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La Nave dei Folli. Un Diario di Bordo. (Approdo a Venezia)

La Nave dei Folli. Un Diario di Bordo. (Approdo a Venezia)

Arriva il giorno, è venerdì 7 ottobre 2022, e arriva il momento di presentare a Venezia il mio ultimo romanzo, “La nave dei folli. Un diario di bordo” edito da Marcianum Press.

Organizza tutto l’elegantissima Libreria Studium infilata nel cuore di Venezia, fra San Marco e il Ponte dei Sospiri.

Il luogo della presentazione è un’altra meraviglia, l’antico chiostro di Sant’Apolllonia, un luogo magico che risale al XII°-XIII° secolo.

La sala è piena, c’è tanta gente, tante personalità cittadine, tanti amici.

Presentano il libro il Professor Antonio Alberto Semi, Psichiatra, Psicoanalista. Membro ordinario e A.F.T. della Società Psicoanalitica Italiana e Stefano Knuchel, regista svizzero autore del recente “Hugo in Argentina” un documentario sulla vita di Hugo Pratt presentato nel 2021 alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia nella rassegna Giornate degli Autori.

La presentazione dell’Evento spetta all’organizzatore di tutto, Marco Vidal che ha rivitalizzato con passione e professionalità la Libreria Studium e riveste il ruolo di CEO di “The Merchant of Venice” un marchio di profumeria artistica di lusso nato a Venezia dalla volontà della Famiglia Vidal, operante nel settore della profumeria a livello internazionale da più di un secolo.

Sono onorato di pubblicare qui, il testo completo dell’intervento del Professor Semi che mi ha profondamente onorato con il suo sincero apprezzamento, le sue parole e la sua amabile ironia:

Narrenschiff (per La nave deì folli di Marco Steiner, Marcianum Press, 2022, [7 ottobre 22 – 17.30- Satnt’Apollonia]

Per prima cosa desidero dirvi che sono un po’ a disagio nelle vesti di presentatore di questo libro. Vedete, presentare o recensire un libro è sempre un po’ complicato, ammenoché non lo si faccia di mestiere, che non è il mio caso. Anche se lo si fa d’abitudine, c’è sempre il rischio di essere solo compiacenti, dichiarare in vario modo che sì, è proprio un bel libro, fare tanti complimenti all’autore e magari cercare di tenerselo buono perché lui possa ricambiare il favore in una prossima occasione. Viceversa, altro rischio ma raro, nel nostro paese, un presentatore può diventare uno stroncatore, uno che dichiara subito che il libro è mal fatto, poco interessante, che non si capisce perché uno abbia fatto la fatica di scriverlo. Non capita quasi mai: come si usa dire tra noi, can no magna can. Ma questi che ho appena detto sono pericoli evidenti per l’autore, per giunta subito riconoscibili da parte del lettore o dell’ascoltatore. Ci sono mezzucci più mascherati, invece. Per esempio, è possibile illustrare un libro proprio per bene, raccontandone tutta la trama in modo da far sì che l’ascoltatore alla fine abbia l’impressione di sapere già cosa contiene il libro e dunque non abbia più la curiosità di leggerlo e quindi ancor prima di comprarlo. Il caso clamoroso e evidente è quello del libro poliziesco o giallo. Se si racconta tutta la trama e magari anche la conclusione, di fatto si toglie l’interesse al lettore. In questo caso, nel caso dei gialli voglio dire, è diventato un imperativo etico quello di non dire quale sia la conclusione. Ma quel che vale per i gialli vale anche per molti altri libri, solo in forma più dissimulata, per cui accade che il presentatore o il recensore possa rendere un cattivo servizio all’autore riempiendolo però di complimenti e contemporaneamente inibendo l’acquisto del libro.

Nel mio caso, invece, mi trovo preso tra due tendenze: da un lato, come psicoanalista e psichiatra, mi verrebbe voglia di mettermi, come si usa dire, a interpretare; dall’altro lato, però, avrei voglia di andare un po’ a libere associazioni, a lasciarmi andare cioè ad un flusso di pensieri che non si sa mai, in precedenza, dove andranno a parare. Vi sto mostrando beninteso una alternativa classica che abbiamo tutti, di fronte ad un libro o a un film – e ancor più di fronte ad una persona – che è quella di considerare il libro come un oggetto, quindi diverso da noi e meta del nostro pensiero e dei nostri sentimenti o, al contrario, quella di identificarsi con l’oggetto, in questo caso con i contenuti del libro, proseguendo in qualche modo i pensieri contenuti nel libro.

