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L’isola sacra sul lago gelato

L’isola sacra sul lago gelato

“Rendi grazie al giorno quando si è fatta sera…

…alla spada dopo averla usata

…al ghiaccio dopo averlo attraversato…”

(Havamal, Il discorso di Har, Edda poetica. Trad. Olive Bray edited by D.L.Ashliman)

 

Il Carrista poeta.

Sacha, classe 1946, è un siberiano nato fra i monti Sajani, il suo lavoro è fare l’autista. Fra il 1965 e il 1968 guidava i T62, i carri armati dell’esercito sovietico, la sua compagnia era stanziata a Cita, vicino al confine cinese, proprio come i cosacchi di Roman von Ungern Sternberg e come il grande cannone di Semënov. Il cannone del carro di Sacha era soltanto da 115 mm, non era molto preciso, ma era velocissimo, per questo i soldati lo chiamavano Falco.

Oggi, Sacha guida un vecchio furgone Uaz grigio-ferro e porta i turisti a vedere la “perla di ghiaccio”, il Bajkal. I suoi occhi hanno lo stesso colore del lago in inverno, azzurro-ghiaccio.

Il Bajkal non è un semplice lago, è un’immensa riserva d’acqua pura, circa il 20% di tutta l’acqua dolce del nostro pianeta. E’ lungo più di 600 chilometri, largo dai 40 ai 70. Una lunga virgola, una banana azzurra visibile dallo spazio insieme alla grande muraglia cinese. Nel suo punto più profondo, l’abisso supera i 1600 metri. L’immensa distesa liquida, d’inverno si blocca, cristallizzata in una tavolozza di ghiaccio blu coperta da una limpida, ma solida scorza trasparente.

L’isola sacra di Olchon è scura, è una surreale presenza che si staglia su quel lucido specchio e, grazie a quel gelo, è raggiungibile in macchina. Sospesa come in un sogno.

La leggenda della gente del posto dice che il dio del lago, una notte si svegliò e vide che una delle sue 337 figlie voleva fuggire insieme ai gabbiani per raggiungere l’uomo-fiume che amava, le tirò dietro un’immensa pietra, ma lei riuscì a sfuggire lo stesso. La ragazza si chiamava Angara ed è il nome dell’unico fiume che esce dal lago, gli altri 336 fanno affluire le loro acque in quell’immenso bacino sacro. La pietra scagliata dal Grande Uomo Baikal, sarebbe proprio la Roccia dello Sciamano che si protende dall’isola. Ci sono quattro larici avvolti da nastri azzurri votivi e una nave nera bloccata nella morsa del gelo. Si sente solo il rumore del vento e il crack-crack sinistro dell’assestamento dei ghiacci, la voce del lago. Sembra di camminare su di un blocco di quarzo, sembra d’intravedere un mondo incantato sotto a quella lucida superficie blu.

Ci si guarda intorno e non si ha molta voglia di parlare. E’una distesa infinita. Lunare.

Il vento più forte, quello che tira dal nord è il Sarma e il suo soffio gelato riesce a cristallizzare il movimento delle onde, a bloccare le navi e a rivestire i pali dei moli con un palmo di ghiaccio. Sembrano mani bianche del vento che s’aggrappino al legno.

Sembra che un mago, in una notte fatata abbia preso la sua bacchetta magica e abbia bloccato tutto quel mondo nella sua morsa di cristallo. Quando al mattino il Bajkal s’illumina della fredda luce bluastra dell’alba, è un’immensa cattedrale di luce. Allora Sacha guida il suo Uaz e, sbandando e danzando sul ghiaccio, fischietta un valzer di Strass, poi, con una lunga trivella appuntita come un grande cavatappi, fa un buco nella crosta ghiacciata del lago, ma non è facile perché lo spessore supera il metro. Sacha, completa il buco spezzando l’ultimo ponte gelato picchiando con un lungo bastone dal puntale di ferro, sembra un guerriero medievale che, con la picca, voglia finire il suo nemico. L’acqua gelata sgorga libera verso la superficie e lui ci piazza davanti un seggiolino e cala la lenza. E’ pronto a pescare l’”Omul”, un piccolo salmone dal corpo allungato. Ne farà una semplice zuppa con cipolle, carote e patate. La zuppa di pesce è una calda meraviglia mentre la schiuma della birra, in pochi minuti, si ghiaccia sul tavolo. Quando arriva la Vodka, Sacha decanta un verso di Maxim Gorkij: “Lodiamo il coraggio dei valorosi sognatori”. Si ricorda solo quel frammento della poesia “Il canto del falco”, forse gli sarà tornato in mente il cannone del suo carro armato, forse gli sarà tornato in mente un periodo che in qualche modo adesso rimpiange e allora racconta la poesia a modo suo, come fosse una storia:

“In cima ad un’alta scogliera c’era un serpente che strisciava in cerca di cibo. Il sole splendeva alto nel cielo e le onde del mare s’infrangevano sulle rocce, ma all’improvviso un falco cadde vicino al serpente. Lui si ritrasse impaurito, ma il falco non si curava affatto di lui, era ferito, stava morendo, ma alla fine riuscì ad avvicinarsi allo strapiombo, avrebbe preferito fare un ultimo volo piuttosto che aspettare la fine su quelle rocce. Precipitò in mare, fracassandosi sugli scogli e le onde si portarono via il valoroso uccello dalle ali spezzate…”

Marco Steiner

 

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Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro.

“Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa da abitare, quando la si sarà resa simile da un capo all’altro e non si potrà nemmeno più cercare di viaggiare per distrarsi un poco” (Pierre Loti).

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Aran Islands

Aran Islands

Inishmóre. Isole Aran, il cuore celtico d’Irlanda.

Sono le 8 del mattino, tutto è buio, grigio, freddo. Il mondo sembra deserto, assopito. Anche il sole è in ritardo. I chilometri scorrono sotto le ruote in silenzio, nessuno in giro, solo qualche pecora seduta sull’asfalto. Il prato è troppo umido e freddo anche per loro.

Il traghetto è semivuoto, ci sono solo una ventina di persone a bordo, compreso l’equipaggio. Uomini taciturni.

Giubbotti macchiati d’olio dei tecnici che fanno girare le caldaie. Giubbotti scuri in Goretex dei fotografi di pietre, tombe e uccelli. Capelli corti, barbe arricciate, basette tozze e rossicce. Tanti occhi socchiusi a smaltire le ultime Guinness.

Uscendo dal porto di Rossaveel uno stormo di gabbiani ci segue. Il mare è d’acciaio, la costa è bruna e marrone, i picchi luccicano, spolverati di bianco, le isole sono tre strisce sottili di blu.

La quarta oggi non c’è.

Dún Aengus è un anfiteatro semicircolare di pietre incastrate e impilate a secco con l’apertura rivolta verso l’Atlantico, l’Occidente. Il mare è là sotto, duro e caparbio come un ariete che picchia contro un muro da abbattere. Sono secoli che cerca di rosicchiare quell’immensa scogliera che osa ergersi impavida a sfidare la sua forza, ma si sbuccia le corna.

L’onda rimbomba nel silenzio come un tuono lontano, come un rullo di tamburi.

Al centro del semicerchio c’è un altare di pietre scure come il cielo.

Intorno, un prato d’erba chiara che s’inchina alla potenza del vento.

Piega la testa, disegna onde verdi, morbide, tranquille.

Dietro al muro c’è il resto dell’isola, separata da un’infinita distesa di pietre appuntite, conficcate a terra e incrociate come “cavalli di frisia” a sbarrare il passo a chissà quale invasore.

Lo chiamano il Forte, perché “Dun” in gaelico significa “Fortezza”, alcuni storici dicono che era una costruzione di difesa, in effetti non è difficile immaginare in quel semicerchio una riunione di druidi e, in mezzo all’altare, il gran sacerdote alto e barbuto che invoca la potenza del sole, o della luna, un lugubre antico lamento si disperde nel vento.

Forse anche il resto del semicerchio di pietre è scivolato in mare come la quarta isola e allora anche Dún Aengus è una specie di Stonehenge che rappresenta la “Ruota della vita”, la primordiale Dea Madre che si cela in ogni pietra che ha segnato la storia.

Il muro di pietre scure è quasi caldo, protegge dal vento, aiuta a guardare il flusso del mare, a seguire lo spettacolo del vento che scompiglia le nuvole.

All’improvviso si apre una breccia in quel grigio sipario, un fascio di sole innalza una lama fredda di luce dall’acciaio del mare.

In due ore il vento spazza ogni cosa, l’azzurro del cielo scaturisce dall’acqua riflessi turchesi e verdi come alghe che invadono il nero.

Un ragazzo entra nell’anfiteatro con passo elastico e sportivo. Jeans e giaccone nero di panno aperto al vento gelido. Una faccia irlandese, squadrata, sembra un attore che reciti un ruolo preciso. Va dritto e deciso verso il bordo dello strapiombo, senza il minimo timore si mette a cavallo dell’ultimo trampolino di pietra.

Sotto di lui, a un centinaio di metri, le onde continuano a sbattere la roccia in un ribollire rabbioso.

Sembra un giovane Corto Maltese in carne e ossa e se ne sta seduto lì, a fissare l’Occidente, a ricordare il suo sogno di Oberon e Puck, guarda il rimorchiatore che dirige a tutta forza contro il sottomarino tedesco con Mago Merlino e Morgana in questa Stonhenge selvaggia e reale.

Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è. Infinito”. (William Blake – “The Marriage of Heaven and hell”)

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La torre della cicogna bianca

La torre della cicogna bianca

La torre della cicogna bianca

                                              “L’aurora irrompe, seguendo la montagna;

e intanto il Fiume Giallo fluisce verso il mare.

Ma tu potrai vedere un ampio panorama,

salendo ancor più in alto sulla torre.”

(“Salendo sulla torre delle cicogne” Wang Chih-Huan. 688-742 d.C.  Poesia Cinese dell’epoca Tang. BUR 1998)

Pechino. Entrata meridionale del Tempio del Cielo. Domenica pomeriggio. Yu Zuncheng è un pensionato, appena può, viene qui a passare il suo tempo, anche quando è grigio e freddo, come oggi. Yu scrive poesie, le scrive per terra, all’interno del piazzale che precede l’immenso giardino del tempio. Si porta un lungo pennello che all’estremità ha una spugna appuntita, imbeve la punta in un secchio d’acqua e scrive sul lastricato grigio. Yu scrive con grande attenzione, i segni sono precisi, i movimenti eleganti. La poesia che parla della salita sulla Torre delle Cicogne l’ha trascritta sul selciato, è una famosa poesia dell’epoca Tang, ricorda un po’ “L’infinito” di Leopardi e il concetto dello sforzo necessario per guardare oltre, al di là del visibile.

Lentamente i tratti scuri e umidi svaniscono sulla pietra e tutto ritorna grigio com’era.

La gente si avvicina, parla con lui oppure legge in silenzio la poesia.

Il tempo scorre e asciuga i segni che ricordano i caratteri dipinti da Vita Lunga per Corto Maltese. Poi si scopre che Yu non è un pensionato normale, lui il mondo lo conosce davvero, parla perfettamente l’inglese. Molti anni fa, era l’interprete personale del presidente Deng Xiaoping.

Prima di leggere Corte Sconta detta Arcana, bisognerebbe guardare un film: “Shanghai express” di Joseph von Sternberg. C’è un po’ di tutto lì dentro: il viaggio in treno in una Cina in grande fermento, un amore impossibile, una splendida Marlene Dietrich che interpreta Shanghai Lil, le spie, i trafficanti d’oppio, le divise, i cambiamenti di fronte e le mitragliatrici dei soldati.

C’è anche una frase emblematica del generale Chang cinematografico:

“Siamo in Cina, dove vita e tempo non hanno valore”.

Poi ci si rende conto che anche il nome del regista è lo stesso di uno dei protagonisti della storia di Pratt, il leggendario barone Roman Ungern von Sternberg e allora il gioco dei rimandi potrebbe continuare a snodarsi lungo i freddi binari che attraversano la Siberia, la Mongolia, la Cina.

D’inverno, il lungo paesaggio che separa Pechino da Mosca è bianco e ghiacciato, è fatto di spazi infiniti, di un esercito di betulle allineate come esili spettri di soldati, di treni impregnati dall’odore del carbone e da un caravanserraglio d’umanità.

Non ci sono vagoni carichi d’oro, né cannoni, non ci sono diafane Marlene Dietrich, né bionde baronesse russe dal fascino distaccato, ci sono soltanto grasse prostitute cinesi che s’impomatano il viso e variopinti personaggi che trascinano valigie di merci da vendere a ogni fermata.

Il treno è uno sferragliante mercato ambulante invaso da borsoni telati a strisce azzurre, bianche e rosse, imbottiti di magliette, jeans, tute Adidas false e giubbotti di autentica stoffa sintetica, calze, calzini, occhiali griffati, lucide borse di pelle.

In giro circola soltanto denaro stropicciato, cinese, mongolo, russo, dollari ed euro che passano continuamente di mano in mano ad ogni stazione di sosta.

Nel treno c’è un sentore misto di vodka, sudore, grasse zuppe con carne stufata, carbone, sigarette e caffè. Alle dogane notturne il tempo si blocca, immobilizzato da controlli, cambi di carrelli e motrici che procederanno su binari dal passo diverso. Le guardie di confine s’infilano come gatti negli anfratti sotto i sedili e sopra i soffitti, fissano le pagine dei passaporti e gli occhi dei passeggeri per secondi che scorrono infiniti senza bisogno di parole, qui contano solo gli sguardi. Le teste dei controllori s’inclinano impercettibilmente e loro occhi scrutano in profondità, come animaleschi segnali di studio prima dell’attacco. La falsità trasuda da un battito di ciglia o da un sorriso ostentato, poi il passaporto viene richiuso e, magicamente, come per grazia ricevuta, tutto si sblocca e la marcia del treno continua.

È un procedere lento, che  ingoia chilometri, confini, sbadigli, fusi orari, giornate fatte di grigi e albe che si confondono con i tramonti.

Fuori dal finestrino, il paesaggio che sfila sembra una tela rigata da un’impercettibile linea centrale: bianco increspato di neve e azzurro pallido di cielo.

Il tutto, macchiato dal vento.

Il sole non si vede, si nasconde da qualche parte, dietro ad un diafano alone.

Quando ci si avvicina alle stazioni, la neve diventa sporca, grigia, triste, stropicciata come il denaro, come il profilo delle città.

I vetri dei finestrini sono decorati da cristalli ghiacciati e gli spazi fra un vagone e l’altro sembrano celle frigorifere spazzate da un vento polare. Poliziotti silenziosi, ferrovieri svogliati, passeggeri rassegnati, ossigenate e corpulente cameriere s’incontrano nel vagone ristorante e sono una sintesi variopinta dei possibili incontri che avvengono realmente lungo quell’infinito doppio nastro d’acciaio e di paesi tanto diversi.

Ci sono oltre 7000 chilometri fra Mosca e Pechino, 5000 di Siberia, 1000 di Mongolia, 1000 di Cina, eppure il frate minore Giovanni da Pian del Carpine, inviato dal papa Innocenzo IV, arrivò a cavallo fino alla corte di Guyuk, il Gran Khan erede di Gengis partendo dalla Francia nel 1245.

Dopo di lui ci arrivò Guglielmo da Rubruc con una lettera del re di Francia Luigi IX.

I silenziosi viaggi dei due francescani avrebbero modestamente aperto la strada al celebre itinerario di Marco Polo, eppure tanti altri avventurieri, esploratori e geografi si erano spinti in quelle terre lontane descrivendo i Takhi, i cavalli selvaggi che non esistevano in altri luoghi del mondo e gli Almas, gli uomini-animali, yeti ricoperti di peli che vivevano in piccoli branchi nelle zone più inospitali e desolate di queste durissime terre.

Il sogno del barone Ungern von Sternberg partiva da questo centro del mondo, dalla Mongolia. Il generale dalle nobili origini teutoniche e baltiche, il fondatore dell’Ordine Militare Buddista e della Cavalleria Selvaggia voleva ristabilire il predominio culturale e religioso asiatico spazzando il materialismo dei conquistatori cinesi e dei rivoluzionari russi.

Oggi la patria di Genghis Khan si erge solitaria in mezzo a due grandi colossi come la Cina e la Russia che dopo aver abbandonato i loro idealismi rivoluzionari, ora inseguono diversi ma simili materialistici sogni di un moderno benessere.

 

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Il cuoco di bordo, “Wayfinding”

Il cuoco di bordo, “Wayfinding”

The Sea Cook

Steven è il cuoco di bordo, il “sea cook”, del catamarano Te Matau a Máui, una splendida riproduzione, con materiali moderni, dell’imbarcazione tradizionale polinesiana, la Waka, una lunga canoa a doppio scafo e due alberi di 22 metri di lunghezza e 13 tonnellate di peso che ricorda tanto quella con la quale Rasputin raccolse Corto Maltese dopo il naufragio.

Te matau a Máui, “l’amo di Maui”, naviga soltanto con mezzi tradizionali, come strumenti moderni ha soltanto un Gps per la sicurezza dell’equipaggio e un grosso pannello solare per alimentare un piccolo motore elettrico che serve per manovrare nei porti. Per il resto del viaggio, ci sono soltanto il sestante e le stelle, le vele, il timone e il Pacifico.

Qui nel porto di Apia, nel giugno del 2010, non lontano dalla casa di Stevenson, quello che raccontava le storie, di catamarani così, ce ne sono quattro.

Le imbarcazioni di questa singolare regata che, in realtà, è un vero viaggio iniziatico, si assomigliano tutte, ma si differenziano per i colori e i disegni caratteristici delle rispettive isole, le ha costruite un modernissimo cantiere di Auckland che si chiama Salthouse Boatbuilders, “Costruttori di barche della casa salata”.

Anche la traduzione letterale del nome ha un notevole ricordo prattiano.

