L’isola sacra sul lago gelato
“Rendi grazie al giorno quando si è fatta sera…
…alla spada dopo averla usata
…al ghiaccio dopo averlo attraversato…”
(Havamal, Il discorso di Har, Edda poetica. Trad. Olive Bray edited by D.L.Ashliman)
Il Carrista poeta.
Sacha, classe 1946, è un siberiano nato fra i monti Sajani, il suo lavoro è fare l’autista. Fra il 1965 e il 1968 guidava i T62, i carri armati dell’esercito sovietico, la sua compagnia era stanziata a Cita, vicino al confine cinese, proprio come i cosacchi di Roman von Ungern Sternberg e come il grande cannone di Semënov. Il cannone del carro di Sacha era soltanto da 115 mm, non era molto preciso, ma era velocissimo, per questo i soldati lo chiamavano Falco.
Oggi, Sacha guida un vecchio furgone Uaz grigio-ferro e porta i turisti a vedere la “perla di ghiaccio”, il Bajkal. I suoi occhi hanno lo stesso colore del lago in inverno, azzurro-ghiaccio.
Il Bajkal non è un semplice lago, è un’immensa riserva d’acqua pura, circa il 20% di tutta l’acqua dolce del nostro pianeta. E’ lungo più di 600 chilometri, largo dai 40 ai 70. Una lunga virgola, una banana azzurra visibile dallo spazio insieme alla grande muraglia cinese. Nel suo punto più profondo, l’abisso supera i 1600 metri. L’immensa distesa liquida, d’inverno si blocca, cristallizzata in una tavolozza di ghiaccio blu coperta da una limpida, ma solida scorza trasparente.
L’isola sacra di Olchon è scura, è una surreale presenza che si staglia su quel lucido specchio e, grazie a quel gelo, è raggiungibile in macchina. Sospesa come in un sogno.
La leggenda della gente del posto dice che il dio del lago, una notte si svegliò e vide che una delle sue 337 figlie voleva fuggire insieme ai gabbiani per raggiungere l’uomo-fiume che amava, le tirò dietro un’immensa pietra, ma lei riuscì a sfuggire lo stesso. La ragazza si chiamava Angara ed è il nome dell’unico fiume che esce dal lago, gli altri 336 fanno affluire le loro acque in quell’immenso bacino sacro. La pietra scagliata dal Grande Uomo Baikal, sarebbe proprio la Roccia dello Sciamano che si protende dall’isola. Ci sono quattro larici avvolti da nastri azzurri votivi e una nave nera bloccata nella morsa del gelo. Si sente solo il rumore del vento e il crack-crack sinistro dell’assestamento dei ghiacci, la voce del lago. Sembra di camminare su di un blocco di quarzo, sembra d’intravedere un mondo incantato sotto a quella lucida superficie blu.
Ci si guarda intorno e non si ha molta voglia di parlare. E’una distesa infinita. Lunare.
Il vento più forte, quello che tira dal nord è il Sarma e il suo soffio gelato riesce a cristallizzare il movimento delle onde, a bloccare le navi e a rivestire i pali dei moli con un palmo di ghiaccio. Sembrano mani bianche del vento che s’aggrappino al legno.
Sembra che un mago, in una notte fatata abbia preso la sua bacchetta magica e abbia bloccato tutto quel mondo nella sua morsa di cristallo. Quando al mattino il Bajkal s’illumina della fredda luce bluastra dell’alba, è un’immensa cattedrale di luce. Allora Sacha guida il suo Uaz e, sbandando e danzando sul ghiaccio, fischietta un valzer di Strass, poi, con una lunga trivella appuntita come un grande cavatappi, fa un buco nella crosta ghiacciata del lago, ma non è facile perché lo spessore supera il metro. Sacha, completa il buco spezzando l’ultimo ponte gelato picchiando con un lungo bastone dal puntale di ferro, sembra un guerriero medievale che, con la picca, voglia finire il suo nemico. L’acqua gelata sgorga libera verso la superficie e lui ci piazza davanti un seggiolino e cala la lenza. E’ pronto a pescare l’”Omul”, un piccolo salmone dal corpo allungato. Ne farà una semplice zuppa con cipolle, carote e patate. La zuppa di pesce è una calda meraviglia mentre la schiuma della birra, in pochi minuti, si ghiaccia sul tavolo. Quando arriva la Vodka, Sacha decanta un verso di Maxim Gorkij: “Lodiamo il coraggio dei valorosi sognatori”. Si ricorda solo quel frammento della poesia “Il canto del falco”, forse gli sarà tornato in mente il cannone del suo carro armato, forse gli sarà tornato in mente un periodo che in qualche modo adesso rimpiange e allora racconta la poesia a modo suo, come fosse una storia:
“In cima ad un’alta scogliera c’era un serpente che strisciava in cerca di cibo. Il sole splendeva alto nel cielo e le onde del mare s’infrangevano sulle rocce, ma all’improvviso un falco cadde vicino al serpente. Lui si ritrasse impaurito, ma il falco non si curava affatto di lui, era ferito, stava morendo, ma alla fine riuscì ad avvicinarsi allo strapiombo, avrebbe preferito fare un ultimo volo piuttosto che aspettare la fine su quelle rocce. Precipitò in mare, fracassandosi sugli scogli e le onde si portarono via il valoroso uccello dalle ali spezzate…”
Marco Steiner
Maroon
Paramaribo, Suriname, Guyana olandese.
C’è una veranda stretta e lunga in una pensione di Paramaribo, si affaccia sullo scorrere lento del fiume marrone, ha il tetto e le persiane azzurre, balaustre bianche di legno scrostato, larghe poltrone di vimini, un gatto che dorme. Pigri ventilatori al soffitto cercano di mischiare l’umidità all’aria ghiacciata che filtra fumando dal condizionatore.
Nel silenzio si sente solo il ronzio e il cigolio delle pale, ma fa caldo lo stesso. Non è la pensione di madame Java, ma gli assomiglia. Alla reception c’è una brasiliana con un sorriso carico d’inviti.
L’atmosfera è sonnolenta, c’è odore di burro e pane tostato, un vago sentore di curry, spezie e cipolla che sfrigola. Il porto è in fondo alla strada, il mercato a due passi. Lì c’è di tutto, frutta colorata e verdure appassite, pesci affettati a colpi di machete, polli appesi e magliette piegate, orologi, radioline e cd falsi, ma anche vecchie bottiglie scariche di rhum, ma riempite con pezzi di corteccia d’albero, semi, foglie secche, piccoli arbusti o bacche. Basterà aggiungere un liquore chiaro, rum non invecchiato, vodka o gin. E aspettare. L’alcool assorbirà le proprietà di tutte quelle essenze. In pochi giorni il liquido diventa bruno-ambrato, amaro come il fiele, pungente come la schiena di un istrice, rugoso come pomice. Ogni bottiglia é una combinazione specifica per un preciso problema, il mal di schiena, il potenziamento sessuale maschile, per favorire le gravidanze, per la prevenzione o la cura della malaria, o soltanto per leggere qualcosa di strano nel futuro.
