viaggio dei due Forster sarebbe stata una bella e indimenticabile esperienza, niente di più. Ma il giovane Georg aveva sempre collaborato con suo padre, aveva girato tutte quelle isole brulle e pietrose o fantastiche e cariche di piante e animali meravigliosi, aveva sempre cercato di dialogare con le popolazioni locali, aveva preso appunti e fatto disegni, raccolto semi sconosciuti e tantissimi indelebili ricordi. Quando vide suo padre deluso e indignato subì lui stesso quella situazione, ma decise di reagire a modo suo. Lavorò giorno e notte per otto mesi e alla fine riuscì a concludere il suo “Viaggio intorno al mondo”. Lo pubblicò sei settimane prima dell’uscita del libro di James Cook. Aveva solo ventidue anni. Il suo era un racconto dichiaratamente non ufficiale, era destinato alla gente comune, lui voleva raccontare il suo punto di vista in tutta libertà. Descrisse la grandezza di quel navigatore che aveva combattuto lo scorbuto facendo sempre mangiare agrumi e crauti ai suoi uomini, che aveva sempre preteso ferree regole igieniche a bordo. Georg voleva raccontare alla gente quanto fosse diverso e meraviglioso quel mondo che aveva avuto occasione di conoscere. Sorprendentemente, il suo libro gli valse una grande notorietà in tutta Europa e tuttora viene considerato come uno dei migliori esempi di letteratura di viaggio. “I miei lettori dovevano sapere di che colore era la lente attraverso cui guardavo. Per quel che mi riguarda essa non è mai stata né oscura né appannata. A tutti i popoli della terra ho testimoniato la mia buona volontà a pari titolo. Sono anche consapevole che con ogni singolo uomo io ho in comune vari diritti.”
Questo scriveva nella sua prefazione il giovane Georg Forster riuscendo poi a raccontare quell’incredibile viaggio con lo spirito del filosofo, dello scienziato e del romanziere. Le annotazioni sui diversi linguaggi e sui comportamenti sociali delle popolazioni del Pacifico, gli schizzi sulle specie vegetali, gli utensili, le armi e le piroghe sono degni di un grande naturalista. La descrizione dello stato d’animo e dello stato fisico dei marinai che, dopo 103 giorni di navigazione ininterrotta fra i ghiacci del circolo polare antartico, si trascinavano sui ponti delle navi come fantasmi non può non ricordare le magiche atmosfere di un grande romanziere come Edgar Allan Poe nel suo “Il racconto di Arthur Gordon Pym”.
Anche Louis Antoine de Boungainville scrisse il suo Voyage autour du monde dopo la sua circumnavigazione del globo e anche lui si portò dietro oltre all’astronomo e al disegnatore, anche il suo bravo naturalista, si chiamava Philibert Commerçon e fu lui che scoprì in Brasile un genere di piante che nominò Bougainvillea in onore del suo comandante, ma descrisse anche un particolare tipo di delfino dello stretto di Magellano che prese il suo nome, Cephalorhynchus Commersonii. Ma anche Commerçon fece una cosa molto particolare nel corso del suo viaggio, fece imbarcare come suo valletto e assistente personale un ragazzo che si chiamava Jean Baré, peccato che in realtà fosse Jeanne Barret, la sua compagna, che così divenne la prima donna a completare un giro del mondo, naturalmente la scoprirono gli indigeni di Tahiti, mentre a bordo non se n’era accorto nessuno.
Tutti quei viaggi furono in realtà percorsi che avevano degli obiettivi generali, ma poi, quasi sempre, seguivano anche altre linee dettate dal caso, dalla natura, dagli incontri degli uomini stessi o dal destino.
Forse non servirà “rinnegare il mondo intero per cercare più verità in un mondo nuovo“, come dice la Niña de los Peines nella sua Petenera, ma basterà vedere questo mondo con un occhio diverso perché, secondo René Magritte “Noi non vediamo che un solo lato delle cose. E’ proprio l’altro lato che io cerco di esprimere”. Questa frase ricorda molto i diversi gradi di lettura possibili nelle storie di Pratt e, prima fra tutte, la Ballata.
