Paramaribo
Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti.
(Charles Darwin 1809-1882)
A Paramaribo c’è un parco di palme, il Palmentuin, e un bel viale verde e ombroso prima di arrivare al forte olandese, oggi è diventato un museo, si chiama Fort Zeelandia Museum, si affaccia sulla costa del Suriname, il grande fiume marrone, un tempo difendeva con le sue batterie di cannoni l’entrata nella baia di Paramaribo. In una piazzetta, fra le vecchie case coloniali, ci sono una serie di barili di petrolio impilati uno sopra all’altro fino a formare dei totem alti 5 metri e con un diametro di 90 centimetri. I totem sono neri e lucidi, li hanno abbelliti con decorazioni di lettere e simboli in alluminio intagliato, sono segni e parole che vengono dalla lingua e dalla cultura Afaka.
La scrittura Afaka fu inventata all’inizio del XX° secolo da un uomo di una delle tribù maroon (una parola che viene dallo spagnolo cimarrón, cioè quelli che vivono in cima alle montagne) anche questa lingua, come l’Hakka dei cinesi, era una forma di difesa delle tribù locali per comunicare fra loro tramite una lingua segreta.
E’ stato Marcel Hendrick Pinas, un artista locale, ad avere l’idea e a realizzare l’installazione, si chiama Kibi Wi Totem, l’intento simbolico è quello di proteggere il Suriname dalle cattive influenze che provengono dall’esterno. Alcuni anni fa, nel 2006, all’epoca della creazione del progetto i totem erano 25 ed erano tutti lì, lungo il fiume e vicino al vecchio forte, l’antico simbolo della difesa, adesso alcuni sono stati spostati disponendoli anche in altre zone del paese, per cercare una pacifica catena di protezione da tutte le influenze esterne che possono provenire anche dagli altri confini.
Il messaggio é chiaro e semplice per tutti: la cultura indigena, la foresta pluviale, le riserve naturali del paese devono essere protetti tramite quei simboli totemici da tutti i diavoli esterni. Quei totem parlano nella lingua creata da chi ha sempre vissuto in quella terra ma sono fatti proprio con i materiali che hanno richiamato nel paese tanti colonizzatori esterni: barili di petrolio e alluminio.
Fuori dal Suriname, verso il nord, nel Mar dei Caraibi, in quella lunga manciata di isole disseminate fra il Sud America e le coste degli Stati Uniti, i barili di petrolio hanno avuto anche un altro impiego: hanno fatto ballare migliaia di persone al ritmo di calypso e reggae delle steelbands. I primi suonatori di steeldrums cominciarono a esercitare il loro innato senso del ritmo semplicemente picchiando con dei bastoni i bidoni di petrolio che rubavano in giro per le raffinerie. Uno di questi ragazzi si chiamava Winton “Spree” Simon, un giorno, Spree (che in inglese vuol dire baldoria) per non essere scoperto, iniziò a bruciare la parte esterna dei bidoni per far sparire la vernice che ne avrebbe svelato l’origine, facendo così si accorse che scaldando il metallo e provocandone degli avvallamenti si potevano ottenere dei suoni molto più dolci e talmente diversi fra loro da riuscire a riprodurre tutte le note musicali.
Oggi, a Trinidad e Tobago ci sono fabbriche specializzate nel realizzare i cosiddetti pan e i tuner, sono operai molto qualificati, in grado di accordate i vari strumenti alla perfezione prima di spedirli in giro per le isole e nel grande mondo delle steelbands.
Dai bastioni scuri di Fort Zeelandia si gode un bel panorama sul fiume, al piano terra hanno allestito la rappresentazione di una specie di farmacia coloniale con contenitori in ceramica decorata, alambicchi e vasi di vetro, dall’altro lato c’è un piccolo negozio di souvenir e un’esposizione di oggetti relativi alla storia del Suriname, ma al piano superiore, in una saletta appartata, c’è l’esposizione di riproduzioni delle opere di una pittrice ed entomologa molto importante, Maria Sibylla Merian (1647 Francoforte – 1717 Amsterdam), una donna davvero speciale che, nel 1699 arrivò qui con le sue due figlie. Si era pagata un viaggio di tre mesi in nave da sola e poi aveva affrontato i disagi del caldo, dell’umidità, della diffidenza degli uomini, per realizzare il suo sogno: osservare la natura e studiarne le trasformazioni.
Le “Metamorfosi degli insetti del Suriname” è il risultato della sua incredibile esperienza di vita, di studiosa e d’artista, 60 tavole di illustrazioni incise su rame. Un lavoro che viene definito dai naturalisti come “la più bella opera mai dipinta in America”.
I disegni, i colori e le composizioni sono perfetti, anche lo zar Pietro il Grande era un suo grande estimatore e collezionista e oggi le sue opere vengono esposte a Londra, New York e nei più grandi musei del mondo. La caratteristica e la particolarità di Sibylla Merian era l’originalità del suo punto di vista. Lei era affascinata dalla progressiva trasformazione del bruco in crisalide e dalla successiva evoluzione e liberazione, da questo amorfo contenitore, di meravigliose e coloratissime farfalle. Tutto questo tenendo conto che nella sua epoca gli insetti erano considerati bestie di Satana e le metamorfosi degli animali erano quasi sconosciute, tanto che si pensava che gli insetti nascessero attraverso una generazione spontanea derivata dalla putrefazione del fango.
Fra tutte le riproduzioni ce n’è una molto particolare, un caimano che afferra il collo di un serpente fra i denti mentre ne blocca la coda con una zampa posteriore e l’attorciglia con la sua stessa coda. Sembra di assistere a quella rapida scena di violenza proprio lì, nella saletta del museo. Il serpente ha una colorazione vistosa, fatta di anelli neri, gialli e arancio di varie dimensioni. Le scaglie della pelle del caimano sembrano in rilievo. Vicino al disegno, su un piedistallo di legno c’è un vaso di vetro con la dicitura: Reptilia Serpentes Boidae, Corallus enhydris.
E’ proprio lui, il serpente corallo che morde anche Corto Maltese in “Nonni e fiabe”.
Il terribile boa piomba sulle prede scivolando dagli alberi e le uccide inoculando con un morso il suo potente veleno neurotossico, ma Corto si spara sul braccio per scacciare il veleno, perché lui conosce quella natura. I caribi, gli aurachi, gli africani che aiutarono Maria Sibylla Merian a inoltrarsi nelle foreste, a navigare fra i fiumi, per raccogliere semi, foglie, fiori e bruchi, sapevano che anche quella strana donna bianca voleva conoscere meglio i segreti della foresta, era diventata quasi una di loro e lei li chiamava “i miei indiani”, non li chiamava selvaggi.