Una vecchia, nera e lucida come un pezzo d’ebano strofinato negli anni, spiega il funzionamento delle varie combinazioni. Ti fissa negli occhi, vuole conoscere chi le sta davanti, ma non le servono troppi discorsi. Ha un banchetto in un angolo scuro, i suoi occhi, bianchi come due lune bucate, sono scanner primordiali. Scavano, indagano, fulminano, o ignorano e se ne vanno lontani. Vende bottiglie magiche, ma anche bicchieri intagliati nel legno di china, radici nodose e unguenti profumati. Basta chiacchierare un po’, essere diretti e sinceri, dire qualcosa e poi farsi raccontare una storia. Sotto al banco ci sono bambole di pezza e spilloni, bottiglie scure con un liquido verde, altari di legno, candele colorate di varie dimensioni e tutto quello che serve per organizzare un rito vudù.
Poco fuori dalla città c’è la grande fabbrica, il cuore pulsante di tutto il paese, si chiama “Suralco”, loro lavano ed estraggono la bauxite dalla terra rossa dell’Amazzonia e poi la trasformano in allumina, la base per arrivare all’alluminio, uno dei metalli più diffusi nella nostra società, non solo nelle pentole. Per arrivare all’alluminio si passa attraverso un processo costoso, sono necessari quantitativi di energia elettrica impressionanti, qui non è possibile, lo faranno da qualche altra parte. In Suriname non è economico produrre energia, ma c’è tanta terra e tanti uomini che possono lavare la terra. Quattro tonnellate di bauxite per una tonnellata di alluminio, sfornato in lingotti di nove metri che pesano come sei elefanti. Sui giganteschi camion “Suralco” campeggia un motto che è tutto un programma: “We move the mountains. (Noi spostiamo le montagne)”.
Dopo quell’immenso castello di ferro, fumo e cemento, la strada è una striscia rossa d’argilla martoriata da piogge e pneumatici che s’infila come una cicatrice nel sud, nel verde della foresta, verso altre inguaribili piaghe scavate nella terra, le miniere d’oro.
I camion gialli vanno e vengono sbattendo ruote e sospensioni nelle buche e nel fango e si trasformano in mostri color rame. Quel frastuono metallico rimbomba nelle gallerie vegetali e fa rintanare i giaguari e le scimmie, ma a poche centinaia di metri la giungla torna di nuovo padrona. Per migliaia di chilometri c’è solo foresta amazzonica, giù, sempre più in fondo verso il sud del mondo.
Un tappeto carico di verde e ossigeno che si srotola oltre il confine, lungo tutto il Brasile.
Le puttane vengono da lì, dalle zone povere del Brasile. Loro sono le vere schiave di oggi. Un tempo, gli schiavi venivano dall’Africa: Costa d’Avorio, Dahomey, Ghana, li caricavano come bestie sulle navi e li sbattevano qui, servivano per coltivare le terre, per tagliare le foreste, guardare le mandrie, spaccare le pietre e fare tutto quello che nessun bianco avrebbe mai fatto. Alcuni di loro si ribellarono e fuggirono addentrandosi nella selva, e i loro discendenti sono rimasti ancora lì, adesso li chiamano maroon, ma fra loro si chiamano Longwe Samma (gente che scappa).
Sono i maroon che si occupano di cercare l’oro nella foresta, le concessioni sono canadesi oppure olandesi o di chissà quale ex-dittatore, ma chi scava, chi si prende la malaria, chi maneggia e s’intossica col mercurio, chi si prende l’Aids con le puttane brasiliane, chi viene ucciso dalle bande dopo aver ricevuto la paga o aver trovato una pepita, sono sempre loro, gli schiavi che hanno scelto la libertà, il gruppo più numeroso è quello degli Ndjuka. Loro però hanno una fonte di energia particolare. Si chiama Obeah, è un’antica forma di pratiche magico-religiose che proviene dall’Africa centrale, sono le divinità più potenti di tutte, non hanno paura del teatrino degli altri dei caraibici. Loro sì che fanno paura, bisogna chiedere a loro il permesso di toccare la terra, di ricevere la forza di scavare e di sopravvivere nella buia umidità della foresta.
I rituali magici vanno dalla magia bianca a quella nera e nessuno può davvero sapere che genere di sacrifici si facciano in certe notti molto scure. Sicuramente un cocktail per rinforzare lo spirito è composto da sangue di gallo, plasma di capra sgozzata, succo di canna da zucchero, rum e polvere da sparo. A Paramaribo c’è un negozio attrezzato in ogni genere di prodotto che serva per i rituali vudù, loro si occupano solo di magia bianca, magia positiva, dicono. La cosa più antica che c’è nel negozio è una serie di calderoni.
– “Il calderone serve a tutto – dice Héctor, un negro con dei bicipiti solidi e scuri come tronchi – si possono far bollire le erbe per lavarsi, o preparare una pozione per purificarsi, cucinare il cibo che serve per mangiare o che serve per la divinità da invocare, oppure può fare da casa per qualcosa che si è stata sacrificata per darci la forza di andare avanti…
Gli altri schiavi rimasero al loro posto e poi, nel 1863 furono liberati e rimasero in città, a lavorare per proprio conto. Oggi, i discendenti dei maroon, gli ex-schiavi fuggiaschi e di quelli liberati non si amano molto fra loro. Si ignorano e vogliono dimenticare i loro rispettivi passati.
Tanto per mescolare ancora di più le razze, dopo l’abolizione della schiavitù arrivarono in Suriname altri lavoratori, non erano più veri schiavi, ma venivano da altri miserevoli mondi, avrebbero accettato qualunque paga, qualunque condizione di vita pur di cercare un avvenire diverso e di riuscire a sfuggire dai loro problemi. Arrivavano dall’Industan, da Giava e dalle isole dell’arcipelago malese e indonesiano, dal sud della Cina, dall’India e dal Bangladesh e naturalmente dai paesi più poveri del Brasile.
Nazaré da Silva Nascimento, era una di loro, lei veniva dall’isola di Marajó, sulla foce del Rio delle Amazzoni, nello stato del Pará. Nazaré era nata in un villaggio di legno marcio e lamiera, costruito su fragili palafitte, non c’era niente di buono laggiù, tranne suo nonno. Lui modellava la ceramica di giorno e suonava la chitarra quando calava la sera. I vasi e i piatti che plasmava avevano colori delicati, ma le note delle sue corde lo erano ancora di più e Nazaré amava la musica più di ogni altra cosa. Un giorno, a dodici anni, diventò all’improvviso pallida e sudata, aveva la pancia dura come un sasso e un dolore lancinante nel ventre, dopo cinque terribili ore di barca arrivarono finalmente a Belém, dal medico. Il dottor Sachs la operò e la salvò, l’attacco di appendicite si stava trasformando in peritonite.
Quando si risvegliò nella stanzetta dell’ospedale di Belém non c’era nessuno dei suoi, solo il vecchio dottore, in una mano stringeva una bottiglia di rhum e beveva, con l’altra la stava accarezzando, ma c’era una musica celestiale in quella stanza.
- Ti ho salvato la vita, ma voglio farti anche un altro regalo, Nazaré. Tu adesso chiudi gli occhi e ascolta la musica di Telemann. Il tuo corpo è uno spettacolo e voglio sentirti vibrare con queste note.
Dopo quel giorno per Nazaré, l’unico spettacolo che riuscì a vedere dal suo villaggio fu la “pororoca”, la formazione di onde gigantesche provocate dall’incontro fra le acque fluviali e quelle dell’Oceano Atlantico. Quando le acque del mare rientravano, portandosi dietro il color ocra di terra nel blu, lasciavano distese fangose punteggiate soltanto dalle macchie nere delle mandrie di bufali. Nazaré guardava quella laguna popolata da miseria e zanzare e sognava una cosa soltanto: scappare, andare via, lontano.