Allora, cercando di “vedere” in questa maniera due dei quadri di Magritte ci accorgeremo, forse, che in effetti le nostre capacità percettive possono davvero allargarsi.
“La reproduction interdite” e “Il principio del piacere” sono entrambi dei “semplici” ritratti di Edward James, un grande collezionista, un poeta, un sognatore, un ricco mecenate di tanti grandissimi pittori surrealisti. La caratteristica fondamentale di questi due quadri consiste nel fatto che non c’è il volto del protagonista. Lo sguardo del pittore nasce da un falso specchio che trascende quello che si vede. Nella “Reproduction interdite” lo specchio, posto di fronte al soggetto del ritratto riflette la stessa immagine dell’uomo visto di spalle, cioè il punto di vista dell’osservatore. Un’immagine che va oltre il possibile. Eppure, lo stesso specchio, riflette invece perfettamente la copertina di un libro posto accanto ad Edward James. Guardando con attenzione si scopre che si tratta del libro di E.A. Poe “Il racconto di Arthur Gordon Pym” che, in fondo, è un viaggio in un’altra dimensione.
Ne “Il principio del piacere” il volto di Edward James questa volta è sostituito da un’indefinita esplosione di luce, come se un flash fotografico avesse dissolto la realtà dei tratti di quel viso, ma questo lampo luminoso richiama in mente proprio la visione di Pratt e quella sua capacità di raccontare e far viaggiare ben oltre le immagini disegnate, perché c’è un mondo bellissimo compreso nell’indefinibile spazio fra la vista e la visione.
C’è il viaggio del lettore mentre legge.
To the friendly people of the Friendly Islands…
Marco Steiner
Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti.
(Charles Darwin 1809-1882)
A Paramaribo c’è un parco di palme, il Palmentuin, e un bel viale verde e ombroso prima di arrivare al forte olandese, oggi è diventato un museo, si chiama Fort Zeelandia Museum, si affaccia sulla costa del Suriname, il grande fiume marrone, un tempo difendeva con le sue batterie di cannoni l’entrata nella baia di Paramaribo. In una piazzetta, fra le vecchie case coloniali, ci sono una serie di barili di petrolio impilati uno sopra all’altro fino a formare dei totem alti 5 metri e con un diametro di 90 centimetri. I totem sono neri e lucidi, li hanno abbelliti con decorazioni di lettere e simboli in alluminio intagliato, sono segni e parole che vengono dalla lingua e dalla cultura Afaka.
La scrittura Afaka fu inventata all’inizio del XX° secolo da un uomo di una delle tribù maroon (una parola che viene dallo spagnolo cimarrón, cioè quelli che vivono in cima alle montagne) anche questa lingua, come l’Hakka dei cinesi, era una forma di difesa delle tribù locali per comunicare fra loro tramite una lingua segreta.
E’ stato Marcel Hendrick Pinas, un artista locale, ad avere l’idea e a realizzare l’installazione, si chiama Kibi Wi Totem, l’intento simbolico è quello di proteggere il Suriname dalle cattive influenze che provengono dall’esterno. Alcuni anni fa, nel 2006, all’epoca della creazione del progetto i totem erano 25 ed erano tutti lì, lungo il fiume e vicino al vecchio forte, l’antico simbolo della difesa, adesso alcuni sono stati spostati disponendoli anche in altre zone del paese, per cercare una pacifica catena di protezione da tutte le influenze esterne che possono provenire anche dagli altri confini.
Il messaggio é chiaro e semplice per tutti: la cultura indigena, la foresta pluviale, le riserve naturali del paese devono essere protetti tramite quei simboli totemici da tutti i diavoli esterni. Quei totem parlano nella lingua creata da chi ha sempre vissuto in quella terra ma sono fatti proprio con i materiali che hanno richiamato nel paese tanti colonizzatori esterni: barili di petrolio e alluminio.
