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Un mare troppo lontano (recensione di Gianni Brunoro)

Un mare troppo lontano (recensione di Gianni Brunoro)

BOTTE PICCOLA, VINO BUONO

Negli elegantissimi e molto costosi vecchi orologi analogici, “antenati” di quelli digitali e quindi a movimento meccanico, esiste un dispositivo (forse chiamato scappamento ad ancora, ma in questo contesto il nome non ha importanza) il quale ha la funzione di far sempre avanzare il congegno, senza fermarsi, qualunque movimento lo coinvolga. È la metafora che potrebbe affacciarsi alla mente del lettore abituale dei romanzi di Marco Steiner, amico e “allievo” letterario di Hugo Pratt, alla lettura della sua ultima opera, Un mare troppo lontano. È il primo titolo di una nuova collana di “racconti di viaggio e avventura”, Zefiro, pubblicata dalla piccola e gagliarda libreria romana Le Storie. Il perché della sensazione metaforica dipende dal fatto che Un mare troppo lontano evidenzia un successivo passo avanti rispetto a Nella musica del vento e a La nave dei folli, opere le quali, in sequenza, dimostravano a loro volta un ulteriore superamento, già l’ultima rispetto alla penultima, nel mondo creativo e nei corrispondenti requisiti letterari di Steiner. Ora, questa recente opera – pur nella sua dimensione all’apparenza minimalista – mostra una struttura letteraria ancora più avanzata, contestuale a una notevole maturità in progress rispetto al passato.

I fatti narrati, di per sé semplici, emergono obliqui coordinando la narrazione non lineare dei vari racconti: il proprietario di un veliero, da lui profondamente amato, è costretto a cederlo. Lo acquistano tre uomini, per usarlo a scopi truffaldini, tipo contrabbando di liquori, o traffico d’armi. Questi finiscono per litigare: due rimangono uccisi, il terzo vaga sul mare col battello, che va incontro a un naufragio. Arenato su una spiaggia, diventerà un vecchio relitto. Ma su quel relitto, fra realtà e suggestioni, lo scrittore imbastisce le sue storie, nutrendole di sogni, illazioni, ragionamenti, fantasia.

Vista l’impostazione programmatica della collana, il libro si presenta come una serie di racconti, diciamo così, “di mare”. Dopo un prologo autobiografico sulle impressioni provate dall’autore nell’osservare un austero, ieratico corvo, dal quale peraltro si sente osservato, si approda a un primo capitolo: esso racconta di tre uomini sull’imbarcazione Irene di Boston, i quali finiscono in un accanito litigio, il cui esito è drammatico: due rimangono uccisi dal terzo; ciò avviene sotto lo sguardo penetrante di un corvo nero, lucido come la notte. Il secondo racconto è un’estesa divagazione poetico-narrativa dei viaggi di una pressoché enigmatica Irene e dell’incontro con due altri uomini; ma si intuisce poi che Irene è la stessa nave e che parla con un corvo, il quale le predice il naufragio, mentre lei diventerà una donna. Nel terzo capitolo è il veliero stesso Irene di Boston – o per meglio dire il suo spirito – a parlare in maniera palese e a raccontare in una favola onirica i fatti che portarono alla propria nascita, nel naturale contesto del proprio punto di vista; fra l’altro, lei esibisce, fin dal principio, una specie di elegia, la propria ammirazione delle doti del corvo, «l’unico che può volare fra i reami, l’unico in grado di vedere il passato e di raggiungere il presente, l’unico in grado di entrare nelle terre dei sogni, di sbirciare il futuro e capire le anime». Al capitolo successivo, sono il corvo Puck e un olivo i protagonisti, impegnati in dialoghi tra il filosofico e l’esistenziale, pur sullo fondo della dimensione dell’avventura (e di altro: che esige un successivo approfondimento). Il capitolo conclusivo, sempre all’insegna della presenza di un corvo, è una narrazione in terza persona, allusiva a un’esposizione ordinata degli eventi prima narrati.

In questo resoconto forzatamente sintetico (e come tale incompleto) risultano tuttavia evidenti certe caratteristiche: la più notevole è che i racconti sono collegati fra loro, sia per la immanente, significativa presenza del corvo, sia per i protagonisti. Altro elemento importante è la struttura narratologica. Per esempio, chi abbia letto L’urlo e il furore del grande scrittore americano William Faulkner (premio Nobel 1949), avrà presente che nei quattro capitoli del romanzo i primi tre sono “scritti” da tre differenti protagonisti, che espongono ciascuno la propria visione soggettiva dei fatti; mentre nel quarto subentra una esposizione in terza persona che chiarisce in modo oggettivo gli eventi. Un procedimento analogo, di avanguardia narrativa, qualifica – come si è accennato – anche Un mare troppo lontano. Altri elementi caratterizzanti sono le strutture narrative, che fra le altre possono richiamare le ambientazioni del primo Melville, quello di Taipì, per intenderci; o l’esotica profondità espositiva, data dalla compattezza, che caratterizza Conrad. Ma ci sono anche rimandi metanarrativi: per esempio al Corto Maltese di Hugo Pratt, specificamente al racconto Sogno di un mattino di mezzo inverno.

Comunque, appunto, il capitolo Il corvo e l’olivo esige un approfondimento. Perché, se ogni libro ha un’anima, per “questo” libro si può ragionevolmente sospettare che l’anima risieda nei dialoghi fra l’olivo e il corvo Puck, appunto in “questo” capitolo. Il quale costituisce uno dei perni su cui si regge tutto il librino: corvo e olivo si scambiano pensieri su mitologie nordiche e memorie mediterranee, in un groviglio inestricabile di miti, fantasie, favole: un mélange che, sul piano narrativo, risulta una prospettiva surreale. Dei quattro classici elementi acqua-aria-terra-fuoco, l’olivo incarna le valenze materiali, concrete: acqua-terra; mentre il corvo impersona le componenti magiche, lievi, impalpabili: aria-fuoco. Per cui nel contesto narrativo generale, questi momenti configurano il livello intellettuale/filosofico più alto. A tratti, sembra di assistere ai battibecchi fra l’aviatore e il piccolo principe, nell’opera omonima di Saint-Exupery: ma qui, con la compunzione di un filosofo del romanticismo tedesco.

Seguiamone certi dialoghi:

«Quello non è un marinaio come gli altri – afferma il corvo – lui si chiama Corto Maltese ed è un simbolo del viaggio per mare, proprio come quell’amico di cui ti parlavo.», «E allora dimmi chi sarebbe questo amico, maledetto corvo insistente!», «Io ho un nome, olivo, mi chiamo Puck!», «Va bene, Puck, parla allora… […] tu rimugini le tue vecchie favole celtiche zeppe di eroi, fate, maghi cavalieri e velieri incantati», «Olivo, tu conservi la memoria, ma io volo nel mondo della fantasia e servono entrambe per sognare. Tu te ne stai piantato qui, osservi e ricordi le cose, ma io le vedo in un’altra maniera perché riesco a viaggiare libero fregandomene del tempo».

E nei loro discorsi s’infiltrano anche guizzi metanarrativi. Ricompare Corto Maltese e il corvo, nella sua fantasia, lo fa figurare come una reincarnazione di Ulisse:

«Il tuo amico – dice all’olivo – si chiamava Ulisse, vecchio brontolone, te lo ricordi soltanto adesso?», «Ma chi, il greco? Ma certo che me lo ricordo e mi domando che fine avrà fatto?», «Olivo, io non sono venuto fin qui per farti una lezione di storia, a me interessano i sogni e le favole, non soltanto quelle celtiche, e poi, mi piace pensare al futuro e non ho voglia di rinvangare il passato, comunque stavo pensando proprio a lui, Ulisse, il marinaio greco che dopo aver conosciuto ogni genere d’avventura in giro per il mondo e dopo aver rifiutato l’immortalità che amanti, sirene, maghe o regine gli volevano regalare, scelse di tornare in patria, a casa, da sua moglie Penelope.», «Sai perché lo fece?», «No.», «Perché Ulisse scelse la fine di un uomo normale».

Si potrebbe naturalmente continuare, spulciando fra questi dialoghi all’apparenza surreali, che dipingono un mondo animisticamente panico, in cui parlano vegetali e animali, mentre l’uomo non vi esiste: come in Fedro, come in certo “moralista” Trilussa. Ma sono dialoghi tuttavia profondi, che rinviano a problematiche eterne, tanto in filosofia quanto in letteratura. Chiunque, purché aduso a buone consuetudini letterarie di lettura, potrà trovarci anche altro. Ma qui è il caso di sottolineare come ciascun capitolo sia fruibile come racconto in sé, grazie alla chiarezza espositiva; nella quale peraltro serpeggiano rinvii poetici, sia nella sostanza sia nella forma, che pur non rinunciano a un sapore diffuso di senso dell’avventura: sono pertanto limpidi richiami a eventi, a considerazioni, a immagini letterarie. È in ciò, che si sostanzia la sistematica tensione a una profonda essenza narrativa di quest’ultima opera di Steiner.

