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Un itinerario in Colombia

Un itinerario in Colombia

Un itinerario in Colombia

Marco Steiner

“Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco”
Josef Koudelka

Questo non è un resoconto di viaggio e nemmeno un itinerario ideale, queste cose le fanno bene le agenzie e le guide turistiche che sono modulate per capire tutte le esigenze ed esaudire ogni richiesta.

Nelle guide si possono trovare le informazioni sui luoghi e le distanze, i consigli per alberghi e ristoranti, i prezzi, le caratteristiche di tante cose, ma sono tutti elementi che devono essere continuamente aggiornati per essere utili, perché le informazioni siano precise.

Questa è soltanto una storia, o forse un insieme di storie diverse che vorrei provare a raccontare dopo un mio viaggio in una zona abbastanza limitata della Colombia, la zona nord-occidentale, un luogo che mi ha profondamente colpito perché è quasi un Altrove ed è sicuramente una fragile terra di confine fra sogno e realtà, fra durezza e splendore ed è anche un esempio di come le cose con il tempo possono cambiare, a volte in peggio, altre volte per fortuna in meglio.

Non mi è mai piaciuto cercare di conoscere un paese intero in un unico viaggio perché serve tempo, a volte serve anche perdere tempo, per sentire un luogo, per respirarne l’atmosfera per sentirsi per un po’ parte di quel mondo.

Ho scelto un itinerario che non prevedesse spostamenti in aereo perché mi piace camminare o spostarmi in macchina.

Tutto è iniziato da Cartagena de Indias e già il nome riporta a un certo passato di viaggi leggendari, di ritmi caraibici e di storie di navigatori e commercianti di schiavi e perché da qui si possono raggiungere comodamente due destinazioni dalle caratteristiche completamente opposte: le montagne delle Sierra Nevada di Santa Marta per l’escursione alla Ciudad Perdida e più a nord la zona selvaggia e desertica della Guajira, una penisola battuta dal vento, un non-luogo che confina con il Venezuela e i cui deserti e lagune salate s’infilano profondamente nel Mar dei Caraibi come la prua di un immenso veliero.

In entrambe le zone la caratteristica fondamentale è che la gestione del turismo in questi territori, almeno in questo momento, è affidata alle popolazioni locali.

Le montagne, le foreste, le pietre antiche e i fiumi che le attraversano sono il mondo del popolo Tayrona; le lagune, le coste caraibiche dell’estremo nord del Sudamerica e i deserti appartengono al popolo Wayuu.

Il mio non sarà un racconto lineare perché le sensazioni che ho provato sono come le nuvole che racconta Fabrizio de André:

Vengono
vanno
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte e si mettono lì
tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia…”

La Ciudad Perdida

Tutto inizia da Santa Marta con un vecchio 4×4 rosso che ci porta fino al villaggio di El Mamey, come il nome degli alberi che circondano il luogo, una splendida magnolia che regala frutti rotondi che qui chiamano Zapote, cioè “frutto dolce”, ma molti questo posto lo chiamano anche Machete perché c’è stato un triste periodo dove molte discussioni si concludevano a colpi di lama di machete, uno strumento che tutti portano legato al fianco.

Da Machete alla cima della Ciudad Perdida ci sono circa 60 chilometri di sentieri, continue salite e discese fra canaloni di argilla rossa oppure sabbia bianca e polverosa, attraversamenti di fiumi più o meno impetuosi e percorsi nel fitto di foreste umide popolate da voraci zanzare. Ci vogliono 4 o 5 giorni in totale e lungo la strada ci sono diversi accampamenti con tettoie che proteggono file di comode amache oppure una serie di letti allineati e protetti dalle zanzariere. Si mangia in maniera semplice, ma bene, in maniera genuina, ci sono i servizi igienici e la sera, almeno per un po’ di ore c’è perfino l’elettricità, per quanto riguarda la copertura telefonica non se ne parla nemmeno. Si parte e ci si allontana progressivamente e sempre più profondamente dal mondo da cui provenivamo.

Passo dopo passo ci si stacca da tutto, con lentezza.

La Ciudad Perdida si raggiunge come una meta fortemente sognata e forse per questo potrebbe diventare una delusione, ma non è così, lassù in cima il panorama è un sogno, soprattutto al mattino presto, quando il sole inizia a illuminare i terrazzamenti di pietra e i colori diventano diversi, macchie di fitta vegetazione e tappeti d’erba si colorano di ogni sfumatura di verde e il silenzio ricopre ogni cosa di pace. È inutile aspettarsi torri o strutture di pietra, ci sono solo terrazzamenti, ma si sente il ricordo di una magia che la natura ha protetto e che adesso si lascia respirare.

Non serve che racconti la storia di questo luogo archeologicamente importante, dico soltanto che, come spesso accade, questa città sacra venne scoperta per caso dai guaqueros, cioè i tombaroli che cominciarono a scavare al centro di una serie di cerchi di pietre che avevano ritrovato in mezzo alla giungla più fitta. Quei cerchi erano le basi sulle quali i Tayrona, fra l’XI° e il XIV° secolo, avevano costruito le loro capanne di legno e foglie e dove, proprio al centro, seppellivano insieme ai resti dei loro antenati anche il cibo, gli oggetti e i tesori che servivano per il viaggio verso l’Oltremondo.

Uno dei primi tombaroli aveva un bel nome letterario: Florentino Sepúlveda e  diede a quel luogo un nome che raccontava tutte le sue sensazioni, El Infierno Verde.

Florentino insieme ai suoi due figli, César e Jacobo dopo un terribile viaggio fra pietre scivolose, foreste impenetrabili, serpenti, fango, pioggia, salite durissime e giorni e notti di accampamenti di fortuna si ritrovò su quelle pietre antiche in mezzo alle montagne e in quei buchi iniziò a trovare ciotole di ceramica, anfore, ma anche monili e maschere d’oro, erano gli anni ’70 del 1900 e da quel momento in poi iniziò tutto quello che accade quando si ritrova qualcosa di prezioso: scavi, distruzioni, rivalità, spedizioni agguerrite, furti e spargimenti di sangue fino a quando il governo non decise di proteggere, almeno in parte, la città sacra del popolo Tayrona.