Non avrebbe mai pensato di finire peggio di là. Non avrebbe mai pensato di diventare la schiava di Luciano Brust. Il fornitore ufficiale di puttane per i cercatori d’oro del basso Suriname.
Il pugno è l’arma preferita di Luciano e può fare male, molto male. È nero e potente, lui sa dove colpire e ogni dito è rivestito da un grosso anello. C’è una spiegazione per ognuno di loro.
The star, la stella fortunata, quella di Lucky Luciano.
Una pietra rossa come il sangue, the blood, il sangue dei nemici.
Darkness, una pietra nera come il buio, il mistero dell’obeah, la potenza delle antiche divinità africane.
Freedom, la libertà, la cosa che Luciano ama di più.
Un’ancora marinara, perché lui vuole essere steady, stabile. Come una barca pronta a salpare, come una barca che si lascia cullare incurante dei capricci del mare, ma che resta lì, aggrappata sul fondo. Con lo sguardo nel blu e le dita di ferro aggrappate alle rocce.
Quella mano può accarezzare la pelle di Nazaré, spettinarle i capelli, può minacciare, o può massacrarle la faccia, renderla irriconoscibile, ridurla in brandelli con quel pugno armato con i suoi cinque simboli. Lui l’ha portata oltre il confine, l’ha portata via dalla violenza dei fratelli, ha pagato la sua famiglia, ha pagato il suo viaggio, le ha dato una casa e continua ogni giorno a darle cibo, e protezione. Adesso lei è una sua proprietà e deve fare contenti quegli uomini che frugano nella terra. Nazaré deve restituire il suo debito, deve riscattare tutto quello che Luciano ha fatto per lei, solo così potrà evitare quel pugno.
Ci sono altri schiavi moderni nel Suriname, in generale sono cinesi. Arrivano qui per costruire le strade, vengono dalle province meridionali del loro grande paese. I contratti da fame delle ditte appaltatrici durano sei mesi, loro hanno i permessi e lavorano duro, ma poi dovrebbero tornare, invece scompaiono nel nulla, nel verde di quelle foreste. Qualcun altro si occuperà di loro, come Luciano con Nazaré, qualcuno troverà loro una baracca e li spedirà a spargere mangime e ormoni ai gamberi che allevano lungo il fiume, antiparassitari alle canne da zucchero, a dissodare pietre nelle piantagioni di caffé, a spruzzare il diserbante nei campi, a cucire reti o pezzi di stoffa in qualche umido magazzino.
I piccoli lavoratori cinesi non hanno più un nome, sono clandestini in una terra libera, schiavi di chi li ha condotti attraverso i meandri di quella falsa libertà. Fra loro parlano una lingua speciale, parlano “Hakka” per capirsi senza farsi capire dagli altri, per avere ancora qualcosa di personale e speciale nel buio delle loro capanne di lamiera, di fronte al solito pugno di riso.
Del resto, Hakka, vuol dire “straniero” oppure “ospite”.
Fotografie di Marco D’Anna
“Una Ballata del mare salato”, un racconto di formazione.
“Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.” (J.D. Salinger, Il giovane Holden. Einaudi)
Salinger è morto il 27 gennaio del 2010 a 91 anni. Il suo romanzo “Il giovane Holden” é uscito nel 1951 e da allora, mentre il suo autore si ritirava in un ferreo silenzio e in volontario isolamento, ha venduto più di 60 milioni di copie in tutto il mondo e generazioni di ragazzi l’hanno letto e hanno trovato similitudini con i loro processi di crescita e con le loro problematiche esistenziali, insomma, il Giovane Holden è un tipico romanzo di formazione, come Demian, Davide Copperfield, Il rosso e il nero, Gli Indifferenti e tanti altri.
La Ballata ha le stesse caratteristiche perché il vero protagonista, in fondo, non è Corto Maltese e nemmeno l’Oceano Pacifico, ma sono Pandora e Cain, due ragazzi che all’inizio della storia non sono altro che due viziati rampolli di una ricca famiglia australiana e alla fine, dopo un anno di vagabondaggi si ritroveranno diversi e in un mondo reso diverso dalla guerra.
Le spedizioni di James Cook vennero commissionate dalla Royal Society per dimostrare l’esistenza della Terra Australis, ma gli intenti dello scettico Cook erano quelli di andare oltre: “…al di là di dove chiunque è andato prima, ma fin dove è possibile per un uomo andare”.
Il suo secondo viaggio iniziò da Plymouth il 13 luglio del 1772.
A bordo della Resolution c’era un giovane tedesco di diciassette anni, Georg Forster, che si era imbarcato col padre, Johann Reinhold Forster, il naturalista della spedizione. Forster “padre” era stato incaricato di redigere il resoconto del viaggio, ma il carattere di Johann Reinhold non era facile da digerire per Cook e tantomeno per Lord Sandwich che aveva commissionato il suo lavoro, ma che voleva poter dire la sua, guidare e correggere la linea di quel resoconto. Il rigido naturalista tedesco, secondo le sue stesse parole, non aveva alcuna intenzione di essere trattato come uno scolaro a cui si correggono i compiti e fu così che si arrivò alla rottura del contratto e alla decisione di Cook di pubblicare la sua personale storia della spedizione. Il viaggio dei due Forster sarebbe stata una bella e indimenticabile esperienza, niente di più. Ma il giovane Georg aveva sempre collaborato con suo padre, aveva girato tutte quelle isole brulle e pietrose o fantastiche e cariche di piante e animali meravigliosi, aveva sempre cercato di dialogare con le popolazioni locali, aveva preso appunti e fatto disegni, raccolto semi sconosciuti e tantissimi indelebili ricordi. Quando vide suo padre deluso e indignato subì lui stesso quella situazione, ma decise di reagire a modo suo. Lavorò giorno e notte per otto mesi e alla fine riuscì a concludere il suo “Viaggio intorno al mondo”. Lo pubblicò sei settimane prima dell’uscita del libro di James Cook. Aveva solo ventidue anni. Il suo era un racconto dichiaratamente non ufficiale, era destinato alla gente comune, lui voleva raccontare il suo punto di vista in tutta libertà. Descrisse la grandezza di quel navigatore che aveva combattuto lo scorbuto facendo sempre mangiare agrumi e crauti ai suoi uomini, che aveva sempre preteso ferree regole igieniche a bordo. Georg voleva raccontare alla gente quanto fosse diverso e meraviglioso quel mondo che aveva avuto occasione di conoscere. Sorprendentemente, il suo libro gli valse una grande notorietà in tutta Europa e tuttora viene considerato come uno dei migliori esempi di letteratura di viaggio. “I miei lettori dovevano sapere di che colore era la lente attraverso cui guardavo. Per quel che mi riguarda essa non è mai stata né oscura né appannata. A tutti i popoli della terra ho testimoniato la mia buona volontà a pari titolo. Sono anche consapevole che con ogni singolo uomo io ho in comune vari diritti.”