(Gianni Brunoro)

Marco Steiner, Un mare troppo lontano

Ed. Le Storie, Roma, 2022

82 pp., f.to 8×12, brossura, Euro 5,00

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La Nave dei Folli. Un Diario di Bordo. (Approdo a Venezia)

La Nave dei Folli. Un Diario di Bordo. (Approdo a Venezia)

Arriva il giorno, è venerdì 7 ottobre 2022, e arriva il momento di presentare a Venezia il mio ultimo romanzo, “La nave dei folli. Un diario di bordo” edito da Marcianum Press.

Organizza tutto l’elegantissima Libreria Studium infilata nel cuore di Venezia, fra San Marco e il Ponte dei Sospiri.

Il luogo della presentazione è un’altra meraviglia, l’antico chiostro di Sant’Apolllonia, un luogo magico che risale al XII°-XIII° secolo.

La sala è piena, c’è tanta gente, tante personalità cittadine, tanti amici.

Presentano il libro il Professor Antonio Alberto Semi, Psichiatra, Psicoanalista. Membro ordinario e A.F.T. della Società Psicoanalitica Italiana e Stefano Knuchel, regista svizzero autore del recente “Hugo in Argentina” un documentario sulla vita di Hugo Pratt presentato nel 2021 alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia nella rassegna Giornate degli Autori.

La presentazione dell’Evento spetta all’organizzatore di tutto, Marco Vidal che ha rivitalizzato con passione e professionalità la Libreria Studium e riveste il ruolo di CEO di “The Merchant of Venice” un marchio di profumeria artistica di lusso nato a Venezia dalla volontà della Famiglia Vidal, operante nel settore della profumeria a livello internazionale da più di un secolo.

Sono onorato di pubblicare qui, il testo completo dell’intervento del Professor Semi che mi ha profondamente onorato con il suo sincero apprezzamento, le sue parole e la sua amabile ironia:

Narrenschiff (per La nave deì folli di Marco Steiner, Marcianum Press, 2022, [7 ottobre 22 – 17.30- Satnt’Apollonia]

Per prima cosa desidero dirvi che sono un po’ a disagio nelle vesti di presentatore di questo libro. Vedete, presentare o recensire un libro è sempre un po’ complicato, ammenoché non lo si faccia di mestiere, che non è il mio caso. Anche se lo si fa d’abitudine, c’è sempre il rischio di essere solo compiacenti, dichiarare in vario modo che sì, è proprio un bel libro, fare tanti complimenti all’autore e magari cercare di tenerselo buono perché lui possa ricambiare il favore in una prossima occasione. Viceversa, altro rischio ma raro, nel nostro paese, un presentatore può diventare uno stroncatore, uno che dichiara subito che il libro è mal fatto, poco interessante, che non si capisce perché uno abbia fatto la fatica di scriverlo. Non capita quasi mai: come si usa dire tra noi, can no magna can. Ma questi che ho appena detto sono pericoli evidenti per l’autore, per giunta subito riconoscibili da parte del lettore o dell’ascoltatore. Ci sono mezzucci più mascherati, invece. Per esempio, è possibile illustrare un libro proprio per bene, raccontandone tutta la trama in modo da far sì che l’ascoltatore alla fine abbia l’impressione di sapere già cosa contiene il libro e dunque non abbia più la curiosità di leggerlo e quindi ancor prima di comprarlo. Il caso clamoroso e evidente è quello del libro poliziesco o giallo. Se si racconta tutta la trama e magari anche la conclusione, di fatto si toglie l’interesse al lettore. In questo caso, nel caso dei gialli voglio dire, è diventato un imperativo etico quello di non dire quale sia la conclusione. Ma quel che vale per i gialli vale anche per molti altri libri, solo in forma più dissimulata, per cui accade che il presentatore o il recensore possa rendere un cattivo servizio all’autore riempiendolo però di complimenti e contemporaneamente inibendo l’acquisto del libro.

Nel mio caso, invece, mi trovo preso tra due tendenze: da un lato, come psicoanalista e psichiatra, mi verrebbe voglia di mettermi, come si usa dire, a interpretare; dall’altro lato, però, avrei voglia di andare un po’ a libere associazioni, a lasciarmi andare cioè ad un flusso di pensieri che non si sa mai, in precedenza, dove andranno a parare. Vi sto mostrando beninteso una alternativa classica che abbiamo tutti, di fronte ad un libro o a un film – e ancor più di fronte ad una persona – che è quella di considerare il libro come un oggetto, quindi diverso da noi e meta del nostro pensiero e dei nostri sentimenti o, al contrario, quella di identificarsi con l’oggetto, in questo caso con i contenuti del libro, proseguendo in qualche modo i pensieri contenuti nel libro.

Il quale libro di oggi – diciamolo subito – invita o addirittura costringe a questo, cioè a identificarsi e a dis-identificarsi. A viaggiare con Indio, il protagonista, e a staccarsi per chiedersi chi mai sia questo Indio, dove stia viaggiando.

Perché questo è un libro di viaggio, anzi è un diario di viaggio. Ma già il titolo sembra volerci mettere sull’avviso: La nave dei folli. Sapete, un titolo del genere, ricco di storia com’è, è fatto apposta per ingannare. Chi sono i folli? Oppure, ancor prima, esistono i folli? Li si può identificare con ‘i pazzi’? sono malati o sono i veri sani? Dicono la verità o si limitano a manifestare che la realtà, quella che ci sembra così semplice e consueta, è solo una copertura di un’altra realtà, più vera? Questo è l’interrogativo tipico della ‘nave dei folli’.

Già nel 1494, quando uscì la prima edizione , a Basilea, della Narrenschiff, di Sebastian Brant, con le famose xilografie di Dürer, scritta in tedesco e poi tradotta in latino nell’edizione seguente (1497) come Stultifera navis, era chiaro che si trattava di un testo satirico, dunque di un libro che voleva permettersi sì di dire la verità ma attraverso il paradosso o attraverso la negazione, in un certo modo mettendo per iscritto ciò che i giullari di corte a quei tempi potevano permettersi solo di dire, perché verba volant.

Qui, con questo libro, Marco Steiner vuole metterci di fronte al fatto che la verità, la propria personale verità, l’unica verità reale, è una ricerca. E vuole mostrarci come la si può fare. Questo è il viaggio. La figura del viaggio, beninteso, è una figura classica, che a partire da Omero è stata utilizzata nella storia dell’Occidente infinite volte. E già Ulisse ci ha insegnato che non è Itaca la meta, ma la conoscenza e l’inquietudine che comporta il prendere atto che diventare quel che si è, cioè esseri umani, può essere solo il risultato, magari effimero, di una ricerca.

Steiner ci mostra come questa ricerca possa essere fatta, cosa significhi navigare, lasciare andare la nave, tollerare che il vento e le correnti spingano o portino, riconoscere che con il singolo movimento apparentemente naturale dell’acqua ci possiamo appunto riconoscere: un capitolo è intitolato ‘Risacca’, ossia un movimento delle acque che può sembrare contraddittorio o perfino inutile e che pure consente al navigatore, Indio, di affermare: Sono/ solo/ risacca/ sono il ripetersi di un nulla che continua,/ sempre uguale,/ sempre diverso. È qui, verrebbe da dire, che nasce la soggettività: accorgersi di essere sempre uguali, di avere cioè una continuità con sé stessi e con gli altri, e però che in ogni momento siamo diversi da com’eravamo un attimo prima. Il diario di viaggio, in questo senso, è la testimonianza di una ricerca possibile.