Cosa c’è di più preciso e descrittivo di un disegno naturalistico del 1700? Eppure le tavole realizzate dalla Merian non sono solo attenti studi scientifici dei fenomeni naturali, anche loro sono vere e proprie Suite, sintesi e racconti che vanno oltre le tavole e ci parlano della natura di questi luoghi e regalano personalissime osservazioni dell’evoluzione e dei cambiamenti che sono il mistero e la vera forza rigenerante della natura.
Ciò che per la crisalide è la fine del mondo,
il mondo chiama farfalla.
(Lao Tze)
Marco Steiner
Il mercante di sale
Il mercante di sale
Il mio nome è Ibrahim.
Sono un mercante di sale.
Lavoro al lago Assal. Due ore di autobus dalle false luci di Djibouti o due giorni di cammello. Ormai è una strada impossibile, per me.
Io resto fra le pietre e le sculture di sale.
È bello svegliarsi al mattino, la striscia bianca del lago si tinge di rosa, poi arriva il turchese.
Lo guardo per ore, mentre scaldo l’acqua del thè.
Ho venticinque anni, ma la mia faccia ne ha molti di più.
I miei occhi sono diventati due fessure sottili, come le righe sul lago.
Tre anni fa ero forte e veloce. “Ibrahim la gazzella”, mi chiamavano così, ero un mercante diverso, andavo e venivo dalla Somalia, conoscevo tutte le piste segrete, portavo ogni cosa.
Poi un proiettile mi spaccò una gamba e rimasi là, inchiodato alla roccia.
La notte scendeva e il sangue continuava a scorrere, si allontanava da me, s’infilava fra le pietre.
Riuscii a strappare una striscia di camicia, la strinsi forte sulla coscia e mi lasciai andare, potevo soltanto seguire il destino.
Mi ritrovai qui. Sul lago Assal, e tutto quel bianco mi ferì gli occhi.
Pensai d’essere arrivato in paradiso.
Ero debole e le luci bianche mi accecavano come spine appuntite.
Una donna mi versò l’acqua e mi guardò con due carboni pieni d’amore e compassione.
Ibrahim la gazzella se n’era andato per sempre.
Io me ne stavo sdraiato e la gente passava. Passava e spariva.
Una carovana di cammelli arrivava al tramonto e all’alba era nulla, però mi avevano salvato. Io li aspettavo e loro tornavano sempre.
Gli uomini caricavano, scaricavano il sale. Le donne cucinavano, sbattevano i panni. I bambini gridavano, correvano, piangevano. I cammelli masticavano erba secca.
E Ibrahim, lo storpio, se ne stava lì, a guardare la vita e il lago di luce.
Un giorno un bambino, Ismael, mi portò un regalo, il più bello del mondo.
Una stampella, l’aveva costruita da solo.
Era fatta di legno, di corda e di stracci intrecciati.
C’era scritto il mio nome. Il mio vecchio nome: “Ibrahim la gazzella”.
Mi appoggiai.
E mi alzai.
Il lago era ancora più bello.
Visto da lassù.
Marco Steiner
Lo specchio della verità
Lo specchio della verità
“Il Sole ne è padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice.
Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura”.
(Ermete Trismegisto, Tabula Smeragdina. Corpus Hermeticum. Bompiani. Il pensiero Occidentale/Filosofia. 2005)
Istanbul. Quartiere di Sultanahmet. Autunno. Una mattina di sole. Negozio elegante di antiquariato. Ufficio sul retro. La scrivania è ingombra di monete antiche suddivise in mucchietti. L’uomo seduto è in parte coperto dallo schermo piatto di un computer, ha una camicia bianca e un foulard verde al collo, capelli lunghi e disordinati, sta catalogando le monete usando una grossa lente d’ingrandimento dal manico in avorio. In primo piano una bilancia di precisione.
- Effendi, c’è un europeo in negozio e mi ha chiesto se abbiamo mappe molto antiche…
- Mi stai facendo perdere tempo Andrej, gli hai fatto vedere l’Imperium Turcicum di Homann?
- Naturalmente…
- E?
- Si è messo a ridere, dice che viene per conto di un grande esperto italiano di cartografia antica e che quelle sono mappe del ‘700 e che valgono al massimo 7-800 Euro.
- Noi a quanto le vendiamo?
- 1500 dollari. Cosa gli devo dire?
- Chiedigli cosa sta cercando e digli che io non ci sono, se capisci che il suo sedicente padrone è disposto a spendere molto fallo ritornare domani, e adesso lasciami in pace.
Dopo un’ora il signor Khaftaj lascia il suo ufficio ed entra nel negozio. E un mercoledì mattina di ottobre e Istanbul è inondata di sole.
- Com’è andata a finire con quel cliente?
- Alla fine mi ha detto che il suo capo stava cercando una parte della mappa di Piri Rais, e io gli ho risposto che quella si trova nella biblioteca del Topkapi…
- E lui?
- Mi ha detto che “quella era cosa risaputa”, ma che il suo capo la voleva incontrare lo stesso…domani, un’ora prima del tramonto alla…”Triplice cinta”…se ho capito bene.
- Dev’essere un mitomane, Andrej, e sono sicuro che non esiste nessun cartografo che lo manda in giro a cercare mappe da museo, comunque grazie. C’è altro?
- Si, mi ha dato questo busta per lei.
Jusuf infilò la busta nella tasca della giacca e andò a casa. Chiuse la porta a chiave, si sedette in poltrona e aprì la busta elegante.
Conteneva soltanto un biglietto da visita.
“Cristoforo Cybo. Erede di santi e di navigatori”.
Poi aggiunto a penna con una calligrafia elegante e perfetta: “Sono venuto in possesso di un testo raro di Ermete Trismegisto, edizione Turnèbe, anno 1554 che troverebbe opportuna collocazione nelle vostre mani in cambio della parte “scomparsa” della mappa di Piri Reis che ci risulta attualmente in Vostro possesso”.
Josuf compose immediatamente un numero sul suo cellulare.
- E’ venuto qualcuno per quell’antico scambio.
- Ti sembra tutto regolare?
- Solito sistema.
- Dove?
- Il muro dei segni.
- Sono sempre stati sottili.
- Da diverse centinaia d’anni.
- Credi che c’entri qualcosa il Fondo Monetario?