Questo scriveva nella sua prefazione il giovane Georg Forster riuscendo poi a raccontare quell’incredibile viaggio con lo spirito del filosofo, dello scienziato e del romanziere. Le annotazioni sui diversi linguaggi e sui comportamenti sociali delle popolazioni del Pacifico, gli schizzi sulle specie vegetali, gli utensili, le armi e le piroghe sono degni di un grande naturalista. La descrizione dello stato d’animo e dello stato fisico dei marinai che, dopo 103 giorni di navigazione ininterrotta fra i ghiacci del circolo polare antartico, si trascinavano sui ponti delle navi come fantasmi non può non ricordare le magiche atmosfere di un grande romanziere come Edgar Allan Poe nel suo “Il racconto di Arthur Gordon Pym”.
Anche Louis Antoine de Boungainville scrisse il suo Voyage autour du monde dopo la sua circumnavigazione del globo e anche lui si portò dietro oltre all’astronomo e al disegnatore, anche il suo bravo naturalista, si chiamava Philibert Commerçon e fu lui che scoprì in Brasile un genere di piante che nominò Bougainvillea in onore del suo comandante, ma descrisse anche un particolare tipo di delfino dello stretto di Magellano che prese il suo nome, Cephalorhynchus Commersonii. Ma anche Commerçon fece una cosa molto particolare nel corso del suo viaggio, fece imbarcare come suo valletto e assistente personale un ragazzo che si chiamava Jean Baré, peccato che in realtà fosse Jeanne Barret, la sua compagna, che così divenne la prima donna a completare un giro del mondo, naturalmente la scoprirono gli indigeni di Tahiti, mentre a bordo non se n’era accorto nessuno.
Tutti quei viaggi furono in realtà percorsi che avevano degli obiettivi generali, ma poi, quasi sempre, seguivano anche altre linee dettate dal caso, dalla natura, dagli incontri degli uomini stessi o dal destino.
Forse non servirà “rinnegare il mondo intero per cercare più verità in un mondo nuovo“, come dice la Niña de los Peines nella sua Petenera, ma basterà vedere questo mondo con un occhio diverso perché, secondo René Magritte “Noi non vediamo che un solo lato delle cose. E’ proprio l’altro lato che io cerco di esprimere”. Questa frase ricorda molto i diversi gradi di lettura possibili nelle storie di Pratt e, prima fra tutte, la Ballata.
Allora, cercando di “vedere” in questa maniera due dei quadri di Magritte ci accorgeremo, forse, che in effetti le nostre capacità percettive possono davvero allargarsi.
“La reproduction interdite” e “Il principio del piacere” sono entrambi dei “semplici” ritratti di Edward James, un grande collezionista, un poeta, un sognatore, un ricco mecenate di tanti grandissimi pittori surrealisti. La caratteristica fondamentale di questi due quadri consiste nel fatto che non c’è il volto del protagonista. Lo sguardo del pittore nasce da un falso specchio che trascende quello che si vede. Nella “Reproduction interdite” lo specchio, posto di fronte al soggetto del ritratto riflette la stessa immagine dell’uomo visto di spalle, cioè il punto di vista dell’osservatore. Un’immagine che va oltre il possibile. Eppure, lo stesso specchio, riflette invece perfettamente la copertina di un libro posto accanto ad Edward James. Guardando con attenzione si scopre che si tratta del libro di E.A. Poe “Il racconto di Arthur Gordon Pym” che, in fondo, è un viaggio in un’altra dimensione.
Ne “Il principio del piacere” il volto di Edward James questa volta è sostituito da un’indefinita esplosione di luce, come se un flash fotografico avesse dissolto la realtà dei tratti di quel viso, ma questo lampo luminoso richiama in mente proprio la visione di Pratt e quella sua capacità di raccontare e far viaggiare ben oltre le immagini disegnate, perché c’è un mondo bellissimo compreso nell’indefinibile spazio fra la vista e la visione.
C’è il viaggio del lettore mentre legge.
To the friendly people of the Friendly Islands…
Marco Steiner
Paramaribo
Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti.
(Charles Darwin 1809-1882)
A Paramaribo c’è un parco di palme, il Palmentuin, e un bel viale verde e ombroso prima di arrivare al forte olandese, oggi è diventato un museo, si chiama Fort Zeelandia Museum, si affaccia sulla costa del Suriname, il grande fiume marrone, un tempo difendeva con le sue batterie di cannoni l’entrata nella baia di Paramaribo. In una piazzetta, fra le vecchie case coloniali, ci sono una serie di barili di petrolio impilati uno sopra all’altro fino a formare dei totem alti 5 metri e con un diametro di 90 centimetri. I totem sono neri e lucidi, li hanno abbelliti con decorazioni di lettere e simboli in alluminio intagliato, sono segni e parole che vengono dalla lingua e dalla cultura Afaka.
La scrittura Afaka fu inventata all’inizio del XX° secolo da un uomo di una delle tribù maroon (una parola che viene dallo spagnolo cimarrón, cioè quelli che vivono in cima alle montagne) anche questa lingua, come l’Hakka dei cinesi, era una forma di difesa delle tribù locali per comunicare fra loro tramite una lingua segreta.
E’ stato Marcel Hendrick Pinas, un artista locale, ad avere l’idea e a realizzare l’installazione, si chiama Kibi Wi Totem, l’intento simbolico è quello di proteggere il Suriname dalle cattive influenze che provengono dall’esterno. Alcuni anni fa, nel 2006, all’epoca della creazione del progetto i totem erano 25 ed erano tutti lì, lungo il fiume e vicino al vecchio forte, l’antico simbolo della difesa, adesso alcuni sono stati spostati disponendoli anche in altre zone del paese, per cercare una pacifica catena di protezione da tutte le influenze esterne che possono provenire anche dagli altri confini.
Il messaggio é chiaro e semplice per tutti: la cultura indigena, la foresta pluviale, le riserve naturali del paese devono essere protetti tramite quei simboli totemici da tutti i diavoli esterni. Quei totem parlano nella lingua creata da chi ha sempre vissuto in quella terra ma sono fatti proprio con i materiali che hanno richiamato nel paese tanti colonizzatori esterni: barili di petrolio e alluminio.
Fuori dal Suriname, verso il nord, nel Mar dei Caraibi, in quella lunga manciata di isole disseminate fra il Sud America e le coste degli Stati Uniti, i barili di petrolio hanno avuto anche un altro impiego: hanno fatto ballare migliaia di persone al ritmo di calypso e reggae delle steelbands. I primi suonatori di steeldrums cominciarono a esercitare il loro innato senso del ritmo semplicemente picchiando con dei bastoni i bidoni di petrolio che rubavano in giro per le raffinerie. Uno di questi ragazzi si chiamava Winton “Spree” Simon, un giorno, Spree (che in inglese vuol dire baldoria) per non essere scoperto, iniziò a bruciare la parte esterna dei bidoni per far sparire la vernice che ne avrebbe svelato l’origine, facendo così si accorse che scaldando il metallo e provocandone degli avvallamenti si potevano ottenere dei suoni molto più dolci e talmente diversi fra loro da riuscire a riprodurre tutte le note musicali.
Oggi, a Trinidad e Tobago ci sono fabbriche specializzate nel realizzare i cosiddetti pan e i tuner, sono operai molto qualificati, in grado di accordate i vari strumenti alla perfezione prima di spedirli in giro per le isole e nel grande mondo delle steelbands.