Il libro si svolge così, passo passo andando da una visione improvvisa e sorprendente ad un dialogo – per esempio tra il protagonista e un suo alter ego, Guglielmo – che sottolinea spesso l’inutilità della parola se non è accompagnata da una riflessione inaspettata. Tra le visioni – che costituiscono una serie di esperienze attraversate da Indio – per noi veneziani è evidentemente sorprendente e toccante quella della nostra città vista ed esplorata da sotto, girando in quel bosco stranissimo e capovolto che abitualmente non si vede e che pure ci consente di essere la città che siamo. In generale parliamo di palafitte, sappiamo che sì, sono migliaia, milioni di pali confitti a testa in giù ma girarci dentro, vedendo dunque Venezia come il rovescio del bosco, è un’altra esperienza. Poi naturalmente ci viene da chiederci cosa Steiner voglia dirci con ciò e con tante altre sorprendenti visioni ma credo sia bene che ciascuno di noi, leggendo questo libro, debba sostare e godersi la sensazione che Steiner ci fa provare, prima di passare a ragionamenti più filati, che inevitabilmente introducono uno stacco. Se posso permettermi un consiglio, vi direi di leggere questo libro disordinatamente, un pezzo alla volta, cominciando a caso, perdendovicisi dentro. E poi, solo poi, leggerlo tutto d’un fiato, cominciando dall’inizio. La lettura pezzo per pezzo può farvi sentire il gusto dei singoli ingredienti – e badate che ci sono anche pezzi che possono far provare angoscia o tristezza – mentre la lettura filata ci fa sentire il gusto sorprendente di un piatto riuscito, nel quale si possono sì riconoscere i singoli ingredienti ma anche capire che sono diventati qualcos’altro.

Dico questo perché tutto il libro è un invito alla lettura, tanto che, alla fine, l’Autore si concede una lettera al lettore che, contemporaneamente, è una lettera ad un terapeuta. Ma sugli ultimi due capitoli non dico nulla, appunto come se questo libro fosse un giallo o come se la conclusione fosse un lavoro di scoperta che ogni lettore deve farsi, nel senso di “fare anche su sé stesso”.

Dunque concluderei facendovi gli auguri, cari futuri lettori, perché questo libro possa esservi non solo attraente ma anche personalmente utile.

Grazie ancora al Professor Antonio Alberto Semi

e grazie

a Stefano Knuchel che ha usato magnifiche parole per il libro e ha presentato in sala un lungo estratto del Documentario.

Con Stefano ho avuto l’onore di partecipare alla sceneggiatura di questo “racconto per immagini” dedicato alla vita di Hugo Pratt che per me è stato il vero Amico e Maestro che mi ha avviato, attraverso il suo mitico personaggio di Corto Maltese a navigare libero sulle rotte della Fantasia.

La Nave dei Folli è un libro dedicato a chi sa mollare gli ormeggi…

Buon vento a tutti!

Marco Steiner

 

 

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Nella Musica del Vento “letto” da Emiliano Ventura

Nella Musica del Vento “letto” da Emiliano Ventura

Sono molto contento di tante recensioni positive al mio ultimo libro, sono state usate parole lusinghiere.

Emiliano Ventura l’ha letto così, e lo ringrazio:

Ci sono romanzi che possono essere delle occasioni per il critico, un evento che vada oltre la lettura e che possa offrire uno spunto per riflessioni liminari al libro in oggetto.

Una di queste occasioni è l’uscita del romanzo Nella musica del vento di Marco Steiner. Questa recensione giunge probabilmente in ritardo rispetto all’uscita del libro (giugno 2021), la cosa ha però consentito a chi scrive di leggere le recensioni che sono state già edite.

Tutte puntuali, tutte positive, elogiative e pronte a cogliere gli aspetti della narrativa di avventura con precisi richiami ai padri letterari. Tutto bello e anche tutto vero. Però così si perde l’occasione, l’occasione che un libro come questo offre, ovvero quella di capire che cosa sia un romanzo e cosa significhi essere uno scrittore.

La prima cosa da fare è mettere ordine nelle idee lasciando da parte un po’ di bigiotteria editoriale, tutto quel frasario sui vari generi: avventura, giallo, noir o rosa. Classificazioni utili per la compilazione di uno scaffale in libreria ma non certo adatte a capire “cosa sia” un romanzo e in particolare uno come Nella musica del vento.

Un romanzo è una narrazione di ampio respiro che generalmente, quando si tratta di letteratura, ha il difficile compito di spiegare cosa sia un “fottuto essere umano” (vedi David Foster Wallace), che poi questo possa essere calato in ambienti e tempi diversi poco importa, ma è questo il fine della letteratura.

Detto questo, il romanzo di Steiner non è una narrazione di genere (avventura) ma letteratura tout court, una narrazione di ampio respiro con due voci protagoniste, quella di un uomo e quella di una donna.

Altra abitudine indefessa delle recensioni, ma sarebbe più giusto dire segnalazioni, e della bigiotteria editoriale è quella di affrettarsi a trovare un padre letterario allo scrittore in oggetto. Per questo testo si sono rintracciati i nomi di Hugo Pratt (un esempio classico visti i trascorsi tra Steiner e Pratt, ma un evento ormai superato, datato), poi si cita Cormac McCarthy, per certe atmosfere realistiche o crude. Nulla a che ridire, sono padri letterari di assoluto rispetto.

Ma il recensore, in questo modo, perde l’occasione: quella di praticare strade nuove finendo così in un sentiero interrotto.

La cosa importante, di quest’opera e del suo autore, consiste nel fatto che Nella musica del vento sia un libro sudamericano scritto da un autore italiano, per la precisione si tratta di un “romanzo fuegino”. Con questo termine ci si riferisce genericamente alla Terra del fuoco, il sud del mondo dove il romanzo di Steiner è ambientato. Così come sono fuegini gli indios che abitano in quelle terre, anche questi compaiono nel romanzo.
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Dovendo trovare dei riferimenti alla narrazione fuegina di Steiner non è in orbita eurocentrica che si possano trovare dei nomi adatti, ma bisogna decentrarsi e perdersi nella letteratura sudamericana. Il romanzo di Steiner non riporta a un’antropologia europea (da conquistatore) ma un’antropologia fuegina (del conquistato); dovendo fare dei nomi di riferimento vanno cercati in Francisco Coloane, Àlvaro Mutis (la rivista The Serendipity lo ha colto) e Osvaldo Soriano.

Come non pensare all’immagine dell’indio congelato nell’Iceberg che punta il dito verso il narratore nel racconto di Coloane o a Un bel morir di Mutis, con le ipotesi intorno alla fine di Maqroll il gabbiere.

Un autore italiano ha scritto un romanzo sudamericano con un’antropologia fuegina, la selvaggia desolazione della Patagonia e di quei mari estremi è espressa come nei romanzi di Coloane, inoltre i Mapuches e i Tehuelches sono indios che ho incontrato solo nelle pagine di Soriano, guarda caso insieme al figlio di Butch Cassidy.

Ma Steiner non è scrittore sudamericano, ma chi conosce i suoi lavori non fa fatica a rintracciare una capacità di immedesimazione unica e sorprendente con l’oggetto narrato, che sia la voce di un folle, di un bosco o una figura femminile.

Ecco che cosa deve dirci un romanzo, che cosa significa essere un “fottuto essere umano”. Ma cosa vuol dire essere uno scrittore, uno scrittore italiano che scrive un romanzo fuegino?

Significa accettare la sfida al labirinto (vedi Calvino), la sfida alla propria contemporaneità di scrittore, il fatto di trovarsi a competere con l’intrattenimento (cinema, tv, musica, sport, fumetto ecc.).

Questa è la grande occasione per il critico; grazie al romanzo di Steiner si possono evidenziare alcune tendenze della letteratura italiana in generale. Secondo il senso comune, attuale, quando un romanzo è un bel romanzo si dice subito: “sembra un film”. Il romanzo di Steiner è un gran bel romanzo, ma direi che uno dei sei pregi è di essere, quasi, irriducibile alla sceneggiatura cinematografica.

Non che la cosa sia impossibile, tutto si può fare, ma il registro della narrazione con le due voci che si alternano, la cultura delle tradizioni degli indios, i dati della documentazione e della ricerca in alcuni ambienti malavitosi, rendono questo romanzo estraneo alle narrazioni di genere, in questo caso è veramente irriducibile, e avulso, alla moda della narrativa italiana attuale.

Per scrivere un romanzo fuegino, per spiegare che cosa significa essere un fottuto essere umano, Steiner ha dovuto alzare l’asta della scrittura, consapevole di dover affrontare il mondo dell’intrattenimento ha scelto la strategia di essere uno scrittore migliore, di fare un romanzo migliore, di fare letteratura tout court. Consapevolmente accetta il rischio di essere eccentrico alla moda letteraria attuale che utilizza una strategia opposta, quella di uniformarsi all’intrattenimento, la narrativa italiana ha il suo fine nella serie televisiva o nella riduzione cinematografica, se non gli riesce di incanalarsi nella serialità del personaggio.

Con questo romanzo, e con i lavori precedenti, Steiner decide di giocare una partita diversa, non si pone sul piano dell’intrattenimento, ma sul versante della letteratura massimalista, una letteratura capace di incontrare ambiti del pensiero eterogenei come le tradizioni fuegine, ad esempio, di fare una narrativa più- che-narrativa, un’opera letteraria.