Il resto fa parte della storia della Colombia perché la Sierra Nevada di Santa Marta e quindi tutto l’attuale percorso per salire da Machete alla Ciudad Perdida vide l’inizio del disboscamento degli alberi secolari compiuto negli anni ’50 dai campesiños per vendere a valle il legno necessario per costruire le case dei ricchi. Era molto più redditizio vendere legno che coltivare caffè e cioccolata. In seguito, negli anni ‘60/’70, in quei vasti spazi disboscati iniziò la coltivazione sempre più massiccia della marijuana, sostituita in seguito dalla coca che un tempo le popolazioni locali coltivavano a puro scopo religioso, per arrivare alla conoscenza.

Insomma, con tutti i soldi che giravano, i tesori della Ciudad Perdida non facevano più gola a nessuno, né ai narcotrafficanti né alle truppe paramilitari, né ai guerriglieri rivoluzionari e perfino per i tombaroli quelle zone erano diventate troppe pericolose.

Oggi dopo anni di lavori di sistemazione, studio e protezione dei circa 170 terrazzamenti e delle scalinate che salgono con gli ultimi ripidi 1200 gradini fino alla cima della Ciudad e dopo il processo di pacificazione fra il governo colombiano e i guerriglieri delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucianarias de Colombia) un esercito capitanato anche da un certo Manuel Marulanda soprannominato Tirofijo per la sua mira precisa che mi ricorda, forse non a caso un altro Tiro Fisso, il personaggio ribelle delle storie di Corto Maltese.

Ma da quelle parti c’erano anche i guerriglieri marxisti dell’ELN (Ejército de Liberacion Nacional) e quelli dell’M-19 (Movimiento 19 de Abril) e, come se non bastasse c’erano vari gruppi paramilitari come le AUC (Autodenfensas Unidas de Colombia) creati dai proprietari terrieri per combattere i ribelli.

Oggi qui è tutto molto tranquillo e sicuro, ma arrivare lassù è come raggiungere un luogo quasi impossibile fra passi in salita e pensieri che ci vengono continuamente a trovare. Si fa fatica, si stringono i denti e passo dopo passo, panorama mozzafiato dopo salite solitarie, sole cocente, polvere e sudore si arriva in cima e finalmente ci si guarda intorno, il respiro si regolarizza e si resta in silenzio, ci si sente soddisfatti e ritornano in mente tutte le storie che la guida ha raccontato lentamente, goccia a goccia, fino al momento in cui arriviamo lassù, e a quel punto serve solo il silenzio totale.

Yeison è il nome della guida che mi ha accompagnato fino alla Ciudad Perdida, fa parte di un gruppo, si chiamano Baquianos, significa “esperti” e questo nome non potrebbe essere più giusto perché sono tutti ragazzi nati fra queste montagne, vengono dalle stesse famiglie di campesiños che avevano tagliato gli alberi, che poi hanno coltivato la marijuana e poi la coca, che hanno visto ammazzare amici e parenti a volte dai guerriglieri dell’ELN e altre dai paramilitari delle AUC pagate dai narcotrafficanti, sono ragazzi che possiedono ancora le terre sui fianchi di quelle meravigliose montagne e le loro famiglie vivono lì, anche loro portano sempre un affilato machete legato al fianco, ma lo usano per tagliare un ramo che potrebbe ferire qualcuno.

Questi ragazzi si muovono in armonia con la natura, basta mettere i piedi esattamente dove hanno appoggiato i loro per salire con maggiore facilità e sentirsi quasi esperti, basta vedere i saluti e i sorrisi che si scambiano fra loro quando s’incontrano in salita o in discesa, o ascoltarli parlare nella lingua dei Kogui, una delle etnie Tayrona, quella più legata alla fede animista, quella più spiccatamente spirituale quella che ha conservato il maggior distacco dalla civiltà moderna e dagli allettamenti del danaro.

Le capanne dove oggi abitano i Kogui sono esattamente come quelle che i popoli ancestrali avevano costruito lassù, c’è la stessa base di pietre, sono circolari e costruite con legno e fango solidificato, hanno il tetto di paglia annerito dal fumo che arde costantemente al centro della capanna e il fuoco li riscalda nel freddo della notte, il fumo allontana gli insetti, nessuno di loro vive a Teyruna, il nome che i Kogui danno alla Ciudad Perdida, ma loro continuano ad essere i guardiani di quei luoghi sacri e adesso sono contenti perché nessuno ha più intenzione di scavare fra le loro pietre, né i tombaroli e nemmeno gli archeologi, ormai hanno tutti raggiunto un compromesso, quello che è stato rubato è perso, quello che è arrivato nei musei di Bogotà o di Santa Marta resterà lì a futura memoria, ma quello che è rimasto sotto alle pietre sacre continuerà a mantenere il loro legame ancestrale con gli antenati e con la Madre Natura.

Yeison riesce a parlare nella sua lingua con il Mamo, il saggio, lo sciamano dei Kogui, l’uomo che è in contatto con le forze della natura, quello che saprà scegliere il ragazzino che dovrà sostituirlo, quello a cui insegnerà a meditare e mantenere l’ordine naturale del mondo attraverso canti e offerte perché il suo compito sarà sempre quello di ripristinare l’armonia fra uomini e natura comprendendone i messaggi.

Il Mamo si chiama Lùmaco è vestito con una tunica bianca di tela grezza naturale, ha un cappello conico di filo dello stesso colore, ha la guancia destra rigonfia per il bolo di foglie di coca e polvere di conchiglia che tutti i Kogui tengono in bocca e continuano a masticare per non sentire la fame, per spingere oltre la spiritualità e per camminare senza fatica su quelle aspre montagne.

