Appuntamenti quasi impossibili
articolo comparso su Linus, luglio 2016
Il primo viaggio è iniziato all’improvviso, un fulmine in una giornata di sole. Ero vicino all’acqua e nelle zone liquide molte cose possono partire, specialmente i percorsi mentali. C’era un lago svizzero e Hugo Pratt appena rientrato dal più grande dei mari, il Pacifico. Voleva realizzare un libro di memorie e visioni. Testi, foto e acquarelli, aveva già il titolo giusto: Avevo un appuntamento.
– Voglio parlare di Stevenson, dello Yankee, un veliero arenato a Rarotonga, di Rain il libro di Somerset Maughan e dei film che ne hanno tratto, di Emma Coe, la regina dei mari del Sud, di pirati gentiluomini. Voglio raccontare la mia Isola del tesoro. Io disegnerò, le storie le scriverai tu, ti darò alcune tracce, il resto lo trovi o lo inventi.
Entrare nei sogni di un’altra persona, specialmente se si chiama Hugo Pratt, percorrere strade e acque in cerca di appuntamenti quasi impossibili, significa trasformare quel viaggio in un’avventura da vivere. Mi piace la parola “quasi” perché dentro c’è una sottile possibilità, un percorso non lineare, da immaginare, improvvisando rotte lontane da quelle tracciate. Hugo mi mise in mano un coltellino da tasca, uno di quelli che si piegano e servono per sbucciare le mele o affettare il salame. Manico di legno e lama affilata, semplice. Acuto e morbido nello stesso tempo.
– Prendi questo, quando non sai come aprire una porta, lavora di punta. Se non si apre e non sai come fare stringilo nel pugno e chiudi gli occhi, vedrai che in qualche modo sarai dentro. Corto ti aiuterà, lui se ne intende di lame che segnano il destino. Non ti darà consigli, forse t’indicherà una pista e ti farà compagnia per un po’, se avrai voglia di impegnarti a cercare e non sarai insistente.
Poi tutto si mescola nel tempo, le date iniziano a girare in una giostra d’immagini e ricordi.
L’ho trovato sul serio uno degli appuntamenti di Pratt, l’isola era Apia, la capitale delle Samoa, nel Pacifico dei suoi sogni, quello di Escondida e della “Ballata del mare salato”. Là c’è la tomba di Stevenson, in cima al monte Vaea. The road of the loving hearts è il nome della strada che porta lassù. Non c’è niente di più rudemente romantico per uno che ha raccontato storie di pirati tagliagole e uomini che si sdoppiano in bestiali Mr Hyde, che guidare i suoi visionari lettori lungo la strada dei cuori innamorati. Un sentiero difficile, una salita ripida, scivolosa. La foresta provava a chiudersi come una pianta carnivora per proteggere il sogno. Richiami di uccelli, ronzio d’insetti d’ogni dimensione che si accaniscono sulle caviglie. C’era un leggero ticchettio sulle foglie, come pioggia, erano petali di frangipani che si staccavano liberando il profumo nel vento.
Tusitala racconta storie silenziose da lassù, da una tomba che sembra una solida nave con la quale partire, o una casa, dove poter sempre tornare.
Quando ridiscendo al porto lo spettacolo è imprevedibile. Ci sono cinque catamarani usciti dalle pagine di Salgari, sembra d’essere a Mompracem, le vele di fibre intrecciate frusciano nel vento, gli equipaggi coperti di tatuaggi maori vengono dalle Fiji, Tonga, Samoa, Nuova Zelanda e Australia, vogliono dimostrare qualcosa: si può navigare in maniera tradizionale, senza strumenti, solo mare, vento, stelle e il volo degli uccelli per guidare le barche verso liberi destini.
Incontro uno di loro, è il cuoco di bordo della waka che viene da Auckland. Un tipo massiccio, pelato, ha due occhi chiari che trapassano lo sguardo. Immediatamente ci vedo una miscela di Corto Maltese, Pratt, Tarao e il cuoco di bordo dell’Ispaniola. E quel rude colosso, con un gesto gentile mi regala un osso di balena che ha appena finito di intagliare e lucidare. È un amo da pesca, mi dice, si chiama Hei Matau, rappresenta la baia di Hawke in Nuova Zelanda, uno scoglio scolpito da Maui, ma rappresenta anche l’unica cosa che serve a un pescatore per continuare a vivere e viaggiare. Quella notte il coltellino di Hugo Pratt incontra nella stessa tasca Hei Matau, si toccano e parte la scintilla.