Dovrei ora spendere qualche frase per la trama del romanzo, potrei rinviare alle molte recensioni in cui i nomi e i personaggi di Morgan Jones e Maria Leibowitz sono ampiamente descritti, ma vorrei cogliere anche qui l’occasione.

Un bastardo e una prostituta; Morgan è un cacciatore di indios e Maria è stata venduta dal padre ed è finita in un bordello sudamericano, era inevitabile che si incontrassero, sono due banditi, nel senso di ‘messi al bando’ dalla società, due eventi trascurabili nella storia dei conquistatori, ma due ingranaggi feroci nelle trame dei conquistati.

Il lavoro di Steiner, tutta la sua scrittura, è infatti quello di dar voce a coloro che sono stati ‘messi al bando’, ai dimenticati, ai folli, ai morti, alle ombre o ai personaggi che hanno perso l’autore (Corto Maltese). È uno scrittore con una propria mitologia riconducibile all’orfismo, al riportare alla luce ciò che era in ombra, far uscire dal bando il bandito.

Ecco, credo il senso di Nella musica del vento sia questo, far uscire dal bando il bandito, in modi e tempi diversi sia Morgan sia Maria sono usciti dal bando.

Emiliano Ventura

pubblicato su Ti con zero, 14 settembre 2021.

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by in / L'ultima pista
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“L’ultima pista” una recensione di Gianni Brunoro.

“L’ultima pista” una recensione di Gianni Brunoro.

Grazie Gianni Brunoro, non so perché tu mi abbia rimandato questa tua recensione di “L’ultima pista” del 2006, forse perché anche tu senti nell’aria il profumo di un nuovo viaggio che continua oltre quella pista, verso le terre estreme al sud del mondo, sempre un po’ più in là…

Grazie Gianni,

Marco Steiner

“L’AVVENTURA È L’AVVENTURA…

Gli appassionati di gialli sanno bene come sia successo che uno stuolo di ultra appassionati di Sherlock Holmes abbiano studiato anche i minimi spiragli delle sue avventure per intrufolarci dentro un racconto apocrifo, una sua vicenda che Conan Doyle non avrebbe raccontato. Qualcosa di analogo ha fatto Marco Steiner nei confronti di Corto Maltese, anche se con uno spirito molto disincantato e con un piglio che risulta una strana fusione di sottilmente beffardo e di teneramente devoto. È la lieve vicenda di Bob Collins, americano oriundo irlandese, orfano fin da bambino di genitori, irredentisti e bombaroli, morti in un attentato. Bob riceve in dono dal nonno, che se ne va per non tornare mai più, una misteriosa cassetta. Al cui interno egli scopre – preziosi cimeli – carte e documenti attraverso i quali può ricostruire le fila del passato della propria famiglia, conoscendo così anche sé stesso. Scoprirà così di essere discendente di quella Louise Brooksowicz – probabile amante di Corto Maltese – che ha una parte non indifferente nell’episodio Tango. Ma per risalire al proprio passato, Bob Collins è costretto a fare dei viaggi, in particolare a recarsi in Patagonia, sulle tracce di Butch Cassidy e dei suoi compari, ancora una volta come Corto in Tango. Come andrà a finire, lo scoprirà il lettore: tanto, qui non si tratta di un giallo. Si tratta invece di un gustoso pamphlet, in cui l’autore si destreggia abilmente fra i paletti di un guizzante slalom che fra realismo e fantasia investe trasversalmente Hugo Pratt e Corto Maltese, Bruce Chatwin e personaggi diventati leggenda, come il citato Butch Cassidy. Steiner (che è stato un grande amico di Pratt e forse non a caso sceglie come pseudonimo il nome di un grande amico di Corto) mima la prosa asciutta e disincantata del “Maestro di Malamocco”, con esito molto convincente, restituendo una pagina tersa e fluida, in cui gli echi del mondo prattiano di Corto Maltese risuonano a ogni piè sospinto. Quasi a dimostrare concretamente che i personaggi, una volta giunti alla statura di miti, alimentano automaticamente la propria stessa mitologia. (g.b.)

Marco Steiner, L’ULTIMA PISTA, Ed. Cadmo, Fiesole, 2006, 160 pp., f.to 12×19, brossura con alette, Euro 10.00.

 

Da Fumetto n.60, dicembre 2006″

 

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by in / Black Pearl / Dos Mares
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Black Pearl

Black Pearl

Black Pearl

è la mia nave, la mia casa, tutto quello che porto dentro, poca roba, schegge di ricordi, odori, cicatrici e qualche sogno.

Ci sono gli uomini dell’equipaggio, li ho raccolti in fondo al pozzo, al Dos Mares, laggiù a Tarifa, davanti all’Africa.

Lascio un posto per chi troverò lungo la rotta e per chi si affaccerà nei miei incubi sudati.

Lascio spazio alle sorprese che arrivano dal niente, come dentro a un temporale.

Annuso l’aria per andare avanti in qualche modo, fino a quando ce la faccio.

 

Sugli scaffali ci sono libri, bussole e binocoli per cercare il cambiamento,

giorno e notte,

vento fresco e piatta fradicia,

poi ci sono le altre cose, le più belle, quelle che arrivano col blu.

Questa nave non punta i porti e la rotta cambia senza vento.

A bordo c’è un cartografo che possiede mappe antiche e conosce isole inesistenti,

un naturalista che racconta piante e animali leggendari se la notte è troppo buia,

poi c’è un cuoco che maneggia spezie, succhi e profumi prodigiosi,

un pazzo che riesce a rovistare nel futuro, e la scorta del mio rum per dimenticare tutto il resto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il passeggero più importante è l’imprevisto,

lo nascondo in mezzo a cime e vele, ma lui esce quando vuole, non avvisa,

sa che sono sempre pronto.

 

Jack Blake,

il Comandante della Black Pearl

 

 

 

 

Tutte le elaborazioni fotografiche sono di Marco D’Anna.

Il progetto nasce come idea di una futura Fotographic Novel.

Marco Steiner

 

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by in / Senza categoria / Una Storia
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Maroon

Maroon

Paramaribo, Suriname, Guyana olandese.

C’è una veranda stretta e lunga in una pensione di Paramaribo, si affaccia sullo scorrere lento del fiume marrone, ha il tetto e le persiane azzurre, balaustre bianche di legno scrostato, larghe poltrone di vimini, un gatto che dorme. Pigri ventilatori al soffitto cercano di mischiare l’umidità all’aria ghiacciata che filtra fumando dal condizionatore.

Nel silenzio si sente solo il ronzio e il cigolio delle pale, ma fa caldo lo stesso. Non è la pensione di madame Java, ma gli assomiglia. Alla reception c’è una brasiliana con un sorriso carico d’inviti.

L’atmosfera è sonnolenta, c’è odore di burro e pane tostato, un vago sentore di curry, spezie e cipolla che sfrigola. Il porto è in fondo alla strada, il mercato a due passi. Lì c’è di tutto, frutta colorata e verdure appassite, pesci affettati a colpi di machete, polli appesi e magliette piegate, orologi, radioline e cd falsi, ma anche vecchie bottiglie scariche di rhum, ma riempite con pezzi di corteccia d’albero, semi, foglie secche, piccoli arbusti o bacche. Basterà aggiungere un liquore chiaro, rum non invecchiato, vodka o gin. E aspettare. L’alcool assorbirà le proprietà di tutte quelle essenze. In pochi giorni il liquido diventa bruno-ambrato, amaro come il fiele, pungente come la schiena di un istrice, rugoso come pomice. Ogni bottiglia é una combinazione specifica per un preciso problema, il mal di schiena, il potenziamento sessuale maschile, per favorire le gravidanze, per la prevenzione o la cura della malaria, o soltanto per leggere qualcosa di strano nel futuro.

Una vecchia, nera e lucida come un pezzo d’ebano strofinato negli anni, spiega il funzionamento delle varie combinazioni. Ti fissa negli occhi, vuole conoscere chi le sta davanti, ma non le servono troppi discorsi. Ha un banchetto in un angolo scuro, i suoi occhi, bianchi come due lune bucate, sono scanner primordiali. Scavano, indagano, fulminano, o ignorano e se ne vanno lontani. Vende bottiglie magiche, ma anche bicchieri intagliati nel legno di china, radici nodose e unguenti profumati. Basta chiacchierare un po’, essere diretti e sinceri, dire qualcosa e poi farsi raccontare una storia. Sotto al banco ci sono bambole di pezza e spilloni, bottiglie scure con un liquido verde, altari di legno, candele colorate di varie dimensioni e tutto quello che serve per organizzare un rito vudù.