- No, ma credo che ormai Istanbul stia per ritornare importante culturalmente ed economicamente. Ci stanno perfino facendo riconciliare con gli Armeni, fra poco toccherà ai Curdi e poi agli Azeri e le nostre autostrade liquide porteranno merci e oro nero fino in Cina con un solo balzo. Cercano strane alternative per il gasdotto. Gireranno molti soldi e merci per questo vecchio mare, quindi hanno bisogno di stabilità. Questo gesto di riconciliazione è una specie di stretta di mano.
- E’ vero senza errore e menzogna, è certo e verissimo.
- Il padre di tutto, il Tèlesma è qui.
- Ci sentiamo domani.
Josuf incrociò le gambe e si sedette sul morbido tappeto. Accese un piccolo braciere e iniziò a pregare. Dopo mezz’ora si alzò, versò dei grani di povere sul braciere incandescente e inspirò lungamente quel fumo, poi incrociò le braccia davanti al petto e si toccò le spalle abbassando la testa.
Iniziò a girare, a girare ancora e poi, lentamente, aprì le braccia e le mani continuando a girare, la destra in alto, la sinistra in basso, fino a quando la stanza scomparve e lui vagò nello spazio infinito, sopra le moschee ed il cielo, si sciolse nelle particelle sottili e poi volò via dissolvendosi come fumo nel vento.
Quando tornò a terra si distese sul letto e dormì a lungo.
Il negozio antiquario di Jusuf Khaftaj non era lontano dalla Moschea Blu e da Aya Sofya, la Santa Sapienza dei Greci. I turisti seguivano le guide e continuavano a scattare immagini che sarebbero rimaste per qualche altro giorno sugli schermi digitali delle loro macchinette fotografiche perfette. Ekrem preparò un’eccellente spremuta di melagrana per il signor Khaftaj scegliendo quattro fra i frutti più sodi e maturi. Poi Jusuf Khaftaj entrò nell’imponente moschea e salì le rampe di scale che lo portarono alle gallerie del piano superiore, buttò uno sguardo alle imponenti e leggerissime volte, ai segni delle croci strappate e passò davanti alla tomba del doge Enrico Dandolo. Si fermò e fece una smorfia pensando a quel povero vecchio cieco arrivato con le sue galee veneziane fin lì per morire ed essere sepolto a Costantinopoli a 98 anni e poi perdere le ossa, disseppellite e date in pasto ai cani dalle orde di Mehmed II un quarto di secolo dopo. Sulla scrivania aveva lasciato due Grossi Matapàn d’argento, ma soltanto uno era perfetto, l’altro aveva una grossa scalfittura proprio sui volti del doge e di San Marco.
Mancava poco all’appuntamento. Un striscia di luce dorata s’infilava da una delle finestre che inquadravano le punte aguzze dei minareti e illuminava perfettamente il muretto di marmo sul quale era stato inciso, forse dai Templari, quel misterioso simbolo di tre quadrati concentrici che stavano a indicare la particolare sacralità energetica del luogo.
In quel preciso momento, Jusuf fu percorso da un brivido e da uno stato di allerta generale. Il cacciatore si sentì preda. Si allontanò dal luogo e girò dalla parte opposta della moschea. Da quel lato poteva osservare perfettamente il luogo dell’appuntamento e la lama di luce che lo stava illuminando. Dopo pochi istanti vide l’uomo e rimase pietrificato. Era come se si fosse guardato allo specchio, oppure attraverso una finestra invisibile sospesa al centro della moschea.
L’uomo che doveva incontrare era identico a lui. Si guardò intorno come se la gente si fosse potuta accorgere della presenza del suo doppio. Per istinto e per fortuna aveva scelto il lato giusto della galleria, l’uscita era da quel lato, s’avviò verso la scala con passo deciso.
Scomparve e non si guardò mai più indietro.
Marco Steiner
le foto sono di ©Marco D’Anna
La collina di Tara
La Colline di Tara.
Tic tic, un continuo tic tic, piove sui vetri della macchina, sul cappello, sugli ombrelli, da quando si scende dall’aereo a Dublino.
Non ci sono rumori sulla collina di Tara, a parte il vento, il tic tic, il clang metallico del cancello che si apre e sbatte sul supporto arrugginito. Scalpiccio morbido, passi su foglie, sull’erba bagnata e sul fango. I rintocchi della campana s’affacciano sul cimitero. L’erba è pettinata, le colline hanno un fondo irregolare. Un campo da golf tutto sballato. Avvallamenti e improvvisi rilievi, cerchi concentrici, pietre e croci celtiche che s’innalzano dal verde e, più in là, il nastro marrone, il fango della nuova autostrada. Per ora è bloccata, ma la praticità di un fiume d’asfalto vincerà sul ricordo del Luogo. Eppure Tara, e quei tumuli di 5000 anni, furono il ker (luogo) dei druidi, i mistici re-sacerdoti d’Irlanda e della mitica regina Maeve, del potente Cormac Mac Airt e di san Patrizio che accese qui il primo fuoco cristiano sull’isola.
Il simbolo di Tara è “The stone of destiny”, quella Pietra del destino, su cui il futuro re doveva arrampicarsi, e solo se questa emetteva tre grida, quel re veniva incoronato. Roccia e potenza, capacità di vivificare l’inamovibile imperturbabilità dell’elemento terrestre, attraverso il coraggio, le doti morali, la profondità dello spirito. Una specie di spada che solo il prescelto potrà estrarre dalla pietra.
Stanchezza umida di vapore e di pioggia che inzuppa. Sensazioni, che salgono dalla terra bagnata, attraversano i piedi e il corpo incurvato, mentre il vento fa insaccare le spalle, abbassare la testa, fissare quel tramite umido e morbido infilato in un paesaggio duro e tagliente.
Strano posto, non immediato ed esplicito. Nascosto, rinchiuso nella Madre Terra. E’ necessario ascoltare e cercare in silenzio. Seguendo i disegni di tumuli, cerchi e pietre.
Dicono fosse la porta dell’oltretomba.
Io entro in macchina e comincio a pensare, in silenzio.
Tic, tic, la pioggia, il vento che soffia sempre più forte. Sibila e smuove perfino la macchina.
Un’Opel rossa parcheggia. Improvvisa, sgargiante, inopportuna e rumorosa come un tuono. Il rullo di una batteria riporta alla realtà del rock, poi entra un assolo di chitarra, “Whole lotta love”, sono i Led Zeppelin sparati a tutta birra dalla signora che adesso spegne il motore, ma non la musica.