Il progetto, basato solo sulla raccolta di fondi privati, è quello di rivitalizzare la tradizione della navigazione a vela, la costruzione d’imbarcazioni tradizionali e la condivisione delle conoscenze marinare di tutti i popoli che abitano l’infinita collana di isole dei mari del Sud, in uno spirito di generale unione Polinesiana. Sembra di risentire le riflessioni di Tarao, ma invece è il vero progetto che ha consentito la realizzazione di questo sogno.

La chiamano “Wayfindind”, letteralmente “La ricerca della strada”, è la navigazione non strumentale, navigare seguendo le stelle, i segni del cielo, il soffio naturale degli alisei, la spinta delle correnti, o forse, perfino la pinna di un pescecane.

Te Matau a Maui, “L’amo di Maui” è la canoa che rappresenta la Nuova Zelanda; Marumaru Atua “Sotto la protezione del Signore” è quella delle Isole Cook, Uto ni Yalo è la barca delle Fiji; Hine Moana quella dei marinai misti che vengono da Samoa, da Tonga, da Vanuatu.

Sono bellissime, solide e leggere, come i sogni. Arrivano a toccare i dieci nodi quando filano nel vento giusto. In ogni porto c’è un’aka, la danza maori, che la gente del posto balla e urla percuotendosi il petto, le cosce e gli avambracci, in ogni porto ci sono preghiere, strette di mani, abbracci, fiumi di birra, barbecue, occhi lucidi, palme piegate dal vento, racconti a voce alta e risate, ma, soprattutto, la sensazione di ritornare a vivere qualcosa di vero, di riuscire a navigare nel silenzio, senza pensare al gasolio, senza preoccuparsi troppo di venti e di onde, perché quelle vele a forma di cuore, chiudendosi come ventagli li lasceranno sfogare, e quegli scafi arcuati, pesanti e sgraziati non le vorranno sfidare, ma le sapranno assecondare e cavalcare morbidamente, senza preoccuparsi troppo del tempo e della meta, perché una meta reale non c’è.

Quando le “canoe” salpano leggere dal porto di Apia dirette verso Tonga si sente solo il soffio del fiato di un marinaio maori all’interno di una grossa conchiglia e quello del vento che apre le vele di stuoia color ruggine. Quando quelle vele doppie di dissolvono nel grigio della lontananza e della pioggia, sembra di rivedere un acquarello di Pratt.

Una lama di sole s’inventa perfino un arcobaleno, forse è quasi troppo.

  • Steven, che significato ha per te questo viaggio?
  • La realizzazione di un sogno…anzi, forse…una specie di rinascita.

Steven è un uomo grosso e pesante, ha sicuramente più l’aspetto del cuoco immerso nella cucina fumosa di un ristorante cittadino che dell’agile marinaio maori calato in questi gusci leggeri.

E’ vestito soltanto con il tipico gonnellino polinesiano nero, il lava-lava, ha il torso massiccio, la pancia e il cranio rasato sono lucidi di minuscole gocce di pioggia, ma i suoi occhi dicono che è un uomo speciale. Per parlare non servono domande, forse, ha solo voglia di raccontare. Segue col dito un percorso ideale su una cartina umida e macchiata dell’Oceano Pacifico. Parte dalla Nuova Zelanda e poi spiega che Maui, dalla sua barca, ha pescato con l’amo l’isola su cui sorge Auckland e questo è il significato del nome della barca neozelandese, quella su cui lui sta vivendo l’avventura, il sogno.

Steven, il cuoco, è messo male coi denti, ci sono larghi spazi e finestre, ma non ha problemi a sorridere e riesce a masticare benissimo dei pezzetti di carne di cervo che si è portato dalla Nuova Zelanda e a suonare il flauto d’osso che s’è intagliato da solo. Racconta, con uno sguardo solare e l’entusiasmo di un ragazzino che non vuole più smettere di giocare:

  • Il Creatore di tutto è Io Matua Kore – indica un cielo grigio di pioggia sottile – il significato del suo nome è “Il nulla”, ma nel nulla c’è la potenzialità d’ogni cosa. – Silenzio. E lo spazio di tempo necessario a fissarsi negli occhi. Un sorriso che vuol dire “Capisco”, poi il sea cook continua – Per questo motivo, Hine Kahu Ataata, la prima donna, la “Donna delle sabbie”, ha generato tutta l’umanità ed è così che in ogni donna c’è la divinità della potenzialità. Perché la donna, dal suo grembo può generare ogni cosa: l’uomo più grande, un Signore della guerra, o la nullità più assoluta…

Il sottotitolo dell’Isola del Tesoro di Stevenson era proprio The sea cook, perché il grande RLS sapeva, fin dalle prime pagine del suo grande sogno, che a quel bravo ragazzo di Jim Hawkins la vera svolta della vita non sarebbe certo capitata fra i tavoli della locanda dell’Ammiraglio Benbow, non certo nell’aiutare sua mamma, né dietro ai consigli del buon dottor Livesey o del simpatico Trewlaney, né del capace capitano Smollet, ma il suo “apritore di porte” sarebbe stato proprio un bastardo come il cuoco dell’Hispaniola, John Long Silver, il pirata.

C’è un ricordo importante citato dallo stesso Pratt in un intervista, l’Isola del tesoro, la sua copia personale del libro, nell’edizione Heinemann di Londra, fu l’ultimo regalo di suo padre, ma proprio quel rigido volume nero sarebbe stato l’inizio di tutto. L’inizio di un viaggio, di ricerca, questo sicuramente, ma anche un viaggio divertente, perché, in fondo, non è poi così importante trovare, ma partire per cercare qualcosa, anche se spesso non si sa esattamente che cosa.

La meta da ricercare è la vera grande eredità, perché ognuno di noi deve ricercare la propria Isola del tesoro.

Per questo, per Pratt, rendere omaggio alla tomba di Stevenson in cima al monte Vaea era una sorta di pellegrinaggio, un omaggio dovuto. Perché lassù il colore del mare sarebbe stato più vivo, il profumo del vento più intenso e la fantasia sarebbe stata più vera.

Eppure Pratt non ce l’ha fatta, la strada era sbarrata dai tronchi abbattuti dall’uragano, il fondo era scivoloso per le piogge, così, lui la tomba di Stevenson la vide soltanto dall’alto, non toccò la pietra umida e bianca, non riuscì a sentire la delicata fragranza del frangipani che cade nel vento né i richiami degli uccelli dalla testa rossa, lui vide quel simbolo attraverso il frastuono delle pale di un elicottero neozelandese, ma Pratt era andato molto oltre, quel ragazzo che aveva sognato attraverso un libro nero regalato da un padre che sarebbe scomparso come il padre di Jim Hawkins, quel ragazzo era riuscito a inventare Corto Maltese e aveva insegnato a tanti altri ragazzi a sognare, e soprattutto, ad osare, anzi molto di più, ad andare oltre.

Il momento più bello nell’Isola del Tesoro è, sicuramente, il momento in cui Jim riesce ad impossessarsi e a condurre, anche se brevemente, ma da solo, fino ad arenarsi in un banco di sabbia l’Hispaniola, la nave, la vita.

Jim Hawkins che conduce la nave da solo e Ben Gunn che dopo aver trovato il tesoro vorrebbe solo un pezzo di formaggio sono la sintesi di tutto, l’avventura, il sogno, l’ironia di Stevenson e di Hugo Pratt tutti messi insieme, scrittori che non hanno mai preteso di spiegare niente, ma hanno soltanto voluto raccontare le loro storie e invece hanno detto molto di più.

L’omaggio a una tomba è il ringraziamento alla vita che la persona scomparsa è riuscita a trasmettere. Non c’è soltanto la malinconia del ricordo, c’è la gratitudine per quel ponte sottile che ha consentito un passaggio. Hermann Hesse, Yeates, Stevenson, sono le tre tombe simboliche di Pratt, gli “apritori di porte”, ma Corto Maltese ha saputo bere alla loro fonte e trasmettere un altro segnale, trovare una chiave che, partendo da loro, può guidare, anzi accompagnare, in leggerezza, verso un mondo salmastro e fantastico, un mondo fatto di vele e tesori, d’incontri e sorrisi, di silenzi e ballate.

  • Che lavoro fai Steven?
  • Sono uno studente.

C’è sempre tanto da imparare da un cuoco maori che a cinquant’anni si definisce uno studente e  che regala un amo intagliato in un osso di balena e poi rimane in silenzio e si mette a suonare il flauto pensando al niente di Io Matua Kore. Anche Stevenson suonava il flauto seduto nel giardino della sua casa di Vailima, forse anche lui pensava alla vita che vola via troppo veloce, ma quel suono è ancora forte, almeno qui, nel porto di Apia.

 

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Un viaggio quasi impossibile nel mondo perduto di Mü

Un viaggio quasi impossibile nel mondo perduto di Mü

Nuvole e scale infinite

E quando le risposte non soddisfano le domande? ( Levi Colombia )

Si dovrebbe rivisitare l’intuizione ( Corto Maltese )

Il volo Air France AF447 è scomparso nella notte fra il 31 maggio e l’alba del 1 giugno 2009 nell’Oceano Atlantico al largo delle coste brasiliane. E’ sparito dai segnali radar all’improvviso, dopo aver rilevato guasti elettrici, ma nessuna effettiva emergenza o richiesta d’aiuto. La macchina della ricerca francese e brasiliana si sono mosse immediatamente e le acque al largo dell’isola di Fernando de Noronha hanno cominciato a restituire maschere d’ossigeno, pezzi dei sedili, alcuni corpi. E’ stato un incidente, difficile da spiegare al momento attuale, ma quando e se verrà ritrovata la scatola nera si potrà comprendere il vero motivo o la concatenazione di cause della tragedia. Pensare che nel 1931, proprio da queste parti, dalle profondità dell’Oceano, emersero misteriosamente due isole e la Gran Bretagna ne reclamò immediatamente il possesso contro il parere del Brasile e di altri paesi sudamericani, ma le dispute diplomatiche si risolsero in breve tempo, in maniera del tutto “naturale”, perché prima di qualunque tentativo di accordo, le due isole che erano scaturite al largo di Fernando de Noronha, scomparvero altrettanto misteriosamente nell’Oceano.

Il 2 luglio del 1937 spariva il bimotore Lockheed Electra pilotato da Amelia Earhart, doveva arrivare a Howland Island, un’isoletta nel Pacifico, il punto di arrivo di un giro del mondo di 29.000 miglia. Pochi minuti prima di perdere i contatti, Amelia aveva lanciato un angosciato appello alla nave che doveva farle da ponte radio, avrebbe dovuto essere nei pressi della destinazione, ma non riusciva a vedere nulla e stava rapidamente esaurendo il carburante. Poi non ci fu più niente, solo silenzio. Amelia era un mito dell’aviazione statunitense, nel giugno del 1928 era stata la prima donna ad attraversare l’Atlantico senza scalo sul Fokker F7 pilotato da Stulz e Gordon. All’inizio del 1932 aveva compiuto la sua trasvolata atlantica in solitaria da Terranova al Galles in meno di 15 ore, in agosto aveva sorvolato tutta l’estensione degli Stati Uniti da Los Angeles a Newark, nel New Jersey. Nello stesso anno aveva attraversato il Pacifico, da Oakland in California a Honolulu nelle Hawaii. Amelia era bella, temeraria ed elegante con i suoi caschi da pilota poco tecnici, ma molto chic, stava per compiere 40 anni, era bionda e anticonformista, in qualche modo assomigliava a un altro grande trasvolatore solitario come lei, Lindbergh, per questo la chiamavano “Lady Lindy”. Per la sua ricerca il presidente Roosvelt non badò a spese, stanziò circa quattro milioni di dollari, furono inviate 20 imbarcazioni e 66 aerei per un totale di circa 3000 persone, ma Amelia scomparve nel mistero ed Eleanor Roosvelt, che avrebbe voluto imparare a volare insieme a lei, dovette rinunciare ad un’amica oltre che al suo futuro istruttore pilota.

Qualcuno sostenne che il mucchietto d’ossa umane e la scarpa numero trentanove ritrovate anni dopo a Nikumaroro, un’isoletta a nordest dell’Australia, fossero appartenute a lei. Salva dopo tante imprese e dopo l’ammaraggio, ma ironicamente finita a morire di fame come una specie di Robinson Crusoe solitario in un paradiso dimenticato. Altri insinuano che il suo aereo fosse stato potenziato con motori modificati ed equipaggiato con una sofisticata apparecchiatura fotografica. Insomma, che Amelia avrebbe spiato le postazioni giapponesi e sarebbe stata catturata e giustiziata in segreto dalle forze nipponiche che l’avevano recuperata dopo l’ammaraggio. Altri ancora sostengono che dopo la conclusione di una missione segreta fosse arrivata alle isole Marshall e da qui sarebbe rientrata sotto falso nome negli Stati Uniti dove sarebbe vissuta per molti altri anni sotto copertura.

Il 5 dicembre del 1945, una squadriglia di caccia Avengers, partiti da Fort Lauderdale per una missione d’addestramento in una zona a nord delle Isole Bahamas scomparve improvvisamente dai radar, il capo squadriglia e tutti gli altri piloti non riuscivano a comprendere la loro posizione, nelle loro ultime conversazioni radio dichiararono ripetutamente che gli strumenti sembravano impazziti, le bussole giravano come trottole, l’oceano era diventato improvvisamente bianco, non avevano più riferimenti, perfino la vicinissima costa della Florida non era più visibile, scomparsa alla vista. Eppure quel giorno le condizioni del tempo e della visibilità erano ottime. Quello stesso pomeriggio decollarono vari aerei di soccorso e fra questi c’era un grosso idrovolante Martin Mariner perfettamente equipaggiato per queste missioni di salvataggio con tredici uomini esperti a bordo. Dopo poche ore, la base aerea ricevette un annuncio dal comandante dell’idrovolante, anche loro erano in difficoltà per i forti venti che avevano trovato in quota. Non arrivò nessun’altra comunicazione e dopo una grande battuta di ricerca dei cinque caccia e del Martin Mariner da parte di centinaia di aerei, navi, e sottomarini, si dichiarò che non c’era alcuna traccia dei sei velivoli scomparsi e non c’era alcuna spiegazione logica per l’incidente. Si cominciò a parlare di mistero, di astronavi e di extraterrestri che li avrebbero prelevati dallo spazio, oppure di forze elettromagnetiche sottomarine che li avrebbero risucchiati nei fondali. Il fatto è che al largo della costa sud orientale degli Stati Uniti c’è una zona triangolare che si estende dalle Bermuda, fino alla Florida meridionale, alle Bahamas e a Puerto Rico, conosciuta come il Triangolo delle Bermuda, dove più di 100 aerei e navi, in maggioranza dopo il 1945 sono scomparsi nel nulla, senza lasciare una traccia o un piccolo reperto, anzi in alcuni casi, come per il veliero francese “Rosalie” nel 1840 o il brigantino tedesco “Freya” nel 1902, la imbarcazioni furono ritrovate intatte, i loro carichi perfettamente integri, ma i loro equipaggi si erano letteralmente volatilizzati nel nulla lasciando il cibo caldo nelle pentole e i coperti apparecchiati sui tavoli da pranzo, nessun segno di fuga o di colluttazione.

C’è un lungo elenco di vere sparizioni di navi ed aerei, ma le cause sono assolutamente ignote, anzi, per usare i termini corretti, i fenomeni non sono scientificamente spiegabili.

Il 26 dicembre del 2004, un’onda anomala, un muro liquido di una ventina di metri d’altezza si alzò nel bel mezzo di un Oceano Indiano letteralmente impazzito e sommerse d’acqua, detriti e fango le coste di tutti i paesi e le isole che vi si affacciano ad oriente: Indonesia, Malesia, Tailandia, Myanmar, Bangladesh, e a occidente: India, Sri Lanka e Maldive. L’Oceano si ritrasse delle spiagge di sabbie bianche come se volesse prendere una rincorsa, raccolse le sue forze immani in un lungo, terrificante, impossibile, istante sospeso e poi scatenò uno tsunami che si comportò esattamente come una valanga che precipita rotolando dalla cima di un monte: travolse e devastò tutto quello che incontrò lungo la sua strada. Interi villaggi vennero annientati, case scoperchiate come fossero scatole di cartone, foreste strappate dalla terra come esili fili d’erba di un prato, molte isole furono sommerse dai detriti e dal fango e più di trecentomila persone persero la vita. Questo evento catastrofico é stato perfettamente spiegato dalla scienza: a circa diecimila metri di profondità si è verificata una frattura sottomarina di una delle Placche che compongono il substrato profondo della crosta terrestre. La zona precisa era a circa 200 chilometri da Sumatra. In pratica, una delle zolle tettoniche orientali, la Placca indiana, era scivolata al di sotto della Placca birmana innalzandola di diversi metri, spostando ammassi enormi di terre e rocce verso est e causando un terremoto sottomarino che aveva determinato lo spostamento di un’enorme massa d’acqua libera e distruttiva che provocò il più grande disastro naturale dell’epoca moderna.

La scienza riesce a spiegare molti fenomeni, quasi tutti, anche quelli, apparentemente più misteriosi, eppure, a volte si devono formulare soltanto ipotesi, perché la dimostrazione scientifica non è sufficientemente completa, in quei momenti la fantasia prende il sopravvento e cerca di andare oltre ai dati inconfutabili, cerca di trovare uno spazio dove sconfinare perché in fondo la fantasia non vuole regole né limiti ristretti, ma a volte c’è qualcosa di più di un conflitto fra lo scientificamente dimostrabile e l’ipotesi fantasiosa, fra l’assolutamente sicuro e l’intuizione difficilmente riscontrabile. E’ il caso del Triangolo delle Bermuda, è il caso di Mu o di Atlantide o Lemuria. I continenti scomparsi.

