La collina di Tara
La Colline di Tara.
Tic tic, un continuo tic tic, piove sui vetri della macchina, sul cappello, sugli ombrelli, da quando si scende dall’aereo a Dublino.
Non ci sono rumori sulla collina di Tara, a parte il vento, il tic tic, il clang metallico del cancello che si apre e sbatte sul supporto arrugginito. Scalpiccio morbido, passi su foglie, sull’erba bagnata e sul fango. I rintocchi della campana s’affacciano sul cimitero. L’erba è pettinata, le colline hanno un fondo irregolare. Un campo da golf tutto sballato. Avvallamenti e improvvisi rilievi, cerchi concentrici, pietre e croci celtiche che s’innalzano dal verde e, più in là, il nastro marrone, il fango della nuova autostrada. Per ora è bloccata, ma la praticità di un fiume d’asfalto vincerà sul ricordo del Luogo. Eppure Tara, e quei tumuli di 5000 anni, furono il ker (luogo) dei druidi, i mistici re-sacerdoti d’Irlanda e della mitica regina Maeve, del potente Cormac Mac Airt e di san Patrizio che accese qui il primo fuoco cristiano sull’isola.
Il simbolo di Tara è “The stone of destiny”, quella Pietra del destino, su cui il futuro re doveva arrampicarsi, e solo se questa emetteva tre grida, quel re veniva incoronato. Roccia e potenza, capacità di vivificare l’inamovibile imperturbabilità dell’elemento terrestre, attraverso il coraggio, le doti morali, la profondità dello spirito. Una specie di spada che solo il prescelto potrà estrarre dalla pietra.
Stanchezza umida di vapore e di pioggia che inzuppa. Sensazioni, che salgono dalla terra bagnata, attraversano i piedi e il corpo incurvato, mentre il vento fa insaccare le spalle, abbassare la testa, fissare quel tramite umido e morbido infilato in un paesaggio duro e tagliente.
Strano posto, non immediato ed esplicito. Nascosto, rinchiuso nella Madre Terra. E’ necessario ascoltare e cercare in silenzio. Seguendo i disegni di tumuli, cerchi e pietre.
Dicono fosse la porta dell’oltretomba.
Io entro in macchina e comincio a pensare, in silenzio.
Tic, tic, la pioggia, il vento che soffia sempre più forte. Sibila e smuove perfino la macchina.
Un’Opel rossa parcheggia. Improvvisa, sgargiante, inopportuna e rumorosa come un tuono. Il rullo di una batteria riporta alla realtà del rock, poi entra un assolo di chitarra, “Whole lotta love”, sono i Led Zeppelin sparati a tutta birra dalla signora che adesso spegne il motore, ma non la musica.
“Woman…you need…looooove” gridano i Led.
La dama venuta dal presente continua a invadere Tara e a bombardarmi di musica fino a quando tutto sfuma, e l’extraterreste spalanca il portellone posteriore per il suo boxer marrone sbavante, un bel cane, nervoso.
La replicante continua a fischiettare il motivo e poi chiude la macchina. Mi getta uno sguardo distratto e si accende una sigaretta. Anche questa è l’Irlanda, Mary O’Qualcosa porta a passeggiare il suo cane fra le pietre e i miti della collina di Tara, la collina dei Re.
Newgrange, o meglio Bru Na Boinne, è un sito megalitico antico di 3200 anni, 600 anni prima delle piramidi di Giza e 1000 anni prima di Stonehenge. Un tumulo di pietre ricoperte dal verde prato d’Irlanda. C’è un ingresso e un lungo cunicolo che s’infila in quella gran massa di sassi e raggiunge il centro del tumulo. Una pietra imponente protegge l’ingresso, una lunga losanga decorata con un disegno a triplice spirale. Il cunicolo della “tomba a passaggio” arriva fino al nucleo centrale, la vera tomba, suddivisa in tre nicchie e racchiusa da un tetto di lastre incastrate in una maniera così millimetrica che nei secoli non ha ceduto al peso e non ha fatto filtrare una goccia d’acqua. Ma qui c’è qualcos’altro di speciale: l’apertura della tomba è orientata in maniera perfetta verso il sorgere del sole, in un giorno preciso, il 21 dicembre, il solstizio d’inverno. Quel giorno, e solo quel giorno, verso le 9 del mattino, un raggio di sole penetra le pietre e si sdoppia. Un raggio segue lentamente il pavimento della grotta e attraversa i 24 metri del cunicolo che portano alla camera centrale della tomba, un altro raggio, che viaggia più in alto, colpisce una pietra circolare e diffonde una magica luce in tutto l’ambiente.
Tutto questo spettacolo, soltanto per 17, irripetibili, minuti all’anno.
Qualcuno ha congegnato un’opera del genere 3000 anni fa. Dicono che qui fu concepito l’eroe delle leggende irlandesi, il dio solare Cùchulainn, e a questo punto non resta che crederci.
Vendono i biglietti di una lotteria all’ingresso, per essere lì, proprio nella grotta, il 21 dicembre del prossimo anno, le domande sono decine di migliaia, all’interno ci saranno poche decine di persone, con la speranza che il sole riesca a sorgere e non venga bloccato da nuvole e pioggia.