Fuori dal Suriname, verso il nord, nel Mar dei Caraibi, in quella lunga manciata di isole disseminate fra il Sud America e le coste degli Stati Uniti, i barili di petrolio hanno avuto anche un altro impiego: hanno fatto ballare migliaia di persone al ritmo di calypso e reggae delle steelbands. I primi suonatori di steeldrums cominciarono a esercitare il loro innato senso del ritmo semplicemente picchiando con dei bastoni i bidoni di petrolio che rubavano in giro per le raffinerie. Uno di questi ragazzi si chiamava Winton “Spree” Simon, un giorno, Spree (che in inglese vuol dire baldoria) per non essere scoperto, iniziò a bruciare la parte esterna dei bidoni per far sparire la vernice che ne avrebbe svelato l’origine, facendo così si accorse che scaldando il metallo e provocandone degli avvallamenti si potevano ottenere dei suoni molto più dolci e talmente diversi fra loro da riuscire a riprodurre tutte le note musicali.
Oggi, a Trinidad e Tobago ci sono fabbriche specializzate nel realizzare i cosiddetti pan e i tuner, sono operai molto qualificati, in grado di accordate i vari strumenti alla perfezione prima di spedirli in giro per le isole e nel grande mondo delle steelbands.
Dai bastioni scuri di Fort Zeelandia si gode un bel panorama sul fiume, al piano terra hanno allestito la rappresentazione di una specie di farmacia coloniale con contenitori in ceramica decorata, alambicchi e vasi di vetro, dall’altro lato c’è un piccolo negozio di souvenir e un’esposizione di oggetti relativi alla storia del Suriname, ma al piano superiore, in una saletta appartata, c’è l’esposizione di riproduzioni delle opere di una pittrice ed entomologa molto importante, Maria Sibylla Merian (1647 Francoforte – 1717 Amsterdam), una donna davvero speciale che, nel 1699 arrivò qui con le sue due figlie. Si era pagata un viaggio di tre mesi in nave da sola e poi aveva affrontato i disagi del caldo, dell’umidità, della diffidenza degli uomini, per realizzare il suo sogno: osservare la natura e studiarne le trasformazioni.
Le “Metamorfosi degli insetti del Suriname” è il risultato della sua incredibile esperienza di vita, di studiosa e d’artista, 60 tavole di illustrazioni incise su rame. Un lavoro che viene definito dai naturalisti come “la più bella opera mai dipinta in America”.
I disegni, i colori e le composizioni sono perfetti, anche lo zar Pietro il Grande era un suo grande estimatore e collezionista e oggi le sue opere vengono esposte a Londra, New York e nei più grandi musei del mondo. La caratteristica e la particolarità di Sibylla Merian era l’originalità del suo punto di vista. Lei era affascinata dalla progressiva trasformazione del bruco in crisalide e dalla successiva evoluzione e liberazione, da questo amorfo contenitore, di meravigliose e coloratissime farfalle. Tutto questo tenendo conto che nella sua epoca gli insetti erano considerati bestie di Satana e le metamorfosi degli animali erano quasi sconosciute, tanto che si pensava che gli insetti nascessero attraverso una generazione spontanea derivata dalla putrefazione del fango.
Fra tutte le riproduzioni ce n’è una molto particolare, un caimano che afferra il collo di un serpente fra i denti mentre ne blocca la coda con una zampa posteriore e l’attorciglia con la sua stessa coda. Sembra di assistere a quella rapida scena di violenza proprio lì, nella saletta del museo. Il serpente ha una colorazione vistosa, fatta di anelli neri, gialli e arancio di varie dimensioni. Le scaglie della pelle del caimano sembrano in rilievo. Vicino al disegno, su un piedistallo di legno c’è un vaso di vetro con la dicitura: Reptilia Serpentes Boidae, Corallus enhydris.
E’ proprio lui, il serpente corallo che morde anche Corto Maltese in “Nonni e fiabe”.
Il terribile boa piomba sulle prede scivolando dagli alberi e le uccide inoculando con un morso il suo potente veleno neurotossico, ma Corto si spara sul braccio per scacciare il veleno, perché lui conosce quella natura. I caribi, gli aurachi, gli africani che aiutarono Maria Sibylla Merian a inoltrarsi nelle foreste, a navigare fra i fiumi, per raccogliere semi, foglie, fiori e bruchi, sapevano che anche quella strana donna bianca voleva conoscere meglio i segreti della foresta, era diventata quasi una di loro e lei li chiamava “i miei indiani”, non li chiamava selvaggi.