Dai bastioni scuri di Fort Zeelandia si gode un bel panorama sul fiume, al piano terra hanno allestito la rappresentazione di una specie di farmacia coloniale con contenitori in ceramica decorata, alambicchi e vasi di vetro, dall’altro lato c’è un piccolo negozio di souvenir e un’esposizione di oggetti relativi alla storia del Suriname, ma al piano superiore, in una saletta appartata, c’è l’esposizione di riproduzioni delle opere di una pittrice ed entomologa molto importante, Maria Sibylla Merian (1647 Francoforte – 1717 Amsterdam), una donna davvero speciale che, nel 1699 arrivò qui con le sue due figlie. Si era pagata un viaggio di tre mesi in nave da sola e poi aveva affrontato i disagi del caldo, dell’umidità, della diffidenza degli uomini, per realizzare il suo sogno: osservare la natura e studiarne le trasformazioni.
Le “Metamorfosi degli insetti del Suriname” è il risultato della sua incredibile esperienza di vita, di studiosa e d’artista, 60 tavole di illustrazioni incise su rame. Un lavoro che viene definito dai naturalisti come “la più bella opera mai dipinta in America”.
I disegni, i colori e le composizioni sono perfetti, anche lo zar Pietro il Grande era un suo grande estimatore e collezionista e oggi le sue opere vengono esposte a Londra, New York e nei più grandi musei del mondo. La caratteristica e la particolarità di Sibylla Merian era l’originalità del suo punto di vista. Lei era affascinata dalla progressiva trasformazione del bruco in crisalide e dalla successiva evoluzione e liberazione, da questo amorfo contenitore, di meravigliose e coloratissime farfalle. Tutto questo tenendo conto che nella sua epoca gli insetti erano considerati bestie di Satana e le metamorfosi degli animali erano quasi sconosciute, tanto che si pensava che gli insetti nascessero attraverso una generazione spontanea derivata dalla putrefazione del fango.
Fra tutte le riproduzioni ce n’è una molto particolare, un caimano che afferra il collo di un serpente fra i denti mentre ne blocca la coda con una zampa posteriore e l’attorciglia con la sua stessa coda. Sembra di assistere a quella rapida scena di violenza proprio lì, nella saletta del museo. Il serpente ha una colorazione vistosa, fatta di anelli neri, gialli e arancio di varie dimensioni. Le scaglie della pelle del caimano sembrano in rilievo. Vicino al disegno, su un piedistallo di legno c’è un vaso di vetro con la dicitura: Reptilia Serpentes Boidae, Corallus enhydris.
E’ proprio lui, il serpente corallo che morde anche Corto Maltese in “Nonni e fiabe”.
Il terribile boa piomba sulle prede scivolando dagli alberi e le uccide inoculando con un morso il suo potente veleno neurotossico, ma Corto si spara sul braccio per scacciare il veleno, perché lui conosce quella natura. I caribi, gli aurachi, gli africani che aiutarono Maria Sibylla Merian a inoltrarsi nelle foreste, a navigare fra i fiumi, per raccogliere semi, foglie, fiori e bruchi, sapevano che anche quella strana donna bianca voleva conoscere meglio i segreti della foresta, era diventata quasi una di loro e lei li chiamava “i miei indiani”, non li chiamava selvaggi.
Cosa c’è di più preciso e descrittivo di un disegno naturalistico del 1700? Eppure le tavole realizzate dalla Merian non sono solo attenti studi scientifici dei fenomeni naturali, anche loro sono vere e proprie Suite, sintesi e racconti che vanno oltre le tavole e ci parlano della natura di questi luoghi e regalano personalissime osservazioni dell’evoluzione e dei cambiamenti che sono il mistero e la vera forza rigenerante della natura.
Ciò che per la crisalide è la fine del mondo,
il mondo chiama farfalla.
(Lao Tze)
Marco Steiner
Il mercante di sale
Il mercante di sale
Il mio nome è Ibrahim.
Sono un mercante di sale.
Lavoro al lago Assal. Due ore di autobus dalle false luci di Djibouti o due giorni di cammello. Ormai è una strada impossibile, per me.
Io resto fra le pietre e le sculture di sale.
È bello svegliarsi al mattino, la striscia bianca del lago si tinge di rosa, poi arriva il turchese.
Lo guardo per ore, mentre scaldo l’acqua del thè.
Ho venticinque anni, ma la mia faccia ne ha molti di più.
I miei occhi sono diventati due fessure sottili, come le righe sul lago.
Tre anni fa ero forte e veloce. “Ibrahim la gazzella”, mi chiamavano così, ero un mercante diverso, andavo e venivo dalla Somalia, conoscevo tutte le piste segrete, portavo ogni cosa.
Poi un proiettile mi spaccò una gamba e rimasi là, inchiodato alla roccia.
La notte scendeva e il sangue continuava a scorrere, si allontanava da me, s’infilava fra le pietre.
Riuscii a strappare una striscia di camicia, la strinsi forte sulla coscia e mi lasciai andare, potevo soltanto seguire il destino.
Mi ritrovai qui. Sul lago Assal, e tutto quel bianco mi ferì gli occhi.
Pensai d’essere arrivato in paradiso.
Ero debole e le luci bianche mi accecavano come spine appuntite.
Una donna mi versò l’acqua e mi guardò con due carboni pieni d’amore e compassione.
Ibrahim la gazzella se n’era andato per sempre.
Io me ne stavo sdraiato e la gente passava. Passava e spariva.
Una carovana di cammelli arrivava al tramonto e all’alba era nulla, però mi avevano salvato. Io li aspettavo e loro tornavano sempre.
Gli uomini caricavano, scaricavano il sale. Le donne cucinavano, sbattevano i panni. I bambini gridavano, correvano, piangevano. I cammelli masticavano erba secca.
E Ibrahim, lo storpio, se ne stava lì, a guardare la vita e il lago di luce.
Un giorno un bambino, Ismael, mi portò un regalo, il più bello del mondo.
Una stampella, l’aveva costruita da solo.
Era fatta di legno, di corda e di stracci intrecciati.
C’era scritto il mio nome. Il mio vecchio nome: “Ibrahim la gazzella”.
Mi appoggiai.
E mi alzai.
Il lago era ancora più bello.
Visto da lassù.
Marco Steiner
Lo specchio della verità
Lo specchio della verità
“Il Sole ne è padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice.
Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura”.
(Ermete Trismegisto, Tabula Smeragdina. Corpus Hermeticum. Bompiani. Il pensiero Occidentale/Filosofia. 2005)
Istanbul. Quartiere di Sultanahmet. Autunno. Una mattina di sole. Negozio elegante di antiquariato. Ufficio sul retro. La scrivania è ingombra di monete antiche suddivise in mucchietti. L’uomo seduto è in parte coperto dallo schermo piatto di un computer, ha una camicia bianca e un foulard verde al collo, capelli lunghi e disordinati, sta catalogando le monete usando una grossa lente d’ingrandimento dal manico in avorio. In primo piano una bilancia di precisione.
- Effendi, c’è un europeo in negozio e mi ha chiesto se abbiamo mappe molto antiche…
- Mi stai facendo perdere tempo Andrej, gli hai fatto vedere l’Imperium Turcicum di Homann?
- Naturalmente…
- E?
- Si è messo a ridere, dice che viene per conto di un grande esperto italiano di cartografia antica e che quelle sono mappe del ‘700 e che valgono al massimo 7-800 Euro.
- Noi a quanto le vendiamo?
- 1500 dollari. Cosa gli devo dire?
- Chiedigli cosa sta cercando e digli che io non ci sono, se capisci che il suo sedicente padrone è disposto a spendere molto fallo ritornare domani, e adesso lasciami in pace.