“Woman…you need…looooove” gridano i Led.
La dama venuta dal presente continua a invadere Tara e a bombardarmi di musica fino a quando tutto sfuma, e l’extraterreste spalanca il portellone posteriore per il suo boxer marrone sbavante, un bel cane, nervoso.
La replicante continua a fischiettare il motivo e poi chiude la macchina. Mi getta uno sguardo distratto e si accende una sigaretta. Anche questa è l’Irlanda, Mary O’Qualcosa porta a passeggiare il suo cane fra le pietre e i miti della collina di Tara, la collina dei Re.
Newgrange, o meglio Bru Na Boinne, è un sito megalitico antico di 3200 anni, 600 anni prima delle piramidi di Giza e 1000 anni prima di Stonehenge. Un tumulo di pietre ricoperte dal verde prato d’Irlanda. C’è un ingresso e un lungo cunicolo che s’infila in quella gran massa di sassi e raggiunge il centro del tumulo. Una pietra imponente protegge l’ingresso, una lunga losanga decorata con un disegno a triplice spirale. Il cunicolo della “tomba a passaggio” arriva fino al nucleo centrale, la vera tomba, suddivisa in tre nicchie e racchiusa da un tetto di lastre incastrate in una maniera così millimetrica che nei secoli non ha ceduto al peso e non ha fatto filtrare una goccia d’acqua. Ma qui c’è qualcos’altro di speciale: l’apertura della tomba è orientata in maniera perfetta verso il sorgere del sole, in un giorno preciso, il 21 dicembre, il solstizio d’inverno. Quel giorno, e solo quel giorno, verso le 9 del mattino, un raggio di sole penetra le pietre e si sdoppia. Un raggio segue lentamente il pavimento della grotta e attraversa i 24 metri del cunicolo che portano alla camera centrale della tomba, un altro raggio, che viaggia più in alto, colpisce una pietra circolare e diffonde una magica luce in tutto l’ambiente.
Tutto questo spettacolo, soltanto per 17, irripetibili, minuti all’anno.
Qualcuno ha congegnato un’opera del genere 3000 anni fa. Dicono che qui fu concepito l’eroe delle leggende irlandesi, il dio solare Cùchulainn, e a questo punto non resta che crederci.
Vendono i biglietti di una lotteria all’ingresso, per essere lì, proprio nella grotta, il 21 dicembre del prossimo anno, le domande sono decine di migliaia, all’interno ci saranno poche decine di persone, con la speranza che il sole riesca a sorgere e non venga bloccato da nuvole e pioggia.
Marco Steiner
La scala delle tartarughe
La scala delle tartarughe
Tammy è americana, viene dall’Ohio, segue un progetto naturalistico, studia le Spider Monkeys, è qui da un anno, è sola, vive nella riserva naturale di Brownsberg nel Suriname, la Guyana olandese. Sylva è una guida turistica, ma è anche un’analista chimica e biologa, è nata a Paramaribo, ma i suoi antenati venivano dal Pakistan. Sono due ragazze che amano la foresta, stanno bene qui e non hanno bisogno di troppe comodità, studiano le scimmie e i cambiamenti della natura del parco. A loro servono poche cose, un buon paio di stivali, un binocolo, una cerata, una macchina fotografica, una borraccia d’acqua. Camminare con loro è una continua scoperta, ogni seme a terra ha un significato particolare, ogni pianta ha il suo nome corretto, i fiori sono punti di riferimento nel sentiero. Sanno guardarsi intorno, ascoltano i rumori, riconoscono i piccoli segnali della foresta, la rispettano, per questo non la temono. Hanno paura soltanto dei bracconieri e delle loro trappole per uccidere i cervi, le scimmie, il giaguaro.
Il sentiero scende ripido e viscido verso la valle delle scimmie, non c’è sottobosco, solo centinaia di alberi di specie differenti, le chiome, altissime, s’intrecciano e creano un soffitto verde e compatto, il cielo non c’è, il sole non filtra, forse splende, forse piove, non si riesce a capire. Le piante tendono i rami per raccogliere la luce lassù in alto, qui in basso conficcano le radici a fondo per abbracciare la terra e assorbire le sue umide essenze.
I rumori della selva s’intrecciano come lontani richiami.
Gli uccelli cominciano a comunicare la nostra posizione, poi sembra di sentire una prolungata scossa elettrica, sono le ali di cicale giganti, ad un certo punto sembra di sentire il vento che s’incanala in una gola di pietre, è l’agghiacciante grido delle scimmie urlatrici, Tammy dice che mangiano solo foglie, per questo sono pigre e indolenti, si muovono poco e hanno un metabolismo e una digestione molto lenti. Se ne stanno in gruppo, sedute, e con la loro laringe grande quanto un’arancia emettono in continuazione il loro lugubre suono per tenere lontani i nemici.
Una farfalla blu attraversa il sentiero, segue un suo armonico e imprevedibile percorso, ma le leggende dei popoli della selva dicono che le Blue Morpho possono farci perdere la strada, possono portare in un altro mondo, un mondo di sogni perduti.
Il Ficus strangolatore inizia a scendere dal ramo di un albero come fosse un’innocua liana, raggiunge lentamente il suolo e assimila nutrimento dalla terra e dal suo ospite, fino a diventare sempre più grossa, sempre più forte, fino a trasformare il suo abbraccio in una simbiosi mortale, dove la morte di una creatura consente la vita ad un’altra più forte, dove la violenza è consentita perché conduce all’equilibrio della natura, dove il caos apparente è sintesi magistrale. Dove i cicli si succedono con regolarità e l’anidride carbonica del buio alimenta il verde e l’ossigeno della vita. Perfino l’anophele s’inserisce e rispetta questo ciclo e riduce l’eccesso di popolazione nei luoghi dove la vita dell’uomo potrebbe disturbare quel delicato equilibrio.
C’è un’altra strana liana che scende da un gigantesco albero sacro, è un Kankantri, o albero Kapok, il gigante della foresta, un colosso di 40 metri che s’innalza sulle grosse radici triangolari come fossero ali di sostegno. Nelle notti di vento e tempesta gli spiriti si riparano qui e ricevono le offerte di chi li rispetta o scagliano rami e pietre addosso a chi osa profanare la loro casa. La grossa liana si attorciglia in mille spirali, si sdoppia e si spezzetta come fosse una scala a chiocciola, una primordiale catena di un Dna vegetale.