 

La terra cava

Non riesco più a discernere qual’è la realtà e qual’è il sogno (Corto Maltese)

Sono due vite parallele perché limitarsi ad accettarne una sola? (La regina maya)

Tikal è un sito Maya immerso nelle fitte foreste del Petén, una regione settentrionale del Guatemala. Bisogna arrivarci molto presto al mattino, quando la nebbia sale dalla terra umida e avvolge la giungla che si risveglia con tutti i suoi profumi e i rumori. Le scimmie urlatrici delimitano il loro territorio con un grido lungo e cavernoso, sembra un rauco e agghiacciante vento lontano. Le cicale strofinano le ali e sembra che un cavo elettrico in corto circuito vibri nell’aria come una frusta di minuscoli anelli metallici incandescenti. L’umidità lascia la terra e avvolge le cime degli alberi che intrecciano foglie e liane, poi la foresta, a malincuore, si apre e compaiono i templi con le loro inquietanti scale di pietra perse fra il verde e le nuvole di vapore.

Il Tempio del Grande Giaguaro, il re Luna Doppio Pettine, El Mundo Perdido, l’Aguada Escondida, il Tempio dei Teschi, i nomi già affascinano, incutono soggezione, rispetto. Nella Gran Plaza i piccoli soldati guatemaltechi moderni, armati come se fossero stati catapultati qui da una zona di guerra, sembrano allegri ragazzini intenti a giocare, sorridono, si mescolano ai turisti e garantiscono la sicurezza, ma contribuiscono a generare tensione e a ricordare cerimonie sanguinarie guidate da sacerdoti che riuscivano a strappare a mani nude i cuori delle vittime destinate ad ingraziare le divinità e le stelle del cielo. L’estensione è enorme e si può camminare per decine di chilometri fino a raggiungere le zone meno frequentate e per questo ancora più coinvolgenti. Il tempio delle Iscrizioni è isolato, lontano da tutto, da quelle parti stanno ancora scavando e molte pietre sono ancora nascoste fra le radici degli alberi che si afferrano come artigli alla terra e alle rocce. Basta guardarsi intorno e restare in silenzio, quel mondo verde che cerca di nascondere e proteggere un grande passato forse è la porta per entrare in un altro mondo.

Ci si sente osservati e controllati da entità che si fingono selva.

Un brivido accappona la pelle, ma è solo un minuscolo colibrì che sfreccia ronzando intorno al suo piccolo nido col rumore di un gigantesco calabrone. Si guarda intorno, scattando e ruotando a 360 gradi e poi si cala in una pozza d’acqua con estrema attenzione. Prima di ogni tuffo si libra quasi immobile nell’aria girandosi come un periscopio di controllo, le sue ali sbattono fino a 80 colpi al secondo e il suo cuore attento pulsa 1200 volte al minuto. Il colibrì é simbolo di coraggio e ci vuole molto coraggio in quella giungla gonfia di esseri urlanti, striscianti ed alati per proteggere quella speranza di vita, per difendere quelle sue due delicatissime, minuscole uova dal guscio trasparente. Sembrano preziose gemme di madreperla.

Forse, per entrare nel regno sotterraneo del Re del Mondo, il capo supremo della misteriosa gerarchia iniziatica, bisogna entrare proprio da lì, da una delle grotte che scendono fino al Regno di Agarttha, percorrere gallerie, caverne e cunicoli che scendono nelle immense profondità della terra e collegano fra loro i continenti, mondi solo in apparenza perduti e misteriosi centri iniziatici, quelli di cui parla Saint-Yves d’Alveydre nella sua Mission de l’Inde del 1910 e Ferdinand Ossendowski nel suo Bêtes, Hommes et Dieux del 1924.

Mondi sotterranei di cui parlano anche le tradizioni induiste. La capitale, Shamballah, sarebbe in Asia, nascosta nelle profondità del deserto del Gobi. Gli ingressi a questo misterioso regno sotterraneo sarebbero sparsi in varie zone del mondo: in Egitto, in prossimità della Sfinge; ad Akakor, nel fitto della foresta Amazzonica brasiliana; ad Angkor, nella foresta cambogiana, dove esistono templi avvolti dalla foresta come a Tikal; sotto le nevi dell’Antartide o fra le montagne dell’Himalaya. Il regno di Agarttha sarebbe popolato da uomini dalla pelle chiara, dotati di grandi poteri e altissime conoscenze astronomiche e scientifiche. Uomini in grado di intuire tutti i pensieri, di conoscere i fatti che accadono sulla terra e prevedere il nostro futuro. Uomini in grado di collegarsi ed influenzare psichicamente i potenti della terra e di saper gestire e controllare l’energia Vril, che consentirebbe loro di volare, si spostare oggetti con la forza del pensiero e di leggere nella mente altrui.

In un altro sito Maya, al di là di un grande mare di foreste, cariche di foglie e scure di ombre, oltre un fiume, fra i ribelli e le montagne messicane del Chiapas, a Palenque, c’è un altro mistero, collegato col mondo sotterraneo, ma forse anche con un mondo molto più lontano. Anche a Palenque c’è un tempio delle Iscrizioni e qui c’è una pietra tombale su cui è scolpita una figura umana ritratta in una posa che ricorda un pilota in una navicella spaziale. Lo chiamano “l’astronauta di Palenque”, sembra che impugni le leve di comando di un razzo, sembra che dalla parte posteriore del velivolo escano delle fiamme e che il “pilota” respiri attraverso dei tubi. Il grande sarcofago è la tomba del grande governatore Pakal II, la rappresentazione del Dio del mais, il re-sacerdote il cui volto austero fu ritrovato coperto da una maschera di un finissimo mosaico di lastre di giada verde, conchiglia e ossidiana. Ogni dito delle mani era impreziosito da un anello di giada e sul petto aveva una decorazione con nove cerchi concentrici costituiti, ognuno, da 21 perle. In bocca c’era un grano di giada scura per comprarsi il cibo nell’aldilà, nella mano destra una perla cubica, nella sinistra una perla sferica. Simbologie e conoscenze che parlano di viaggi attraverso lontane costellazioni e porte segrete, di collegamenti fra mondi apparentemente lontani e di popoli che, pur divisi da oceani e immense distanze, conservavano inspiegabili similitudini rituali.

Mondi lontani, ma uniti da un passato comune, o da una conoscenza mediata attraverso dimenticate radici. Atlantide, celato nelle profondità dell’oceano Atlantico, Mu in quelle del Pacifico, come basi comuni di conoscenza superiore. Agarttha come ulteriore mondo sotterraneo segreto popolato da uomini alti e dalla pelle bianchissima che ricordano il leggendario re inca Viracocha, ma anche il Kukulcan dei Maya, bianco di carnagione e con barba e capelli rossi, divinità arrivata dall’Atlantico con una barca priva di remi.

Molti ne hanno parlato, ma pochissimi uomini nella Storia avrebbero avuto accesso a questo regno Sotterraneo, fra questi, la medium madame Blavatsky che ebbe accesso ad Agarttha attraverso un antico tempio nel Tibet e Dante Alighieri che avrebbe, in parte, rivelato quello che avrebbe visto romanzando tutto nella sua Divina Commedia.

Un ammiraglio americano, Richard Evelyn Byrd, nel corso di un viaggio d’esplorazione del Polo Sud nel 1947, trovò le tracce di questa civiltà ed ebbe contatto con gli abitanti di quel mondo. Byrd trascrisse un fantastico incontro nel suo diario che è attualmente conservato nel Centro di Ricerca Polare Byrd dell’Università di Stato di Columbus (Ohio. Usa). Attratto magneticamente da una forza sconosciuta insieme al suo aereo mentre stava esplorando le nevi e i ghiacci del Polo Sud, veniva guidato a motori spenti tramite una sorta di stallo pilotato. Atterrò senza toccare una leva in una verdissima valle, in una città scintillante e popolata da uomini biondi dalla pelle bianchissima. Il loro Maestro lo avrebbe ammonito sui rischi che correva l’umanità, gli aveva parlato di un futuro oscuro come una nera coltre che avrebbe distrutto una razza ormai dedita soltanto alle guerre e ai soprusi, ma gli aveva anche predetto che, dalle rovine, sarebbe emerso un nuovo mondo in cerca dei suoi lontani tesori perduti. In quel momento, dopo la distruzione e la presa di coscienza degli errori passati e delle grandi potenzialità future, il Mondo di Superficie sarebbe stato aiutato. L’ammiraglio Byrd fu interrogato ripetutamente dallo Stato Maggiore del Pentagono e fu esaminato da una commissione medica, ma alla fine tutto venne archiviato e a lui fu ordinato di tacere per il bene dell’umanità. Quegli uomini misteriosi potevano essere discendenti degli Atlantidi, forse si sarebbero potuti ricreare nuovi contatti, forse si sarebbero potuti spiegare tanti misteri, ma Byrd era un militare e obbedì agli ordini.

Cesar, oggi ha circa vent’anni, è un ragazzo guatemalteco robusto e squadrato come un pugile, un sollevatore di pesi o un lottatore, ha deltoidi e bicipiti solidi e lucidi per il sudore. Anche lui si occupa di caverne, scava grotte e cunicoli nella montagna, entra in profondità, ma non scende sottoterra, non lo fa per cercare mondi scomparsi, lui lo fa per guadagnarsi da vivere. Prima strappa le pietre dall’interno della montagna friabile, poi le spacca e le sbriciola a colpi di martello fino ad arrivare a vendere i sacchi di materiale inerte che servirà per i pavimenti delle case, o per il sottofondo delle nuove strade asfaltate. Cesar non scava per scoprire qualcosa, lo fa per guadagnare pochi quetzal. Vive a Patzùn, ma lavora tutto il giorno sulla strada che porta a San Antonio Palopò, sul mitico lago Atitlan. La galleria che ha iniziato a scavare cinque anni fa con suo padre, sarà lunga più di cinquanta metri e porta in una grande grotta circolare alta più di 4 metri. Adesso ci lavorano in tre, usano bastoni di legno ai quali sono fissati uncini ricurvi che potrebbero venire da una macelleria. Vibrano colpi alle volte e alle pareti di quell’antro scuro, staccando pezzi di roccia, sassi e terra. S’inoltrano nella montagna, allargano gli ambienti, sembrano talpe. Nella grotta ci sono centinaia di bottiglie di plastica tagliate che sostengono mozziconi di candela. Tutto intorno, una strana luce, quasi sottomarina, oscilla per la poca aria smossa dai colpi o dal soffio del vento che arriva dalla strada. L’ambiente ricorderebbe un inferno dantesco se non fosse per la musica rap che gracchia da una radiolina appoggiata ai vestiti buttati in un angolo. La grotta, i cunicoli per arrivarci, le volte, sono tutte graffiate dai profondi segni regolari degli uncini che artigliano la roccia e annerite dalle strisce di fumo delle candele. Sembrano le zampate di una belva che vorrebbe sfuggire. Se la volta della grotta cedesse anche Cesar e i suoi compagni forse potrebbero raggiungere il mondo scomparso di Agarttha.

 

Oltre

 La terra con i suoi cataclismi partecipa attivamente al gioco delle perplessità.

( Corto Maltese )

Nel marzo del 1882 il capitano David Robson oltrepassò le colonne d’Ercole di Platone, cioè lo Stretto di Gibilterra e lasciò il Mediterraneo, lui non sapeva che secondo le teorie della tettonica a placche, quando, ai tempi della grande massa continentale chiamata Pangea, l’Africa era unita alla Spagna, quel passaggio non esisteva. Lui non sapeva che un giorno, dopo un immane terremoto le terre si aprirono e in quella fresca spaccatura, come da un immenso imbuto, colarono montagne d’acqua dall’Atlantico e riempirono un bacino di terre più basse che oggi chiamiamo Mediterraneo. Robson era solo il bravo comandante del vascello Jesmond, un mercantile inglese a vapore che veniva da Messina con un bel carico di profumata frutta secca siciliana, lui aveva un lungo viaggio da compiere, era diretto a New Orleans, le Colonne d’Ercole erano solo un ultimo paesaggio di terra, prima di affrontare il blu completo del cielo e dell’Oceano Atlantico.

In uno di quei tratti azzurri ad Ovest di Madera e a sud delle Azzorre, i marinai cominciarono a vedere il colore del mare mutare in maniera del tutto innaturale, il blu delle acque era invaso dall’ocra-marrone del fango, dal bianco e dall’argento delle pance di milioni di pesci morti, poi comparve del fumo all’orizzonte e iniziarono a delinearsi i tratti indistinti del profilo di una montagna, là dove le carte nautiche riportavano il vuoto più assoluto. Robson era molto prudente, osservò a lungo quelle coste fumanti e ordinò di calare l’ancora lontano dall’isola, là dove la carta nautica che continuava a studiare, a girare e a spostare sul tavolo da carteggio indicava una profondità impossibile. L’ancora toccò il fondo dopo tredici metri di cima anche se l’isola distava diverse miglia. Il capitano Robson aveva le sue scadenze per la consegna del carico, ma la situazione era troppo strana e la frutta secca non avrebbe avuto problemi per un piccolo ritardo, decise di procedere e di perlustrare l’isola. L’isola era un ammasso di scuri e affilati detriti vulcanici spaccati da profondi crepacci, si vedeva in lontananza un altopiano e le montagne da cui saliva il fumo che avevano visto dal mare, ma era impossibile arrivare laggiù camminando su quel terreno che spaccava le scarpe. I marinai di Robson rimasero soltanto due giorni nei pressi della riva e iniziarono a picconare gli strati più ghiaiosi e friabili. Trovarono punte di frecce, spade e sculture spaccate, vasi che contenevano frammenti d’osso, urne funerarie e imponenti muraglie sbrecciate. Il comandante decise che doveva bastare; fece raccogliere alcuni campioni e descrisse tutto meticolosamente nel suo libro di bordo: la posizione dell’isola, le sue impressioni, tutto quello che avevano raccolto e quello che avevano visto, ma avevano dovuto lasciare.

Quando arrivarono a destinazione raccontarono tutto al cronista del Times Picayune di New Orleans e decisero di donare i reperti al Museo Britannico. Oggi però, di tutta questa storia non è rimasta alcuna traccia. Il libro di bordo andò distrutto con tutto l’ufficio della compagnia Watts, Watts & C. durante il bombardamento di Londra del 1940 e al Museo Britannico non risulta niente di tutta questa faccenda anche se molti altri marinai di altre imbarcazioni avvistarono gli enormi banchi di pesci morti e un’altra goletta a vapore, il Westbourne avvistò un’isola in quello stesso tratto di mare e anche le dichiarazioni del capitano, James Newdick, furono riportate sul New York Post.

Sembra di leggere un racconto di Lovecraft, la storia di R’Iyeh, l’isola affiorata dal nulla col suo mostro alieno Cthulhu, la gigantesca piovra dall’aspetto orrendamente umano in grado di provocare visioni folli nelle menti degli uomini che riescono a vederla. La divinità aliena Cthulhu scomparirà con la sua isola misteriosa, esattamente com’è successo all’isola avvistata dai capitani Robson e Newdick, sprofondata in seguito ad un terremoto o ad una successiva eruzione vulcanica, e ai due marinai accadrà la stessa cosa successa all’ammiraglio Byrd e al protagonista del racconto di Lovecraft: saranno condannati all’oblio forse perché conoscevano troppo su un argomento che doveva rimanere sepolto nelle profondità, non soltanto marine.

Nel 1985, Kikachiro Aratake, un tuffatore sportivo giapponese, si tuffò nelle acque intorno all’Isola di Okinawa e, a 25 metri di profondità, scoprì un’immensa struttura piramidale a gradoni, la Piramide di Yonaguni. Secondo quanto affermano gli archeologi si tratterebbe della più antica costruzione mai realizzata dall’uomo. Alcuni sostengono che rappresenti la prova del mitico continente di Mu, inabissatosi nelle profondità del Pacifico 25 mila anni fa.

Secondo il colonnello Churchwood che, nel 1868, decifrò alcune tavolette in argilla ritrovate in un monastero orientale, la vita ebbe origine proprio su Mu, e il popolo di questo continente colonizzò tutto il mondo eleggendo in ogni paese un re figlio del Sole e nella piramide di Yonagumi è stata trovata una pietra orizzontale di 3 metri per 3 che potrebbe proprio rappresentare Ra-Mu, la divinità solare. In un’altra zona è stato ritrovato un grosso megalite alto sette metri che ricorda i volti scolpiti che popolano l’Isola di Pasqua.

Popol Vuh

Convergenze e sintesi di contrasti apparenti

Questo è un luogo iniziatico per riguadagnare la dimensione perduta, quella in cui è possibile incontrare il mistero della causa dell’esistenza”

(Mu. L’indigeno Fungo Magico)

Il santuario di Pascal Abaj è in cima a una collina coperta di alberi non lontana dalla piazza del mercato di Chichicastenango. Laggiù si vende ogni cosa, quassù si invoca Huyup Tak’ha che significa il Pianoro della Montagna e con questa definizione iniziano gli apparenti contrasti. L’antico volto scolpito della divinità Maya venerata quassù sembra soltanto un sasso scuro circondato da altre pietre annerite dal fumo. Dicono che anche questa pietra, un tempo assomigliasse ai Moai dell’Isola di Pasqua, forse un tempo, perché adesso è un soltanto un grosso sasso scuro, ma si sente benissimo che è consumato non solo dagli anni e dalle intemperie, ma anche dalle continue cerimonie, dalle preghiere, dalle offerte, dal fuoco, dalle mani che l’hanno toccato e strofinato con fede profonda. Ci sono anche le croci, naturalmente, un fedele che pronuncia le sue preghiere e lo sciamano che crea il contatto col dio.

La croce è parte del rispetto e del sincretismo fra fede cattolica e religione Maya, il fuoco è il tramite del contatto, la vera voce della divinità invocata, viene alimentato con alcool, incenso, mais, resine profumate e scoppiettanti. Il fuoco s’inclina, si alza più forte o scaglia piccoli frammenti di coppale addosso alla gente che prega, il fuoco comunica a chi sa capire il suo linguaggio. Intorno alle fiamme, un regolarissimo cerchio di candele colorate, sassolini bianchi, offerte, petali di fiori e l’officiante che esegue i rituali o li fa eseguire dal fedele. Offerte e preghiere. Fuoco, calore, sudore, fumo e gesti antichi. A pochi passi, un vecchio con la testa avvolta in un turbante colorato, agita una latta bucata che emana un fumo profumatissimo e prega, alza le braccia al cielo e pronuncia parole in lingua Quichè. Il vero sciamano è lui, lo chiamano Chuchkajau che vuol dire madre-padre.