Poco fuori dalla città c’è la grande fabbrica, il cuore pulsante di tutto il paese, si chiama “Suralco”, loro lavano ed estraggono la bauxite dalla terra rossa dell’Amazzonia e poi la trasformano in allumina, la base per arrivare all’alluminio, uno dei metalli più diffusi nella nostra società, non solo nelle pentole. Per arrivare all’alluminio si passa attraverso un processo costoso, sono necessari quantitativi di energia elettrica impressionanti, qui non è possibile, lo faranno da qualche altra parte. In Suriname non è economico produrre energia, ma c’è tanta terra e tanti uomini che possono lavare la terra. Quattro tonnellate di bauxite per una tonnellata di alluminio, sfornato in lingotti di nove metri che pesano come sei elefanti. Sui giganteschi camion “Suralco” campeggia un motto che è tutto un programma: “We move the mountains. (Noi spostiamo le montagne)”.

Dopo quell’immenso castello di ferro, fumo e cemento, la strada è una striscia rossa d’argilla martoriata da piogge e pneumatici che s’infila come una cicatrice nel sud, nel verde della foresta, verso altre inguaribili piaghe scavate nella terra, le miniere d’oro.

I camion gialli vanno e vengono sbattendo ruote e sospensioni nelle buche e nel fango e si trasformano in mostri color rame. Quel frastuono metallico rimbomba nelle gallerie vegetali e fa rintanare i giaguari e le scimmie, ma a poche centinaia di metri la giungla torna di nuovo padrona. Per migliaia di chilometri c’è solo foresta amazzonica, giù, sempre più in fondo verso il sud del mondo.

Un tappeto carico di verde e ossigeno che si srotola oltre il confine, lungo tutto il Brasile.

Le puttane vengono da lì, dalle zone povere del Brasile. Loro sono le vere schiave di oggi. Un tempo, gli schiavi venivano dall’Africa: Costa d’Avorio, Dahomey, Ghana, li caricavano come bestie sulle navi e li sbattevano qui, servivano per coltivare le terre, per tagliare le foreste, guardare le mandrie, spaccare le pietre e fare tutto quello che nessun bianco avrebbe mai fatto. Alcuni di loro si ribellarono e fuggirono addentrandosi nella selva, e i loro discendenti sono rimasti ancora lì, adesso li chiamano maroon, ma fra loro si chiamano Longwe Samma (gente che scappa).

Sono i maroon che si occupano di cercare l’oro nella foresta, le concessioni sono canadesi oppure olandesi o di chissà quale ex-dittatore, ma chi scava, chi si prende la malaria, chi maneggia e s’intossica col mercurio, chi si prende l’Aids con le puttane brasiliane, chi viene ucciso dalle bande dopo aver ricevuto la paga o aver trovato una pepita, sono sempre loro, gli schiavi che hanno scelto la libertà, il gruppo più numeroso è quello degli Ndjuka. Loro però hanno una fonte di energia particolare. Si chiama Obeah, è un’antica forma di pratiche magico-religiose che proviene dall’Africa centrale, sono le divinità più potenti di tutte, non hanno paura del teatrino degli altri dei caraibici. Loro sì che fanno paura, bisogna chiedere a loro il permesso di toccare la terra, di ricevere la forza di scavare e di sopravvivere nella buia umidità della foresta.

I rituali magici vanno dalla magia bianca a quella nera e nessuno può davvero sapere che genere di sacrifici si facciano in certe notti molto scure. Sicuramente un cocktail per rinforzare lo spirito è composto da sangue di gallo, plasma di capra sgozzata, succo di canna da zucchero, rum e polvere da sparo. A Paramaribo c’è un negozio attrezzato in ogni genere di prodotto che serva per i rituali vudù, loro si occupano solo di magia bianca, magia positiva, dicono. La cosa più antica che c’è nel negozio è una serie di calderoni.

– “Il calderone serve a tutto – dice Héctor, un negro con dei bicipiti solidi e scuri come tronchi – si possono far bollire le erbe per lavarsi, o preparare una pozione per purificarsi, cucinare il cibo che serve per mangiare o che serve per la divinità da invocare, oppure può fare da casa per qualcosa che si è stata sacrificata per darci la forza di andare avanti…

Gli altri schiavi rimasero al loro posto e poi, nel 1863 furono liberati e rimasero in città, a lavorare per proprio conto. Oggi, i discendenti dei maroon, gli ex-schiavi fuggiaschi e di quelli liberati non si amano molto fra loro. Si ignorano e vogliono dimenticare i loro rispettivi passati.

Tanto per mescolare ancora di più le razze, dopo l’abolizione della schiavitù arrivarono in Suriname altri lavoratori, non erano più veri schiavi, ma venivano da altri miserevoli mondi, avrebbero accettato qualunque paga, qualunque condizione di vita pur di cercare un avvenire diverso e di riuscire a sfuggire dai loro problemi. Arrivavano dall’Industan, da Giava e dalle isole dell’arcipelago malese e indonesiano, dal sud della Cina, dall’India e dal Bangladesh e naturalmente dai paesi più poveri del Brasile.

Nazaré da Silva Nascimento, era una di loro, lei veniva dall’isola di Marajó, sulla foce del Rio delle Amazzoni, nello stato del Pará. Nazaré era nata in un villaggio di legno marcio e lamiera, costruito su fragili palafitte, non c’era niente di buono laggiù, tranne suo nonno. Lui modellava la ceramica di giorno e suonava la chitarra quando calava la sera. I vasi e i piatti che plasmava avevano colori delicati, ma le note delle sue corde lo erano ancora di più e Nazaré amava la musica più di ogni altra cosa. Un giorno, a dodici anni, diventò all’improvviso pallida e sudata, aveva la pancia dura come un sasso e un dolore lancinante nel ventre, dopo cinque terribili ore di barca arrivarono finalmente a Belém, dal medico. Il dottor Sachs la operò e la salvò, l’attacco di appendicite si stava trasformando in peritonite.

Quando si risvegliò nella stanzetta dell’ospedale di Belém non c’era nessuno dei suoi, solo il vecchio dottore, in una mano stringeva una bottiglia di rhum e beveva, con l’altra la stava accarezzando, ma c’era una musica celestiale in quella stanza.

  • Ti ho salvato la vita, ma voglio farti anche un altro regalo, Nazaré. Tu adesso chiudi gli occhi e ascolta la musica di Telemann. Il tuo corpo è uno spettacolo e voglio sentirti vibrare con queste note.

Dopo quel giorno per Nazaré, l’unico spettacolo che riuscì a vedere dal suo villaggio fu la “pororoca”, la formazione di onde gigantesche provocate dall’incontro fra le acque fluviali e quelle dell’Oceano Atlantico. Quando le acque del mare rientravano, portandosi dietro il color ocra di terra nel blu, lasciavano distese fangose punteggiate soltanto dalle macchie nere delle mandrie di bufali. Nazaré guardava quella laguna popolata da miseria e zanzare e sognava una cosa soltanto: scappare, andare via, lontano.

Non avrebbe mai pensato di finire peggio di là. Non avrebbe mai pensato di diventare la schiava di Luciano Brust. Il fornitore ufficiale di puttane per i cercatori d’oro del basso Suriname.

Il pugno è l’arma preferita di Luciano e può fare male, molto male. È nero e potente, lui sa dove colpire e ogni dito è rivestito da un grosso anello. C’è una spiegazione per ognuno di loro.

The star, la stella fortunata, quella di Lucky Luciano.

Una pietra rossa come il sangue, the blood, il sangue dei nemici.

Darkness, una pietra nera come il buio, il mistero dell’obeah, la potenza delle antiche divinità africane.

Freedom, la libertà, la cosa che Luciano ama di più.

Un’ancora marinara, perché lui vuole essere steady, stabile. Come una barca pronta a salpare, come una barca che si lascia cullare incurante dei capricci del mare, ma che resta lì, aggrappata sul fondo. Con lo sguardo nel blu e le dita di ferro aggrappate alle rocce.

Quella mano può accarezzare la pelle di Nazaré, spettinarle i capelli, può minacciare, o può massacrarle la faccia, renderla irriconoscibile, ridurla in brandelli con quel pugno armato con i suoi cinque simboli. Lui l’ha portata oltre il confine, l’ha portata via dalla violenza dei fratelli, ha pagato la sua famiglia, ha pagato il suo viaggio, le ha dato una casa e continua ogni giorno a darle cibo, e protezione. Adesso lei è una sua proprietà e deve fare contenti quegli uomini che frugano nella terra. Nazaré deve restituire il suo debito, deve riscattare tutto quello che Luciano ha fatto per lei, solo così potrà evitare quel pugno.