E’ la scala delle tartarughe.
In un tempo molto lontano le scimmie organizzarono una grandissima festa in cui tutti gli animali erano invitati. Ovviamente la festa si svolgeva nell’ambiente naturale delle scimmie, in cima agli alberi. Gli animali salirono tutti, ma la tartaruga non sarebbe mai riuscita ad arrampicarsi in linea retta sulla liana, così prese a torcerla, lentamente, molto lentamente e, mentre la ripiegava ne ricavava piccoli gradini per non scivolare.
Alla fine, anche la tartaruga riuscì a salire in cima all’albero, ma anche se lo spettacolo della foresta la lasciò senza parole, fu molto dispiaciuta perché la festa era già finita da un pezzo. Così, da quel giorno, quel tipo di liana nacque sempre così, pronta per le prossime feste, pronta per le tartarughe.
Però bisogna fare attenzione, dicono che di notte, sulla Turtle ladder ci dorma il giaguaro.
I disegni presenti in questo articolo sono di Giorgia Oldano
http://www.giorgiaoldano.com/
Cavalli selvaggi e serpenti di ferro
Cavalli selvaggi e serpenti di ferro.
“Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa da abitare, quando la si sarà resa simile da un capo all’altro e non si potrà nemmeno più cercare di viaggiare per distrarsi un poco” (Pierre Loti).
Aran Islands
Inishmóre. Isole Aran, il cuore celtico d’Irlanda.
Sono le 8 del mattino, tutto è buio, grigio, freddo. Il mondo sembra deserto, assopito. Anche il sole è in ritardo. I chilometri scorrono sotto le ruote in silenzio, nessuno in giro, solo qualche pecora seduta sull’asfalto. Il prato è troppo umido e freddo anche per loro.
Il traghetto è semivuoto, ci sono solo una ventina di persone a bordo, compreso l’equipaggio. Uomini taciturni.
Giubbotti macchiati d’olio dei tecnici che fanno girare le caldaie. Giubbotti scuri in Goretex dei fotografi di pietre, tombe e uccelli. Capelli corti, barbe arricciate, basette tozze e rossicce. Tanti occhi socchiusi a smaltire le ultime Guinness.
Uscendo dal porto di Rossaveel uno stormo di gabbiani ci segue. Il mare è d’acciaio, la costa è bruna e marrone, i picchi luccicano, spolverati di bianco, le isole sono tre strisce sottili di blu.
La quarta oggi non c’è.
Dún Aengus è un anfiteatro semicircolare di pietre incastrate e impilate a secco con l’apertura rivolta verso l’Atlantico, l’Occidente. Il mare è là sotto, duro e caparbio come un ariete che picchia contro un muro da abbattere. Sono secoli che cerca di rosicchiare quell’immensa scogliera che osa ergersi impavida a sfidare la sua forza, ma si sbuccia le corna.
L’onda rimbomba nel silenzio come un tuono lontano, come un rullo di tamburi.
Al centro del semicerchio c’è un altare di pietre scure come il cielo.
Intorno, un prato d’erba chiara che s’inchina alla potenza del vento.
Piega la testa, disegna onde verdi, morbide, tranquille.
Dietro al muro c’è il resto dell’isola, separata da un’infinita distesa di pietre appuntite, conficcate a terra e incrociate come “cavalli di frisia” a sbarrare il passo a chissà quale invasore.
Lo chiamano il Forte, perché “Dun” in gaelico significa “Fortezza”, alcuni storici dicono che era una costruzione di difesa, in effetti non è difficile immaginare in quel semicerchio una riunione di druidi e, in mezzo all’altare, il gran sacerdote alto e barbuto che invoca la potenza del sole, o della luna, un lugubre antico lamento si disperde nel vento.
Forse anche il resto del semicerchio di pietre è scivolato in mare come la quarta isola e allora anche Dún Aengus è una specie di Stonehenge che rappresenta la “Ruota della vita”, la primordiale Dea Madre che si cela in ogni pietra che ha segnato la storia.
Il muro di pietre scure è quasi caldo, protegge dal vento, aiuta a guardare il flusso del mare, a seguire lo spettacolo del vento che scompiglia le nuvole.
All’improvviso si apre una breccia in quel grigio sipario, un fascio di sole innalza una lama fredda di luce dall’acciaio del mare.
In due ore il vento spazza ogni cosa, l’azzurro del cielo scaturisce dall’acqua riflessi turchesi e verdi come alghe che invadono il nero.
Un ragazzo entra nell’anfiteatro con passo elastico e sportivo. Jeans e giaccone nero di panno aperto al vento gelido. Una faccia irlandese, squadrata, sembra un attore che reciti un ruolo preciso. Va dritto e deciso verso il bordo dello strapiombo, senza il minimo timore si mette a cavallo dell’ultimo trampolino di pietra.
Sotto di lui, a un centinaio di metri, le onde continuano a sbattere la roccia in un ribollire rabbioso.
Sembra un giovane Corto Maltese in carne e ossa e se ne sta seduto lì, a fissare l’Occidente, a ricordare il suo sogno di Oberon e Puck, guarda il rimorchiatore che dirige a tutta forza contro il sottomarino tedesco con Mago Merlino e Morgana in questa Stonhenge selvaggia e reale.
“Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è. Infinito”. (William Blake – “The Marriage of Heaven and hell”)
La torre della cicogna bianca
La torre della cicogna bianca
“L’aurora irrompe, seguendo la montagna;
e intanto il Fiume Giallo fluisce verso il mare.
Ma tu potrai vedere un ampio panorama,
salendo ancor più in alto sulla torre.”
(“Salendo sulla torre delle cicogne” Wang Chih-Huan. 688-742 d.C. Poesia Cinese dell’epoca Tang. BUR 1998)
Pechino. Entrata meridionale del Tempio del Cielo. Domenica pomeriggio. Yu Zuncheng è un pensionato, appena può, viene qui a passare il suo tempo, anche quando è grigio e freddo, come oggi. Yu scrive poesie, le scrive per terra, all’interno del piazzale che precede l’immenso giardino del tempio. Si porta un lungo pennello che all’estremità ha una spugna appuntita, imbeve la punta in un secchio d’acqua e scrive sul lastricato grigio. Yu scrive con grande attenzione, i segni sono precisi, i movimenti eleganti. La poesia che parla della salita sulla Torre delle Cicogne l’ha trascritta sul selciato, è una famosa poesia dell’epoca Tang, ricorda un po’ “L’infinito” di Leopardi e il concetto dello sforzo necessario per guardare oltre, al di là del visibile.