Il quale libro di oggi – diciamolo subito – invita o addirittura costringe a questo, cioè a identificarsi e a dis-identificarsi. A viaggiare con Indio, il protagonista, e a staccarsi per chiedersi chi mai sia questo Indio, dove stia viaggiando.

Perché questo è un libro di viaggio, anzi è un diario di viaggio. Ma già il titolo sembra volerci mettere sull’avviso: La nave dei folli. Sapete, un titolo del genere, ricco di storia com’è, è fatto apposta per ingannare. Chi sono i folli? Oppure, ancor prima, esistono i folli? Li si può identificare con ‘i pazzi’? sono malati o sono i veri sani? Dicono la verità o si limitano a manifestare che la realtà, quella che ci sembra così semplice e consueta, è solo una copertura di un’altra realtà, più vera? Questo è l’interrogativo tipico della ‘nave dei folli’.

Già nel 1494, quando uscì la prima edizione , a Basilea, della Narrenschiff, di Sebastian Brant, con le famose xilografie di Dürer, scritta in tedesco e poi tradotta in latino nell’edizione seguente (1497) come Stultifera navis, era chiaro che si trattava di un testo satirico, dunque di un libro che voleva permettersi sì di dire la verità ma attraverso il paradosso o attraverso la negazione, in un certo modo mettendo per iscritto ciò che i giullari di corte a quei tempi potevano permettersi solo di dire, perché verba volant.

Qui, con questo libro, Marco Steiner vuole metterci di fronte al fatto che la verità, la propria personale verità, l’unica verità reale, è una ricerca. E vuole mostrarci come la si può fare. Questo è il viaggio. La figura del viaggio, beninteso, è una figura classica, che a partire da Omero è stata utilizzata nella storia dell’Occidente infinite volte. E già Ulisse ci ha insegnato che non è Itaca la meta, ma la conoscenza e l’inquietudine che comporta il prendere atto che diventare quel che si è, cioè esseri umani, può essere solo il risultato, magari effimero, di una ricerca.

Steiner ci mostra come questa ricerca possa essere fatta, cosa significhi navigare, lasciare andare la nave, tollerare che il vento e le correnti spingano o portino, riconoscere che con il singolo movimento apparentemente naturale dell’acqua ci possiamo appunto riconoscere: un capitolo è intitolato ‘Risacca’, ossia un movimento delle acque che può sembrare contraddittorio o perfino inutile e che pure consente al navigatore, Indio, di affermare: Sono/ solo/ risacca/ sono il ripetersi di un nulla che continua,/ sempre uguale,/ sempre diverso. È qui, verrebbe da dire, che nasce la soggettività: accorgersi di essere sempre uguali, di avere cioè una continuità con sé stessi e con gli altri, e però che in ogni momento siamo diversi da com’eravamo un attimo prima. Il diario di viaggio, in questo senso, è la testimonianza di una ricerca possibile.

Il libro si svolge così, passo passo andando da una visione improvvisa e sorprendente ad un dialogo – per esempio tra il protagonista e un suo alter ego, Guglielmo – che sottolinea spesso l’inutilità della parola se non è accompagnata da una riflessione inaspettata. Tra le visioni – che costituiscono una serie di esperienze attraversate da Indio – per noi veneziani è evidentemente sorprendente e toccante quella della nostra città vista ed esplorata da sotto, girando in quel bosco stranissimo e capovolto che abitualmente non si vede e che pure ci consente di essere la città che siamo. In generale parliamo di palafitte, sappiamo che sì, sono migliaia, milioni di pali confitti a testa in giù ma girarci dentro, vedendo dunque Venezia come il rovescio del bosco, è un’altra esperienza. Poi naturalmente ci viene da chiederci cosa Steiner voglia dirci con ciò e con tante altre sorprendenti visioni ma credo sia bene che ciascuno di noi, leggendo questo libro, debba sostare e godersi la sensazione che Steiner ci fa provare, prima di passare a ragionamenti più filati, che inevitabilmente introducono uno stacco. Se posso permettermi un consiglio, vi direi di leggere questo libro disordinatamente, un pezzo alla volta, cominciando a caso, perdendovicisi dentro. E poi, solo poi, leggerlo tutto d’un fiato, cominciando dall’inizio. La lettura pezzo per pezzo può farvi sentire il gusto dei singoli ingredienti – e badate che ci sono anche pezzi che possono far provare angoscia o tristezza – mentre la lettura filata ci fa sentire il gusto sorprendente di un piatto riuscito, nel quale si possono sì riconoscere i singoli ingredienti ma anche capire che sono diventati qualcos’altro.