Davanti al mercato di Chichi come chiamano qui questo grande villaggio pieno di gente, povertà, merci e colori, c’è l’antichissima chiesa di San Tomas. Qui c’è la summa di tutti i meravigliosi contrasti di tutto questo splendido paese. 18 scalini di pietra davanti all’ingresso principale, perché San Tomàs è stata costruita nel 1540 sui resti di un antichissimo tempio. 18 scalini ingombri di sciamani che bruciano incenso e candele, fiori e chicchi di mais. L’ingresso ricorda la salita al tempio e i 18 scalini sono i 18 mesi del calendario maya. I turisti non possono entrare da questa parte, ma soltanto dall’ingresso laterale, queste scale sono parte integrante del tempio e della preghiera. All’interno della chiesa, il centro è dedicato alla religione maya, le navate laterali alla Via Crucis, l’antichissimo altare è scolpito in un legno massiccio e annerito dal fumo. I 14 altari Maya sono disposti al centro della chiesa, sono semplicissimi rettangoli di pietra scura appoggiati sul pavimento e ricordano le 14 divinità maya. Le candele maya hanno due fuochi, quelle cristiane uno solo eppure convivono pacificamente, qui ognuno entra con un solo motivo: avere fede. Il Popol Vuh è una specie di Bibbia maya, fu ritrovato proprio in questa chiesa nel 1702 e il parroco Francisco Ximénez lo trascrisse in spagnolo. L’originale manoscritto maya è sparito chissà dove, parla dell’intera storia dei Maya fin dalla creazione:

Questo è il racconto di come tutto era sospeso, tutto era calmo e in silenzio, tutto immobile, tranquillo e la distesa del cielo era vuota…

La storia parte dalla creazione dell’umanità da parte del dio K’ucumatz, che iniziò a creare gli uomini col fango, ma questi erano talmente deboli che si dissolvevano nell’acqua. Poi ci provò con il legno, ma questi erano talmente sciocchi da non riuscire a lodare il loro creatore, allora li distrusse tutti e rimasero solo le scimmie della foresta, anche loro create dal legno. Per l’ultimo tentativo la divinità chiese consiglio a quattro animali: la volpe grigia, il coyote, il pappagallo e il corvo. Fu così che creò l’uomo, con grano bianco e grano giallo macinati insieme per creare la carne e mescolati con l’acqua per creare il sangue, per questo i guatemaltechi si definiscono uomini di mais. Tutta la cronologia Maya parte da un punto fisso, il nostro 3114 avanti Cristo, il lontano passato remoto in cui tutto venne di nuovo creato dopo l’immane distruzione di un mondo precedente. Ogni cosa ha un suo ciclo d’inizio e una fine, e ogni fine è segnata da una grande catastrofe, ma anche ogni alba e tramonto fanno parte di questa sacralità e ogni attività umana dipende dagli umori del sole che ad ogni alba emerge da Xibalbá, il mondo degli inferi, per raggiungere il cielo e riscaldare e illuminare la superficie terrestre. Per i Maya, il cielo, la terra e il “mondo invisibile” sono uniti dall’Albero del Mondo, la prima forma di vita scaturita dal caos primordiale. L’albero kapok (Ceiba pentandra), con i suoi rami cruciformi che escono direttamente dal tronco è l’asse della vita e quando i missionari arrivarono nel XVI° secolo con le loro croci, per gli occhi dei Maya anche questo simbolo si sovrappose al loro Albero del Mondo.

Florian Fricke era un musicista tedesco, ex critico e regista cinematografico, ma era anche un grande appassionato di tematiche religiose e dei miti Maya. Nel 1970, a Monaco, fondò il suo gruppo rock, i “Popol Vuh” e uno dei loro capolavori è il disco “Hosianna Mantra”. Anche qui, il concetto fondamentale di questa musica è proprio la fusione di apparenti contrasti mistici: la religiosità cattolica e la ritualità induista. L’Osanna, cioè l’inno a Cristo che ascende al cielo, si arricchisce della magica ripetitività del mantra e dei canti vedici, la “musica per catacombe spaziali”, come è stata definita la musica dei Popol Vuh, riesce a cogliere perfettamente il valore di questo naturale sincretismo religioso che non rimane soltanto una razionale mescolanza mistica, ma si trasforma in un accrescimento spirituale basato sul rispetto.

Quando Hernán Cortés inviò il suo sanguinario e brutale capitano Don Pedro de Alvarado a conquistare il Guatemala questi si scontrò con il capo dei Maya Quiché, Tecum Umam. Il loro duello, invece, è un leggendario esempio di scontro fra mondi talmente distanti da non trovare punti di confronto e di miglioramento, ma soltanto la costante realtà della sconfitta del più debole rispetto al più forte, o forse della spiritualità rispetto alla fredda e calcolata razionalità.

Gli indios chiamavano Pedro de Alvarado, Tonatiuh (Figlio del sole) perché era alto, biondo, barbuto, era una specie di divinità agli occhi dei Maya Quiché, in più si presentò in sella al suo cavallo e per Tecum Umam cavallo e cavaliere erano un tutt’uno, forse da sconfiggere come invasori e conquistatori, ma forse da rispettare come attese divinità. Durante il duello, un Quetzal volava sopra la testa del capo indiano e lo aiutava, fra l’entusiasmo della folla, beccando il cavallo e il cavaliere come fosse un picador. Tecum Umam colpì il cavallo e pensò di aver sconfitto il suo avversario, ma quando il conquistador trapassò il petto di Tecum Uman con un poderoso colpo di lancia, tutti ammutolirono, anche il Quetzal, che si chinò sulla ferita del capo morente e, come ultimo gesto di saluto prima di volare lontano nel cielo, si bagnò di rosso sangue le piume del petto. Da allora il Quetzal o Kukul, in lingua Quiché, dalla lunga coda di un metro di piume colorate come un arcobaleno, ha il corpo verde come il colore degli alberi delle foreste del Guatemala e sul petto c’é la macchia rossa come il sangue del grande Tecum Umam.

Il Quetzal è il simbolo del Guatemala e può vivere soltanto libero, vola altissimo e si costruisce un nido nel tronco degli alberi, ma ci sono sempre due uscite, per non rovinarsi la coda.

La fantasia e la spiegazione scientifica, forse, sono come quelle due uscite, anzi, sono i due possibili ingressi ai mondi scomparsi, ma perché limitarsi a scegliere sempre una sola strada per raggiungere una meta? Perché cercare di conoscere perfettamente un unico percorso? Perché costringersi a spiegare proprio tutto? Le due uscite salvano la coda dello splendido Quetzal, le due strade, forse ci porteranno alla stessa meta, ma sicuramente ci daranno qualcosa in più: la libertà e la possibilità di scegliere.

 

Marco Steiner 4 luglio 2009.

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“La ruota delle cose”. Un racconto di viaggio sul cambiamento.

“La ruota delle cose”. Un racconto di viaggio sul cambiamento.

La Ruota delle Cose

 

Ho scritto tante pagine nella mia vita, progetti d’affari, visioni strategiche, business plan d’imprese, contratti, fusioni e smembramenti societari. Quello che non ho mai fatto è scrivere qualcosa che mi riguardasse personalmente. Le mie giornate scorrono sempre veloci, impetuose, una giostra che gira vorticosamente e il tempo non basta mai. Denaro, relazioni personali, lavoro, incontri, compromessi, cene, tutto s’infila nel ciclone, scivola via e non resta niente. Certe volte, mi alzo al mattino, esco di casa e mi ritrovo come lanciato a capofitto lungo una pista ghiacciata con un bob senza freni. Scendo la pista volando come un razzo e, lungo la discesa, divento un camaleonte rapido e vorace capace di arraffare le cose che m’interessano di più: i soldi. Come un guerriero vibro fendenti precisi: le mie percentuali sulle transazioni concluse. Sono un avvocato d’affari, sono nato e vissuto a Londra, possiedo e gestisco uno studio che dà lavoro e battaglie a dieci colleghi più giovani e arrivisti di me, ma non ancora spietati ed esperti come me. Ho avuto 3 mogli che mi hanno dato cinque figli, ho gestito tre divorzi ammorbiditi col tintinnio di milioni di sterline e adesso convivo con una giovane amante che è uno schianto. Li ho messi tutti d’accordo, hanno smesso di blaterare perché li ho riempiti di soldi per starmene in pace e continuare a fare quello che mi pare. Ma in fondo, in pace io non ci sono mai stato. Ho cinquantaquattro anni, sono indiano, anzi, sono di origine indiana, nel senso che ho la faccia e il colore della pelle di un indiano, ma la mentalità dell’ufficiale di sua Maestà la Regina o forse di un Raja: vorrei che tutti abbassassero la testa quando passo perché sono il migliore.

A volte però le cose cambiano, per questo ho deciso di scrivere questa storia. Di solito si cambia per un fatto traumatico, una malattia, un incidente, oppure quando arrivi al limite e ti rendi conto che tutto quello che fai lo stai facendo per gli altri. Ogni sera la dose di whisky per dormire aumenta e la parte vera di te stesso s’inaridisce, si consuma, alla fine la dimentichi e di solito non te ne rendi conto. Poi capita il giorno in cui butti giù un muro e ti ritrovi in una stanza nascosta, è un ambiente strano, diverso, un piccolo rifugio, scuro, scarno, essenziale, ma ci stai bene, meglio che nella tua grande casa “normale”.

Ma in fondo, chi di noi è normale?

Per questa storia il mio vero nome non serve, ne inventerò uno, Jamal, il primo nome indiano che mi passa per la testa.

Tutto inizia con una lettera che mi arriva da Nuova Delhi. Un amico di mio padre mi scrive che laggiù è morto mio fratello. Io quasi non lo ricordo, non lo vedo da trent’anni, il tizio aggiunge che mi ha lasciato degli effetti personali che mi vorrebbe consegnare personalmente. Strana richiesta. Mio fratello era l’ultimo filo che mi collegava con l’India. La storia della mia famiglia è una trama di fili e tessuti, la mia vita una matassa imbrogliata.

Mio nonno, classe 1887, era originario di Jaisalmer, una città fortezza infilata su una collina sperduta in mezzo al deserto del Rajasthan, la zona più nord occidentale dell’India.

Il vecchio era diventato ricco grazie ai tessuti. Commerciava con ogni genere di stoffa: cotone, seta, cashmere, lana. Comprava in Afghanistan, in Cina, in Mongolia, in ogni angolo dell’India, sceglieva le migliori partite e poi le rivendeva in Inghilterra, sotto forma di materiale grezzo oppure lavorato dai migliori artigiani. Mio nonno, studiando da solo, era diventato avvocato perché era fissato con la giustizia ed era finito nello studio legale dove lavorava Gandhi prima di dedicarsi alla politica. E Gandhi era un grande uomo politico, ma come avvocato non era niente di speciale. Il mio vecchio invece sì che era un tipo speciale, in particolar modo con i suoi operai, sceglieva i migliori e li pagava il doppio degli altri, ma dovevano mantenere altissima la qualità altrimenti erano fuori. Era un onore e una fortuna lavorare per lui. Mio padre mi raccontava che il giorno del suo funerale gli sembrò di assistere alla cerimonia funebre di un grande Maharajà. Non si erano mai visti turbanti, sciarpe, cappelli, mantelli, saree, coperture di selle, paramenti di cavalli, cammelli ed elefanti colorati come quelli sfoggiati in quel giorno.

Mio nonno guardava sempre in avanti e per migliorare le condizioni culturali ed economiche della famiglia mandò mio padre a studiare in Inghilterra e daddy ci rimase per sempre creando le strutture necessarie per organizzare un’importante rete di vendita, dai magazzini lungo i dock del Tamigi fino ai negozi eleganti nel centro della City.

Io e mio fratello siamo nati a Londra. Mio padre, dopo la morte del nonno, andava e veniva dall’India sempre più spesso. Io non avevo voglia di seguirlo, d’impolverarmi le scarpe, mangiare curry e piatti piccanti, annusare gli odori nauseanti e speziati dell’India. Da vero bastardo viziato mi ero sempre rifiutato di seguire gli affari di famiglia, a me piaceva far fallire, smembrare e rivendere società, trovare il sistema di esportare capitali illegali o proventi illegittimi, mi piaceva il lavoro dell’avvoltoio di lusso. Mio fratello invece andò in India dopo aver compiuto i diciotto anni e ci rimase, folgorato come Siddharta dall’illuminazione mistica. Sembra strano che gli stessi genitori possano generare due figli che convivono sotto lo stesso tetto e diventano l’uno l’opposto dell’altro. A noi è successo proprio così.

Dieci anni fa è venuto a mancare mio padre e, dato che mia madre era morta di parto poco dopo la nascita di mio fratello, gli eredi eravamo noi due. Mio fratello mi comunicò dall’India che era diventato un sacerdote jainista, uno di quelli che vivono in povertà assoluta e girano cercando la verità del cosmo indossando una tunica bianca e spazzando la strada davanti a loro per evitare di calpestare e uccidere insetti e formiche perché ogni essere vivente dev’essere rispettato lungo il ciclo delle reincarnazioni. Lui cercava la coscienza cosmica e, non avendo alcun interesse per i beni materiali, rinunciava all’eredità di mio padre rendendomi immensamente ricco.

Anche quella comunicazione mi arrivò con una lettera inviata dalla stessa persona che mi aveva scritto l’ultima missiva da Delhi, un grande amico di mio padre.

Lo chiamerò Mr. George. Non è il suo vero nome ed è altrettanto banale di Jamal, perché anche lui è un personaggio conosciuto.

Avevo incontrato Mr. George una sola volta a Londra, aveva una magnifica barba, modi eleganti e uno sguardo che non si dimentica. Era uno di quei tipi che ti mettono in soggezione senza dire una parola e non capisci il perché. Mio padre mi aveva sempre detto che in qualsiasi situazione mi sarei potuto fidare di lui.

Jamal e Mr. George, due nomi finti, per una storia vera. E tutto inizia nel migliore dei modi: per caso. Dopo aver letto la lettera, stavo per cestinarla, però la busta continuava a girare sul tavolo e me la trovai fra le mani dopo il rinvio di un appuntamento che mi avrebbe impegnato tutto un venerdì fuori Londra con un sabato e domenica da dedicare allo shopping con le mie due figlie più viziate, quelle della prima moglie. La mia donna, conoscendo la situazione, si era organizzata una gita di shopping a Parigi.

Mi versai un whisky e ripresi in mano la lettera.

La carta e la calligrafia di Mr. George erano roba d’altri tempi, del resto non ricordavo di aver ricevuto un’altra lettera scritta a mano. Mi scolai il terzo whisky liscio e mi accorsi che quella pagina profumava di un qualcosa che non respiravo da troppo tempo: l’imprevisto. Mi attirava perché ero stanco delle mie solite cose patinate.

Ero libero, avrei potuto andare a giocare a golf e poi bere whisky fino a stordirmi, come al solito. Oppure sarei potuto partire per l’India.

Con una carta Platinum non ci sono problemi a prendere un volo nella serata dello stesso giorno, un giovedì, per arrivare a Nuova Delhi il venerdì all’ora di pranzo. Bastò una telefonata per fissare un appuntamento con Mr. George all’Hotel Imperial di New Delhi per l’aperitivo delle 18. Il “1911” non è solamente il Coktail Bar di un magnifico vecchio albergo. È una meraviglia fuori dal tempo: legni, ottoni, foto di Maharajà e ufficiali in divisa, squadroni di Gurka nepalesi, poltrone in pelle verde, mobili liberty, classe, ricordi dell’antico splendore coloniale britannico.

Mr. George era vestito con l’eleganza semplice di chi non deve dimostrare niente a nessuno: jeans, maglietta nera, un orologio strano, un braccialetto di perle di legno di sandalo e un’imponente barba bianca.

Dopo qualche sorriso e poche parole iniziò a ordinare cocktail Martini scherzando con un barman imponente che indossava un turbante arancione e un’impeccabile giacca rossa con bottoni e alamari dorati. Mr. George rideva a ogni giro con il gigante chiedendoli sempre più freddi, sempre più secchi. Scendevano come acqua di montagna e lui reggeva impassibile.

  • Tuo fratello non era un pazzo, era l’altra faccia dell’India. In mezzo al fango lui cercava purezza, in mezzo al caos lui esprimeva la pace.
  • Magnifico ritratto… – Non volevo, ma usai uno sgradevole tono ironico.

Mi fulminò attraverso il Martini. Provai a recuperare.

  • George, mi è bastato vedere le facce dell’India nella polvere, negli odori e nel traffico caotico dall’aeroporto fino a quest’oasi di bar. Qui mi sento a casa e sono contento di rivederla, però come lei sa sono molto impegnato e, dato che dovrei rientrare in ufficio entro lunedì, mi piacerebbe sapere cosa avrebbe lasciato mio fratello per giustificare questo mio viaggio in India.

Sorrisi. Lui mi guardava come fossi un quadro astratto che non capiva e non apprezzava.

  • Jamal, ricominciamo dandoci del tu.
  • Come preferisci, George.

Socchiuse gli occhi con indulgenza e lo immaginai intento a scrivere quella lettera dopo aver scelto la carta giusta e aver posato sulla sua scrivania una preziosa pipa di radica. Cominciai a pensare che stavo perdendo il mio tempo.

  • Jamal, m’immaginavo che tu fossi così, tuo padre ci ha messo troppo impegno per farti diventare un vero businessman inglese, ma ricordati una cosa: le tue fortune vengono dalla polvere del deserto, dai tessuti ricamati dagli zingari e dai pastori Rabari, da tanti artigiani che lavoravano per tuo nonno in giro per il mondo non per denaro ma per rispetto. Non bisognerebbe cancellare il passato. Comunque, per tua informazione, anch’io mi occupo di affari e non sopporto le parole inutili.
  • Allora ci capiamo, George. Che cosa mi ha lasciato mio fratello?
  • Una motocicletta, una vecchia Royal Enfield, e un cappello da marinaio.