Lentamente i tratti scuri e umidi svaniscono sulla pietra e tutto ritorna grigio com’era.
La gente si avvicina, parla con lui oppure legge in silenzio la poesia.
Il tempo scorre e asciuga i segni che ricordano i caratteri dipinti da Vita Lunga per Corto Maltese. Poi si scopre che Yu non è un pensionato normale, lui il mondo lo conosce davvero, parla perfettamente l’inglese. Molti anni fa, era l’interprete personale del presidente Deng Xiaoping.
Prima di leggere Corte Sconta detta Arcana, bisognerebbe guardare un film: “Shanghai express” di Joseph von Sternberg. C’è un po’ di tutto lì dentro: il viaggio in treno in una Cina in grande fermento, un amore impossibile, una splendida Marlene Dietrich che interpreta Shanghai Lil, le spie, i trafficanti d’oppio, le divise, i cambiamenti di fronte e le mitragliatrici dei soldati.
C’è anche una frase emblematica del generale Chang cinematografico:
“Siamo in Cina, dove vita e tempo non hanno valore”.
Poi ci si rende conto che anche il nome del regista è lo stesso di uno dei protagonisti della storia di Pratt, il leggendario barone Roman Ungern von Sternberg e allora il gioco dei rimandi potrebbe continuare a snodarsi lungo i freddi binari che attraversano la Siberia, la Mongolia, la Cina.
D’inverno, il lungo paesaggio che separa Pechino da Mosca è bianco e ghiacciato, è fatto di spazi infiniti, di un esercito di betulle allineate come esili spettri di soldati, di treni impregnati dall’odore del carbone e da un caravanserraglio d’umanità.
Non ci sono vagoni carichi d’oro, né cannoni, non ci sono diafane Marlene Dietrich, né bionde baronesse russe dal fascino distaccato, ci sono soltanto grasse prostitute cinesi che s’impomatano il viso e variopinti personaggi che trascinano valigie di merci da vendere a ogni fermata.
Il treno è uno sferragliante mercato ambulante invaso da borsoni telati a strisce azzurre, bianche e rosse, imbottiti di magliette, jeans, tute Adidas false e giubbotti di autentica stoffa sintetica, calze, calzini, occhiali griffati, lucide borse di pelle.
In giro circola soltanto denaro stropicciato, cinese, mongolo, russo, dollari ed euro che passano continuamente di mano in mano ad ogni stazione di sosta.
Nel treno c’è un sentore misto di vodka, sudore, grasse zuppe con carne stufata, carbone, sigarette e caffè. Alle dogane notturne il tempo si blocca, immobilizzato da controlli, cambi di carrelli e motrici che procederanno su binari dal passo diverso. Le guardie di confine s’infilano come gatti negli anfratti sotto i sedili e sopra i soffitti, fissano le pagine dei passaporti e gli occhi dei passeggeri per secondi che scorrono infiniti senza bisogno di parole, qui contano solo gli sguardi. Le teste dei controllori s’inclinano impercettibilmente e loro occhi scrutano in profondità, come animaleschi segnali di studio prima dell’attacco. La falsità trasuda da un battito di ciglia o da un sorriso ostentato, poi il passaporto viene richiuso e, magicamente, come per grazia ricevuta, tutto si sblocca e la marcia del treno continua.
È un procedere lento, che ingoia chilometri, confini, sbadigli, fusi orari, giornate fatte di grigi e albe che si confondono con i tramonti.
Fuori dal finestrino, il paesaggio che sfila sembra una tela rigata da un’impercettibile linea centrale: bianco increspato di neve e azzurro pallido di cielo.
Il tutto, macchiato dal vento.
Il sole non si vede, si nasconde da qualche parte, dietro ad un diafano alone.
Quando ci si avvicina alle stazioni, la neve diventa sporca, grigia, triste, stropicciata come il denaro, come il profilo delle città.
I vetri dei finestrini sono decorati da cristalli ghiacciati e gli spazi fra un vagone e l’altro sembrano celle frigorifere spazzate da un vento polare. Poliziotti silenziosi, ferrovieri svogliati, passeggeri rassegnati, ossigenate e corpulente cameriere s’incontrano nel vagone ristorante e sono una sintesi variopinta dei possibili incontri che avvengono realmente lungo quell’infinito doppio nastro d’acciaio e di paesi tanto diversi.
Ci sono oltre 7000 chilometri fra Mosca e Pechino, 5000 di Siberia, 1000 di Mongolia, 1000 di Cina, eppure il frate minore Giovanni da Pian del Carpine, inviato dal papa Innocenzo IV, arrivò a cavallo fino alla corte di Guyuk, il Gran Khan erede di Gengis partendo dalla Francia nel 1245.
Dopo di lui ci arrivò Guglielmo da Rubruc con una lettera del re di Francia Luigi IX.
I silenziosi viaggi dei due francescani avrebbero modestamente aperto la strada al celebre itinerario di Marco Polo, eppure tanti altri avventurieri, esploratori e geografi si erano spinti in quelle terre lontane descrivendo i Takhi, i cavalli selvaggi che non esistevano in altri luoghi del mondo e gli Almas, gli uomini-animali, yeti ricoperti di peli che vivevano in piccoli branchi nelle zone più inospitali e desolate di queste durissime terre.
Il sogno del barone Ungern von Sternberg partiva da questo centro del mondo, dalla Mongolia. Il generale dalle nobili origini teutoniche e baltiche, il fondatore dell’Ordine Militare Buddista e della Cavalleria Selvaggia voleva ristabilire il predominio culturale e religioso asiatico spazzando il materialismo dei conquistatori cinesi e dei rivoluzionari russi.
Oggi la patria di Genghis Khan si erge solitaria in mezzo a due grandi colossi come la Cina e la Russia che dopo aver abbandonato i loro idealismi rivoluzionari, ora inseguono diversi ma simili materialistici sogni di un moderno benessere.