Dico questo perché tutto il libro è un invito alla lettura, tanto che, alla fine, l’Autore si concede una lettera al lettore che, contemporaneamente, è una lettera ad un terapeuta. Ma sugli ultimi due capitoli non dico nulla, appunto come se questo libro fosse un giallo o come se la conclusione fosse un lavoro di scoperta che ogni lettore deve farsi, nel senso di “fare anche su sé stesso”.

Dunque concluderei facendovi gli auguri, cari futuri lettori, perché questo libro possa esservi non solo attraente ma anche personalmente utile.

Grazie ancora al Professor Antonio Alberto Semi

e grazie

a Stefano Knuchel che ha usato magnifiche parole per il libro e ha presentato in sala un lungo estratto del Documentario.

Con Stefano ho avuto l’onore di partecipare alla sceneggiatura di questo “racconto per immagini” dedicato alla vita di Hugo Pratt che per me è stato il vero Amico e Maestro che mi ha avviato, attraverso il suo mitico personaggio di Corto Maltese a navigare libero sulle rotte della Fantasia.

La Nave dei Folli è un libro dedicato a chi sa mollare gli ormeggi…

Buon vento a tutti!

Marco Steiner

 

 

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Nella Musica del Vento “letto” da Emiliano Ventura

Nella Musica del Vento “letto” da Emiliano Ventura

Sono molto contento di tante recensioni positive al mio ultimo libro, sono state usate parole lusinghiere.

Emiliano Ventura l’ha letto così, e lo ringrazio:

Ci sono romanzi che possono essere delle occasioni per il critico, un evento che vada oltre la lettura e che possa offrire uno spunto per riflessioni liminari al libro in oggetto.

Una di queste occasioni è l’uscita del romanzo Nella musica del vento di Marco Steiner. Questa recensione giunge probabilmente in ritardo rispetto all’uscita del libro (giugno 2021), la cosa ha però consentito a chi scrive di leggere le recensioni che sono state già edite.

Tutte puntuali, tutte positive, elogiative e pronte a cogliere gli aspetti della narrativa di avventura con precisi richiami ai padri letterari. Tutto bello e anche tutto vero. Però così si perde l’occasione, l’occasione che un libro come questo offre, ovvero quella di capire che cosa sia un romanzo e cosa significhi essere uno scrittore.

La prima cosa da fare è mettere ordine nelle idee lasciando da parte un po’ di bigiotteria editoriale, tutto quel frasario sui vari generi: avventura, giallo, noir o rosa. Classificazioni utili per la compilazione di uno scaffale in libreria ma non certo adatte a capire “cosa sia” un romanzo e in particolare uno come Nella musica del vento.

Un romanzo è una narrazione di ampio respiro che generalmente, quando si tratta di letteratura, ha il difficile compito di spiegare cosa sia un “fottuto essere umano” (vedi David Foster Wallace), che poi questo possa essere calato in ambienti e tempi diversi poco importa, ma è questo il fine della letteratura.

Detto questo, il romanzo di Steiner non è una narrazione di genere (avventura) ma letteratura tout court, una narrazione di ampio respiro con due voci protagoniste, quella di un uomo e quella di una donna.

Altra abitudine indefessa delle recensioni, ma sarebbe più giusto dire segnalazioni, e della bigiotteria editoriale è quella di affrettarsi a trovare un padre letterario allo scrittore in oggetto. Per questo testo si sono rintracciati i nomi di Hugo Pratt (un esempio classico visti i trascorsi tra Steiner e Pratt, ma un evento ormai superato, datato), poi si cita Cormac McCarthy, per certe atmosfere realistiche o crude. Nulla a che ridire, sono padri letterari di assoluto rispetto.

Ma il recensore, in questo modo, perde l’occasione: quella di praticare strade nuove finendo così in un sentiero interrotto.

La cosa importante, di quest’opera e del suo autore, consiste nel fatto che Nella musica del vento sia un libro sudamericano scritto da un autore italiano, per la precisione si tratta di un “romanzo fuegino”. Con questo termine ci si riferisce genericamente alla Terra del fuoco, il sud del mondo dove il romanzo di Steiner è ambientato. Così come sono fuegini gli indios che abitano in quelle terre, anche questi compaiono nel romanzo.
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Dovendo trovare dei riferimenti alla narrazione fuegina di Steiner non è in orbita eurocentrica che si possano trovare dei nomi adatti, ma bisogna decentrarsi e perdersi nella letteratura sudamericana. Il romanzo di Steiner non riporta a un’antropologia europea (da conquistatore) ma un’antropologia fuegina (del conquistato); dovendo fare dei nomi di riferimento vanno cercati in Francisco Coloane, Àlvaro Mutis (la rivista The Serendipity lo ha colto) e Osvaldo Soriano.