A questo punto devo aggiungere qualcosa. Possiedo ogni genere di oggetto di lusso: orologi, automobili, case, dipinti, arredamenti, libri antichi, oggetti d’antiquariato, ma se c’è una cosa che amo in maniera irrazionale sono le moto. Eppure non ne possiedo nemmeno una. Forse il periodo più bello della mia vita è stato quando, allo scoccare dei diciotto anni mio padre mi regalò una Triumph Bonneville. Mi basta ripensare al rombo metallico di quel motore per tornare ragazzo e rendermi conto da quanto tempo non mi diverto più.

La Royal Enfield è un perfetto simbolo del mondo coloniale, un connubio fra India e Inghilterra, acciaio e progettazione in solido, imperfetto e affascinante stile britannico; semplicità ed essenzialità indiane. “Built like a cannon, runs like a Bullet” (costruita come un cannone corre come un proiettile). Questo è il motto della fabbrica Enfield nata per costruire fucili e cannoni che avevano conquistato imperi, perfettamente logico che in seguito avrebbero costruito motociclette per percorrerli in lungo e in largo con orgoglio britannico.

  • Allora, George, mi gusterò un altro Martini e ascolterò il motivo per cui mi hai fatto venire fin qui per un relitto di Enfield e un cappello da marinaio.

Non so quante volte riempimmo i bicchieri, ma quel racconto toccò una corda nascosta perché cominciai a ragionare come non avevo mai fatto. Era senz’altro colpa dell’alcool.

Mio fratello non aveva voluto una briciola dell’immensa fortuna di famiglia, ma aveva chiesto a George di conservare la Royal Enfield modello 180 di mio nonno e quel cappello perché secondo lui erano il momento fondamentale della nostra storia. L’unico che valesse la pena ricordare. Il fatto successe nel 1912, quando il nonno, allora giovane avvocato, si ritrovò nel collegio legale di cui faceva parte Gandhi in difesa di un marinaio, un certo Corto Maltese. Quel tipo era stato arrestato appena sbarcato a Porbandar, un porto del Gujarat, lo stato indiano affacciato sul golfo Arabico. George mi raccontò che un paio di anni prima Corto Maltese era l’ufficiale in seconda sul S.S. Bostonian, una nave che trasportava bestiame fra Boston e Liverpool e in uno di quei viaggi si erano arruolati come mozzi due studenti in cerca di avventure, si chiamavano Reed e Pierce. I due americani non erano abituati a quel tipo di vita, Pierce in particolare non reggeva il lavoro di bordo, così, un giorno, senza dire una parola, nemmeno all’amico, in un porto sgusciò giù dalla nave e alla partenza, invece di risalire a bordo, ritornò diretto in patria con una nave di linea. Durante la navigazione gli ufficiali si accorsero della scomparsa di Pierce e dopo aver ritrovato nella cabina che condivideva con Reed vestiti, documenti e soldi, sospettarono e arrestarono Reed per l’omicidio dell’amico. Quando la nave arrivò in patria, Reed, si ritrovò davanti alla corte di Manchester accusato dell’omicidio dell’amico scomparso. Corto Maltese aveva intuito quello che era successo e, dopo aver mobilitato le amicizie che aveva fra i marinai sulle due sponde dell’Atlantico, riuscì non solo a trovare, ma anche a riportare Pierce, vivo e vegeto, nel tribunale a Manchester.

Il comandante del Bostonian, gli avvocati accusatori e l’intera corte ci fecero una magra figura, Reed felice e per sempre grato al marinaio fu rilasciato, ma Corto Maltese, da quel momento, diventò un “indesiderato” al comando delle navi britanniche. Aveva salvato un uomo, ma aveva perso il lavoro, fu così che iniziò a dedicarsi ai traffici e al contrabbando fra Antille e Brasile diventando un famoso Gentiluomo di fortuna. Il caso volle che dopo un anno il capo della Procura di Manchester fosse inviato in India, nella regione del Gujarat, relegato dai suoi capi ai confini dell’Impero. Il resto è facile da immaginare, appena si ritrovò fra i documenti dei velieri appena attraccati nella “sua” colonia il nome di quel Corto Maltese che gli aveva fatto fare la figura dell’idiota in patria, lo fece arrestare senza lo straccio di un motivo. Ed ecco che subentra mio nonno, il giovane avvocato giustiziere.

Non c’erano motivi per arrestare quel marinaio, non c’era l’habeas corpus. Il collega Gandhi aveva già iniziato la discussione del caso, ma la prendeva alla larga così, alla seconda udienza, il mio vecchio fece in modo di dirottare il collega a Bombay con la scusa che avrebbe potuto seguire le problematiche di un altro processo legato a uno sciopero e subentrò nel processo al marinaio maltese pronunciando un’impeccabile requisitoria sulla salvaguardia delle libertà individuali sancita dalla Magna Charta.

Il giudice rilasciò subito Corto Maltese. Il processo si era svolto nella capitale dello stato, Ahmedabad e per il marinaio c’era il problema di ritornare alla sua barca, il mare era molto più a sud. Ed ecco che il nonno, non solo non richiese un compenso per i servizi legali, ma date le sue relazioni con mercanti, magazzinieri, artigiani e negozianti di tessuti in tutto il Gujarat gli offrì la sua moto personale per raggiungere la barca. E quando Corto gli domandò come avrebbe potuto riportargliela, il nonno gli consegnò un suo biglietto da visita.

  • Se ti servirà aiuto mostra questo biglietto a chiunque abbia a che fare con le stoffe: mercanti, negozianti, trasportatori. Quando sarai arrivato alla tua barca fatti dare quello che ti serve, cibo, denaro, vele e lascia la moto a uno di loro, sono tutti miei amici. Un giorno, ricambierai il favore con qualcuno che ne avrà bisogno, vedrai, farà bene anche a te.

George continuò a raccontare la storia come se avesse assistito alla scena, mi parlò del miglioramento del karma grazie ai gesti generosi mentre io lo guardavo parlare e non riuscivo a staccarmi da quella barba bianca che sembrava una nuvola e mi faceva perdere la nozione del tempo. Era una strana storia di quelle che normalmente non avrei minimamente considerato, invece, non so per quale motivo, mi coinvolgeva, soprattutto il gesto successivo di mio fratello. Per lui, quel momento, quel gesto di generosità era l’unica cosa che contava. E io mi sentivo ancora più bastardo.

Intanto eravamo entrambi ubriachi, la bottiglia di Gin era quasi finita, quella di Martini praticamente piena. Mi diede un appuntamento per l’indomani alle 9 davanti alle scale dell’Imperial.

Si presentò in sella a una Royal Enfield nera. Dopo quella bevuta mi sembrava di avere la testa infilata in un frullatore che continuava a girare. Mi consegnò un casco e, senza dire una parola, fece rombare il motore e si buttò nel traffico guidando come un ragazzino, millimetrico, con i riflessi pronti e senza esitazioni. Ero entrato in un videogioco in cui bisogna schivare e superare ogni essere e ogni oggetto in movimento. Fermò la moto e mi ritrovai a seguirlo nei vicoli di un mercato affollatissimo, si chiamava Chandni Chowk. Camminava deciso, la gente, i motorini, i cani, le biciclette lo schivavano ma io facevo fatica a stargli dietro in mezzo alla folla che si richiudeva come un sipario dopo il suo passaggio. In fondo a un vicolo lercio aprì il lucchetto di una porta scassata, c’era odore di piscio, un grosso topo ci attraversò la strada. Entrammo nel minuscolo cortile di una casa che sembrava fosse stata bombardata, doveva essere un vecchio magazzino, una scala ripida saliva al piano superiore, sul muro scrostato avevano inchiodato una corda per reggersi sui gradini viscidi di melma. Fra i vetri spaccati s’intravedevano scritte sui muri. La parola che si leggeva era sempre la stessa: textiles.

  • La fortuna di tuo nonno è cominciata in questo cesso di magazzino, se non impari a convivere con la puzza di fogna e lo sterco di pecora non riuscirai mai a capire l’odore di una fabbrica di cotone e quello dei colori naturali fatti con erbe, fiori, pollini, conchiglie, pietre tritate e non riuscirai mai a sentire la musica delle mani di una tessitrice sul telaio. I disegni ricamati sulle stoffe seguono le migrazioni dei nomadi, i ricami scolpiti sulle pietre dei templi, quelli della cera che cola, dei sogni che si perdono nel fumo dell’oppio.

Così com’eravamo arrivati, altrettanto rapidamente ripartimmo per ritornare alla moto. Mi sentivo un marziano atterrato su un pianeta bloccato nel tempo mentre la mia testa continuava a girare. Svoltato un angolo stavo per inciampare sui piedi di un vecchio accovacciato per terra. Era pelle e ossa, in testa aveva un turbante bianco, addosso una tunica che un tempo lo era stata. Mi fissò e mi puntò un dito scheletrico in faccia. Era minaccioso. Mi bloccai sorpreso, quasi impaurito. George tornò indietro e urlò due parole. Il vecchio continuava a indicarmi, ma sorrise. Aveva gli occhi più chiari che avessi mai visto, non erano azzurri, erano del colore del mare all’alba, grigi con la promessa di celeste, ci si perdeva là dentro. Aveva due dadi sbeccati fra le gambe incrociate, me li indicò. Buttai un rapido sguardo a George e lui annuì. Li presi in mano e m’invase una strana sensazione, era come se attraverso il palmo irradiassero una leggerezza che mi penetrava e si diffondeva in tutto il corpo. Li strinsi e la testa cominciò a svuotarsi dai pensieri. Buttai i dadi e notai che non avevano i soliti segni, solo simboli rossi.

  • Si sceglie sempre fra due strade, ma il giorno dell’incontro bisogna decidere. Una è la strada che rotola verso la fine, quella che stai percorrendo a occhi chiusi, l’altra ti farà perdere il tempo, ti farà uscire dalla Ruota delle Cose e là ritroverai il tuo sorriso disperso nel vento. Sarai libero, distante e nulla avrà più valore perché tutto si dissolve, tranne quello che saprai trovare nella stanza nascosta.

George mise qualche banconota fra i dadi e fissò il vecchio, vidi una scintilla fra i loro sguardi, ma non riuscii a godermi l’attimo perché George era già ripartito. Mi ritrovai in sella alla Enfield con la testa annacquata che vagava fra i segni rossi dei dadi e il grigio degli occhi di quel vecchio.

Ma che ne sapeva lui della mia stanza nascosta?

Ci sedemmo in silenzio al bar 1911. Era sabato di un pomeriggio afoso. George mi fece un cenno interrogativo, ma io non avevo voglia di niente, non capivo dov’ero. Ordinò due tè.

  • George, dove sono la Enfield del nonno e il cappello di Corto Maltese?
  • In un magazzino a Varanasi.
  • È lontana da Delhi?
  • Dodici ore di moto, un’ora di volo.
  • Allora perché mi hai fatto venire qui e non a Varanasi se sapevi che domani ho il volo per Londra?
  • Se vuoi possiamo partire fra un’ora e tornare in tempo per il tuo volo di domani, ma avevo un’idea e quell’indovino me l’ha confermata.
  • Sentiamo anche questa.
  • La generosità e la giustizia di tuo nonno hanno cambiato la vita di molte persone, innescando una spirale positiva, è il karma della tua famiglia. Non ci s’incontra per caso, è tutto concatenato perché la casualità è nella natura del vivere. Tu vuoi continuare o buttare via tutto quello che hanno fatto tuo nonno e tuo fratello?
  • Mi fai ridere. Prova ad aggiungere qualcosa di più pratico e convincente…
  • Hai ascoltato le parole di quell’uomo? “L’altra ti farà perdere il tempo, ti farà uscire dalla Ruota delle Cose, ma troverai il sorriso disperso nel vento”. La mia proposta è questa: domani andiamo a Jaisalmer, ho un appuntamento che può essere importante anche per te. Laggiù sono iniziate tante cose della tua famiglia, ti farò trovare una Enfield e potrai girare quanto vuoi nel vento in cerca del tuo sorriso.

Probabilmente ero completamente rincretinito, oppure, a volte, scattano reazioni imprevedibili nei momenti in cui ci troviamo fuori dal nostro ambiente e non dobbiamo seguire per forza il solito modo di ragionare, si rompono gli schemi. Oppure mi ero talmente stancato dei miei ritmi londinesi che quella stranezza mi sembrava la strada più illogica e giusta per spaccare davvero qualcosa. Spaccare qualcosa è un sistema per sfogarsi, ne avevo bisogno. Insomma non ho alcuna idea del perché non gli scoppiai a ridere in faccia. Potevo capire se mi avesse proposto di andare a Varanasi a vedere quel vecchio trofeo. Invece no, mi voleva portare a Jaisalmer con lui. Ma che c’entravo io che avevo rifiutato ogni contatto e legame con la mia famiglia, con quel posto? Che c’entravo io col ritmo delle reincarnazioni, col karma? Legami, fili, tessuti, trame nascoste s’infilavano in quella barba bianca che mi faceva dimenticare la faccia dell’uomo che parlava. Quelle parole e quella situazione assurda venivano dalle nuvole e dalla confusione che avevo in testa. Poi entrò in gioco la mia logica razionale: avrei potuto spostare il volo di qualche giorno per divertirmi a immaginare cosa avrebbero fatto quelli che mi aspettavano a casa. Questo sarebbe stato l’aspetto divertente della situazione e poi, l’unica cosa che m’importava davvero era andarmene in giro in moto.

Da quanto tempo non tornavo ragazzino? Troppo.

  • Sai che ti dico, George?
  • Che verrai.

George, il vecchio saggio mi stava sulle scatole.

Il giorno dopo eravamo a Jaisalmer nella casa di un Maharaja trasformata in albergo. I tappeti coprivano ogni angolo del pavimento, stoffe preziose rivestivano le pareti. Le finestre si affacciavano sul nulla vibrante del deserto. Lampade antiche e candele contribuivano a far traballare i sensi anche all’interno delle stanze mentre i profumi di gelsomino e legno di sandalo stordivano quanto i Martini del giorno precedente.

L’appuntamento era in mezzo al deserto con una carovana di pastori Rabari che consegnarono a George montagne di scialli, stoffe, tappeti, tessuti ricamati. Fu così che scoprii che George era il fornitore principale di tutti gli importatori della mia ditta, che aveva continuato a girare come faceva mio nonno e passava lunghi mesi insieme agli artigiani persi nei deserti del Kutch, quella carovana veniva da laggiù. Dopo due ore eravamo seduti intorno al fuoco in un campo tendato, alcuni uomini cominciarono a suonare, nacchere, tamburi, sitar e una specie di libro che si apriva e chiudeva come una fisarmonica mentre un paio di ragazze iniziarono a ruotare come dervisci in una danza ipnotica e sensuale. La mia testa continuava a girare, ma ormai mi ero abituato a quello stato. Ridevamo e arrotolavamo pezzi di chapati caldo per intingerlo in curry piccanti e dal di lenticchie fumanti, poi la notte ammantò di freddo il deserto, ci salutammo stringendoci le mani come fanno gli amici che si capiscono e non vogliono aggiungere parole inutili e poi mi rannicchiai sotto le coperte ancora vestito.

Il giorno dopo tre grossi camion si portarono via i tessuti, ma da uno dei bestioni gli uomini scaricarono due Royal Enfield Bullet identiche, nere. Sorrisi come un ragazzino e George mi fece cenno di seguirlo. Sulla moto dopo tanto tempo mi sentivo impacciato, ma era splendida. La prima in basso le altre sopra, la vibrazione metallica stonata era un ruggito sommesso, la sella era larga e comoda come una poltrona. Lentamente mi abituai ed era magnifico filare nel deserto, libero, senza casco, nel vento caldo e secco. All’improvviso George s’inoltrò in un sentiero sterrato, sentivo le ruote slittare, avevo paura di cadere come un imbecille, invece accelerai e mi affiancai a lui. Due cavalieri solitari. Sorrise e allungò. Alzavamo due lunghe nuvole di polvere che rimanevano sospese nell’aria, mi guardai intorno e sentivo le note delle chitarre di Ry Cooder e di John Lee Hooker che mi attraversavano la testa e danzavano con i granelli di sabbia.

Ci fermammo su una collina da cui si poteva osservare l’immenso vuoto che ci circondava. C’erano una serie di altari e steli di pietra su cui erano scolpite figure umane. George indicò a oriente, il sole stava sbucando da una striscia di nuvole grigie, s’intravedeva una riga rossastra di mura crollate.

  • Quel villaggio distrutto si chiamava Kuldhara, dicono che adesso ci vivano i fantasmi. La popolazione che abitava là se ne andò all’improvviso, in una sola notte, abbandonarono anche altri villaggi soltanto perché qualcuno aveva tradito una promessa. La parola data è sacra da queste parti. La tua famiglia veniva da quel paese. La collina dove ci troviamo adesso era il luogo delle cremazioni, se vuoi sentire la polvere del tuo passato, prova a chiudere gli occhi e annusa il vento.

Era un posto strano, sentivo solitudine, un fascino desolato, ma nient’altro, anzi il vento mi diceva che avevo voglia di rimontare in sella, sentire il rombo della moto e andarmene lontano lasciandomi dietro una nuvola di polvere e una traccia sottile.

Anche il tono da guru di George mi aveva stancato, come tante altre cose. Volevo sparire. Mi lesse nel pensiero. Mi propose di andare a sud, solo, verso il Rann, i deserti di sale del Gujarat, verso le città della costa dov’era sbarcato Corto Maltese, Porbandar, Veraval, Diu, Bhavnagar e arrivare ad Ahmedabad, la capitale dei tessuti, la città dove s’era svolto il processo, dove mio nonno aveva la sua base commerciale. Da lì sarei potuto volare a Delhi e tornare al mio mondo.

  • Il modo migliore per viaggiare è perdersi, abbandonare vecchi schemi e fantasmi. Il modo migliore per dimenticare è andare lontano, anche dal tempo, riempire il proprio silenzio.