Marco Steiner
Aran Islands
Inishmóre. Isole Aran, il cuore celtico d’Irlanda.
Sono le 8 del mattino, tutto è buio, grigio, freddo. Il mondo sembra deserto, assopito. Anche il sole è in ritardo. I chilometri scorrono sotto le ruote in silenzio, nessuno in giro, solo qualche pecora seduta sull’asfalto. Il prato è troppo umido e freddo anche per loro.
Il traghetto è semivuoto, ci sono solo una ventina di persone a bordo, compreso l’equipaggio. Uomini taciturni.
Giubbotti macchiati d’olio dei tecnici che fanno girare le caldaie. Giubbotti scuri in Goretex dei fotografi di pietre, tombe e uccelli. Capelli corti, barbe arricciate, basette tozze e rossicce. Tanti occhi socchiusi a smaltire le ultime Guinness.
Uscendo dal porto di Rossaveel uno stormo di gabbiani ci segue. Il mare è d’acciaio, la costa è bruna e marrone, i picchi luccicano, spolverati di bianco, le isole sono tre strisce sottili di blu.
La quarta oggi non c’è.
Dún Aengus è un anfiteatro semicircolare di pietre incastrate e impilate a secco con l’apertura rivolta verso l’Atlantico, l’Occidente. Il mare è là sotto, duro e caparbio come un ariete che picchia contro un muro da abbattere. Sono secoli che cerca di rosicchiare quell’immensa scogliera che osa ergersi impavida a sfidare la sua forza, ma si sbuccia le corna.
L’onda rimbomba nel silenzio come un tuono lontano, come un rullo di tamburi.
Al centro del semicerchio c’è un altare di pietre scure come il cielo.
Intorno, un prato d’erba chiara che s’inchina alla potenza del vento.
Piega la testa, disegna onde verdi, morbide, tranquille.
Dietro al muro c’è il resto dell’isola, separata da un’infinita distesa di pietre appuntite, conficcate a terra e incrociate come “cavalli di frisia” a sbarrare il passo a chissà quale invasore.
Lo chiamano il Forte, perché “Dun” in gaelico significa “Fortezza”, alcuni storici dicono che era una costruzione di difesa, in effetti non è difficile immaginare in quel semicerchio una riunione di druidi e, in mezzo all’altare, il gran sacerdote alto e barbuto che invoca la potenza del sole, o della luna, un lugubre antico lamento si disperde nel vento.
Forse anche il resto del semicerchio di pietre è scivolato in mare come la quarta isola e allora anche Dún Aengus è una specie di Stonehenge che rappresenta la “Ruota della vita”, la primordiale Dea Madre che si cela in ogni pietra che ha segnato la storia.
Il muro di pietre scure è quasi caldo, protegge dal vento, aiuta a guardare il flusso del mare, a seguire lo spettacolo del vento che scompiglia le nuvole.
All’improvviso si apre una breccia in quel grigio sipario, un fascio di sole innalza una lama fredda di luce dall’acciaio del mare.
In due ore il vento spazza ogni cosa, l’azzurro del cielo scaturisce dall’acqua riflessi turchesi e verdi come alghe che invadono il nero.
Un ragazzo entra nell’anfiteatro con passo elastico e sportivo. Jeans e giaccone nero di panno aperto al vento gelido. Una faccia irlandese, squadrata, sembra un attore che reciti un ruolo preciso. Va dritto e deciso verso il bordo dello strapiombo, senza il minimo timore si mette a cavallo dell’ultimo trampolino di pietra.
Sotto di lui, a un centinaio di metri, le onde continuano a sbattere la roccia in un ribollire rabbioso.
Sembra un giovane Corto Maltese in carne e ossa e se ne sta seduto lì, a fissare l’Occidente, a ricordare il suo sogno di Oberon e Puck, guarda il rimorchiatore che dirige a tutta forza contro il sottomarino tedesco con Mago Merlino e Morgana in questa Stonhenge selvaggia e reale.
“Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è. Infinito”. (William Blake – “The Marriage of Heaven and hell”)
Hy Brasil, l’isola inghiottita dalle mappe.
Clifden, Connemara.
Il posto migliore per cominciare a girare nel Connemara, che in Irish significa “Insenatura del mare” è Clifden, la base di uno spettacolare circuito di 12 chilometri che viene chiamato non a caso “The sky road” (La strada del cielo) per un motivo semplicissimo, sembra davvero di volare a metà strada fra la terra e il Paradiso e non si capisce bene se sia la terra che cerca con mille dita d’allungarsi nel mare, oppure se sia proprio l’Oceano a cercare d’infilarsi per far riposare le onde in qualche anfratto fra il calcare e i prati.
The musical bridge
The musical bridge. Il ponte musicale di Bellacorick.
Il bosco che si protende verso l’isola di Innisfree è nervoso, agitato. C’è un esercito di pini allineati che cerca di affacciarsi sul lago, ma rimangono impettiti, in silenzio, bloccati nella loro penombra. Davanti a loro, sulla scena, un intreccio di frassini e foglie.