Ci sono altri schiavi moderni nel Suriname, in generale sono cinesi. Arrivano qui per costruire le strade, vengono dalle province meridionali del loro grande paese. I contratti da fame delle ditte appaltatrici durano sei mesi, loro hanno i permessi e lavorano duro, ma poi dovrebbero tornare, invece scompaiono nel nulla, nel verde di quelle foreste. Qualcun altro si occuperà di loro, come Luciano con Nazaré, qualcuno troverà loro una baracca e li spedirà a spargere mangime e ormoni ai gamberi che allevano lungo il fiume, antiparassitari alle canne da zucchero, a dissodare pietre nelle piantagioni di caffé, a spruzzare il diserbante nei campi, a cucire reti o pezzi di stoffa in qualche umido magazzino.

I piccoli lavoratori cinesi non hanno più un nome, sono clandestini in una terra libera, schiavi di chi li ha condotti attraverso i meandri di quella falsa libertà. Fra loro parlano una lingua speciale, parlano “Hakka” per capirsi senza farsi capire dagli altri, per avere ancora qualcosa di personale e speciale nel buio delle loro capanne di lamiera, di fronte al solito pugno di riso.

Del resto, Hakka, vuol dire “straniero” oppure “ospite”.

Fotografie di Marco D’Anna

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“Una Ballata del mare salato”, un racconto di formazione.

“Una Ballata del mare salato”, un racconto di formazione.

Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.” (J.D. Salinger, Il giovane Holden. Einaudi)

Salinger è morto il 27 gennaio del 2010 a 91 anni. Il suo romanzo “Il giovane Holden” é uscito nel 1951 e da allora, mentre il suo autore si ritirava in un ferreo silenzio e in volontario isolamento, ha venduto più di 60 milioni di copie in tutto il mondo e generazioni di ragazzi l’hanno letto e hanno trovato similitudini con i loro processi di crescita e con le loro problematiche esistenziali, insomma, il Giovane Holden è un tipico romanzo di formazione, come Demian, Davide Copperfield, Il rosso e il nero, Gli Indifferenti e tanti altri.

La Ballata ha le stesse caratteristiche perché il vero protagonista, in fondo, non è Corto Maltese e nemmeno l’Oceano Pacifico, ma sono Pandora e Cain, due ragazzi che all’inizio della storia non sono altro che due viziati rampolli di una ricca famiglia australiana e alla fine, dopo un anno di vagabondaggi si ritroveranno diversi e in un mondo reso diverso dalla guerra.

Le spedizioni di James Cook vennero commissionate dalla Royal Society per dimostrare l’esistenza della Terra Australis, ma gli intenti dello scettico Cook erano quelli di andare oltre: “…al di là di dove chiunque è andato prima, ma fin dove è possibile per un uomo andare”.

Il suo secondo viaggio iniziò da Plymouth il 13 luglio del 1772.

A bordo della Resolution c’era un giovane tedesco di diciassette anni, Georg Forster, che si era imbarcato col padre, Johann Reinhold Forster, il naturalista della spedizione. Forster “padre” era stato incaricato di redigere il resoconto del viaggio, ma il carattere di Johann Reinhold non era facile da digerire per Cook e tantomeno per Lord Sandwich che aveva commissionato il suo lavoro, ma che voleva poter dire la sua, guidare e correggere la linea di quel resoconto. Il rigido naturalista tedesco, secondo le sue stesse parole, non aveva alcuna intenzione di essere trattato come uno scolaro a cui si correggono i compiti e fu così che si arrivò alla rottura del contratto e alla decisione di Cook di pubblicare la sua personale storia della spedizione. Il viaggio dei due Forster sarebbe stata una bella e indimenticabile esperienza, niente di più. Ma il giovane Georg aveva sempre collaborato con suo padre, aveva girato tutte quelle isole brulle e pietrose o fantastiche e cariche di piante e animali meravigliosi, aveva sempre cercato di dialogare con le popolazioni locali, aveva preso appunti e fatto disegni, raccolto semi sconosciuti e tantissimi indelebili ricordi. Quando vide suo padre deluso e indignato subì lui stesso quella situazione, ma decise di reagire a modo suo. Lavorò giorno e notte per otto mesi e alla fine riuscì a concludere il suo “Viaggio intorno al mondo”. Lo pubblicò sei settimane prima dell’uscita del libro di James Cook. Aveva solo ventidue anni. Il suo era un racconto dichiaratamente non ufficiale, era destinato alla gente comune, lui voleva raccontare il suo punto di vista in tutta libertà. Descrisse la grandezza di quel navigatore che aveva combattuto lo scorbuto facendo sempre mangiare agrumi e crauti ai suoi uomini, che aveva sempre preteso ferree regole igieniche a bordo. Georg voleva raccontare alla gente quanto fosse diverso e meraviglioso quel mondo che aveva avuto occasione di conoscere. Sorprendentemente, il suo libro gli valse una grande notorietà in tutta Europa e tuttora viene considerato come uno dei migliori esempi di letteratura di viaggio. “I miei lettori dovevano sapere di che colore era la lente attraverso cui guardavo. Per quel che mi riguarda essa non è mai stata né oscura né appannata. A tutti i popoli della terra ho testimoniato la mia buona volontà a pari titolo. Sono anche consapevole che con ogni singolo uomo io ho in comune vari diritti.”

Questo scriveva nella sua prefazione il giovane Georg Forster riuscendo poi a raccontare quell’incredibile viaggio con lo spirito del filosofo, dello scienziato e del romanziere. Le annotazioni sui diversi linguaggi e sui comportamenti sociali delle popolazioni del Pacifico, gli schizzi sulle specie vegetali, gli utensili, le armi e le piroghe sono degni di un grande naturalista. La descrizione dello stato d’animo e dello stato fisico dei marinai che, dopo 103 giorni di navigazione ininterrotta fra i ghiacci del circolo polare antartico, si trascinavano sui ponti delle navi come fantasmi non può non ricordare le magiche atmosfere di un grande romanziere come Edgar Allan Poe nel suo “Il racconto di Arthur Gordon Pym”.

Anche Louis Antoine de Boungainville scrisse il suo Voyage autour du monde dopo la sua circumnavigazione del globo e anche lui si portò dietro oltre all’astronomo e al disegnatore, anche il suo bravo naturalista, si chiamava Philibert Commerçon e fu lui che scoprì in Brasile un genere di piante che nominò Bougainvillea in onore del suo comandante, ma descrisse anche un particolare tipo di delfino dello stretto di Magellano che prese il suo nome, Cephalorhynchus Commersonii. Ma anche Commerçon fece una cosa molto particolare nel corso del suo viaggio, fece imbarcare come suo valletto e assistente personale un ragazzo che si chiamava Jean Baré, peccato che in realtà fosse Jeanne Barret, la sua compagna, che così divenne la prima donna a completare un giro del mondo, naturalmente la scoprirono gli indigeni di Tahiti, mentre a bordo non se n’era accorto nessuno.

Tutti quei viaggi furono in realtà percorsi che avevano degli obiettivi generali, ma poi, quasi sempre, seguivano anche altre linee dettate dal caso, dalla natura, dagli incontri degli uomini stessi o dal destino.

Forse non servirà “rinnegare il mondo intero per cercare più verità in un mondo nuovo“, come dice la Niña de los Peines nella sua Petenera, ma basterà vedere questo mondo con un occhio diverso perché, secondo René Magritte “Noi non vediamo che un solo lato delle cose. E’ proprio l’altro lato che io cerco di esprimere”. Questa frase ricorda molto i diversi gradi di lettura possibili nelle storie di Pratt e, prima fra tutte, la Ballata.

Allora, cercando di “vedere” in questa maniera due dei quadri di Magritte ci accorgeremo, forse, che in effetti le nostre capacità percettive possono davvero allargarsi.

“La reproduction interdite” e “Il principio del piacere” sono entrambi dei “semplici” ritratti di Edward James, un grande collezionista, un poeta, un sognatore, un ricco mecenate di tanti grandissimi pittori surrealisti. La caratteristica fondamentale di questi due quadri consiste nel fatto che non c’è il volto del protagonista. Lo sguardo del pittore nasce da un falso specchio che trascende quello che si vede. Nella “Reproduction interdite” lo specchio, posto di fronte al soggetto del ritratto riflette la stessa immagine dell’uomo visto di spalle, cioè il punto di vista dell’osservatore. Un’immagine che va oltre il possibile. Eppure, lo stesso specchio, riflette invece perfettamente la copertina di un libro posto accanto ad Edward James. Guardando con attenzione si scopre che si tratta del libro di E.A. Poe “Il racconto di Arthur Gordon Pym” che, in fondo, è un viaggio in un’altra dimensione.