Dopo un’ora il signor Khaftaj lascia il suo ufficio ed entra nel negozio. E un mercoledì mattina di ottobre e Istanbul è inondata di sole.
- Com’è andata a finire con quel cliente?
- Alla fine mi ha detto che il suo capo stava cercando una parte della mappa di Piri Rais, e io gli ho risposto che quella si trova nella biblioteca del Topkapi…
- E lui?
- Mi ha detto che “quella era cosa risaputa”, ma che il suo capo la voleva incontrare lo stesso…domani, un’ora prima del tramonto alla…”Triplice cinta”…se ho capito bene.
- Dev’essere un mitomane, Andrej, e sono sicuro che non esiste nessun cartografo che lo manda in giro a cercare mappe da museo, comunque grazie. C’è altro?
- Si, mi ha dato questo busta per lei.
Jusuf infilò la busta nella tasca della giacca e andò a casa. Chiuse la porta a chiave, si sedette in poltrona e aprì la busta elegante.
Conteneva soltanto un biglietto da visita.
“Cristoforo Cybo. Erede di santi e di navigatori”.
Poi aggiunto a penna con una calligrafia elegante e perfetta: “Sono venuto in possesso di un testo raro di Ermete Trismegisto, edizione Turnèbe, anno 1554 che troverebbe opportuna collocazione nelle vostre mani in cambio della parte “scomparsa” della mappa di Piri Reis che ci risulta attualmente in Vostro possesso”.
Josuf compose immediatamente un numero sul suo cellulare.
- E’ venuto qualcuno per quell’antico scambio.
- Ti sembra tutto regolare?
- Solito sistema.
- Dove?
- Il muro dei segni.
- Sono sempre stati sottili.
- Da diverse centinaia d’anni.
- Credi che c’entri qualcosa il Fondo Monetario?
- No, ma credo che ormai Istanbul stia per ritornare importante culturalmente ed economicamente. Ci stanno perfino facendo riconciliare con gli Armeni, fra poco toccherà ai Curdi e poi agli Azeri e le nostre autostrade liquide porteranno merci e oro nero fino in Cina con un solo balzo. Cercano strane alternative per il gasdotto. Gireranno molti soldi e merci per questo vecchio mare, quindi hanno bisogno di stabilità. Questo gesto di riconciliazione è una specie di stretta di mano.
- E’ vero senza errore e menzogna, è certo e verissimo.
- Il padre di tutto, il Tèlesma è qui.
- Ci sentiamo domani.
Josuf incrociò le gambe e si sedette sul morbido tappeto. Accese un piccolo braciere e iniziò a pregare. Dopo mezz’ora si alzò, versò dei grani di povere sul braciere incandescente e inspirò lungamente quel fumo, poi incrociò le braccia davanti al petto e si toccò le spalle abbassando la testa.
Iniziò a girare, a girare ancora e poi, lentamente, aprì le braccia e le mani continuando a girare, la destra in alto, la sinistra in basso, fino a quando la stanza scomparve e lui vagò nello spazio infinito, sopra le moschee ed il cielo, si sciolse nelle particelle sottili e poi volò via dissolvendosi come fumo nel vento.
Quando tornò a terra si distese sul letto e dormì a lungo.
Il negozio antiquario di Jusuf Khaftaj non era lontano dalla Moschea Blu e da Aya Sofya, la Santa Sapienza dei Greci. I turisti seguivano le guide e continuavano a scattare immagini che sarebbero rimaste per qualche altro giorno sugli schermi digitali delle loro macchinette fotografiche perfette. Ekrem preparò un’eccellente spremuta di melagrana per il signor Khaftaj scegliendo quattro fra i frutti più sodi e maturi. Poi Jusuf Khaftaj entrò nell’imponente moschea e salì le rampe di scale che lo portarono alle gallerie del piano superiore, buttò uno sguardo alle imponenti e leggerissime volte, ai segni delle croci strappate e passò davanti alla tomba del doge Enrico Dandolo. Si fermò e fece una smorfia pensando a quel povero vecchio cieco arrivato con le sue galee veneziane fin lì per morire ed essere sepolto a Costantinopoli a 98 anni e poi perdere le ossa, disseppellite e date in pasto ai cani dalle orde di Mehmed II un quarto di secolo dopo. Sulla scrivania aveva lasciato due Grossi Matapàn d’argento, ma soltanto uno era perfetto, l’altro aveva una grossa scalfittura proprio sui volti del doge e di San Marco.
Mancava poco all’appuntamento. Un striscia di luce dorata s’infilava da una delle finestre che inquadravano le punte aguzze dei minareti e illuminava perfettamente il muretto di marmo sul quale era stato inciso, forse dai Templari, quel misterioso simbolo di tre quadrati concentrici che stavano a indicare la particolare sacralità energetica del luogo.
In quel preciso momento, Jusuf fu percorso da un brivido e da uno stato di allerta generale. Il cacciatore si sentì preda. Si allontanò dal luogo e girò dalla parte opposta della moschea. Da quel lato poteva osservare perfettamente il luogo dell’appuntamento e la lama di luce che lo stava illuminando. Dopo pochi istanti vide l’uomo e rimase pietrificato. Era come se si fosse guardato allo specchio, oppure attraverso una finestra invisibile sospesa al centro della moschea.
L’uomo che doveva incontrare era identico a lui. Si guardò intorno come se la gente si fosse potuta accorgere della presenza del suo doppio. Per istinto e per fortuna aveva scelto il lato giusto della galleria, l’uscita era da quel lato, s’avviò verso la scala con passo deciso.
Scomparve e non si guardò mai più indietro.
Marco Steiner
le foto sono di ©Marco D’Anna
La collina di Tara
La Colline di Tara.
Tic tic, un continuo tic tic, piove sui vetri della macchina, sul cappello, sugli ombrelli, da quando si scende dall’aereo a Dublino.
Non ci sono rumori sulla collina di Tara, a parte il vento, il tic tic, il clang metallico del cancello che si apre e sbatte sul supporto arrugginito. Scalpiccio morbido, passi su foglie, sull’erba bagnata e sul fango. I rintocchi della campana s’affacciano sul cimitero. L’erba è pettinata, le colline hanno un fondo irregolare. Un campo da golf tutto sballato. Avvallamenti e improvvisi rilievi, cerchi concentrici, pietre e croci celtiche che s’innalzano dal verde e, più in là, il nastro marrone, il fango della nuova autostrada. Per ora è bloccata, ma la praticità di un fiume d’asfalto vincerà sul ricordo del Luogo. Eppure Tara, e quei tumuli di 5000 anni, furono il ker (luogo) dei druidi, i mistici re-sacerdoti d’Irlanda e della mitica regina Maeve, del potente Cormac Mac Airt e di san Patrizio che accese qui il primo fuoco cristiano sull’isola.
Il simbolo di Tara è “The stone of destiny”, quella Pietra del destino, su cui il futuro re doveva arrampicarsi, e solo se questa emetteva tre grida, quel re veniva incoronato. Roccia e potenza, capacità di vivificare l’inamovibile imperturbabilità dell’elemento terrestre, attraverso il coraggio, le doti morali, la profondità dello spirito. Una specie di spada che solo il prescelto potrà estrarre dalla pietra.
Stanchezza umida di vapore e di pioggia che inzuppa. Sensazioni, che salgono dalla terra bagnata, attraversano i piedi e il corpo incurvato, mentre il vento fa insaccare le spalle, abbassare la testa, fissare quel tramite umido e morbido infilato in un paesaggio duro e tagliente.