Cosa c’è di più preciso e descrittivo di un disegno naturalistico del 1700? Eppure le tavole realizzate dalla Merian non sono solo attenti studi scientifici dei fenomeni naturali, anche loro sono vere e proprie Suite, sintesi e racconti che vanno oltre le tavole e ci parlano della natura di questi luoghi e regalano personalissime osservazioni dell’evoluzione e dei cambiamenti che sono il mistero e la vera forza rigenerante della natura.
Ciò che per la crisalide è la fine del mondo,
il mondo chiama farfalla.
(Lao Tze)
Marco Steiner
Il mercante di sale
Il mio nome è Ibrahim.
Sono un mercante di sale.
Lavoro al lago Assal. Due ore di autobus dalle false luci di Djibouti o due giorni di cammello. Ormai è una strada impossibile, per me.
Io resto fra le pietre e le sculture di sale.
È bello svegliarsi al mattino, la striscia bianca del lago si tinge di rosa, poi arriva il turchese.
Lo guardo per ore, mentre scaldo l’acqua del thè.
Ho venticinque anni, ma la mia faccia ne ha molti di più.
I miei occhi sono diventati due fessure sottili, come le righe sul lago.
Tre anni fa ero forte e veloce. “Ibrahim la gazzella”, mi chiamavano così, ero un mercante diverso, andavo e venivo dalla Somalia, conoscevo tutte le piste segrete, portavo ogni cosa.
Poi un proiettile mi spaccò una gamba e rimasi là, inchiodato alla roccia.
La notte scendeva e il sangue continuava a scorrere, si allontanava da me, s’infilava fra le pietre.
Riuscii a strappare una striscia di camicia, la strinsi forte sulla coscia e mi lasciai andare, potevo soltanto seguire il destino.
Mi ritrovai qui. Sul lago Assal, e tutto quel bianco mi ferì gli occhi.
Pensai d’essere arrivato in paradiso.
Ero debole e le luci bianche mi accecavano come spine appuntite.
Una donna mi versò l’acqua e mi guardò con due carboni pieni d’amore e compassione.
Ibrahim la gazzella se n’era andato per sempre.
Io me ne stavo sdraiato e la gente passava. Passava e spariva.
Una carovana di cammelli arrivava al tramonto e all’alba era nulla, però mi avevano salvato. Io li aspettavo e loro tornavano sempre.
Gli uomini caricavano, scaricavano il sale. Le donne cucinavano, sbattevano i panni. I bambini gridavano, correvano, piangevano. I cammelli masticavano erba secca.
E Ibrahim, lo storpio, se ne stava lì, a guardare la vita e il lago di luce.
Un giorno un bambino, Ismael, mi portò un regalo, il più bello del mondo.
Una stampella, l’aveva costruita da solo.
Era fatta di legno, di corda e di stracci intrecciati.
C’era scritto il mio nome. Il mio vecchio nome: “Ibrahim la gazzella”.
Mi appoggiai.
E mi alzai.
Il lago era ancora più bello.
Visto da lassù.
Marco Steiner
Lo specchio della verità
“Il Sole ne è padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice.
Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura”.
(Ermete Trismegisto, Tabula Smeragdina. Corpus Hermeticum. Bompiani. Il pensiero Occidentale/Filosofia. 2005)
Istanbul. Quartiere di Sultanahmet. Autunno. Una mattina di sole. Negozio elegante di antiquariato. Ufficio sul retro. La scrivania è ingombra di monete antiche suddivise in mucchietti. L’uomo seduto è in parte coperto dallo schermo piatto di un computer, ha una camicia bianca e un foulard verde al collo, capelli lunghi e disordinati, sta catalogando le monete usando una grossa lente d’ingrandimento dal manico in avorio. In primo piano una bilancia di precisione.