Il Mamo mi regala un sottile braccialetto di filo con cinque minuscole perline di vari colori: azzurro, verde, celeste e rosa, è una specie di talismano, mi dice, sarà una protezione da parte del cielo, delle nuvole, del mare e della terra.

La discesa è lunga e difficile come l’andata ma dopo aver raggiunto la meta tutto diventa psicologicamente più accettabile, quello che cambia al ritorno è il nostro maggiore distacco dal resto delle cose, dai pensieri che sono rimasti alle spalle, adesso è tutto diverso “da prima”, ci si sente leggeri, non abbiamo soltanto raggiunto una meta, stiamo vivendo un dopo.

Prima di partire avevo dei dubbi sulla mia tenuta, normalmente cammino molto, sono stato sportivo, ma passo lunghe ore seduto davanti a un computer per scrivere e non sono certamente allenato per trekking di questa portata, invece sono arrivato senza problemi, magari con qualche sosta in più per guardare il paesaggio o per godermi la situazione.

La montagna insegna questo: bisogna continuare, resistere, trovando il proprio ritmo, senza fretta di arrivare, lasciando a valle i pesi inutili, tutti, anche i pensieri.

La montagna insegna a restare da soli.

Yeison non è soltanto una guida che conosce i sentieri, lui conosce quello che ci vive intorno e i ricordi che sono rimasti infilati in mezzo alle foglie e alle pietre. Mi racconta che adesso in questa parte della Colombia tutti vivono grazie a questo tipo di turismo ecosostenibile, le agenzie affidano i turisti ai Baquianos, i popoli locali si occupano di allestire gli accampamenti ed effettuare i trasporti dei materiali con i muli, qui s’incontrano tutte le etnie Tayrona: Wiwa, Arhuakos, Arzario e i Kogui che salgono lungo i sentieri con i loro carichi di vettovaglie, acqua e il resto dei materiali necessari per far vivere gli accampamenti e poi scendono con i sacchi di rifiuti, la plastica delle bottigliette d’acqua, le bombole del gas vuote, la biancheria da lavare.

I campesiños per un po’ ci hanno provato, volevano ricominciare a coltivare il caffè e la cioccolata, ma dopo anni di trattamenti chimici intensivi per favorire ricchi e continui raccolti di piante di coca anche il terreno si era impoverito, svuotato, la madre terra si era stancata o forse ribellata. Forse la filosofia del popolo Kogui e il silenzio rispettoso di un Mamo, ha fatto capire a qualcuno che serviva tempo per ricominciare, che bisognava ritrovare l’equilibrio necessario fra uomo e natura, adesso anche i campesiños si dividono fra servizi al turismo e all’agricoltura, qualcuno vende sacchetti di deliziosi grani di cioccolata biologica da sbucciare, altri aspettano i turisti con la frutta fresca o con spremute d’arancia dolcissime.

Spero che questa situazione duri molto a lungo, dopo le guerre politiche, dopo i furti, dopo le guerre per la droga, dopo tanto sangue adesso qui si respira la pace e ci si sente fuori dal tempo, è una sensazione rara e preziosa e poi, nel mese di settembre, tutto si blocca, nessun turista può salire alla Ciudad Perdida, quel luogo sacro ritorna ai Tayrona che arrivano dalle montagne più alte, dalle foreste più lontane e si riuniscono nel loro luogo dello spirito, per assorbirne e restituirne la sacralità e noi riusciamo a capire che per il resto dell’anno ci hanno fatto un dono: quello di consentirci di respirare quell’essenza dopo aver camminato, faticato, dopo aver imparato a eliminare i bagagli inutili.

 

La Guajira

Bassa, Media e Alta, sono le tre regioni della Guajira e sono molto diverse fra loro. La Bassa è quella verde, la stessa terra fertile che scende dalla Sierra Nevada e si allunga con le piantagioni di banane e palme fino alle pigre spiagge caraibiche di Palomino, ai villaggi che si affacciano ingombrando la strada principale con una serie infinita di chioschi carichi di frutta e di banchetti colorati dove si cuociono grigliate di chorizo o gamberoni e dove basta aprire il finestrino per essere invasi da decine di ritmi diversi sparati dalle grosse casse acustiche di ogni rivenditore.

La Media Guajira è quella che si stende intorno alla città principale, Riohacha, la città dei confini, il porto dove confluisce la strada costiera che arriva da Cartagena e da Barranquilla e quella che collega la Colombia con Maracaibo e il resto del tormentato Venezuela con le sue schiere di migranti in cerca di un possibile futuro per sopravvivere.

A Riohacha si dorme affacciati davanti alle lunghe spiagge certe volte dorate altre volte desolate mentre le palme frusciano continuamente piegate dal vento. Da qui si parte per la terra dei Wayuu, un territorio che è un mondo a parte, la desertica alta Guajira. Basta guardarla su una mappa, è gialla e vuota, è la prua di un’immensa barca a vela che si protende nel mare.

Ho dormito poco a Riohacha perché quella notte ho sentito una specie di richiamo e mi sono svegliato. Ho pensato fossero stati i sogni, non uno soltanto, una serie di brevi sogni, tutti strani e intrecciati fra loro, sogni che non lasciavano ricordi precisi ma confondevano presente e passato. Alla fine, dopo aver fissato a lungo il soffitto e le pale del ventilatore che continuavano a girare lente non era rimasto alcun ricordo, soltanto una sensazione di vuoto, un’attesa. Con le prime luci dell’alba dalla finestra è penetrato l’odore umido e salmastro della sabbia risvegliata dal sole, ma anche quello della polvere lontana e in quel momento ho capito, quel risveglio lento era un’esigenza di distacco, era una pausa dilatata e intrisa di vuoto, di occhi aperti che non hanno nulla da vedere, di pensieri liberi di vagare e confondersi. Era l’attesa che precede l’incontro.