Bastava davvero. Risalimmo sulle moto.

  • Ma questo l’hai capito e hai voglia di seguire il tuo vento.
  • Come farò a ridarti la moto quando sarò stanco di perdermi?
  • Come ha fatto mio nonno con Corto Maltese, la lascerai al primo mercante di tessuti che trovi, ovunque tu sia.

Immaginavo quella risposta. Sorrisi, misi in moto la Enfield e puntai a sud.

Lo salutai come fanno i marinai, alzai una mano e non mi voltai indietro.

Avevo voglia di restare solo. Da troppo tempo non ci riuscivo. Non ricordavo un momento così carico di possibilità, guardavo la strada e avevo soltanto voglia di andare, senza pensare.

Ero sempre stato solo, ma c’era sempre qualcuno che aveva bisogno dei miei soldi. Mentre continuavo a puntare a sud pensai alla situazione, il mio bagaglio era rimasto all’Imperial, avevo portato con me uno zaino con un ricambio, il telefono, il caricatore, il passaporto, il portafoglio con 300 dollari, il corrispondente in Rupie di 200 dollari e la carta di credito. Sarebbe bastato, potevo andare ovunque. Dopo due ore la strada iniziò ad allargarsi, cominciò il caldo e aumentò la puzza degli scarichi e delle montagne d’immondizia sparse lungo i bordi d’asfalto e nei canali. Non c’erano regole, bisognava evitare le vacche che passeggiavano sulla corsia di sorpasso, le greggi di pecore che attraversavano, le macchine che s’infilavano fra camion scassati e ogni altro genere di veicolo fumante e quelli infine che percorrevano un tratto di strada contromano. Sulla corsia opposta mi capitò di vedere una nave, non trainata: era un camion che aveva la forma di una nave. Ormai mi aspettavo di tutto e non mi sorprendevo più. C’era solo una cosa che accomunava ogni veicolo: tutti suonavano in continuazione. Dopo altre tre ore il casino aumentò esponenzialmente, in maniera vorticosa: eravamo alla periferia di una città, non riuscivo a leggere i cartelli perché erano piccolissimi o coperti da pannelli pubblicitari. Dovevo fare benzina, avevo sete, dovevo andare al bagno. La pompa di benzina che scelsi era la base di sosta di almeno trenta grossi camion arrugginiti ma pieni di luci, colori, disegni e nastri appesi per scacciare chissà quale demonio. Non c’è bisogno che descriva i cessi, il cibo che mangiai e le camere dove mi trovai a dormire nei due giorni che ci misi ad arrivare a Bhuji. Laggiù trovai un albergo che un cartello pretenzioso definiva “Resort”. Entrare in una di quelle camere dozzinali ma pulite, sentire che esisteva un collegamento wi-fi, che avrei potuto pagare con la carta di credito e immaginare che avrei potuto anche cenare, fare una doccia e ricaricare il telefono mi sembrò un sogno. C’erano decine di chiamate ed email da tutti, non risposi e non aprii alcun messaggio. Avevo bisogno di tempo, dovevo ricaricarmi anch’io. Il manager dell’albergo era un uomo strano, una specie di sacerdote laico, un bramino, si chiamava Raj. Aprì una carta geografica e mi mostrò dov’eravamo. Ero circondato da deserti e lagune salate, mi propose di andare a vedere il Rann, nel punto in cui il deserto di sale s’incontra col mare. Partimmo il giorno dopo, all’alba, lui guidava la sua vecchia Honda Hero scassata. Lungo la strada il paesaggio diventava sempre più spoglio e a me succedeva la stessa cosa. La moto s’infilava nel vento ed io ero un albero a cui il vento staccava le foglie, una a una.

Una lucida mandria di bufali d’acqua attraversò la strada al galoppo e una nuvola di polvere ci avvolse. Rimasi a guardare la polvere, uno dei profumi dell’India che non dimenticherò. Rimase sospesa, come la mia vita.

Anche la polvere, non aveva voglia di continuare a volare, voleva godersi il distacco, come me.

Ci fermammo davanti a un vuoto orizzonte azzurro. Solo una linea sottile separava il cielo dal mare, il mio sguardo aveva voglia d’infilarsi proprio là in mezzo. Quella linea era un collegamento fra quello che vedevo e un passato sconosciuto che si voleva affacciare. Rimasi nel Resort per una settimana, avevo paura di abbandonare le comodità, di continuare sulla strada della polvere, del distacco, ma riuscivo a ignorare telefono, email, notizie. Parlavo a lungo con Raj, anzi era lui che parlava, io lo ascoltavo. Mi spiegò la condanna dell’anima a reincarnarsi di corpo in corpo nel ciclo infinito delle rinascite e che solo un buon karma determina la qualità della vita nel presente, ma influisce sul futuro per arrivare alla liberazione, al nirvana. Ripensai a mio nonno, a Mr. George e a quello che mi aveva detto il vecchio dagli occhi grigi nel mercato di Delhi.

Il Gujarat è una regione selvaggia, i turisti non ci arrivano, è scomoda, per legge non si può vendere alcool, la cucina è esclusivamente vegetariana. Io mangiavo poco, non bevevo, camminavo, e ogni giorno mi sentivo meglio. La pelle s’induriva nel sole e nel vento, la testa cominciava a girare in maniera diversa. Era tornata la voglia di andare. Pensai a certe frasi di Jack Kerouac che quand’ero studente m’erano sembrate senza senso, roba adatta a quel periodo di scema contestazione: “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare.” Ma che voleva dire? Se non hai una destinazione e un obiettivo preciso, non concludi niente nella vita.

Invece adesso capivo quanto fosse bello perdersi, perdere la strada, la velocità, e soprattutto il senso del tempo.

Non avevo mai avuto un pensiero o un atteggiamento religioso né spirituale, ma cominciavo a capire cosa fosse il dharma, l’insieme di atteggiamenti positivi che portano alla liberazione dal ciclo di vita e morte. Nello stesso tempo mi rendevo conto che sarebbe stato difficile togliermi la pesante corazza che m’ero cucito addosso da solo, i muri che m’ero costruito intorno. Ma volevo vedere il mare, ancora più a sud. Volevo immaginare il molo dov’era ancorato Corto Maltese prima d’essere arrestato. Non capivo il perché, ma dovevo andare a cercare quel profumo di libertà.

Salutai Raj e lui mi sfiorò con due dita la fronte, le mosse rapidamente di lato come volesse togliermi una macchia dalla pelle. Non disse una parola, fece un inchino e unì le mani davanti al petto in segno di saluto. Fine.

Non so quante volte rischiai di farmi agganciare dai paraurti dei camion o di sprofondare in buche non segnalate che tagliavano la strada in due. Quando il frastuono e la puzza delle strade principali mi faceva storcere la bocca per il disgusto deviavo verso le campagne e la pace. La mia Enfield col suo rombo mi regalava il sorriso che cercavo, non avevo fretta, non avevo appuntamenti. Imparai a conoscere i capricci della moto, ad assecondare le sbandate. Era una magnifica sensazione stringere fra le cosce quel serbatoio panciuto, sembrava di andare a cavallo. Era una compagna, eravamo una cosa sola. Muovevo i fianchi e la facevo scodinzolare come un cane felice. Certe volte mi mettevo a fischiare le canzoni di Johnny Cash, altre volte urlavo ritornelli stupidi inventando le parole. Un giorno stavo per finire in una pozza di fango solo perché volevo rifare sul serbatoio la rullata di batteria di Moby Dick dei Led Zeppelin con entrambe le mani. Moby Dick, Melville, un’altra storia di marinai, sentivo che dovevo raggiungere il mare e stavo diventando sempre più libero e sempre più scemo. Stavo cambiando o ritrovavo il ragazzino che avevo tradito e rinchiuso in quella stanza nascosta? Non mi fermavo più nei punti di sosta organizzati per i turisti, mi davano fastidio i pacchetti di biscotti allineati, le buste di patate fritte, le bibite fresche, i cessi puliti, le collanine e le statuette di Ganesh. Mi fermavo nei ristoranti dei camionisti, mangiavo lenticchie piccanti, chapati con patate e cipolle, bevevo tè masala e dormivo vestito, senza lavarmi. E stavo bene. M’indurivo e lasciavo sciogliere i pensieri nel vento. Mi fermai a Veraval, ma il porto puzzava di mare stantio, di pesce rancido e fogna. C’erano centinaia di pescherecci ancorati come grappoli di mosche ai moli luridi come latrine, lungo l’unica strada decine di cantieri costruivano barche o smontavano le assi marce di quelle rovesciate a pancia all’aria. Era un mondo di scheletri di legno protesi nel cielo e di naufraghi che si trascinavano nel fango o nel sole cocente. Ovunque c’era povertà, degrado, desolazione, eppure, carpentieri, marinai, pescatori, tutti seduti in cerchio all’ombra delle barche, mi sorridevano, mi parlavano in hindi e m’invitavano a mangiare con loro. Era la prima volta che accadeva, forse ero cambiato e se ne accorgevano. Anch’io ero diventato un naufrago come loro.

Mi tornò in mente il marinaio che mio nonno aveva aiutato ad essere libero, Corto Maltese, mi stava restituendo il favore regalandomi un percorso imprevisto fra memoria e libertà.

Bhavnagar, un’altra sosta in un albergo “civile” e un’officina specializzata in Bullet. Pezzi di motore ovunque, il pavimento coperto da uno strato di polvere e grasso, due uomini in maniche di camicia, le pance prominenti, gli occhiali appannati, ma dopo due giorni di cura la moto cantava senza battere in testa, le candele pulite, i freni tirati. Lasciai il sud verso Ahmedabad, mi servivano altre cinque o sei ore per completare quel viaggio ed ero confuso. Il motore girava regolare come un orologio, ma era più silenzioso di prima, un po’ triste, come me. Un cartello indicava l’inizio del Velavadar National Park. La civiltà degradata svaniva sostituita da una natura scarna, la strada tirava una linea dritta fra distese basse e piatte, deserti da un lato, saline candide dall’altro. In mezzo, mucchi di sale, capannoni scassati, carrelli elevatori, rulli dentati. Un po’ più avanti un fiume marrone si faceva strada nella grande pianura, intorno alle placide anse la terra era arsa e spaccata, il fango era incrostato come la pelle di un elefante. Linee e incroci di terra, d’acqua e sole. Accostai la moto. Non passava nessuno. Un raggio di sole colpì il marchio cromato e Bullet mi strizzò l’occhio, era contenta di quella sosta nel vuoto. Mi girai intorno e lo sguardo si perse. Oltre un ponte il fiume formava una bassa laguna, centinaia di fenicotteri la punteggiavano di macchie rosa, mi avvicinai, per la prima volta m’era venuta voglia di scattare una foto. I fenicotteri si allontanarono lenti, rimasi solo sul nastro d’asfalto che tagliava uno spazio deserto e pulito dell’India, del mio viaggio.

Passò un grosso camion, il solito clacson, mi ricoprì di polvere rossa. Infilai la chiave nella moto, ma mi bloccai e lo vidi arrivare. Era sbucato dal nulla. Un uomo in cammino. Scalzo, un bastone in mano, procedeva lento, l’andare senza tempo dei nomadi. Nell’altra mano teneva una sacca, c’era solo una coperta. Era vestito di bianco, lercio, le unghie lunghe, lo sguardo si perdeva in fondo alle cose, oltre le cose, dove gli altri non riescono a vedere. Eravamo di fronte, e non c’erano parole. Serviva quel viaggio, dovevo perdere la strada, il tempo. Quello sguardo era memoria. Gli occhi dell’uomo fenicottero mi trapassarono lasciandomi dentro lo sguardo di mio fratello. Avevo un appuntamento con lui.

Lo abbracciai e mi lasciò fare, esile, spariva fra le mie braccia. Avrei voluto dargli tutto quello che avevo, ma sarebbe stato inutile. Riprese il cammino, io rimasi lì.

Guardandolo scomparire all’orizzonte mi lasciai riempire dal vuoto.

Percorsi la stessa strada, nella medesima direzione, ma non lo vidi più.

Ad Ahmedabad mi fermai in un magnifico albergo, cento anni prima era stata la casa di un mercante di tessuti, su una parete era disegnato l’albero genealogico della famiglia, all’ultimo piano c’era un museo dei tessuti. Ripensai alla nostra famiglia: un albero dal tronco mozzato. Ero rimasto solo, i miei fili erano aggrovigliati ma quell’abbraccio aveva sciolto molti nodi e quella pista di ghiaccio che era stata la mia vita.

L’Adalaj Vav poco fuori dalla città, è un antico pozzo, dove bisogna scendere molti gradini: un capolavoro di colonne, piattaforme, scalini e pareti decorate. Lo fece costruire una donna, la moglie di un capo locale, per onorare gli dei del bene più grande, l’acqua. Quando arrivai là sotto, faceva fresco, l’acqua era di un bellissimo verde, ci si specchiavano pietre, archi e decorazioni. Mi fermai a guardare, seguivo un lento fluire di pensieri. Nel corso del viaggio l’acqua e la polvere mi avevano aiutato a sciogliere le certezze, a trovare la distanza.

E quel marinaio aveva innescato ogni cosa.

Non sapevo chi fosse Corto Maltese, eppure mi rendevo conto che un personaggio sconosciuto, quasi irreale, mi aveva aiutato a cambiare.

Chiamai George e ci trovammo a Varanasi.

Gli lasciai la vecchia Enfield modello 180. Era un capolavoro, conservata in maniera perfetta, adatta a chi sapeva scrivere una lettera come aveva fatto lui.

  • Tienila tu, George, un giorno faremo un giro nel deserto con lei, insieme ai nostri fantasmi.

Il cappello da marinaio lo portai con me perché rappresentava tutto il resto.

Passeggiammo lungo il Gange verso il luogo delle cremazioni, il sole stava calando e lo spettacolo era incredibile, c’erano decine di pire e i corpi ardevano in un’atmosfera di strana normalità, almeno per il vecchio Jamal. Il nuovo Jamal, grazie ai fantasmi del passato aveva capito quello che da sempre è chiaro agli indiani, che la morte è parte della vita e che certe persone arrivano da un luogo oltre il tempo per raccontarci che la realtà più vera è quella che si fonde con la memoria.

È da un po’ di tempo che giro l’India sulla mia Enfield fregandomene di tutto, dopo i deserti ho visto la pioggia rigare i templi rossi di Orchha, i fiori di loto ricoprire il lago di Khajuraho e la nebbia avvolgere i pellegrini che camminano scalzi per purificarsi nel Gange.

Cerchiamo la libertà come naufraghi persi in acquario appannato e continuiamo a vagare in cerca di un’uscita o di uno spiraglio di luce.

Ieri ho scritto una lettera a George tanto per non sparire del tutto, almeno con lui:

Salve George, stai tranquillo, io sto bene e ho imparato a cavarmela senza aiuto.

Mio fratello c’è riuscito, forse l’ho incontrato lungo la strada oppure ha mandato un suo amico a spiegarmi come fare per staccarmi dalla Ruota delle Cose. Un proverbio indiano mi ha fatto capire quello che serve: “Per la vacca malata, il corvo; per l’uomo malato, il bramino.” Forse ho incontrato un bramino, forse sto guarendo da solo. A volte dormo negli alberghi a cinque stelle, altre volte sotto alle stelle.

Non ho più intenzione di tornare a Londra a combinare affari per gli altri per poi arraffare la mia commissione. Un giorno forse tornerò, ma solo per pensare alla mia ditta di fili perduti.

Per il momento mi guardo intorno, ho imparato a pensare, ad aspettare, a digiunare. Rimarrò lontano per un po’. Loro ti cercheranno, vorranno notizie,

ma tu non dire niente, la mia famiglia e quelli che mi aspettano non moriranno certamente di fame e io potrò divertirmi a immaginare come faranno a cavarsela.

Comunque grazie per la storia di Corto Maltese e per la Enfield,

non li dimenticherò,

sono stati un passaporto per la libertà.

Certe cose adesso me le voglio godere,

dalla distanza.

Mi manca molta strada per il Nirvana e non so nemmeno se m’interessa.

Resterò in mezzo alla polvere del mondo,

ma avrò bisogno di tempo perché sono uscito dalla Ruota delle Cose.

 

Jamal

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Un’intervista

 

Viaggio nell’eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner

di Claudio Oreste Menafra

per “The Serendipity Periodical”

La continua ricerca di una suggestione che possa permetterci di entrare in un mondo diverso, toccare un’atmosfera in evoluzione, scendere nel profondo delle cose, Marco Steiner racconta Corto

In occasione della conferenza Gli orizzonti aperti di Hugo Pratt, tenutasi in Sapienza nell’edificio di Ex poste il 19 giugno scorso, la redazione di The Serendipity Periodical ha avuto la possibilità di rivolgere delle domande ad alcune delle personalità che si sono susseguite con i loro interventi durante il convegno; tra queste, la figura di Marco Steiner, un nome che già di per sé varrebbe un intero viaggio fatto di avventure, magia e terre remote emerse dall’immaginario, alla ricerca forse di una suggestione che irrompa bruscamente nella linearità del già costruito impostoci dal reale. Andiamo allora facendo rotta verso l’immaginario letterario di Steiner, ed andiamocene così, tanto per andare..

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

Quando Dio creò tutte le creature, chiese poi all’uomo di dare un nome ad ognuna di esse, oltre che a se stesso. Le immagini bibliche hanno da sempre suggerito il fatto che il nome sia un qualcosa di più di una semplice etichetta per denominare e facilitare l’identificazione di un qualcosa a qualcuno; il nome rappresenta l’identità e l’essenza degli esseri viventi. Lo stesso principio credo sia valido anche per lo pseudonimo di un autore, che ne anticipa, in un certo senso, la sua arte, si può dire lo stesso del tuo?

Il mio pseudonimo l’ha inventato Hugo Pratt quando abbiamo iniziato a parlare insieme di un mio sogno: iniziare a scrivere seriamente.