Strano posto, non immediato ed esplicito. Nascosto, rinchiuso nella Madre Terra. E’ necessario ascoltare e cercare in silenzio. Seguendo i disegni di tumuli, cerchi e pietre.
Dicono fosse la porta dell’oltretomba.
Io entro in macchina e comincio a pensare, in silenzio.
Tic, tic, la pioggia, il vento che soffia sempre più forte. Sibila e smuove perfino la macchina.
Un’Opel rossa parcheggia. Improvvisa, sgargiante, inopportuna e rumorosa come un tuono. Il rullo di una batteria riporta alla realtà del rock, poi entra un assolo di chitarra, “Whole lotta love”, sono i Led Zeppelin sparati a tutta birra dalla signora che adesso spegne il motore, ma non la musica.
“Woman…you need…looooove” gridano i Led.
La dama venuta dal presente continua a invadere Tara e a bombardarmi di musica fino a quando tutto sfuma, e l’extraterreste spalanca il portellone posteriore per il suo boxer marrone sbavante, un bel cane, nervoso.
La replicante continua a fischiettare il motivo e poi chiude la macchina. Mi getta uno sguardo distratto e si accende una sigaretta. Anche questa è l’Irlanda, Mary O’Qualcosa porta a passeggiare il suo cane fra le pietre e i miti della collina di Tara, la collina dei Re.
Newgrange, o meglio Bru Na Boinne, è un sito megalitico antico di 3200 anni, 600 anni prima delle piramidi di Giza e 1000 anni prima di Stonehenge. Un tumulo di pietre ricoperte dal verde prato d’Irlanda. C’è un ingresso e un lungo cunicolo che s’infila in quella gran massa di sassi e raggiunge il centro del tumulo. Una pietra imponente protegge l’ingresso, una lunga losanga decorata con un disegno a triplice spirale. Il cunicolo della “tomba a passaggio” arriva fino al nucleo centrale, la vera tomba, suddivisa in tre nicchie e racchiusa da un tetto di lastre incastrate in una maniera così millimetrica che nei secoli non ha ceduto al peso e non ha fatto filtrare una goccia d’acqua. Ma qui c’è qualcos’altro di speciale: l’apertura della tomba è orientata in maniera perfetta verso il sorgere del sole, in un giorno preciso, il 21 dicembre, il solstizio d’inverno. Quel giorno, e solo quel giorno, verso le 9 del mattino, un raggio di sole penetra le pietre e si sdoppia. Un raggio segue lentamente il pavimento della grotta e attraversa i 24 metri del cunicolo che portano alla camera centrale della tomba, un altro raggio, che viaggia più in alto, colpisce una pietra circolare e diffonde una magica luce in tutto l’ambiente.
Tutto questo spettacolo, soltanto per 17, irripetibili, minuti all’anno.
Qualcuno ha congegnato un’opera del genere 3000 anni fa. Dicono che qui fu concepito l’eroe delle leggende irlandesi, il dio solare Cùchulainn, e a questo punto non resta che crederci.
Vendono i biglietti di una lotteria all’ingresso, per essere lì, proprio nella grotta, il 21 dicembre del prossimo anno, le domande sono decine di migliaia, all’interno ci saranno poche decine di persone, con la speranza che il sole riesca a sorgere e non venga bloccato da nuvole e pioggia.
Marco Steiner
Cavalli selvaggi e serpenti di ferro
Cavalli selvaggi e serpenti di ferro.
“Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa da abitare, quando la si sarà resa simile da un capo all’altro e non si potrà nemmeno più cercare di viaggiare per distrarsi un poco” (Pierre Loti).
Aran Islands
Inishmóre. Isole Aran, il cuore celtico d’Irlanda.
Sono le 8 del mattino, tutto è buio, grigio, freddo. Il mondo sembra deserto, assopito. Anche il sole è in ritardo. I chilometri scorrono sotto le ruote in silenzio, nessuno in giro, solo qualche pecora seduta sull’asfalto. Il prato è troppo umido e freddo anche per loro.
Il traghetto è semivuoto, ci sono solo una ventina di persone a bordo, compreso l’equipaggio. Uomini taciturni.
Giubbotti macchiati d’olio dei tecnici che fanno girare le caldaie. Giubbotti scuri in Goretex dei fotografi di pietre, tombe e uccelli. Capelli corti, barbe arricciate, basette tozze e rossicce. Tanti occhi socchiusi a smaltire le ultime Guinness.
Uscendo dal porto di Rossaveel uno stormo di gabbiani ci segue. Il mare è d’acciaio, la costa è bruna e marrone, i picchi luccicano, spolverati di bianco, le isole sono tre strisce sottili di blu.
La quarta oggi non c’è.
Dún Aengus è un anfiteatro semicircolare di pietre incastrate e impilate a secco con l’apertura rivolta verso l’Atlantico, l’Occidente. Il mare è là sotto, duro e caparbio come un ariete che picchia contro un muro da abbattere. Sono secoli che cerca di rosicchiare quell’immensa scogliera che osa ergersi impavida a sfidare la sua forza, ma si sbuccia le corna.
L’onda rimbomba nel silenzio come un tuono lontano, come un rullo di tamburi.
Al centro del semicerchio c’è un altare di pietre scure come il cielo.
Intorno, un prato d’erba chiara che s’inchina alla potenza del vento.
Piega la testa, disegna onde verdi, morbide, tranquille.
Dietro al muro c’è il resto dell’isola, separata da un’infinita distesa di pietre appuntite, conficcate a terra e incrociate come “cavalli di frisia” a sbarrare il passo a chissà quale invasore.
Lo chiamano il Forte, perché “Dun” in gaelico significa “Fortezza”, alcuni storici dicono che era una costruzione di difesa, in effetti non è difficile immaginare in quel semicerchio una riunione di druidi e, in mezzo all’altare, il gran sacerdote alto e barbuto che invoca la potenza del sole, o della luna, un lugubre antico lamento si disperde nel vento.
Forse anche il resto del semicerchio di pietre è scivolato in mare come la quarta isola e allora anche Dún Aengus è una specie di Stonehenge che rappresenta la “Ruota della vita”, la primordiale Dea Madre che si cela in ogni pietra che ha segnato la storia.
Il muro di pietre scure è quasi caldo, protegge dal vento, aiuta a guardare il flusso del mare, a seguire lo spettacolo del vento che scompiglia le nuvole.
All’improvviso si apre una breccia in quel grigio sipario, un fascio di sole innalza una lama fredda di luce dall’acciaio del mare.
In due ore il vento spazza ogni cosa, l’azzurro del cielo scaturisce dall’acqua riflessi turchesi e verdi come alghe che invadono il nero.
Un ragazzo entra nell’anfiteatro con passo elastico e sportivo. Jeans e giaccone nero di panno aperto al vento gelido. Una faccia irlandese, squadrata, sembra un attore che reciti un ruolo preciso. Va dritto e deciso verso il bordo dello strapiombo, senza il minimo timore si mette a cavallo dell’ultimo trampolino di pietra.
Sotto di lui, a un centinaio di metri, le onde continuano a sbattere la roccia in un ribollire rabbioso.