Dopo un’ora il signor Khaftaj lascia il suo ufficio ed entra nel negozio. E un mercoledì mattina di ottobre e Istanbul è inondata di sole.
Jusuf infilò la busta nella tasca della giacca e andò a casa. Chiuse la porta a chiave, si sedette in poltrona e aprì la busta elegante.
Conteneva soltanto un biglietto da visita.
“Cristoforo Cybo. Erede di santi e di navigatori”.
Poi aggiunto a penna con una calligrafia elegante e perfetta: “Sono venuto in possesso di un testo raro di Ermete Trismegisto, edizione Turnèbe, anno 1554 che troverebbe opportuna collocazione nelle vostre mani in cambio della parte “scomparsa” della mappa di Piri Reis che ci risulta attualmente in Vostro possesso”.
Josuf compose immediatamente un numero sul suo cellulare.
Josuf incrociò le gambe e si sedette sul morbido tappeto. Accese un piccolo braciere e iniziò a pregare. Dopo mezz’ora si alzò, versò dei grani di povere sul braciere incandescente e inspirò lungamente quel fumo, poi incrociò le braccia davanti al petto e si toccò le spalle abbassando la testa.
Iniziò a girare, a girare ancora e poi, lentamente, aprì le braccia e le mani continuando a girare, la destra in alto, la sinistra in basso, fino a quando la stanza scomparve e lui vagò nello spazio infinito, sopra le moschee ed il cielo, si sciolse nelle particelle sottili e poi volò via dissolvendosi come fumo nel vento.
Quando tornò a terra si distese sul letto e dormì a lungo.
Il negozio antiquario di Jusuf Khaftaj non era lontano dalla Moschea Blu e da Aya Sofya, la Santa Sapienza dei Greci. I turisti seguivano le guide e continuavano a scattare immagini che sarebbero rimaste per qualche altro giorno sugli schermi digitali delle loro macchinette fotografiche perfette. Ekrem preparò un’eccellente spremuta di melagrana per il signor Khaftaj scegliendo quattro fra i frutti più sodi e maturi. Poi Jusuf Khaftaj entrò nell’imponente moschea e salì le rampe di scale che lo portarono alle gallerie del piano superiore, buttò uno sguardo alle imponenti e leggerissime volte, ai segni delle croci strappate e passò davanti alla tomba del doge Enrico Dandolo. Si fermò e fece una smorfia pensando a quel povero vecchio cieco arrivato con le sue galee veneziane fin lì per morire ed essere sepolto a Costantinopoli a 98 anni e poi perdere le ossa, disseppellite e date in pasto ai cani dalle orde di Mehmed II un quarto di secolo dopo. Sulla scrivania aveva lasciato due Grossi Matapàn d’argento, ma soltanto uno era perfetto, l’altro aveva una grossa scalfittura proprio sui volti del doge e di San Marco.
Mancava poco all’appuntamento. Un striscia di luce dorata s’infilava da una delle finestre che inquadravano le punte aguzze dei minareti e illuminava perfettamente il muretto di marmo sul quale era stato inciso, forse dai Templari, quel misterioso simbolo di tre quadrati concentrici che stavano a indicare la particolare sacralità energetica del luogo.
In quel preciso momento, Jusuf fu percorso da un brivido e da uno stato di allerta generale. Il cacciatore si sentì preda. Si allontanò dal luogo e girò dalla parte opposta della moschea. Da quel lato poteva osservare perfettamente il luogo dell’appuntamento e la lama di luce che lo stava illuminando. Dopo pochi istanti vide l’uomo e rimase pietrificato. Era come se si fosse guardato allo specchio, oppure attraverso una finestra invisibile sospesa al centro della moschea.
L’uomo che doveva incontrare era identico a lui. Si guardò intorno come se la gente si fosse potuta accorgere della presenza del suo doppio. Per istinto e per fortuna aveva scelto il lato giusto della galleria, l’uscita era da quel lato, s’avviò verso la scala con passo deciso.
Scomparve e non si guardò mai più indietro.
Marco Steiner
le foto sono di ©Marco D’Anna