Ne “Il principio del piacere” il volto di Edward James questa volta è sostituito da un’indefinita esplosione di luce, come se un flash fotografico avesse dissolto la realtà dei tratti di quel viso, ma questo lampo luminoso richiama in mente proprio la visione di Pratt e quella sua capacità di raccontare e far viaggiare ben oltre le immagini disegnate, perché c’è un mondo bellissimo compreso nell’indefinibile spazio fra la vista e la visione.

C’è il viaggio del lettore mentre legge.

To the friendly people of the Friendly Islands…

Marco Steiner

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Paramaribo

Paramaribo

Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti.

(Charles Darwin 1809-1882)

A Paramaribo c’è un parco di palme, il Palmentuin, e un bel viale verde e ombroso prima di arrivare al forte olandese, oggi è diventato un museo, si chiama Fort Zeelandia Museum, si affaccia sulla costa del Suriname, il grande fiume marrone, un tempo difendeva con le sue batterie di cannoni l’entrata nella baia di Paramaribo. In una piazzetta, fra le vecchie case coloniali, ci sono una serie di barili di petrolio impilati uno sopra all’altro fino a formare dei totem alti 5 metri e con un diametro di 90 centimetri. I totem sono neri e lucidi, li hanno abbelliti con decorazioni di lettere e simboli in alluminio intagliato, sono segni e parole che vengono dalla lingua e dalla cultura Afaka.

La scrittura Afaka fu inventata all’inizio del XX° secolo da un uomo di una delle tribù maroon (una parola che viene dallo spagnolo cimarrón, cioè quelli che vivono in cima alle montagne) anche questa lingua, come l’Hakka dei cinesi, era una forma di difesa delle tribù locali per comunicare fra loro tramite una lingua segreta.

E’ stato Marcel Hendrick Pinas, un artista locale, ad avere l’idea e a realizzare l’installazione, si chiama Kibi Wi Totem, l’intento simbolico è quello di proteggere il Suriname dalle cattive influenze che provengono dall’esterno. Alcuni anni fa, nel 2006, all’epoca della creazione del progetto i totem erano 25 ed erano tutti lì, lungo il fiume e vicino al vecchio forte, l’antico simbolo della difesa, adesso alcuni sono stati spostati disponendoli anche in altre zone del paese, per cercare una pacifica catena di protezione da tutte le influenze esterne che possono provenire anche dagli altri confini.

Il messaggio é chiaro e semplice per tutti: la cultura indigena, la foresta pluviale, le riserve naturali del paese devono essere protetti tramite quei simboli totemici da tutti i diavoli esterni. Quei totem parlano nella lingua creata da chi ha sempre vissuto in quella terra ma sono fatti proprio con i materiali che hanno richiamato nel paese tanti colonizzatori esterni: barili di petrolio e alluminio.

Fuori dal Suriname, verso il nord, nel Mar dei Caraibi, in quella lunga manciata di isole disseminate fra il Sud America e le coste degli Stati Uniti, i barili di petrolio hanno avuto anche un altro impiego: hanno fatto ballare migliaia di persone al ritmo di calypso e reggae delle steelbands. I primi suonatori di steeldrums cominciarono a esercitare il loro innato senso del ritmo semplicemente picchiando con dei bastoni i bidoni di petrolio che rubavano in giro per le raffinerie. Uno di questi ragazzi si chiamava Winton “Spree” Simon, un giorno, Spree (che in inglese vuol dire baldoria) per non essere scoperto, iniziò a bruciare la parte esterna dei bidoni per far sparire la vernice che ne avrebbe svelato l’origine, facendo così si accorse che scaldando il metallo e provocandone degli avvallamenti si potevano ottenere dei suoni molto più dolci e talmente diversi fra loro da riuscire a riprodurre tutte le note musicali.

Oggi, a Trinidad e Tobago ci sono fabbriche specializzate nel realizzare i cosiddetti pan e i tuner, sono operai molto qualificati, in grado di accordate i vari strumenti alla perfezione prima di spedirli in giro per le isole e nel grande mondo delle steelbands.

Dai bastioni scuri di Fort Zeelandia si gode un bel panorama sul fiume, al piano terra hanno allestito la rappresentazione di una specie di farmacia coloniale con contenitori in ceramica decorata, alambicchi e vasi di vetro, dall’altro lato c’è un piccolo negozio di souvenir e un’esposizione di oggetti relativi alla storia del Suriname, ma al piano superiore, in una saletta appartata, c’è l’esposizione di riproduzioni delle opere di una pittrice ed entomologa molto importante, Maria Sibylla Merian (1647 Francoforte – 1717 Amsterdam), una donna davvero speciale che, nel 1699 arrivò qui con le sue due figlie. Si era pagata un viaggio di tre mesi in nave da sola e poi aveva affrontato i disagi del caldo, dell’umidità, della diffidenza degli uomini, per realizzare il suo sogno: osservare la natura e studiarne le trasformazioni.

Le “Metamorfosi degli insetti del Suriname” è il risultato della sua incredibile esperienza di vita, di studiosa e d’artista, 60 tavole di illustrazioni incise su rame. Un lavoro che viene definito dai naturalisti come “la più bella opera mai dipinta in America”.

 

I disegni, i colori e le composizioni sono perfetti, anche lo zar Pietro il Grande era un suo grande estimatore e collezionista e oggi le sue opere vengono esposte a Londra, New York e nei più grandi musei del mondo. La caratteristica e la particolarità di Sibylla Merian era l’originalità del suo punto di vista. Lei era affascinata dalla progressiva trasformazione del bruco in crisalide e dalla successiva evoluzione e liberazione, da questo amorfo contenitore, di meravigliose e coloratissime farfalle. Tutto questo tenendo conto che nella sua epoca gli insetti erano considerati bestie di Satana e le metamorfosi degli animali erano quasi sconosciute, tanto che si pensava che gli insetti nascessero attraverso una generazione spontanea derivata dalla putrefazione del fango.

Fra tutte le riproduzioni ce n’è una molto particolare, un caimano che afferra il collo di un serpente fra i denti mentre ne blocca la coda con una zampa posteriore e l’attorciglia con la sua stessa coda. Sembra di assistere a quella rapida scena di violenza proprio lì, nella saletta del museo. Il serpente ha una colorazione vistosa, fatta di anelli neri, gialli e arancio di varie dimensioni. Le scaglie della pelle del caimano sembrano in rilievo. Vicino al disegno, su un piedistallo di legno c’è un vaso di vetro con la dicitura: Reptilia Serpentes Boidae, Corallus enhydris.

E’ proprio lui, il serpente corallo che morde anche Corto Maltese in “Nonni e fiabe”.

Il terribile boa piomba sulle prede scivolando dagli alberi e le uccide inoculando con un morso il suo potente veleno neurotossico, ma Corto si spara sul braccio per scacciare il veleno, perché lui conosce quella natura. I caribi, gli aurachi, gli africani che aiutarono Maria Sibylla Merian a inoltrarsi nelle foreste, a navigare fra i fiumi, per raccogliere semi, foglie, fiori e bruchi, sapevano che anche quella strana donna bianca voleva conoscere meglio i segreti della foresta, era diventata quasi una di loro e lei li chiamava “i miei indiani”, non li chiamava selvaggi.

Cosa c’è di più preciso e descrittivo di un disegno naturalistico del 1700? Eppure le tavole realizzate dalla Merian non sono solo attenti studi scientifici dei fenomeni naturali, anche loro sono vere e proprie Suite, sintesi e racconti che vanno oltre le tavole e ci parlano della natura di questi luoghi e regalano personalissime osservazioni dell’evoluzione e dei cambiamenti che sono il mistero e la vera forza rigenerante della natura.

 

Ciò che per la crisalide è la fine del mondo,

il mondo chiama farfalla.

(Lao Tze)

 

 

 

Marco Steiner

 

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Il mercante di sale

Il mercante di sale

Il mercante di sale

Il mio nome è Ibrahim.

Sono un mercante di sale.

Lavoro al lago Assal. Due ore di autobus dalle false luci di Djibouti o due giorni di cammello. Ormai è una strada impossibile, per me.

Io resto fra le pietre e le sculture di sale.

È bello svegliarsi al mattino, la striscia bianca del lago si tinge di rosa, poi arriva il turchese.

Lo guardo per ore, mentre scaldo l’acqua del thè.

Ho venticinque anni, ma la mia faccia ne ha molti di più.

I miei occhi sono diventati due fessure sottili, come le righe sul lago.

Tre anni fa ero forte e veloce. “Ibrahim la gazzella”, mi chiamavano così, ero un mercante diverso, andavo e venivo dalla Somalia, conoscevo tutte le piste segrete, portavo ogni cosa.

Poi un proiettile mi spaccò una gamba e rimasi là, inchiodato alla roccia.