La scala delle tartarughe
La scala delle tartarughe
Tammy è americana, viene dall’Ohio, segue un progetto naturalistico, studia le Spider Monkeys, è qui da un anno, è sola, vive nella riserva naturale di Brownsberg nel Suriname, la Guyana olandese. Sylva è una guida turistica, ma è anche un’analista chimica e biologa, è nata a Paramaribo, ma i suoi antenati venivano dal Pakistan. Sono due ragazze che amano la foresta, stanno bene qui e non hanno bisogno di troppe comodità, studiano le scimmie e i cambiamenti della natura del parco. Hanno bisogne di poche cose, un buon paio di stivali, un binocolo, una cerata, una macchina fotografica, una borraccia per l’acqua. Camminare con loro è una continua scoperta, ogni seme per terra ha un suo significato, ogni pianta ha il suo nome corretto, i fiori sono punti di riferimento nel sentiero. Sanno guardarsi intorno, ascoltare i rumori, riconoscere i piccoli segnali della foresta, la rispettano, per questo non la temono. Hanno paura soltanto dei bracconieri e delle loro trappole per uccidere i cervi, le scimmie, il giaguaro.
Il sentiero scende ripido e viscido verso la valle delle scimmie, non c’è sottobosco, solo centinaia di alberi di specie differenti, le chiome, altissime, s’intrecciano e creano un verde e compatto soffitto, il cielo non c’è, il sole non filtra, forse splende, forse piove, non si riesce a capire. Le piante protendono i rami per raccogliere la luce là in alto, qui in basso conficcano radici per abbracciare la terra e raccogliere le sue umide essenze.
I rumori della selva s’intrecciano come lontani richiami. Gli uccelli cominciano a comunicare la nostra posizione, poi sembra di sentire una prolungata scossa elettrica, ma sono le ali di cicale giganti, ad un certo punto sembra di sentire il vento che s’incanala in una gola di pietre, ed è l’agghiacciante grido delle scimmie urlatrici, Tammy dice che mangiano solo foglie, per questo sono pigre e indolenti, si muovono poco e hanno un metabolismo e una digestione molto lenti. Se ne stanno in gruppo, sedute, e con la loro laringe grande quanto un’arancia emettono in continuazione il loro lugubre suono per tenere lontani i nemici.
Una farfalla blu attraversa il sentiero, segue un suo armonico e imprevedibile percorso, ma le leggende dei popoli della selva dicono che le Blue Morpho possono farci perdere la strada, possono portare in un altro mondo, un mondo di sogni perduti.
Il Ficus strangolatore inizia a scendere dal ramo di un albero come fosse un’innocua liana, raggiunge lentamente il suolo e assimila nutrimento dalla terra e dal suo ospite, fino a diventare sempre più grossa, sempre più forte, fino a trasformare il suo abbraccio in una simbiosi mortale, dove la morte di una creatura consente la vita ad un’altra più forte, dove la violenza è consentita perché conduce all’equilibrio della natura, dove il caos apparente è sintesi magistrale. Dove i cicli si succedono con regolarità e l’anidride carbonica del buio alimenta il verde e l’ossigeno della vita. Perfino l’anophele s’inserisce e rispetta questo ciclo e riduce l’eccesso di popolazione nei luoghi dove la vita dell’uomo potrebbe disturbare quel delicato equilibrio.
C’è un’altra strana liana che scende da un gigantesco albero sacro, è un Kankantri, o albero Kapok, il gigante della foresta, un colosso di 40 metri che s’innalza sulle grosse radici triangolari come fossero ali di sostegno. Nelle notti di vento e tempesta gli spiriti si riparano qui e ricevono le offerte di chi li rispetta o scagliano rami e pietre addosso a chi osa profanare la loro casa. La grossa liana si attorciglia in mille spirali, si sdoppia e si spezzetta come fosse una scala a chiocciola, una primordiale catena di un Dna vegetale. E’la scala delle tartarughe.
In un tempo molto lontano le scimmie organizzarono una grandissima festa in cui tutti gli animali erano invitati. Ovviamente la festa si svolgeva nell’ambiente naturale delle scimmie, in cima agli alberi. Gli animali salirono tutti, ma la tartaruga non sarebbe mai riuscita ad arrampicarsi in linea retta sulla liana, così prese a torcerla, lentamente, molto lentamente e, mentre la ripiegava ne ricavava dei piccoli gradini per non scivolare. Alla fine, anche la tartaruga riuscì a salire in cima all’albero, ma anche se lo spettacolo della foresta la lasciò senza parole, fu molto dispiaciuta perché la festa era già finita da un pezzo. Così, da quel giorno, quel tipo di liana nacque sempre così, pronta per le prossime feste, pronta per le tartarughe. Però bisogna fare attenzione, dicono che di notte, sulla Turtle ladder ci dorma il giaguaro.
Abissi di sogni diversi
Prima della conquista portoghese, l’Amazzonia brasiliana contava otto milioni di Indios in completa armonia con la selva, oggi ne sono rimasti solo duecentomila. La nostra civiltà ha un continuo bisogno di materie prime e per cinquecento anni i conquistatori hanno cercato di carpirne tesori d’oro e smeraldi, gli affaristi hanno spianato foreste e costruito città per estrarre il petrolio dal suolo, il lattice o la cellulosa dagli alberi, hanno smosso montagne di terra per estrarre ferro e bauxite. Scavare, estrarre, raffinare, sfruttare, ma anche convertire, educare, sono tutti verbi che fanno parte di un sogno: conquistare, materialmente o spiritualmente. Per fortuna, nella storia di queste conquiste c’è stato anche qualcuno che è partito con un atteggiamento diverso, o che lungo la strada ha imparato il rispetto e la disponibilità, qualcuno che, spinto da curiosità e disponibilità, ha imparato a guardare, ascoltare, sognare.
Alvar Núñez Cabeza de Vaca era partito nel 1528 come tesoriere della spedizione di Pánfilo de Narváez, un novello Cortés privo del magnetismo del capo e della determinazione del conquistatore, era solo un grasso e presuntuoso comandante credulone carico di smanie di ricchezza e di potere. Il suo obiettivo era una città tutta d’oro da cercare in un luogo indistinto fra le foreste e le lagune della Florida e i deserti del Nuovo Messico. L’esito fu il disastro completo di un’intera spedizione che portò invece un pugno di uomini a provare il potere e la generosità di Madre Natura e a scoprire la vera forza dell’uomo.