Ivan è la nostra guida locale, arriva puntuale, ha un sorriso leggero e gentile, occhi, capelli e carnagione scuri, jeans e camicia bianca. La sua imponente Toyota non è nuovissima ma robusta, ben tenuta, è di quelle solide che piacciono a me. Partiamo senza troppe parole e con una musica bassa di sottofondo, tanto per guardarci in giro senza sentire il bisogno di conversare. Dopo aver lasciato la strada principale, dopo aver lasciato le palme piegate, il verde e il blu scuro del mare, dopo il progressivo diradarsi di case e macchine ci ritroviamo in un paesaggio semidesertico, potrebbe essere una savana africana punteggiata di alberi e cespugli bassi e contorti, in fondo all’orizzonte s’intravede una leggera vibrazione, una striscia d’azzurro chiaro, quasi bianco, sobbalza accompagnando le sospensioni della jeep e mentre quel riverbero si avvicina mi ritrovo trasportato in un altro luogo.

Sono davanti alle saline di Manaure, nel nord della Colombia eppure sono tornato indietro nel tempo e in un altro mondo. Forse è colpa della luce abbagliante, è come se fossi nella regione degli Afar, a Gibuti e davanti a me si estende l’immensa superficie bianca e celeste del lago Assal, un mare di sale.

La visione è diversa, l’incanto è lo stesso.

Il miraggio continua a vibrare davanti agli occhi socchiusi.

Era il 2003 e in quell’occasione avevo conosciuto per la prima volta Marco D’Anna, il fotografo che sarebbe diventato il mio compagno di tanti viaggi lungo gli itinerari di Corto Maltese. Anche allora, come in questo momento ero rimasto rapito dalla cruda bellezza del paesaggio, attratto e affascinato dal vuoto vibrante circondato dal giallo del deserto, mi ero perso in quel nulla carico di suggestioni.

Ricordo che sono risalito sul pulmino parcheggiato accanto al mare di sale perché sentivo il bisogno di scrivere qualcosa.

Senza accorgermi della sua presenza mi ritrovai Marco D’Anna seduto al fianco.

–       Che stai scrivendo?

–       Una specie di storia.

–       Hai voglia di leggermela?

–       È solo qualcosa che mi è venuto in mente.

–       Come s’intitola?

–       Il mercante di sale.

Da quel giorno e per quattordici anni ho scritto tante storie e il primo a leggerle è sempre stato lui, appena scritte, lungo la strada.

Forse la salina di Manaure in Colombia mi stava aspettando per raccontami che oltre alle cose vere, oltre a quello che si vede nel corso di qualunque viaggio c’è l’incanto che può raccontare un determinato luogo, qualcosa che riesce a portarti più lontano di una macchina o di un aereo. Forse i miei occhi di allora avevano visto lo stesso vuoto e lo spazio si era dilatato per regalarmi quel tempo impreciso, il tempo per infilarci dentro altri viaggi, per raccogliere un insieme di sensazioni impalpabili e non logiche, perché la strada si cerca, ma la strada a volte ci aspetta per aiutarci a cogliere qualcosa in più, qualcosa di non spiegabile.

L’importante è continuare a muoversi e andare senza troppo sapere, senza troppo aspettare.

Il vento portava e allontanava nuvole, polvere, cristalli di sale, profumo di terra lontana, di mare carico di distanze e di pensieri confusi.

E la luce implacabile del sole filtrata dalle nuvole pennellava repentini cambi di colore, l’acqua diventava viola, tornava celeste oppure brillava d’argento e i confini sparivano, tutti i confini. E tutto sembrava possibile.

In quel momento si è avvicinato un uomo, aveva la faccia segnata dal tempo, dal sole e da un’antica fatica, aveva scarpe consumate e in mano impugnava un rastrello arrugginito.

Eravamo affacciati davanti a un’immensa aiuola di sale, in superficie c’era solo un velo d’acqua limpida rigata dalla brezza calda.

–       È il tuo sale?

Un cenno affermativo.

–       Sembra quasi pronto.

Ivan gli parlava in lingua Wayuunaki, una lingua diversa da quella degli indigeni Kogui della Sierra Nevada.

–       Sì.

L’uomo aveva lo sguardo soddisfatto.

–       Quanto vale?

–       Circa 70000 pesos per una tonnellata.

Ha risposto sorridendo.

Settantamila pesos colombiani equivalgono più o meno a venti euro, scarsi.

I Wayuu sono circa 500.000, un terzo di loro vive in questa zona della Colombia e in particolare nell’Alta Guajira, gli altri sono dislocati in Venezuela intorno al lago di Maracaibo o sulle coste caraibiche, ma questo popolo non ha mai riconosciuto i confini fra i due paesi, loro continuano da sempre a spostarsi e a migrare fra i due paesi incuranti delle regole e delle bandiere perché rispondono soltanto a una serie di codici non scritti che regolano la loro convivenza e che in qualche modo Colombia e Venezuela hanno dovuto accettare.

I Wayuu sono sempre stati un popolo orgoglioso e guerriero e, anche grazie alle caratteristiche del loro territorio arido e inospitale, non sono mai stati conquistati né soggiogati da nessuno, né dai colonizzatori spagnoli, né dai pirati inglesi o dai contrabbandieri di varie nazionalità, anzi hanno spesso approfittato dei traffici e commerci che attraversavano continuamente i loro territori per allearsi con i vari trafficanti, per sopravvivere e combattere, ma soprattutto per conservare la loro libertà e indipendenza totale.

I pacifici e spirituali fratelli Tayrona hanno da sempre protetto le foreste e le montagne della Sierra Nevada, nella stessa maniera gli indios Wayuu hanno difeso queste distese desertiche e ricchissime di biodiversità.

