La letteratura assoluta
Uno degli 8 capitoli di “La letteratura e gli dèi” di Roberto Calasso, Biblioteca Adelphi 404, s’intitola “Letteratura assoluta” ed è, secondo me, un capolavoro “assoluto”.
Nella bandella alla copertina si parla di “…una fuga della letteratura dal maestoso edificio della retorica, che a lungo l’aveva ospitata, verso una terra che non è descritta sulle mappe ma dove – da Hölderlin e Novalis a Mallarmé, a Proust e sino a oggi – siamo abituati a ritrovare la letteratura stessa nella sua metamorfosi più azzardata ed essenziale, insofferente ad ogni servitù verso la società e portatrice di un sapere irriducibile a ogni altro, che qui viene delineato sotto il nome di letteratura assoluta.
Basta un passaggio tratto dal “Monologo” di Novalis citato interamente da Calasso:
“Uno scritture è soltanto colui che dal linguaggio è stato entusiasmato”
“Di che cosa parlano gli scrittori quando nominano gli dèi?
Ci viene incontro una coppa attica dell’epoca della guerra peloponnesiaca.
Tre figure: a sinistra, seduto su una roccia, un giovane che scrive su una tavoletta, un díptychon che sembra quasi identico a un laptop.
Più in basso una testa recisa guarda il giovane che scrive.
A destra Apollo, in piedi: con una mano stringe un fusto di lauro, mentre stende il braccio verso il giovane che scrive.
Che cosa sta accadendo? Secondo le raffigurazioni più frequenti, Orfeo venne sgozzato da una Menade che gli stringeva i capelli da dietro e intanto gli immergeva nel collo la spada. Per difendersi, il poeta brandiva la lira come un’arma. E cantava, ma la vis carminum riuscì solo per qualche tempo a trattenere nell’aria le pietre che altre Menadi gli scagliavano addosso. Poi il clangore dell’assalto sovrastò la sua voce, che non poteva più agire.
La testa di Orfeo venne recisa con un falcetto. Gettata nell’Ebro cominciò a navigare. Cantava e sanguinava. Era sempre fresca, fiorente. Dal fiume raggiunse il mare. Attraversò un vasto tratto dell’Egeo, approdando a Lesbo. Lì si può supporre la scena dipinta sulla kylix attica. Ed è la scena primordiale della letteratura, composta dei suoi elementi irriducibili.
La letteratura non è mai cosa di un soggetto singolo. Gli attori sono perlomeno tre: la mano che scrive, la voce che parla, il dio che sorveglia e impone. Il loro aspetto non è molto diverso: tutti e tre giovani, dalla capigliatura folta e serpentina. Facilmente potrebbero essere presi per tre apparizioni della stessa persona. Ma non è questo il punto.
Il punto è la divisione in tre esseri autosufficienti.
Potremmo chiamarli l’Io, il Sé e il Divino.
Fra questi tre esseri avviene un continuo processo di triangolazione. Ogni frase, ogni forma sono variazioni all’interno di un campo di forze. Da ciò l’ambiguità della letteratura. Perché il punto di vista si sposta incessantemente fra quegli estremi, senza avvertircene. E, talvolta, senza avvertirne l’autore. Colui che scrive sulla tavoletta è assorto, come non vedesse nulla intorno a sé. E forse non lo vede. Forse non sa chi lo circonda. Basta lo stilo che incide le lettere, per catturare la sua attenzione. La testa che naviga sulle acque canta e sanguina. Ogni vibrazione della parola presuppone qualcosa di violento, un palaiòn pénthos, un “antico lutto”. Un assassinio? Un sacrificio? Non è chiaro ma la parola non finirà mai di raccontarlo. Apollo impugna la sua asta di alloro. Tendendo l’altro braccio, accenna qualcosa: impone? proibisce? protegge? Non lo sapremo mai. Però quel braccio teso, come nell’Apollo del Maestro di Olimpia, asse immobile al centro del vortice, investe e sostiene l’intera scena – e ogni letteratura”.