  • Hugo, ma posso scrivere storie di viaggio e avventura con il mio nome vero, Gianluigi Gasparini? Secondo me non funziona.
  • Forse bisognerebbe trovare uno pseudonimo.
  • Inventemolo
  • Quali sono i personaggi della letteratura a cui sei sempre stato legato?
  • Marlowe il detective di Raymond Chandler e Corto Maltese.
  • Ben, alora ti sarà Mar-Co da loro due.
  • E il tuo scrittore preferito?
  • John Steinbeck, su questo non ho dubbi, Hugo.
  • Alora, visto che ti xe furlan, ti saràSteiner, uno Steinbeck mitteleuropeo, così la gente non capisce se sei tedesco, svizzero, ebreo, italiano e poi   è breve, funzionerà…
  • In effetti in questo pseudonimo ci sono la mie due passioni letterarie, l’avventura e il noir americano.
Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese, Hugo Pratt

In quali circostanze hai conosciuto Pratt e in che modo successivamente ha contribuito alla tua produzione artistica?

L’ho conosciuto diventando per caso il suo dentista, abbiamo iniziato a parlare di viaggi, di musica, di cinema di tante altre cose meno che di denti. Poi scherzando mi chiese di fargli i denti d’acciaio come Squalo, un cattivo della serie dei film di 007 con James Bond, mi ha anche disegnato come avrebbe voluto che fosse il suo sorriso. Da quel momento ho iniziato a lasciare progressivamente il mio lavoro per diventare un suo “ragazzo di bottega”, andavo a cercare i libri che gli servivano, le carte geografiche, cercavo i colori giusti delle bandiere, dei gagliardetti, delle mostrine dei vari reparti militari, oppure le piante che crescevano in determinati territori, parlavamo di storie strampalate e di fatti reali. Poi ho iniziato a diventare il suo autista, nel frattempo ho visto centinaia di film con lui nelle più disparate lingue e agli orari più improbabili.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

Un giorno, mentre facevamo un lungo viaggio in macchina mi ha chiesto di collaborare con lui e così ho iniziato scrivendo un articolo giornalistico su una teoria che riguardava i continenti scomparsi di Atlantide, Mū e Lemuria, era la teoria del colonnello Churchward, poi dopo altro tempo mi ha fatto lavorare intensamente a un libro a cui teneva molto, “Avevo un appuntamento” delle Edizioni Socrates.  Pratt era appena rientrato da un lungo viaggio nel Pacifico alla ricerca dei suoi sogni giovanili a partire da un omaggio laico che aveva voluto rendere alla tomba di R. L. Stevenson ad Apia nelle Samoa. Facevamo lunghe passeggiate e lui mi raccontava le storie del veliero Yankee oppure mi parlava di “Pioggia” un romanzo di Somerset Maugham e di Emma Coe che aveva creato un suo impero nel Pacifico con il commercio della copra. Insomma mi raccontava i suoi sogni dei sui Mari del Sud e mi diceva di cercare e integrare quei ricordi con storie vere e immagini che sarebbero dovute scaturire da “tutte quelle isole che erano disseminate nell’Oceano come punti di sospensione messi lì solo per far immaginare e per continuare altre storie…” Queste furono le parole che innescarono la reale ricerca del sogno che avevo coltivato da sempre e quello fu il vero inizio di Marco Steiner scrittore.

Sono ormai passati anni sia dalla morte di Hugo Pratt, sia dalle ultime avventure esotiche di Corto Maltese; ma soprattutto è passato del tempo dalla pubblicazione di un romanzo prattiano rimasto incompiuto dal titolo Corte sconta detta Arcana; tu hai avuto il compito di terminare questo incompiuto prattiano; ecco vorrei entrare per un attimo nel tuo laboratorio di scrittore e capire in particolare cosa significa fare letteratura a partire da un tracciato diegetico-narrativo già iniziato e che tipo di ricadute ha sull’impegno intellettuale

La nostra collaborazione letteraria era iniziata già con la “Ballata del mare salato” nella versione romanzo edita da Einaudi. Questo può essere un buon inizio per parlare di questo argomento. Pratt mi fece notare che un romanzo non sarebbe potuto iniziare come nel fumetto con l’Oceano Pacifico che parla delle sue furie e di velieri distrutti e con il ritrovamento da parte di Rasputin sul suo catamarano figiani di un Corto Maltese barbuto e legato in croce su una zattera improvvisata.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Hugo Pratt, cortomaltese.com

In una delle nostre passeggiate mi guardò negli occhi come solo lui sapeva fare e mi domandò:

  • Cosa ti succede quando resti legato per ore e ore in mezzo al mare?
  • Sei disidratato, Hugo, le onde continuano a sbatterti addosso, hai la pelle incrostata, le labbra spaccate e gli occhi semichiusi per i cristalli di sale fra le ciglia.
  • Perfetto! Allora possiamo immaginare che attraverso i cristalli di sale, i riflessi del sole creino degli abbagli, delle allucinazioni e che quelle mettano in moto dei ricordi…
  • E poi aggiunse:
  • Potremmo immaginare che Corto in quel momento così vicino all’abbandono o forse alla morte, si riveda ragazzino, nella luce abbagliante della sua gioventù a Cordoba. Prova a pensare a una situazione del genere, buttami giù qualcosa.
Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corte sconta detta arcana, Einaudi

È così che ho iniziato a pensare e ad abbozzare il primo capitolo, poi abbiamo continuato insieme, serviva un contesto storico che spiegasse meglio i motivi della presenza di un sottomarino tedesco nelle lontane isole del Pacifico e così via. La stessa cosa e a maggior ragione, visto che Pratt non c’era più, è successa con Corte Sconta detta Arcana. Questa è una storia complessa e bisognava raccontare in maniera più approfondita certe situazioni storiche e delineare meglio personaggi del calibro del barone Roman von Ungern-Sternberg il comandante della Cavalleria Selvaggia. Sapevo bene dove trovare i libri di Ossendorwski come “Uomini, Bestie e dei” oppure quelli di Joseph Kessel e di tanti altri. Serve tanta ricerca, sempre, sia nel disegno che nella descrizione letteraria. Le fonti originali sono fondamentali per l’ossatura portante della storia. “Divertirsi seriamente” è l’insegnamento fondamentale che mi ha regalato Hugo Pratt.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

In una pagina a fumetti Pratt disegnava una carica di cavalleria dove i movimenti dei cavalli, le armi dei cavalieri, i simboli delle bandiere, il terreno dove avveniva lo scontro erano illustrati con tecnica perfetta e con precisione di dettagli, nella stessa situazione raccontata in un romanzo, non si può descrivere e far sentire alla stessa maniera il movimento, ma ci saranno i rumori, gli odori del sudore dei cavalli, della terra, del fango o della neve alzata dagli zoccoli e poi le grida e il clangore del metallo delle spade e le esplosioni dei colpi di fucile. Scrivere e disegnare sono due mondi bellissimi che hanno tempi diversi, la lettura di una pagina disegnata Pratt riempie lo sguardo con un colpo d’occhio fulminante, quella di una pagina scritta e tratta dalla stessa situazione ha bisogno di un progressivo ingresso in quell’atmosfera, le parole dovrebbero lentamente riempire l’immaginazione.

È una piccola grande magia, è una tecnica diversa, a volte è possibile.

È curioso come tutti i tuoi romanzi abbiano come protagonista la giovinezza di Corto Maltese; di solito si preferisce continuare le storie già iniziate: a nessuno verrebbe mai in mente l’idea di scrivere sulla Bildung di Ulisse, mentre molti sono stati quelli che hanno immaginato una possibile prosecuzione delle sue avventure dopo il suo rientro ad Itaca. Nulla ti avrebbe vietato, nel nostro caso, di esplorare le vicende di Corto dopo l’ufficiale uscita di scena avvenuta intorno al 1926-27. Come mai questa decisione?

Dopo aver conosciuto abbastanza a lungo Hugo Pratt e il suo metodo di creazione delle storie, dopo aver tanto viaggiato sugli Itinerari di Corto Maltese, un personaggio che non esiste nella realtà, e aver cercato in giro per il mondo suggestioni del suo non-passaggio cento anni dopo, mi sembrava banale e non corretto “continuare” le sue storie. Hugo Pratt mi aveva sempre stimolato a “inventare” qualcosa di nuovo. Ha iniziato inventando con il mio nome, poi mi ha concesso di collaborare al suo fianco, in pratica mi ha invitato nel grande immaginario avventuroso che aveva sempre fatto parte del mio carattere, a quel punto, anche se più impegnativo e rischioso, sarebbe stato molto più stimolante e rispettoso provare a immaginare una giovinezza di Corto Maltese prima che diventasse il personaggio che Hugo Pratt ci ha fatto conoscere. Questo è stato il senso della mia grande avventura lungo gli itinerari di Corto. In fondo avevo iniziato immaginando insieme al mio Maestro il primo capitolo della Ballata con quel ragazzino che vaga nei vicoli assolati di Cordoba fra il profumo delle arance e quello dei gerani, mentre insegue una musica di flamenco intensa e malinconica.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
La ballata del mare salato, Hugo Pratt

Forse Pratt mi ha aiutato a entrare nella mente di quel ragazzino, era naturale continuare da quel momento. Sapevo da Hugo Pratt che il padre di Corto era un marinaio della Cornovaglia e che sua madre era una gitana andalusa amante di oroscopi e tarocchi, a quel punto ho provato a immaginare chi potessero essere gli amici da incontrare lungo la strada, mi serviva un marinaio esperto che gli insegnasse a navigare ed è nato il comandante Robart Kee e poi ho cercato di immaginare una serie di situazioni che iniziassero a forgiare il suo carattere. In fondo non mi sembrava corretto navigare nella stessa barca di Corto Maltese, sarebbe stato bellissimo viaggiare in vista del suo veliero e magari incontrarlo in qualche porto per parlare di tesori, di avventure o per restare insieme in silenzio a gustare un buon rum. È un buon amico Corto Maltese, ma ha bisogno di spazio.

Per scrivere i tuoi romanzi sulla gioventù di Corto hai dovuto viaggiare molto, ripercorrendo fisicamente gli itinerari ed i luoghi reali attraversati da un personaggio immaginario a distanza di quasi cent’anni dal suo fittizio passaggio; il connubio tra realtà ed immaginazione diventa quasi uno strumento propedeutico alla scrittura? Il viaggio mentale, da solo, non è sufficiente allora?

I miei viaggi nei luoghi reali delle avventure immaginarie di Corto Maltese mi hanno dato modo di seguire una specie di scia, solo dopo aver attraversato la Manciuria e la Mongolia si riesce a descrivere l’odore del vento e il colore della polvere di quelle piste; nella stessa maniera sarebbe difficile descrivere il rumore dei passi nelle notti veneziane senza aver vagabondato fino all’alba nelle zone più solitarie e meno frequentate dell’Arsenale o del Ghetto. Molte cose si possono immaginare, molte altre si possono ritrovare navigando in rete, ma seguire una storia prattiana nei luoghi dove si è svolta “realmente” aggiunge particolari e amplia un universo e consente, a volte, di entrare in un vero “straniamento”, un qualcosa che porta a vivere in maniera quasi reale le atmosfere disegnate o acquarellate. Ho provato a viaggiare in cerca del ricordo di qualcuno che non è mai esistito se non nella fantasia di un grande artista e queste derive, questi vagabondaggi non hanno solo formato la mia scrittura, ma anche il mio modo di vedere le cose. Lungo la strada, il viaggio mentale può intraprendere direzioni difficili da immaginare, è come entrare e vivere in un miraggio, i passi sono più leggeri e i profumi più intensi.

Hai spesso fatto riferimento, durante il tuo intervento alla conferenza Gli Orizzonti aperti di Hugo Pratt, alla letteratura prattiana come tentativo di produrre uno sradicamento del lettore dalla propria comfort zone culturale (to be uprooted); una letteratura che se ben accolta produce un distacco traumatico dal proprio mondo di preconcetti ed aspettative per incontrare il nuovo e l’inaspettato. Credi sia questo il compito costante della letteratura, cioè rinnovare le nostre sovrastrutture culturali? Aiutarci a dare sempre nuove prospettive ad un mondo storicamente pre-costruito?

La letteratura che amo è quella che racconta qualcosa che non conosco, quella che tende a superare la descrizione oggettiva. Non ho mai amato la letteratura d’intrattenimento, anche quella realizzata nella maniera migliore, ho sempre amato il fantastico e l’avventura perché racconta, come dice la parola stessa, l’advenirecioè quel qualcosa che non è ancora accaduto. Amo i viaggi non preorganizzati, quelli che non hanno una destinazione precisa perché consentono la scoperta, nella letteratura seguo lo stesso principio, penso a una storia possibile e poi inizio senza impostare rigidi cardini allo sviluppo della storia, quello che provo a immaginare subito è invece un buon finale. Il compito della letteratura credo sia quello di stimolare l’immaginazione, di scuotere dal torpore, di istigare alla curiosità, di sorprendere oppure di infilare il dito nella piaga delle problematiche di questo nostro mondo come fa “La strada” di Cormac McCarthy. Non ho mai amato i libri “carini”, i libri da spiaggia, i libri che una volta letti finiscono in uno scaffale e si dimenticano per sempre. Mi piacciono i libri da rileggere una seconda o una terza volta, non iniziando dall’inizio alla fine, ma leggendo a caso, per pescare qualcosa nel flusso delle parole. Ho un debito nei confronti di tutti quegli scrittori che hanno aperto il mio immaginario cambiandomi la vita, per questo cerco modestamente di restituire qualcosa.

Nell’economia di una storia, qual è il senso di proporsi un obiettivo, un telosdi ricerca anche se fittizio ed in fondo scarsamente rilevante? Il fantomatico tesoro, sempre anelato ma mai raggiunto, nelle vicende di Corto, è una semplice molla diegetica che produce intreccio oppure è indice di una condizione umana, quella di dove innestare per forza un orizzonte di senso nel vagabondare senza senso della vita?

Il senso è quello di partire e di muoversi, fisicamente, ma soprattutto intellettualmente, di non arenarsi in un porto sicuro e stantio, ma questo non vuol dire vagabondare senza senso, anzi al contrario, vagabondare serve a cercare un senso. L’inquietudine porta alla ricerca e la curiosità arriva nel corso del viaggio con gli incontri. Il “tesoro” potrebbe essere proprio il desiderio di non fermarsi per continuare a cercare.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese

In più battute hai definito Corto come un apritore di porte, che è in grado di generare incessantemente nuovi percorsi a partire da quelli già noti; è forse questa la grandezza di quei personaggi letterari che fanno ormai parte del nostro pantheon immaginario? La loro costante disponibilità ad imbarcarsi in sempre nuove storie; Ulisse ormai giunto nella sua comfort zone di Itaca è una sconfitta per la letteratura?

Il ritorno non è una sconfitta, ma l’inquietudine del viaggio e le derive necessarie per una vera ricerca, che non sia la spasmodica tensione al raggiungimento di un luogo o di un limite, sono la condizione necessaria per la vera libertà di movimento e questo deriva da un desiderio fisico e mentale, ma anche da una sorta di tentativo di percezione ulteriore: di fronte a due strade qual è il motivo che ci spinge a sceglierne una? Probabilmente non c’è, ma a volte capita che il superamento di un ostacolo o di un imprevisto casuale ci guidi verso qualcosa che non stavamo cercando e che diventa il vero “regalo del viaggio”, un incontro, un paesaggio, una luce, una musica, un qualcosa che non avremmo mai trovato lungo l’itinerario tranquillo e pianificato. Credo molto nelle sincronicità, negli appuntamenti apparentemente casuali. Un certo tipo di letteratura, un certo tipo di personaggi riescono a trasportarci fra le righe verso un piacevole e inatteso incanto. Posso dire senz’altro che viaggiando alla ricerca di Corto ho imparato a viaggiare non solo con le gambe ma anche con l’immaginazione ed è tutto un altro viaggiare. Corto Maltese, un archetipo dell’avventura, mi ha portato in un certo modo alla poesia e alla filosofia, forse il senso dell’evoluzione dell’intera opera di Pratt sta tutto in questa estrema sintesi: dalla Ballata e dalle storie caraibiche fino a Mū, c’è un lungo percorso di sottrazione progressiva. Dopo le ballate nell’oceano pacifico, oltre le sabbie di Samarcanda e la neve di Siberia e Manciuria, dopo il tango e i concerti per arpa e nitroglicerina si arriva alla musica del silenzio di Mū, il pianeta perduto e il disegno e i testi delle storie diventano progressivamente sempre più rarefatti.

Nel tuo recente progetto Itinerari di Viaggio, accompagnato dall’obiettivo scrutatore di Marco D’anna, hai cercato ancora una volta, come nel fumetto di Pratt, la contaminazione reciproca tra supporto visivo e scrittura; come interagiscono tra di loro nella narrazione immagini e parole, percezione e memoria?

Ho sempre letto storie che mi hanno aperto l’immaginazione e amato la fotografia e il cinema che mi hanno regalato suggestioni, sogni, emozioni profonde o sorrisi. Leggere, guardare, viaggiare e allo stesso tempo pensare e collegare quel determinato momento con altre situazioni legate alla memoria o alla fantasia è come entrare in un mondo diverso, toccare un’atmosfera in evoluzione, scendere nel profondo delle cose. Viaggiare con un fotografo regala la modulazione del tempo: una determinata immagine ha bisogno di una ricerca che vuol dire attesa, per un cambio di luce, un gioco di regolazione fra la velocità nel focalizzare l’attenzione su un determinato soggetto oppure la grande apertura del diaframma per dare spazio a tutto il paesaggio. Sfuocare o centrare, cogliere l’attimo o descrivere la scena, o ancora, regalare una suggestione impalpabile?