Storicamente c’è sempre stato un intenso scambio fra le popolazioni indigene del nord e del sud, i popoli delle montagne avevano bisogno, oltre che del pesce e del sale, anche delle conchiglie perché con i gusci triturati finemente formano tradizionalmente una polvere che essendo altamente alcalina reagisce con le foglie di coca che i Tayrona tengono sempre in bocca e continuano a masticare. L’unione delle sostanze basiche con quelle alcaline delle conchiglie favorisce il rilascio dei principi attivi delle foglie di coca e i Tayrona riescono a camminare per ore lungo i sentieri impervi delle loro montagne senza provare fame e stanchezza. I Wayuu in cambio delle conchiglie, del pesce e del sale ricevevano da loro le foglie di coca, il legno o la frutta.

Purtroppo nel corso degli anni gli scambi sono avvenuti non soltanto per esigenze alimentari o per le abitudini religiose e così i narcotrafficanti hanno approfittato delle correnti di scambio che avvenivano in queste terre senza confini per far partire dalle coste caraibiche della Guajira ingenti carichi prima di marijuana e poi di cocaina, ma i Wayuu pur avendo pagato un alto prezzo in vite umane hanno saputo conservare ancora oggi l’indipendenza anche da quel tipo di mondo. Il denaro facile è passato da qui e si è portato dietro violenza, soprusi e l’alterazione di un equilibrio che da queste parti non può essere accettato, ma anche quello, come il vento, è passato.

Le regole fondamentali della convivenza del popolo Wayuu sono sempre state dettate storicamente da un uomo, un saggio scelto con cura da tutta la popolazione che tradizionalmente si divide in grandi clan familiari.

Quest’uomo in lingua Wayuu si chiama Putchipuü e in spagnolo si traduce con Palabrero, l’uomo della parola.

Il punto fondamentale che regge l’armonia e la giustizia di questo popolo è proprio la Parola. Attraverso la parola si tramandano le regole di questa società matrilineare, una società in cui le donne sono sacre e amministrano le grandi famiglie mentre gli uomini si occupano di pascolare capre e vacche o di pescare. Quando sopravvengono dispute, discordie, ingiustizie, gelosie, tradimenti o scontri d’affari interviene il Palabrero che ascolta tutte le ragioni per cercare di riportare l’intesa con la sua saggezza ed esperienza, quando questo non riesce, il Palabrero stabilisce un accordo, un rimborso o la giusta pena e a quel punto la sua parola diventa legge indiscutibile che tutti s’impegnano a rispettare.

Dopo le saline di Manure ci si addentra all’interno del deserto per raggiungere Uribia, la capitale indigena della Colombia, l’ultimo “porto” nel nulla prima di affrontare il vuoto del deserto. Qui si trova quello che serve per proseguire nel viaggio: benzina, gomme di scorta, bottiglie d’acqua fresca e cibo per affrontare le piste della Guajira più selvaggia, quelle che portano fino al Cabo de la Vela e a Punta Gallinas, al faro più settentrionale di tutto il Sudamerica.

Da Uribia inizia un vero viaggio.

La strada spesso è soltanto una vaga serie di solchi appena accennati, oppure si percorre il letto di un fiume prosciugato o s’insegue un’incerta linea polverosa che taglia in due un’immensa e vuota spianata.

Sembra di essere in Africa, altre volte sembra di viaggiare verso la fine del mondo e proprio qui, in mezzo al nulla, a poca distanza da un minuscolo gruppo di malconce capanne di legno, fango e fibre di cactus iniziano i primi pedaggi della miseria e dell’orgoglio.

Lungo la pista di sabbia, sassi o argilla, un gruppo di ragazzini tende fra due pali storti una corda colorata, uno spago, raramente una catenella e obbligano tutte le macchine a fermarsi, ormai è diventato il loro gioco, una consuetudine, quel “casello” è un tributo dovuto per passare attraverso il loro territorio.

Quello che è interessante sono le reazioni reciproche fra gli autisti e quei ragazzini.

Ivan è un uomo gentile, si capisce da come guarda, da come parla, da come si muove, da come guida. A Uribia, senza dire niente aveva comprato qualcosa, era in un sacco che aveva infilato sotto al suo sedile.

A ogni pedaggio, Ivan si ferma a pochi passi dalla corda, abbassa il finestrino, sorride, infila la mano nel sacco e porge qualcosa: un pezzo di pane, una galletta al formaggio, una banana o una bottiglietta d’acqua.

Questi ragazzini non chiedono l’elemosina, non vogliono denaro, chiedono quello che manca, acqua o cibo e gli autisti con un tacito accordo contribuiscono al “gioco” e non danno nulla che sia avvolto nella plastica perché volerebbe nel deserto, niente di dolce perché alla lunga distruggerebbe i denti di quei bambini che non hanno acqua per lavarseli e non danno denaro che li indurrebbe a continuare lungo quella strada sbagliata, anzi spesso chiedono se hanno qualcosa da vendere e acquistano braccialetti colorati o mochilas (zainetti intessuti di fili colorati) caratteristici manufatti delle donne Wayuu.

Ma lungo quel percorso interrotto anche il pane e il resto del cibo finisce e allora ecco quello che vale la pena raccontare: Ivan si ferma, non abbassa il finestrino, sorride e fa un gesto con l’indice, lo ruota su se stesso come per dire “Domani, oppure la prossima volta”, i bambini si guardano fra loro, lo fissano negli occhi, lui alza il pollice e loro abbassano la corda. Si sono capiti, senza insistenza, senza rancore, senza stizza, perché loro sono poveri, ma sono Wayuu e conoscono il valore della parola.

Solo una volta assistiamo a qualcosa di diverso, davanti a noi c’è una grossa Toyota nera, una macchina nuovissima, l’autista è molto giovane, ha una maglietta verde sgargiante e la faccia dura del gradasso, a bordo con lui ci sono quattro ragazzi con i berretti calcati in testa e grossi occhiali scuri, ascoltano musica a tutto volume e bevono birra. Li avevamo notati perché in una lunga distesa in pieno deserto la loro macchina era partita a tutta velocità per ricoprire di polvere una alla volta le altre macchine che procedevano veloci, ma mantenevano le giuste distanze fra loro per vedere la pista.