Non so se stessi dormendo o sognando, forse ero sveglio e nella penombra vidi Corto Maltese. Era seduto davanti a me, silenzioso, fumava la sua sigaretta, aveva una mappa nautica sulle ginocchia. La cenere cadde sul mare, fra le Cayman e Cuba. La spazzò via, ma rimase una linea sottile, collegava le isole.
Mi guardò con una specie di sorriso.
– Non sono riuscito a raggiungere Rasputin a Cayman Brac quella volta, peccato, c’era un raduno di Gentiluomini di fortuna.
No osavo muovermi, figurarsi fiatare. Lui lascia andare una lunga boccata di fumo verso il soffitto. C’era un ragno nell’angolo, anche lui rimase immobile nella rete.
– Strano. Questo momento mi ricorda una giornata di fine 1916 e quel ragno potrebbe essere Nansi, l’animale debole, ma capace di adattarsi alle cose o fuggire sull’esile trama dei fili che si è costruito da solo. Per i neri delle isole, Nansi è l’amico, il compare, il ricordo della madre Africa, la speranza.
Io ascoltavo seduto sul letto, con le mani puntellate dietro alla schiena e non capivo più niente.
– Una tempesta può sbatterti su un’isola lontana, ma ti regala un incontro e da lì parte il viaggio che non avresti immaginato. A Cuba ci sono tesori nascosti e una montagna dalla cima tagliata. È un posto magico.
Nient’altro. Poi ci fu un colpo di vento e la finestra che si frantuma. Quel mattino anche il cuoco di bordo della Waka neozelandese se ne stava andando. Mentre la vela si apriva nel vento lui era a poppa, aveva fra le mani una grossa conchiglia e ci soffiava dentro. Quel suono non lo dimenticherò mai, era la voce del mare.
Dopo qualche tempo ero a Cuba, ai piedi di El Yunque, una montagna che sembrava tagliata da un colpo di sciabola e mi ritrovai coinvolto in una strana storia che mi riportava a Ogun Ferraille e a un musicista belga che cercava ricordi e risposte fra santeri e belle donne con capelli dai riflessi di miele. C’era un ketch ancorato nel punto in cui le acque verdi del fiume entravano in quelle turchesi del mare. Corto alzò un bicchiere di rum prima di salpare. L’ho incontrato altre volte in questi anni, da quando ho iniziato a viaggiare con il fotografo Marco D’Anna seguendo i suoi Itinerari imprecisi. L’ultima volta è stato nel Chubut argentino, eravamo sulle tracce di un suo vecchio amico, Butch Cassidy. Sapevo che s’erano incontrati due volte nella pampa a distanza di anni, ma non sapevo che alla fine di Tango, quando entrambi dovevano lasciare velocemente la Patagonia c’era qualcun altro con loro, uno strano personaggio, un cacciatore di indios, ma questa è un’altra storia.
Ci eravamo fermati da qualche parte lungo La strada, la Ruta 40. Avevamo notato un vecchio boliche con tanto di griglia e profumo di bistecche alte quattro dita. L’ambiente era completamente di legno, cadente, fumoso, sbeccato, il posto giusto. Fuori c’erano immensi pioppi coperti di foglie gialle che nel vento lasciavano piovere petali di sole. Il cielo da un lato era turchese perfetto, dall’altro era coperto da dense nuvole nere. Corto era seduto là dentro, non fumava, si girava fra le mani un oggetto bianco. Mi avvicinai. Era l’amo d’osso di balena Hei Matau. Misi istintivamente la mano in tasca, il mio era al suo posto, vicino al coltello.
– Non cercare le cose che tutti sanno, non seguire strade logiche o ben segnate. Perditi e a vaga oltre la Linea d’Ombra, tanto so che ti è sempre piaciuto. Vedrai che qualcosa o qualcuno ti porterà un poco più in là. E se per caso dovessi sbattere il muso su una porta sbarrata, aspetta e goditi quello che trovi, magari una veranda all’ombra delle palme. Ti aspetterò in Cornovaglia, c’è qualcuno che ha scritto un diario, parla della mia gioventù, ma ricordati che le storie hanno sempre due facce e la più bella è quella nascosta.
Grazie a Hugo Pratt e a Corto Maltese ho imparato che viaggiare non è guardare, ma scostare tende impolverate, girare dietro alle case e infilarsi nei vicoli dimenticati, chiudere gli occhi e stringere in mano un oggetto che aiuta a sentire la musica giusta, quella vera.
Marco Steiner