Le nuvole di un temporale portano un cambio di luce nell’immagine che stiamo vedendo, la pioggia probabilmente ci bagnerà o ci bloccherà nel fango o in un luogo protetto, ma dopo la pioggia, dopo quel cambio di luce arriverà il profumo dell’erba bagnata e quello della terra e i rumori saranno diversi. Quello che stiamo vedendo cambia continuamente, il restare fermi in attesa della fine di un temporale ci consente di vagare mentalmente pensando a qualcosa: ricordare una scena di “Rain” di Somerset Maughan o una sequenza del film con Rita Hayworth, oppure ci ritorna in mente quel lontano acquazzone che ci ha inzuppati in una città sconosciuta abbracciati a qualcuno che avevamo quasi dimenticato. Viaggiare seguendo una storia di Corto ci costringe a cercare qualcosa che non esiste, ma ci obbliga a tendere lo sguardo e l’attenzione per superare quel labile confine che c’è fra la vista e la visione, fra l’osservazione e l’immaginazione, oscillare fra presente, sogno e memoria.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner e Riccardo Capoferro

In fondo questo tipo di atteggiamento è un ulteriore prolungamento del viaggio: il movimento fisico ci ha condotti in un luogo, il movimento mentale ci aiuterà a superare i confini del tempo e dello spazio portandoci in una dimensione diversa, una dimensione perfetta per raccontare e inventare oppure per fare come fa certe volte Corto Maltese, fermarci in una veranda a guardare il mare per gustare semplicemente il nulla o i racconti del vento fra le palme.

Se dovessi tracciare una costellazione di autori che maggiormente ti hanno influenzato e continuano ad aprire porte nella tua scrittura, quali citeresti?

Inizio con Emilio Salgari e con Stevenson perché sono loro che hanno aperto per primi il mio immaginario, Jack London mi ha fatto iniziare i viaggi mentali con uno dei miei libri preferiti “Il vagabondo delle stelle”, Conrad mi ha portato nelle zone di confine fra luce e ombra con “Cuore di Tenebra”, poi sono arrivati i sudamericani: Coloane, Soriano, Arlt e Borges. Ho già parlato del mondo dei vagabondi di John Steinbeck e dell’asciutta ironia di Raymond Chandler, ma poi ci vuole anche la potenza di Melville e il fantastico di E. A. Poe (un altro dei miei libri in cima alla lista è il suo “Le avventure di Gordon Pym”) e poi c’è altra grande letteratura e grande scrittura da Paul Auster a Saramago, da Simenon a J.C. Izzo e Leo Malet. Sicuramente i libri di Bruce Chatwin mi hanno spinto al viaggio e “La lunga rotta” di Moitessier mi ha spinto ad amare il mare e la vela intesa come una “Lunga rotta” esistenziale. Sto dimenticando sicuramente molti altri pilastri, ma non posso non nominare un piccolo libro perfetto di Haniel Long, “La meravigliosa avventura di Cabeza de Vaca”, lì c’è tutto.

Hai spesso avvicinato le avventure di Corto al genere letterario del Realismo Magico; cos’è che avvicina questi due mondi? Si tratta in tutti e due i casi di narrazioniatopiche, in grado cioè di spaesare e perturbare la regolarità simmetrica del reale attraverso l’inaspettato? È forse questa la cifra del nostro ‘900 letterario, intendo la sovrapposizione dell’assurdo nel convenzionale?

Mi piacciono molto le narrazioni atopiche, mi piace Calvino, Cortázar, Borges, Buzzati, Süskind, mi piacciono le sorprese, mi piace chi non scrive le solite storie, chi non segue i corsi di scrittura creativa, chi rischia inventando qualcosa senza seguire schemi usurati e ripetitivi, chi incita al sogno, chi non vuole inventare un ennesimo detective o commissario dal fiuto infallibile, mi piacciono dischi come “Atom Hearth Mother” dei Pink Floyd e l’assolo di batteria infinito di “Moby Dick” dei Led Zeppelin. Mi piace Leopardi che immagina l’Infinito dietro a una siepe e i film di Iñárritu, mi piace la chitarra di Ry Cooder con le sue note che vogliono perdersi verso un fantomatico “Paris Texas” senza curarsi se si perderanno in un deserto. Ma non voglio dare una risposta dotta a questa domanda e allora faccio un esempio:

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese

Un giorno a Buenos Aires vicino a una stazione ferroviaria periferica ho visto un gruppo di ragazzi che stavano per iniziare a suonare, erano giovani, piuttosto stravaganti, pieni di anelli, tatuaggi, capelli rasta, dread, borchie, braccialetti di pelle e catene. Mi sono seduto in disparte e ho aspettato il primo pezzo, è uscito fuori un sorprendente “The days of wine and roses” un vecchio e romantico brano scritto da Harry Mancini negli anni ’60 e suonato da molti grandi autori fra i quali Dexter Gordon a cui s’ispirava sicuramente il bravissimo sassofonista, sono rimasto ad ascoltarli incantato. Poi sono salito sul treno, che fra l’altro era il Tren de la Costaquello che prendeva Hugo Pratt per andare a San Isidro dove viveva e giocava a rugby (fra l’altro il treno che passa anche per una stazione che si chiama Borges), e su quel treno c’era un venditore ambulante che non vendeva merendine, biglietti delle lotteria, penne o giocattoli inutili, no, lui vendeva lenti d’ingrandimento di vetro “per vedere meglio la vita”, diceva proprio così. Questo per me è incontrare qualcosa di diverso, qualcosa che “spaesa” e fa guardare le cose con occhi diversi e un mezzo sorriso sulla bocca, qualcosa che porta lontano, dove?

Verso il mondo della pura fantasia.

Per concludere, ad un narratore credo che la miglior richiesta che si possa fare, rispettando in pieno la sua natura, sia quella di farsi narrare un qualcosa di nuovo; hai qualche aneddoto in particolare che vorresti narrarci, magari dei tuoi viaggi sugli itinerari di Corto?

Hugo Pratt ha disegnato un ponte, un bellissimo piccolo ponte di pietre e ha anche specificato dov’era: Sligo, the musical bridge, in Bellacorick Cross Molina.

E poi ha aggiunto che quel ponte portava in un mondo magico e bellissimo.

Era un esplicito invito a cercare.

Di solito con Marco D’Anna non abbiamo mai cercato i veri luoghi disegnati nelle storie di Corto; lui con le foto, io con i miei testi cercavamo sempre la suggestione, mai la documentazione precisa, ma in questo caso la curiosità era troppo forte.

Non è difficile andare in Irlanda e trovare la tomba di Yeats, l’isola di Innisfree, le colline di Tara e Newgrange, ma non è facile trovare il ponte musicale di Sligo disegnato da Pratt.

Alla fine ce l’abbiamo fatta.

Il ponte è sulla strada che da Bellacorick va verso Bangor e attraversa il fiume Owenmore.

C’era molto vento quel giorno, abbiamo camminato, da una parte e dall’altra del ponte, abbiamo superato un filo spinato per guardarlo dal basso, per sentire qualcosa, un rumore, un suono speciale, ma niente. Si sentiva il sibilo del vento che spirava fra le quattro campate, lo sbattere dell’acqua fra sassi e pilastri scuri, lo stormire dei rami dei pini sulla fiancata del ponte…insomma, c’erano solo rumori, suoni, fascino, ma non si poteva certo definirla musica, perché allora quel nome: “The Musical Bridge”?

Ce ne siamo andati per guardare dalla distanza, per cercare un’angolazione diversa, per vedere un’altra immagine e in quel momento abbiamo visto una ragazza che passeggiava sul ponte, sembrava arrivata dal nulla. Andava e veniva. Da una parte e dall’altra. Aveva il passo di chi cerca qualcosa. Ci siamo avvicinati. Non volevamo disturbarla, ma alla fine ho chiesto se sapeva qualcosa di quel ponte.

  • Perché lo chiedi proprio a me?
  • Perché sei una ragazza irlandese. – Azzardai, ma la sentivo distante, a disagio.
  • Io vivo a Londra.

Aveva una faccia davvero irlandese: ricci rossicci e ribelli sbucavano dalla lana marrone del suo berretto, lentiggini e fessure sospettose nascondevano i guizzi azzurri dei suoi occhi da gatta.

  • Ti chiedevo soltanto se sapessi qualche storia legata al ponte…
  • Siamo venuti solo per sapere perché si chiama Musical Bridge, non ti volevamo disturbare, scusa.

E lei sorride.

  • Dicono che se si fa scorrere una pietra sul parapetto camminando velocemente il ponte emette note musicali e diventa come una specie di xilofono.
  • Ricambiamo il sorriso.
  • Lo potresti fare per noi?
  • E’ una proposta strana…chissà cosa penserà mia nonna.
  • Indica una piccola macchina verde seminascosta dietro a un cespuglio.
  • È là in macchina.
  • Noi restiamo a distanza, facciamo solo una foto e ascoltiamo il suono.

Lei si convince e parte.

E’ stato incredibile.

Quella sconosciuta banshee irlandese imbacuccata nel suo piumino azzurro, camminava spedita, faceva scorrere una pietra piatta lungo il parapetto irregolare del ponte e, invece di stridere, le pietre sprigionavano una magica e inattesa melodia di campanelle che veniva da uno strano mondo fatto di fiabe e leggende.

Ci vuole pazienza per trovare quel mondo, ci vuole curiosità, costanza e spesso, una guida, apparentemente casuale. Chissà cosa avrà detto la ragazza irlandese alla nonna rimasta in macchina? Forse era proprio la nonna la fata che un tempo aveva svelato quel segreto a lei, e adesso si stavano facendo un viaggio in macchina nel mondo dei loro ricordi regalando anche a noi un granello di quella magia. Ci sono due sassi sul parapetto, uno più piatto, l’altro più grosso e pesante. Stanno lì ad aspettare chi conosce quel trucco. Il ponte suona davvero e noi stavamo per desistere e accontentarci della risposta più banale e scontata, quella del vento.

Inseguire le note correndo è una sensazione di pura felicità. È un gioco inatteso, è la liberazione di una gioia pura e semplice, quasi antica. È come quando da bambini ci si sdraiava a terra e s’iniziava a rotolare scendendo da un pendio d’erba a braccia incrociate gridando di gioia. Il parapetto del ponte ha una lunga striscia consumata. Molta gente conosce quel suono, molta gente ha ancora voglia di giocare in Irlanda. Quel disegno di Pratt non racconta solamente quel ponte, è anche un ponte fra realtà e fantasia, leggende, cultura e immagini cinematografiche.

E non solo quel ponte.

Intervista di

Claudio O. Menafra

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Miraggi di memoria

Miraggi di memoria

Molto tempo fa ho incontrato per caso Hugo Pratt, ho conosciuto prima lui e poi Corto Maltese, il suo personaggio più famoso.

Ho avuto la fortuna di imparare da lui, perfino di collaborare con lui.

Non sapevo niente di fumetti e questa, forse, è stata la chiave giusta, parlavamo di storie da raccontare, ma intorno alle storie c’erano sempre i suoi disegni, gli acquarelli, le strisce, gli story-board, riuscivo a vederle meglio quelle storie.

Poi un giorno Hugo Pratt se n’è andato non so dove e sono rimasto in silenzio, ho aspettato, ho ascoltato e assaporato lo scorrere del tempo.

Dopo un po’ ho iniziato a viaggiare con un fotografo, un grande Amico, Marco D’Anna, il miglior compagno di viaggio. Cercavamo storie da raccontare lungo gli Itinerari delle Avventure di Corto Maltese. Lui fotografava, s’intrufolava negli ambienti, aspettava la luce giusta e io mi guardavo intorno, cercavo spunti, volti e scrivevo racconti, ma grazie alle sue fotografie le vedevo meglio quelle storie, le sentivo crescere lungo la strada.

Alcuni anni fa ho iniziato a scrivere romanzi, Corto c’era, ma era volutamente un riflesso del Corto Maltese di Hugo Pratt, volevo inventare qualcosa di personale, qualcosa che avevo imparato da lui: non inseguire ma tenere la distanza, percorrere i sentieri meno battuti, rovistare fra fatti e personaggi secondari, soffermarmi sugli incontri casuali e così ho provato a raccontare l’avventura di un Corto Maltese giovanissimo, un ragazzino al suo primo imbarco che naviga dalla Scozia alla Sicilia.

Il Corvo di Pietra, pubblicato da Sellerio è nato così.

E mentre rileggevo il manoscritto appena terminato pensavo ai disegni che avrebbe potuto realizzare Hugo Pratt e allora mi sono buttato, ho chiesto a uno degli artisti che apprezzavo di più se aveva voglia di immaginare qualcosa per farmi vedere meglio la storia e Sergio Toppi ha dedicato al Corvo alcune splendide illustrazioni, è stato un immenso onore.

Poi è arrivato Oltremare, pubblicato ancora da Sellerio, e ho vissuto un’altra grande e sorprendente gioia, vincere il Premio Emilio Salgari di Letteratura Avventurosa nel 2016.

È stato proprio Emilio Salgari lo scrittore che da ragazzo mi ha aperto la porta al mondo dell’Avventura e del Viaggio.

Nella stessa occasione ho ricevuto un altro premio molto prezioso, un premio che non potrò dimenticare perché me lo hanno attribuito i detenuti della Casa Circondariale di Montorio in provincia di Verona.

Sono stati incontri intensi, ma la motivazione al premio che hanno scritto i ragazzi e le ragazze recluse è pura poesia:

“Le pagine di Oltremare per un po’ ci hanno fatto viaggiare, ci hanno fatto assaporare il sapore della libertà, siamo andati oltre i muri e le sbarre”.

 

 

 

 

 

Adesso arriva Miraggi di Memoria edito da Nuages.

Cristina Taverna, la storica gallerista di Hugo Pratt e di tanti grandi illustratori non solo italiani ha proposto a José Munoz di realizzare le sue illustrazioni per i miei 6 racconti.

Allora certe volte i sogni possono continuare.

Scrivere storie e poi ritrovarle nei disegni, acquarelli, fotografie, nei sogni degli altri significa vederle vivere in maniera diversa, attraverso altri occhi.

È un dono bellissimo, le parole viaggiano verso destinazioni impreviste. È come vivere in un incanto.

Siamo fatti di Memorie e di Sogni, le Memorie sono le nostre radici, ci fanno resistere al vento che ci vorrebbe strappare via o buttare a terra, i Sogni sono il nostro desiderio di andare, continuare, d’inventare qualcosa di nuovo per vivere davvero, sono i nostri rami che si protendono, sono le foglie che cercano un profumo nuovo, nel vento.

Quella che segue è la Sinossi di Miraggi di Memoria, nel libro ci sono 6 racconti nei quali la figura di Corto Maltese diventa un miraggio sempre più indistinto, però con José abbiamo navigato nel suo stesso mare e, forse, l’abbiamo incontrato.

Miraggi di Memoria

Corto Maltese è un eroe che non ha mai voluto essere un eroe ma soltanto un viaggiatore, questi racconti sono nati in viaggio lungo gli itinerari vagabondi di Corto.

Hugo Pratt, in tutte le sue storie ha lasciato piste, segnali da seguire, personaggi da sviluppare, luoghi e tesori da inventare per continuare a cercare perché il valore principale di Corto Maltese è proprio l’invito al viaggio, fisico e mentale.

Queste storie vogliono essere un omaggio ai valori di curiosità, fantasia e libertà che mi ha trasmesso Hugo Pratt.

Corto non è mai stato un fine, ma sempre un tramite verso qualcosa di diverso.

Una veranda su un’isola caraibica può essere il punto di partenza per un viaggio alla ricerca della musica e della sofferenza che si respirano fra le piantagioni di canna da zucchero o nei desolati porti dell’oriente cubano.

Le vette dei vulcani sudamericani, le isole perse nell’Oceano e lo sguardo dei Moai ci spingono a ricercare mappe e tracce dei mondi perduti di Atlantide e Mū.

Le frastagliate coste scozzesi sono l’ambiente adatto per provare a immaginare una storia che profumi di whisky, erica, muschio e nebbia come nei racconti di Stevenson.

Le storie di Corto Maltese non sono soltanto avventure, sono inviti a superare le apparenze.

Quando Hugo Pratt disegnava ho visto bellissime visioni scaturire dai suoi acquarelli, sembrava di guardare attraverso un cristallo magico.

Ho provato a raccontare quello che c’è oltre le immagini, ho provato a incamminarmi lungo itinerari fantastici che partivano dalle sue avventure o da percorsi reali, perché Corto è un invito a viaggiare liberi e leggeri oltre il tempo e lo spazio.

In un tango argentino c’è una frase che dice: “Oggi entrerai nel mio passato”.

Ci sono tre tempi in queste poche parole, il presente, il passato e il futuro.

I “Miraggi di memoria” sono questo: emozioni, visioni e ricordi lungo una strada vagabonda.

Chi meglio di José Muñoz poteva camminare lungo queste strade polverose o navigare fra queste liquide, ipnotiche rotte?

Ci voleva il suo realismo magico, i suoi vuoti e pieni, il jazz dei suoi segni neri, la musica dei suoi silenzi per raccontare un altro Tango nel cortile di un gommista di San Isidro, per seguire il viaggio di un gruppo di cacciatori di balene che incrociano un giovane Corto Maltese, per farci sentire il suono lontano di un tamburo africano o il profumo speziato delle ballerine caraibiche.

Non c’è un tempo preciso in queste storie, ci sono atmosfere, assenze, deviazioni, cambi di rotta per raccontare ancora una volta quel mondo di avventure che Corto ci invita sempre a ricercare.

Marco Steiner

ottobre 2018

 

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Hy Brasil, l’isola inghiottita dalle mappe.

Hy Brasil, l’isola inghiottita dalle mappe.

Clifden, Connemara.

Il posto migliore per cominciare a girare nel Connemara, che in Irish significa “Insenatura del mare” è Clifden, la base di uno spettacolare circuito di 12 chilometri che viene chiamato non a caso “The sky road” (La strada del cielo) per un motivo semplicissimo, sembra davvero di volare a metà strada fra la terra e il Paradiso e non si capisce bene se sia la terra che cerca con mille dita d’allungarsi nel mare, oppure se sia proprio l’Oceano a cercare d’infilarsi per far riposare le onde in qualche anfratto fra il calcare e i prati.

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