Adesso la Toyota nera ci precede, rallenta davanti all’ennesimo spago, ma all’ultimo momento l’autista affonda sull’acceleratore strappando la corda dalle mani di un ragazzino che resta a guardare stupito. Dai cactus esce un uomo adulto e traccia a terra dei numeri, lo fa direttamente con l’indice nella sabbia. Ivan si ferma e cerca di capire e di calmarlo, gli offre un pacchetto di caffè e doppia dose di pane al ragazzino che si massaggia la mano ferita.

–       Non è la prima volta che lo fa, ma domani lo aspetto con la pistola.

I Wayuu sono poveri, ma sono orgogliosi combattenti e sanno cosa vuol dire il rispetto e sanno anche che se qualcuno fa un torto a uno di loro la fa a tutto il clan familiare. Spero non sia successo niente il giorno seguente, o forse l’autista delle Toyota nera avrà scelto un ritorno diverso.

Cabo de la Vela si chiama così perché i primi navigatori spagnoli che dal largo videro quelle coste, scambiarono per vele le tre colline triangolari che si affacciavano in mezzo al mare, si dice che a quell’epoca le cime fossero candide perché coperte dal guano di migliaia di uccelli e gli spagnoli le scambiarono per un galeone carico di vele.

Dalla cima del Pilón de Azucar la vista è uno spettacolo, un misto di paesaggio dai profumi e colori caraibici infilato su un tratto di costa irlandese.

Il vento caldo spazzava l’oceano anche quel giorno e si portava dietro mandrie di nuvole candide che cambiavano continuamente il colore dell’acqua del mare e spingevano le grandi e lunghe onde a infrangersi sulle scogliere color ocra e sulle spiagge arancioni, la schiuma s’impennava sbattendo sulle rocce e alti schizzi d’acqua si polverizzavano in aria e il sole si divertiva a trasformarli in variopinti arcobaleni.

Ci sono alcuni villaggi di pescatori da quelle parti e qualche Rancheria Wayuu dove si può dormire su un’amaca o in una camera semplice e pulita. Si mangia frutta deliziosa e pesce fritto, riso e patacónes (banane verdi schiacciate e fritte) e si può bere una birra ghiacciata, un’ “Aguila” o meglio una “Club Colombia Dorada”. Non c’è telefono, non c’è Wi-Fi, non c’è luce dopo le dieci di sera, ma sono tutte cose che una volta arrivati da queste parti non servono, basta restare seduti sulla spiaggia o su un’amaca a dondolare con la testa per aria, basta guardare il cielo e ritrovarsi immersi in un mondo di stelle che sono talmente vicine che sembra di poterle sfiorare per salire a bordo e partire con loro, bastava vagare per un po’ come un “Vagabondo delle stelle” inseguendo Jack London oppure i propri pensieri sciolti oppure basta addormentarsi presto perché qui si vive seguendo i ritmi del sole.

Dopo Cabo de la Vela, procedendo verso nord ci sono altre meraviglie, la grande Bahia Honda e la più piccola Bahia Hondita con le lagune salmastre e le saline che gli stanno alle spalle dove i fenicotteri e gli aironi si fermano nel loro migrare. È una continua sensazione di spazio, di vuoto e libertà ed è inutile descriverla con le parole perché non bastano e non servono per chi ama questi paesaggi. Ci si perde dentro e tutto il vuoto si riempie.

Qui, come un po’ in tutto il resto della Guajira, chi domina il paesaggio è il vento ed è per questo che di fronte a certe visioni sono rimasto spesso a guardare in silenzio, senza fotografare, senza pensare a nulla, immobile, per assaporare, quasi per bere a lungo quello spazio infinito.

Il vento è sopra ogni cosa, è carico di essenze e di visioni intimamente collegate alla terra dei Wayuu, un popolo che al mattino si sveglia e parla dei sogni vissuti durante la notte, sogni che sono il miglior mezzo per congiungersi al mondo ancestrale, al profondo legame con la natura, tanto che ognuno di loro, oltre al suo nome e un nome in spagnolo ha un nome legato al suo clan che viene rappresentato sempre da un animale.

Un tempo, il ruolo del Palabrero era affidato a un uccello che qui chiamano Pajaro Utta o Picogordo, un piccolo volatile della famiglia dei fringuelli dal becco grosso in grado di spaccare e cibarsi anche dei semi più duri.

Il Pajaro Utta sarebbe l’animale primigenio, quello capace di stabilire l’armonia e la corrispondenza fra gli uomini e la madre terra, il padre pioggia e il vento, la luna, il sole e le stelle. Bastava ascoltarlo, riflettere e prendere la decisione giusta.

Ho sentito le parole di un vecchio e autorevole Palabrero Wayuu che raccontava il senso del suo ruolo: “quando c’è la pace tutti i cammini sono aperti”, credo sia un perfetto punto di vista.

Ma prima di arrivare a Cabo de le Vela ho potuto vedere e capire qualcosa in più sui Wayuu e sulla loro mentalità.

La pista di terra qui corre parallela al mare, ma non c’è quasi niente, è un paesaggio di selvaggia bellezza, pochissime barche in mare, le onde schiaffeggiate dal vento, qualche misera capanna. Poi ad un tratto ci sono delle case in muratura, colorate, quasi moderne, sembrano in costruzione, ma guardando meglio sono distrutte, semi-abbattute, sembra sia passato un uragano o un terremoto, una è incenerita.

–       Cos’è successo da queste parti, Ivan?

–       Una famiglia Wayuu ha preso accordi e soldi da una società francese per costruire qualcosa…

Silenzio. Passa un uomo in moto, rallenta, ci guarda.

–        E…?