L’avventura di Cabeza de Vaca è un percorso di progressive privazioni durato otto anni. Dei 578 gentiluomini spagnoli carichi di corazze e certezze, rimasero quattro scheletri derelitti che vagarono in terre desolate spogliati di tutto. Avevano visto uomini tuffarsi in mare perché resi pazzi dalla sete, implorare l’aiuto delle loro madri e poi gonfiarsi e morire, avevano visto soldati rosicchiare i cadaveri dei loro compagni e avevano pianto implorando la clemenza della natura. Indios implacabili li avevano decimati con frecce avvelenate, altri indios dalla pelle di rame li avevano derisi e trattati come bestie da soma, spogliandoli delle loro ultime certezze e speranze di uomini europei. Proprio a quel punto, nell’estremo abisso dell’annullamento, quegli ultimi uomini nudi e senza speranze avevano trovato una nuova forza, il vero potere, quello di riuscire a guarire altri uomini. Si trasformarono in sciamani in mezzo a quei selvaggi, guaritori carichi di energia proprio quando pensavano di aver perso ogni fibra di umanità. La loro vera e unica ricchezza era proprio quella forza essenziale che la natura aveva rivelato loro solo dopo un progressivo e terribile percorso di spoliazione, una forza che arrivava senza nessun segno, come il vento o la pioggia.
“ Insegnerò al mondo il modo di conquistare con la dolcezza, non con le stragi” (Alvar Núñez Cabeza de Vaca).
A quel punto in quegli uomini, la vita si moltiplicava in conseguenza degli sforzi e delle cure donate agli altri. Anche questa fu una grande, silenziosa conquista.
Estanislao Pryiemski era un tranquillo agronomo di Varsavia, era arrivato in Amazzonia negli anni ‘60 e aveva iniziato una classica storia di ricerca di denaro e di conquista. Aveva provato a fare soldi con la pelle dei coccodrilli, con le noci di cocco, con strane bacche afrodisiache, o con pesci che divoravano uova di zanzara. Poi, un giorno, decise di abbandonare la ricerca degli affari e s’incamminò verso la strada di un sogno: voleva registrare il suono della foresta.
Ci provò per vent’anni, nel Pantanal amazzonico, una delle regioni più inospitali del mondo, inondata per sei mesi all’anno dalle acque dei fiumi che l’attraversano, infestata da zanzare, serpenti d’acqua e caimani. Il professore polacco si armò di microfoni e imbuti sempre più grandi, voleva cablare i rami degli alberi e le acque, voleva raccontare la poesia di quei suoni, voleva raggiungere un sogno troppo lontano per essere descritto. Morì nel 1983 nel lebbrosario di Campo Grande, fuori dal cimitero dei conquistatori, ma ben dentro alle delicate e, a volte, incomprensibili righe dei poeti. “I lombrichi fanno respirare la terra come i poeti fanno respirare le parole”. (Estanislao Pryiemski, Le voci del Pantanal).
Un giorno, il sogno assurdo di un poeta può trasformarsi in una magnifica realtà, i sogni assurdi di conquista portano solo macerie e solitudine.
Marco Steiner, Union Island, 3 aprile 2009.
Il falco e il piccione
Il falco e il piccione
“Sono stato cresciuto non solo da genitori e da maestri, ma anche da potenze più remote, nascoste e misteriose, tra le quali anche dal dio Pan che stava, in sembianza di piccolo idolo indiano danzante, dietro il vetro nella libreria di mio nonno. Questa divinità, ed altre ancora, si sono prese cura della mia infanzia, e ancora prima che sapessi leggere e scrivere, mi hanno riempito di immagini e di pensieri d’oriente, antichissimi…”
(H. Hesse, L’infanzia del piccolo mago. Stampa Alternativa 1996)
In tempi antichissimi, in India, viveva Indra, il dio del cielo che governava il bello e il cattivo tempo. Egli aveva molto a cuore la vita e le azioni di tutti gli esseri viventi, quando scorgeva un pensiero, un’azione o un gesto d’amore e generosità il suo cuore s’allietava e dispensava quella regione con il suo cielo più limpido e i raggi di sole più tiepidi, ma quando vedeva l’ipocrisia o la malvagità scatenava i suoi venti più violenti, tempeste, cicloni, terremoti.
In un giorno di tristezza, un giorno in cui non riusciva a notare neanche un piccolo gesto di giustizia e saggezza convocò il dio Visvakarma e questi gli raccontò che aveva sentito parlare di un re, Sibi, che governava il suo regno con la massima giustizia e comprensione per tutti.
Sibi viveva modestamente perché non voleva avere nulla di più dei suoi sudditi e ricercava continuamente l’equilibrio e la serenità di tutti gli esseri viventi che popolavano il suo regno.
Indra si trasformò in falco e Visvakarma in piccione e andarono a trovarlo.
Scesero veloci dal cielo e il piccione inseguito dal falco si rifugiò sotto al trono di Sibi.
Il falco, fra lo stupore della gente riunita in udienza, chiese al re:
- O re dammi quel piccione perché è la mia preda.
- Questo piccione pieno di paura si è rifugiato sotto al mio trono perché io lo proteggessi. – disse il re – Io sono il re Sibi e da molto tempo ho deciso di sostenere la vita di tutti gli esseri viventi a costo della mia stessa vita.
- O re, quel piccione sarà il cibo per me e per i miei piccoli.
- E non hai altro cibo per sostenere la tua vita, falco?
- No, io mi nutro di carne e di sangue.
- La mia carne sarebbe un buon cibo per te?
- Certo, se mi darai la stessa quantità di carne, lascerò volare via libero il piccione.
Il re chiese a un servitore di portare una bilancia e un coltello affilato, si denudò la coscia e chiese al servo di tagliare un pezzo della sua carne, ma il servo balbettando si rifiutò di fare del male al suo signore così buono e giusto. Sibi allora si tagliò da solo un pezzo di carne e la mise sulla bilancia, ma il piccione, sull’altro piatto, pesava di più.
Il falco gli disse:
- Dammi il piccione, o re, e io volerò via contento, tu hai sofferto abbastanza e hai dimostrato la tua grandezza e benevolenza.
- Ormai ho deciso e il mio dolore é inferiore alla gioia di aver salvato una vita.
Sibi si tagliò un altro pezzo di carne, ma il piccione pesava sempre di più, il re continuò ad aggiungere la sua carne fino a quando arrivò all’osso, ma la bilancia non si muoveva. All’improvviso comprese che il valore di una vita poteva essere eguagliato soltanto da un’altra vita.
Allora salì lui stesso sulla bilancia e questa si allineò in un perfetto equilibrio.
In quel momento la terra tremò e il falco ritornò Indra e il piccione fu il dio Visvakarma, s’inchinarono di fronte a Sibi, il futuro Budda, e gli donarono all’istante un corpo nuovo e meraviglioso.
(Questa favola è tratta dal Sutralankara di Asvagosha e dalla rielaborazione di Giulio Maria Rampelli).
L’immagine in evidenza è di Sergio Toppi