La letteratura assoluta
Uno degli otto capitoli ( sono le otto Weidenfeld Lectures che l’autore ha tenuto all’Università di Oxford nel maggio 2000) di “La letteratura e gli dèi” di Roberto Calasso, Adelphi 404, s’intitola “Letteratura assoluta” ed è, secondo me un capolavoro “assoluto” per chi ama la Letteratura e soprattutto un certo tipo di letteratura che cerca di trascendere i generi per trovare un “brivido nuovo”, quello che percepì Victor Hugo nei versi di Baudelaire.
Nella bandella alla copertina si parla di “…una fuga della letteratura dal maestoso edificio della retorica, che a lungo l’aveva ospitata, verso una terra che non è descritta sulle mappe ma dove – da Hölderlin e Novalis a Mallarmé, a Proust e sino a oggi – siamo abituati a ritrovare la letteratura stessa nella sua metamorfosi più azzardata ed essenziale, insofferente ad ogni servitù verso la società e portatrice di un sapere irriducibile a ogni altro, che qui viene delineato sotto il nome di letteratura assoluta”.
Trascrivo solamente il passaggio finale, è già un bellissimo racconto in sé, insieme a una citazione tratta dal “Monologo” di Novalis citato interamente da Calasso:
“Uno scritture è soltanto colui che dal linguaggio è stato entusiasmato”.
“Di che cosa parlano gli scrittori quando nominano gli dèi?
Ci viene incontro una coppa attica dell’epoca della guerra peloponnesiaca.
Tre figure: a sinistra, seduto su una roccia, un giovane che scrive su una tavoletta, un díptychon che sembra quasi identico a un laptop.
Più in basso una testa recisa guarda il giovane che scrive.
A destra Apollo, in piedi: con una mano stringe un fusto di lauro, mentre stende il braccio verso il giovane che scrive.
Che cosa sta accadendo? Secondo le raffigurazioni più frequenti, Orfeo venne sgozzato da una Menade che gli stringeva i capelli da dietro e intanto gli immergeva nel collo la spada. Per difendersi, il poeta brandiva la lira come un’arma. E cantava, ma la vis carminum riuscì solo per qualche tempo a trattenere nell’aria le pietre che altre Menadi gli scagliavano addosso. Poi il clangore dell’assalto sovrastò la sua voce, che non poteva più agire.
La testa di Orfeo venne recisa con un falcetto. Gettata nell’Ebro cominciò a navigare. Cantava e sanguinava. Era sempre fresca, fiorente. Dal fiume raggiunse il mare. Attraversò un vasto tratto dell’Egeo, approdando a Lesbo. Lì si può supporre la scena dipinta sulla kylix attica. Ed è la scena primordiale della letteratura, composta dei suoi elementi irriducibili.
La letteratura non è mai cosa di un soggetto singolo. Gli attori sono perlomeno tre: la mano che scrive, la voce che parla, il dio che sorveglia e impone. Il loro aspetto non è molto diverso: tutti e tre giovani, dalla capigliatura folta e serpentina. Facilmente potrebbero essere presi per tre apparizioni della stessa persona. Ma non è questo il punto.
Il punto è la divisione in tre esseri autosufficienti.
Potremmo chiamarli l’Io, il Sé e il Divino.
Fra questi tre esseri avviene un continuo processo di triangolazione. Ogni frase, ogni forma sono variazioni all’interno di un campo di forze. Da ciò l’ambiguità della letteratura. Perché il punto di vista si sposta incessantemente fra quegli estremi, senza avvertircene. E, talvolta, senza avvertirne l’autore. Colui che scrive sulla tavoletta è assorto, come non vedesse nulla intorno a sé. E forse non lo vede. Forse non sa chi lo circonda. Basto lo stilo che incide le lettere, per catturare la sua attenzione. La testa che naviga sulle acque canta e sanguina. Ogni vibrazione della parola presuppone qualcosa di violento, un palaiòn pénthos, un “antico lutto”. Un assassinio? Un sacrificio? Non è chiaro ma la parola non finirà mai di raccontarlo. Apollo impugna la sua asta di alloro. Tendendo l’altro braccio, accenna qualcosa: impone? proibisce? protegge? Non lo sapremo mai. Però quel braccio teso, come nell’Apollo del Maestro di Olimpia, asse immobile al centro del vortice, investe e sostiene l’intera scena – e ogni letteratura”.