–       Gli altri Wayuu non erano d’accordo. Questa terra deve essere gestita direttamente soltanto da famiglie Wayuu, così una notte hanno distrutto tutto, è successo tre mesi fa, forse c’è stato anche uno scontro a fuoco, forse ma nessuno sa niente. Di sicuro i francesi hanno abbandonato il progetto e il Clan che viveva qui è sparito, forse si sono spostati da un’altra parte.

La parola data, vale per tutti e quando non si trova un accordo pacifico, viene stabilito un prezzo da pagare. La libertà si conquista insieme.

Equilibrio, rispetto della parola data, orgogliosa indipendenza, sono queste le caratteristiche fondamentali di questa gente che già s’intuisce negli occhi dei ragazzini che tendono lo spago e sembrano voler dire che anche loro hanno diritto a qualcosa quando il viaggiatore vuole godersi la rara e intatta bellezza dei loro luoghi.

È solo uno scambio, cibo o acqua in cambio di pura bellezza.

Ma i Wayuu hanno pagato e continuano a pagare un caro prezzo per conservare libertà e indipendenza nella loro terra dura e meravigliosa.

C’è rimasta una sola linea ferroviaria in Colombia e come un coltello taglia in due questa zona, ma il treno non traporta più persone, adesso trasporta soltanto il carbone e nella Guajira c’è una delle più grandi miniere a cielo aperto del mondo, è la miniera di Cerrejón e il carbone, da laggiù a sud di Uribia con i treni raggiunge un porto creato appositamente per questo, si chiama Puerto Bolivar e prende il nome dall’eroe dell’indipendenza di tanti paesi del Sudamerica anche se, ironicamente, questa miniera non è più di proprietà della Colombia che l’ha ceduta almeno fino al 2034 a una multinazionale.

Sono cose che accadono in tutto il mondo, quando a un paese povero serve denaro e tecnologia per “sfruttare” il proprio territorio, arrivano gli altri con le loro promesse.

Quel porto è un’invenzione recente, è stato creato nel 1982 nella Guajira alta, dopo le montagne sacre di Cabo de la Vela, prima delle Dune di Taroa, uno spettacolare tratto di costa dove dune desertiche alte fino a settanta metri scendono come onde contrarie fin dentro all’oceano, da lassù in cima, in pieno deserto ci si può rotolare fino all’azzurro del mare, è una sensazione bellissima, sembra di tornare ragazzini.

Dopo le dune ci sono le baie Honda e Hondita che sono un altro spettacolo naturale, là si pescano aragoste e gamberoni saporiti e lungo quelle coste intatte e solitarie vanno a nidificare le tartarughe e migliaia di specie di uccelli.

Eppure Puerto Bolivar è proprio da quelle parti e in mezzo al mare distante si vedono anche le sagome delle piattaforme che estraggono i gas naturali.

Ci sarebbero tante cose da dire su questa miniera e sul modo di cavare ricchezze dalla terra ma ne racconto una soltanto che risale al tempo delle guerre fra ribelli e gruppi paramilitari.

Un fatto che è successo a Bahia Portete, una baia protetta non lontana da Puerto Bolivar.

Una volta su quelle coste ci abitavano poche famiglie di pescatori con le loro misere baracche, poi un brutto giorno, il 18 aprile del 2004, su quella spiaggia arrivò un gruppo di paramilitari con le loro jeep potenti, erano una cinquantina di uomini pesantemente armati che senza pietà massacrarono tutti quelli che si trovarono davanti. Quel giorno c’erano prevalentemente donne e i militari prima profanarono le tombe e poi martoriarono figlie e madri dopo averle seviziate. Gli uomini delle AUC non volevano soltanto uccidere quelle persone, il loro intento era quello di seminare il vero terrore, quello che ti fa scappare lontano senza voltarti più indietro. Squartarono corpi ancora in vita di vecchie e bambine usando la motosega, tagliarono le teste e le issarono sui cactus e poi tornarono nei giorni seguenti. Alla fine ottennero quello si chiama “dislocamento”, in pratica cacciarono almeno 600 Wayuu dalle loro terre.

I signori della droga erano interessati a quelle coste tranquille perché da lì sarebbero potuti partire i loro carichi di droga e in più avrebbero potuto taglieggiare i ricchi di Puerto Bolivar.

Per fortuna da quel momento in poi il processo di pacificazione iniziò inesorabilmente, adesso tutta quella costa è diventata un Parco Naturale, ma il ricordo di quella violenza rimarrà per sempre. La regista venezuelana Patricia Ortega ci ha girato un bellissimo film nel 2013, è durissimo, s’intitola “El Regreso” e racconta quello che è davvero successo, una bambina Wayuu si è salvata e dopo una drammatica fuga è riuscita caparbiamente a tornare.

Una volta arrivati a Punta Gallinas si rimane per una o più notti in una ranchería Wayuu costruita su un sottile sperone roccioso che si protende come il becco di una gallina nel Mar dei Caraibi.

Anche qui c’è lo stesso vento che spazzava il deserto, forse è ancora più forte, il profumo del mare è più intenso, si mischia alle essenze salmastre che arrivano dalle lagune, all’odore dei muri di sassi, legno e cactus e a quello del fuoco che arde per cucinare nel campo.

Molte persone hanno innalzato mucchi di pietre in equilibrio una sull’altra nel tratto di scogliera rivolta al tramonto, si chiama stone-balancing, il senso è quello di ricercare una specie di equilibrio interiore in un luogo che ispira un particolare sentimento di pace.

Ce ne sono tanti, sono più o meno elevati e complessi.

Io non ho sentito la pace in questi luoghi, ho sentito la potenza della natura e la forza dei popoli che riescono a sopravvivere in equilibrio fra durezza, desolazione, privazioni, rispetto reciproco e tenacia.