La notte scendeva e il sangue continuava a scorrere, si allontanava da me, s’infilava fra le pietre.

Riuscii a strappare una striscia di camicia, la strinsi forte sulla coscia e mi lasciai andare, potevo soltanto seguire il destino.

Mi ritrovai qui. Sul lago Assal, e tutto quel bianco mi ferì gli occhi.

Pensai d’essere arrivato in paradiso.

Ero debole e le luci bianche mi accecavano come spine appuntite.

Una donna mi versò l’acqua e mi guardò con due carboni pieni d’amore e compassione.

Ibrahim la gazzella se n’era andato per sempre.

Io me ne stavo sdraiato e la gente passava. Passava e spariva.

Una carovana di cammelli arrivava al tramonto e all’alba era nulla, però mi avevano salvato. Io li aspettavo e loro tornavano sempre.

Gli uomini caricavano, scaricavano il sale. Le donne cucinavano, sbattevano i panni. I bambini gridavano, correvano, piangevano. I cammelli masticavano erba secca.

E Ibrahim, lo storpio, se ne stava lì, a guardare la vita e il lago di luce.

Un giorno un bambino, Ismael, mi portò un regalo, il più bello del mondo.

Una stampella, l’aveva costruita da solo.

Era fatta di legno, di corda e di stracci intrecciati.

C’era scritto il mio nome. Il mio vecchio nome: “Ibrahim la gazzella”.

Mi appoggiai.

E mi alzai.

Il lago era ancora più bello.

Visto da lassù.

Marco Steiner

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Lo specchio della verità

Lo specchio della verità

Lo specchio della verità

Il Sole ne è padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice.

Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura”.

(Ermete Trismegisto, Tabula Smeragdina. Corpus Hermeticum. Bompiani. Il pensiero Occidentale/Filosofia. 2005)

Istanbul. Quartiere di Sultanahmet. Autunno. Una mattina di sole. Negozio elegante di antiquariato. Ufficio sul retro. La scrivania è ingombra di monete antiche suddivise in mucchietti. L’uomo seduto è in parte coperto dallo schermo piatto di un computer, ha una camicia bianca e un foulard verde al collo, capelli lunghi e disordinati, sta catalogando le monete usando una grossa lente d’ingrandimento dal manico in avorio. In primo piano una bilancia di precisione.

  • Effendi, c’è un europeo in negozio e mi ha chiesto se abbiamo mappe molto antiche…
  • Mi stai facendo perdere tempo Andrej, gli hai fatto vedere l’Imperium Turcicum di Homann?
  • Naturalmente…
  • E?
  • Si è messo a ridere, dice che viene per conto di un grande esperto italiano di cartografia antica e che quelle sono mappe del ‘700 e che valgono al massimo 7-800 Euro.
  • Noi a quanto le vendiamo?
  • 1500 dollari. Cosa gli devo dire?
  • Chiedigli cosa sta cercando e digli che io non ci sono, se capisci che il suo sedicente padrone è disposto a spendere molto fallo ritornare domani, e adesso lasciami in pace.

Dopo un’ora il signor Khaftaj lascia il suo ufficio ed entra nel negozio. E un mercoledì mattina di ottobre e Istanbul è inondata di sole.

  • Com’è andata a finire con quel cliente?
  • Alla fine mi ha detto che il suo capo stava cercando una parte della mappa di Piri Rais, e io gli ho risposto che quella si trova nella biblioteca del Topkapi…
  • E lui?
  • Mi ha detto che “quella era cosa risaputa”, ma che il suo capo la voleva incontrare lo stesso…domani, un’ora prima del tramonto alla…”Triplice cinta”…se ho capito bene.
  • Dev’essere un mitomane, Andrej, e sono sicuro che non esiste nessun cartografo che lo manda in giro a cercare mappe da museo, comunque grazie. C’è altro?
  • Si, mi ha dato questo busta per lei.

Jusuf infilò la busta nella tasca della giacca e andò a casa. Chiuse la porta a chiave, si sedette in poltrona e aprì la busta elegante.

Conteneva soltanto un biglietto da visita.

“Cristoforo Cybo. Erede di santi e di navigatori”.

Poi aggiunto a penna con una calligrafia elegante e perfetta: “Sono venuto in possesso di un testo raro di Ermete Trismegisto, edizione Turnèbe, anno 1554 che troverebbe opportuna collocazione nelle vostre mani in cambio della parte “scomparsa” della mappa di Piri Reis che ci risulta attualmente in Vostro possesso”.

Josuf compose immediatamente un numero sul suo cellulare.

  • E’ venuto qualcuno per quell’antico scambio.
  • Ti sembra tutto regolare?
  • Solito sistema.
  • Dove?
  • Il muro dei segni.
  • Sono sempre stati sottili.
  • Da diverse centinaia d’anni.
  • Credi che c’entri qualcosa il Fondo Monetario?
  • No, ma credo che ormai Istanbul stia per ritornare importante culturalmente ed economicamente. Ci stanno perfino facendo riconciliare con gli Armeni, fra poco toccherà ai Curdi e poi agli Azeri e le nostre autostrade liquide porteranno merci e oro nero fino in Cina con un solo balzo. Cercano strane alternative per il gasdotto. Gireranno molti soldi e merci per questo vecchio mare, quindi hanno bisogno di stabilità. Questo gesto di riconciliazione è una specie di stretta di mano.
  • E’ vero senza errore e menzogna, è certo e verissimo.
  • Il padre di tutto, il Tèlesma è qui.
  • Ci sentiamo domani.

Josuf incrociò le gambe e si sedette sul morbido tappeto. Accese un piccolo braciere e iniziò a pregare. Dopo mezz’ora si alzò, versò dei grani di povere sul braciere incandescente e inspirò lungamente quel fumo, poi incrociò le braccia davanti al petto e si toccò le spalle abbassando la testa.

Iniziò a girare, a girare ancora e poi, lentamente, aprì le braccia e le mani continuando a girare, la destra in alto, la sinistra in basso, fino a quando la stanza scomparve e lui vagò nello spazio infinito, sopra le moschee ed il cielo, si sciolse nelle particelle sottili e poi volò via dissolvendosi come fumo nel vento.

Quando tornò a terra si distese sul letto e dormì a lungo.

Il negozio antiquario di Jusuf Khaftaj non era lontano dalla Moschea Blu e da Aya Sofya, la Santa Sapienza dei Greci. I turisti seguivano le guide e continuavano a scattare immagini che sarebbero rimaste per qualche altro giorno sugli schermi digitali delle loro macchinette fotografiche perfette. Ekrem preparò un’eccellente spremuta di melagrana per il signor Khaftaj scegliendo quattro fra i frutti più sodi e maturi. Poi Jusuf Khaftaj entrò nell’imponente moschea e salì le rampe di scale che lo portarono alle gallerie del piano superiore, buttò uno sguardo alle imponenti e leggerissime volte, ai segni delle croci strappate e passò davanti alla tomba del doge Enrico Dandolo. Si fermò e fece una smorfia  pensando a quel povero vecchio cieco arrivato con le sue galee veneziane fin lì per morire ed essere sepolto a Costantinopoli a 98 anni e poi perdere le ossa, disseppellite e date in pasto ai cani dalle orde di Mehmed II un quarto di secolo dopo. Sulla scrivania aveva lasciato due Grossi Matapàn d’argento, ma soltanto uno era perfetto, l’altro aveva una grossa scalfittura proprio sui volti del doge e di San Marco.

Mancava poco all’appuntamento. Un striscia di luce dorata s’infilava da una delle finestre che inquadravano le punte aguzze dei minareti e illuminava perfettamente il muretto di marmo sul quale era stato inciso, forse dai Templari, quel misterioso simbolo di tre quadrati concentrici che stavano a indicare la particolare sacralità energetica del luogo.

In quel preciso momento, Jusuf fu percorso da un brivido e da uno stato di allerta generale. Il cacciatore si sentì preda. Si allontanò dal luogo e girò dalla parte opposta della moschea. Da quel lato poteva osservare perfettamente il luogo dell’appuntamento e la lama di luce che lo stava illuminando. Dopo pochi istanti vide l’uomo e rimase pietrificato. Era come se si fosse guardato allo specchio, oppure attraverso una finestra invisibile sospesa al centro della moschea.

L’uomo che doveva incontrare era identico a lui. Si guardò intorno come se la gente si fosse potuta accorgere della presenza del suo doppio. Per istinto e per fortuna aveva scelto il lato giusto della galleria, l’uscita era da quel lato, s’avviò verso la scala con passo deciso.

Scomparve e non si guardò mai più indietro.

Marco Steiner

le foto sono di ©Marco D’Anna

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