Sembra un giovane Corto Maltese in carne e ossa e se ne sta seduto lì, a fissare l’Occidente, a ricordare il suo sogno di Oberon e Puck, guarda il rimorchiatore che dirige a tutta forza contro il sottomarino tedesco con Mago Merlino e Morgana in questa Stonhenge selvaggia e reale.
“Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è. Infinito”. (William Blake – “The Marriage of Heaven and hell”)
La torre della cicogna bianca
La torre della cicogna bianca
“L’aurora irrompe, seguendo la montagna;
e intanto il Fiume Giallo fluisce verso il mare.
Ma tu potrai vedere un ampio panorama,
salendo ancor più in alto sulla torre.”
(“Salendo sulla torre delle cicogne” Wang Chih-Huan. 688-742 d.C. Poesia Cinese dell’epoca Tang. BUR 1998)
Pechino. Entrata meridionale del Tempio del Cielo. Domenica pomeriggio. Yu Zuncheng è un pensionato, appena può, viene qui a passare il suo tempo, anche quando è grigio e freddo, come oggi. Yu scrive poesie, le scrive per terra, all’interno del piazzale che precede l’immenso giardino del tempio. Si porta un lungo pennello che all’estremità ha una spugna appuntita, imbeve la punta in un secchio d’acqua e scrive sul lastricato grigio. Yu scrive con grande attenzione, i segni sono precisi, i movimenti eleganti. La poesia che parla della salita sulla Torre delle Cicogne l’ha trascritta sul selciato, è una famosa poesia dell’epoca Tang, ricorda un po’ “L’infinito” di Leopardi e il concetto dello sforzo necessario per guardare oltre, al di là del visibile.
Lentamente i tratti scuri e umidi svaniscono sulla pietra e tutto ritorna grigio com’era.
La gente si avvicina, parla con lui oppure legge in silenzio la poesia.
Il tempo scorre e asciuga i segni che ricordano i caratteri dipinti da Vita Lunga per Corto Maltese. Poi si scopre che Yu non è un pensionato normale, lui il mondo lo conosce davvero, parla perfettamente l’inglese. Molti anni fa, era l’interprete personale del presidente Deng Xiaoping.
Prima di leggere Corte Sconta detta Arcana, bisognerebbe guardare un film: “Shanghai express” di Joseph von Sternberg. C’è un po’ di tutto lì dentro: il viaggio in treno in una Cina in grande fermento, un amore impossibile, una splendida Marlene Dietrich che interpreta Shanghai Lil, le spie, i trafficanti d’oppio, le divise, i cambiamenti di fronte e le mitragliatrici dei soldati.
C’è anche una frase emblematica del generale Chang cinematografico:
“Siamo in Cina, dove vita e tempo non hanno valore”.
Poi ci si rende conto che anche il nome del regista è lo stesso di uno dei protagonisti della storia di Pratt, il leggendario barone Roman Ungern von Sternberg e allora il gioco dei rimandi potrebbe continuare a snodarsi lungo i freddi binari che attraversano la Siberia, la Mongolia, la Cina.
D’inverno, il lungo paesaggio che separa Pechino da Mosca è bianco e ghiacciato, è fatto di spazi infiniti, di un esercito di betulle allineate come esili spettri di soldati, di treni impregnati dall’odore del carbone e da un caravanserraglio d’umanità.
Non ci sono vagoni carichi d’oro, né cannoni, non ci sono diafane Marlene Dietrich, né bionde baronesse russe dal fascino distaccato, ci sono soltanto grasse prostitute cinesi che s’impomatano il viso e variopinti personaggi che trascinano valigie di merci da vendere a ogni fermata.
Il treno è uno sferragliante mercato ambulante invaso da borsoni telati a strisce azzurre, bianche e rosse, imbottiti di magliette, jeans, tute Adidas false e giubbotti di autentica stoffa sintetica, calze, calzini, occhiali griffati, lucide borse di pelle.
In giro circola soltanto denaro stropicciato, cinese, mongolo, russo, dollari ed euro che passano continuamente di mano in mano ad ogni stazione di sosta.
Nel treno c’è un sentore misto di vodka, sudore, grasse zuppe con carne stufata, carbone, sigarette e caffè. Alle dogane notturne il tempo si blocca, immobilizzato da controlli, cambi di carrelli e motrici che procederanno su binari dal passo diverso. Le guardie di confine s’infilano come gatti negli anfratti sotto i sedili e sopra i soffitti, fissano le pagine dei passaporti e gli occhi dei passeggeri per secondi che scorrono infiniti senza bisogno di parole, qui contano solo gli sguardi. Le teste dei controllori s’inclinano impercettibilmente e loro occhi scrutano in profondità, come animaleschi segnali di studio prima dell’attacco. La falsità trasuda da un battito di ciglia o da un sorriso ostentato, poi il passaporto viene richiuso e, magicamente, come per grazia ricevuta, tutto si sblocca e la marcia del treno continua.
È un procedere lento, che ingoia chilometri, confini, sbadigli, fusi orari, giornate fatte di grigi e albe che si confondono con i tramonti.
Fuori dal finestrino, il paesaggio che sfila sembra una tela rigata da un’impercettibile linea centrale: bianco increspato di neve e azzurro pallido di cielo.
Il tutto, macchiato dal vento.
Il sole non si vede, si nasconde da qualche parte, dietro ad un diafano alone.
Quando ci si avvicina alle stazioni, la neve diventa sporca, grigia, triste, stropicciata come il denaro, come il profilo delle città.
I vetri dei finestrini sono decorati da cristalli ghiacciati e gli spazi fra un vagone e l’altro sembrano celle frigorifere spazzate da un vento polare. Poliziotti silenziosi, ferrovieri svogliati, passeggeri rassegnati, ossigenate e corpulente cameriere s’incontrano nel vagone ristorante e sono una sintesi variopinta dei possibili incontri che avvengono realmente lungo quell’infinito doppio nastro d’acciaio e di paesi tanto diversi.
Ci sono oltre 7000 chilometri fra Mosca e Pechino, 5000 di Siberia, 1000 di Mongolia, 1000 di Cina, eppure il frate minore Giovanni da Pian del Carpine, inviato dal papa Innocenzo IV, arrivò a cavallo fino alla corte di Guyuk, il Gran Khan erede di Gengis partendo dalla Francia nel 1245.
Dopo di lui ci arrivò Guglielmo da Rubruc con una lettera del re di Francia Luigi IX.
I silenziosi viaggi dei due francescani avrebbero modestamente aperto la strada al celebre itinerario di Marco Polo, eppure tanti altri avventurieri, esploratori e geografi si erano spinti in quelle terre lontane descrivendo i Takhi, i cavalli selvaggi che non esistevano in altri luoghi del mondo e gli Almas, gli uomini-animali, yeti ricoperti di peli che vivevano in piccoli branchi nelle zone più inospitali e desolate di queste durissime terre.
Il sogno del barone Ungern von Sternberg partiva da questo centro del mondo, dalla Mongolia. Il generale dalle nobili origini teutoniche e baltiche, il fondatore dell’Ordine Militare Buddista e della Cavalleria Selvaggia voleva ristabilire il predominio culturale e religioso asiatico spazzando il materialismo dei conquistatori cinesi e dei rivoluzionari russi.
Oggi la patria di Genghis Khan si erge solitaria in mezzo a due grandi colossi come la Cina e la Russia che dopo aver abbandonato i loro idealismi rivoluzionari, ora inseguono diversi ma simili materialistici sogni di un moderno benessere.