Ho visto cose molto diverse in questo itinerario in Colombia, le montagne della Sierra Nevada e gli uomini che sanno percorrerle e difenderle in silenzio da una parte e i Wayuu della Guajira dall’altra, tutta gente che ha una cosa in comune: sono riusciti a resistere ai conquistatori, a ogni genere di traffico e all’attrattiva del denaro, anche se adesso il territorio della Guajira rischia di spopolarsi se il riscaldamento globale dovesse continuare al ritmo attuale e se, come pare, chi gestisce la miniera del Cerrejon continua a deviare fiumi come El Bruno per poter estrarre milioni di tonnellate di carbone che si troverebbero nel suo letto.

I Wayuu sono stati capaci di trovare pozzi acquiferi nel terreno pietroso di Punta Gallinas e, a un passo dalle scogliere più dure di Cabo de la Vela, c’è l’Ojo del Agua una pozza sacra d’acqua dolce che scaturisce a pochi metri dal mare, questa gente ha inventato un sistema per recuperare l’acqua delle piogge che s’infiltrano fra i granelli di sabbia delle dune, ma cosa succederà se non dovesse piovere più?

In lingua Wayyuu pioggia si dice “Juya” che significa anche anno, ciò il lasso naturale di tempo necessario fra una stagione delle piogge e l’altra, ma negli ultimi tempi, per questi “figli della pioggia” non è stato così, i pozzi si stanno prosciugando e il riscaldamento globale sta inaridendo rapidamente questa terra meravigliosa, l’unico sistema è quello di spostarsi, per inseguire l’acqua, ma fino a quando?

È notizia di questi giorni che in un altro luogo in Colombia, al centro del paese, dalle parti di Cajamarca la popolazione si sarebbe opposta energicamente alla proposta del governo centrale di concedere a una compagnia sudafricana l’inizio degli scavi di un’importante miniera d’oro, ma la licenza per effettuare i test è già stata concessa e solo il tempo ci dirà come andrà a finire anche questa storia.

Dopo il deserto, dopo le vibrazioni delle lagune salate, dopo i pedaggi fatti di sguardi e di spago la nostra macchina sulla via del ritorno raggiunge la strada asfaltata che ci riporterà a Riohacha e restiamo tutti in silenzio, per rivedere quello che abbiamo sentito, non ci sono più i sobbalzi e il silenzio è particolarmente profondo, a quel punto Ivan fa partire la musica, una serie di brani che appartengono tutti allo stesso genere, quello che si ascolta in Guajira, il Vallenato, sono ritmi di caja (tamburo africano) guacharaca (un bastone che ricorda una canna da zucchero su cui si struscia sopra una specie di forchetta che produce un suono graffiante) e fisarmonica. Si dice che un giorno sulle coste della Guajira arrivarono una serie di casse di legno provenienti da una nave naufragata, all’interno c’erano bellissime fisarmoniche tedesche e quel genere di musica nacque così, unendo le sonorità africane con quelle della fisarmonica in una miscela di ritmo, allegria e ricordi della schiavitù.

Spazio, sguardi, montagne, deserti e silenzi, è quello che ho visto, è quello che mi entrato nel sangue, ma sopra ogni cosa ci sono le storie di questi popoli, l’armonia e la lotta, la poesia e la ribellione e poi ci sono le libere connessioni che mi ha portato quel vento.

È strano, eppure sento che questo itinerario mi aiuterà a scrivere “Terre di vento”, il mio prossimo libro, una storia che si svolge in Patagonia, dalla parte opposta di questo immenso continente. Punta Gallinas è l’estremo nord del Sudamerica, la Terra del Fuoco è all’estremo sud, ma forse come nel vuoto dell’attesa nella mia notte a Riohacha serviva uno grande spazio-tempo libero da riempire di ricordi e libere visioni come in una colorata mochila Wayuu.

Questo viaggio è nato dopo aver assistito a Locarno alla proiezione di un bellissimo film in concorso, “Pájaros de verano” di Ciro Guerra e Cristina Gallego, mi aveva colpito la storia drammaticamente cruda e reale ed ero rimasto affascinato visivamente dall’immenso contrasto di ambienti naturali di questo lembo di Colombia separato dal resto del paese dalla Sierra Nevada di Santa Marta.

Questo itinerario, che consiglio a tutti, l’ho realizzato grazie ai servizi in Colombia di un Tour Operator milanese che conosco e apprezzo da molto tempo, Kel12, li ringrazio sinceramente perché sono stati capaci di organizzare tutto alla perfezione dandomi la libertà e l’autonomia del viaggiatore individuale e il supporto di un Tour Operator attento e in grado di fornire in zona il supporto logistico di persone non solo di eccezionale capacità professionale, ma cariche di una rara e profonda umanità e amore per questo meraviglioso paese e per la gente generosa che ci vive.

Ringrazio Yeison per avermi introdotto e accompagnato a cercare l’armonia fra le montagne della Sierra Nevada fino alla Ciudad Perdida.

Ringrazio Ivan per avermi guidato con altrettanta sapienza nel meraviglioso e ruvido mondo della Guajira, la terra libera e orgogliosa dei Wayuu.

Questo viaggio l’ho fatto con la mia famiglia, con le mie figlie perché solo i giovani potranno pensare alla salvaguardia di un futuro ancora possibile per il nostro pianeta.

Alla fine del viaggio non potevo non passare per Aracataca, il paese dove è nato e ha vissuto la sua gioventù un grande scrittore, Gabriel García Márquez, e proprio lì, concludendo il mio viaggio ho scoperto che la sua famiglia proveniva dalla Guajira e che il piccolo Gabriel aveva passato molto tempo con la servitù, una famiglia wayuu.

Forse tante storie e leggende Gabo le ha imparate proprio da loro.

Di sicuro, attraverso la sua sensibilità ed esperienza di vita, Gabo, ha capito una cosa:

Se un giorno la merda avesse un valore, i poveri nascerebbero senza culo”. (Gabriel García Márquez)

 

 

 

 

 

 

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