Come non pensare all’immagine dell’indio congelato nell’Iceberg che punta il dito verso il narratore nel racconto di Coloane o a Un bel morir di Mutis, con le ipotesi intorno alla fine di Maqroll il gabbiere.

Un autore italiano ha scritto un romanzo sudamericano con un’antropologia fuegina, la selvaggia desolazione della Patagonia e di quei mari estremi è espressa come nei romanzi di Coloane, inoltre i Mapuches e i Tehuelches sono indios che ho incontrato solo nelle pagine di Soriano, guarda caso insieme al figlio di Butch Cassidy.

Ma Steiner non è scrittore sudamericano, ma chi conosce i suoi lavori non fa fatica a rintracciare una capacità di immedesimazione unica e sorprendente con l’oggetto narrato, che sia la voce di un folle, di un bosco o una figura femminile.

Ecco che cosa deve dirci un romanzo, che cosa significa essere un “fottuto essere umano”. Ma cosa vuol dire essere uno scrittore, uno scrittore italiano che scrive un romanzo fuegino?

Significa accettare la sfida al labirinto (vedi Calvino), la sfida alla propria contemporaneità di scrittore, il fatto di trovarsi a competere con l’intrattenimento (cinema, tv, musica, sport, fumetto ecc.).

Questa è la grande occasione per il critico; grazie al romanzo di Steiner si possono evidenziare alcune tendenze della letteratura italiana in generale. Secondo il senso comune, attuale, quando un romanzo è un bel romanzo si dice subito: “sembra un film”. Il romanzo di Steiner è un gran bel romanzo, ma direi che uno dei sei pregi è di essere, quasi, irriducibile alla sceneggiatura cinematografica.

Non che la cosa sia impossibile, tutto si può fare, ma il registro della narrazione con le due voci che si alternano, la cultura delle tradizioni degli indios, i dati della documentazione e della ricerca in alcuni ambienti malavitosi, rendono questo romanzo estraneo alle narrazioni di genere, in questo caso è veramente irriducibile, e avulso, alla moda della narrativa italiana attuale.

Per scrivere un romanzo fuegino, per spiegare che cosa significa essere un fottuto essere umano, Steiner ha dovuto alzare l’asta della scrittura, consapevole di dover affrontare il mondo dell’intrattenimento ha scelto la strategia di essere uno scrittore migliore, di fare un romanzo migliore, di fare letteratura tout court. Consapevolmente accetta il rischio di essere eccentrico alla moda letteraria attuale che utilizza una strategia opposta, quella di uniformarsi all’intrattenimento, la narrativa italiana ha il suo fine nella serie televisiva o nella riduzione cinematografica, se non gli riesce di incanalarsi nella serialità del personaggio.

Con questo romanzo, e con i lavori precedenti, Steiner decide di giocare una partita diversa, non si pone sul piano dell’intrattenimento, ma sul versante della letteratura massimalista, una letteratura capace di incontrare ambiti del pensiero eterogenei come le tradizioni fuegine, ad esempio, di fare una narrativa più- che-narrativa, un’opera letteraria.

Dovrei ora spendere qualche frase per la trama del romanzo, potrei rinviare alle molte recensioni in cui i nomi e i personaggi di Morgan Jones e Maria Leibowitz sono ampiamente descritti, ma vorrei cogliere anche qui l’occasione.

Un bastardo e una prostituta; Morgan è un cacciatore di indios e Maria è stata venduta dal padre ed è finita in un bordello sudamericano, era inevitabile che si incontrassero, sono due banditi, nel senso di ‘messi al bando’ dalla società, due eventi trascurabili nella storia dei conquistatori, ma due ingranaggi feroci nelle trame dei conquistati.

Il lavoro di Steiner, tutta la sua scrittura, è infatti quello di dar voce a coloro che sono stati ‘messi al bando’, ai dimenticati, ai folli, ai morti, alle ombre o ai personaggi che hanno perso l’autore (Corto Maltese). È uno scrittore con una propria mitologia riconducibile all’orfismo, al riportare alla luce ciò che era in ombra, far uscire dal bando il bandito.

Ecco, credo il senso di Nella musica del vento sia questo, far uscire dal bando il bandito, in modi e tempi diversi sia Morgan sia Maria sono usciti dal bando.

Emiliano Ventura

pubblicato su Ti con zero, 14 settembre 2021.

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