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“L’ultima pista” una recensione di Gianni Brunoro.

“L’ultima pista” una recensione di Gianni Brunoro.

Grazie Gianni Brunoro, non so perché tu mi abbia rimandato questa tua recensione di “L’ultima pista” del 2006, forse perché anche tu senti nell’aria il profumo di un nuovo viaggio che continua oltre quella pista, verso le terre estreme al sud del mondo, sempre un po’ più in là…

Grazie Gianni,

Marco Steiner

“L’AVVENTURA È L’AVVENTURA…

Gli appassionati di gialli sanno bene come sia successo che uno stuolo di ultra appassionati di Sherlock Holmes abbiano studiato anche i minimi spiragli delle sue avventure per intrufolarci dentro un racconto apocrifo, una sua vicenda che Conan Doyle non avrebbe raccontato. Qualcosa di analogo ha fatto Marco Steiner nei confronti di Corto Maltese, anche se con uno spirito molto disincantato e con un piglio che risulta una strana fusione di sottilmente beffardo e di teneramente devoto. È la lieve vicenda di Bob Collins, americano oriundo irlandese, orfano fin da bambino di genitori, irredentisti e bombaroli, morti in un attentato. Bob riceve in dono dal nonno, che se ne va per non tornare mai più, una misteriosa cassetta. Al cui interno egli scopre – preziosi cimeli – carte e documenti attraverso i quali può ricostruire le fila del passato della propria famiglia, conoscendo così anche sé stesso. Scoprirà così di essere discendente di quella Louise Brooksowicz – probabile amante di Corto Maltese – che ha una parte non indifferente nell’episodio Tango. Ma per risalire al proprio passato, Bob Collins è costretto a fare dei viaggi, in particolare a recarsi in Patagonia, sulle tracce di Butch Cassidy e dei suoi compari, ancora una volta come Corto in Tango. Come andrà a finire, lo scoprirà il lettore: tanto, qui non si tratta di un giallo. Si tratta invece di un gustoso pamphlet, in cui l’autore si destreggia abilmente fra i paletti di un guizzante slalom che fra realismo e fantasia investe trasversalmente Hugo Pratt e Corto Maltese, Bruce Chatwin e personaggi diventati leggenda, come il citato Butch Cassidy. Steiner (che è stato un grande amico di Pratt e forse non a caso sceglie come pseudonimo il nome di un grande amico di Corto) mima la prosa asciutta e disincantata del “Maestro di Malamocco”, con esito molto convincente, restituendo una pagina tersa e fluida, in cui gli echi del mondo prattiano di Corto Maltese risuonano a ogni piè sospinto. Quasi a dimostrare concretamente che i personaggi, una volta giunti alla statura di miti, alimentano automaticamente la propria stessa mitologia. (g.b.)

Marco Steiner, L’ULTIMA PISTA, Ed. Cadmo, Fiesole, 2006, 160 pp., f.to 12×19, brossura con alette, Euro 10.00.

 

Da Fumetto n.60, dicembre 2006″

 

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L’ultima pista (Un racconto a puntale) Finale

L’ultima pista (Un racconto a puntale) Finale

Diciotto

Alle cinque avevo imbarcato lo zaino. Misi il passaporto nella tasca della camicia e andai in bagno. Mi sciacquai la faccia e mi pettinai.

Ce l’avevo fatta, rimaneva solo il controllo doganale. Avevo paura ed ero mezzo ubriaco, ma non era possibile che avessero già trovato la vecchia e addirittura diramato ordini di ricerca alle stazioni e agli aeroporti.

Avevo le mani sudate. Tornai in bagno e mi lavai di nuovo, poi mi avviai a passo deciso verso la dogana. Misi la borsa col computer sul nastro e passai sotto il controllo elettronico.

Si mise a suonare.

Mi bloccai.

Se avessi seguito l’istinto, sarei scappato. Invece, rimasi immobile.

Uno dei due agenti seduti dietro lo schermo spostò la sedia e con calma mi si avvicinò. Mi fece cenno di togliermi da sotto quella maledetta campana e di alzare le mani, poi mi fece scorrere il metal-detector lungo le braccia e sul petto, quindi si mise lentamente dietro di me e continuò lungo la schiena, dietro i pantaloni, in mezzo alle gambe, poi di nuovo davanti.

Muoveva quel coso lentamente, appoggiandosi al tessuto con decisione. I suoi occhi di carbone che sbucavano da sotto la visiera del cappello non mi lasciavano un istante.

Arrivato all’inguine, il metal-detector gracchiò. Il poliziotto sorrise, un sorriso freddo, di sfida. Senza dire una parola mi avvicinò un vassoio di plastica e mi fece cenno di svuotare le tasche dalle monete. Mi ripassò di nuovo e l’aggeggio non suonò più.

Cercai di rimanere calmo, mi ripetevo che era finita, ma mi sbagliavo.

Mi chiese il passaporto e cominciò a sfogliarlo. Girava le pagine con una lentezza esasperante, sembrava un bambino affascinato da tutti quei segni, dai simboli, i numeri, i timbri. Una volta arrivato all’ultima, lo chiuse e mi fissò. Riuscii a sostenere quello sguardo. Lui riaprì il passaporto, lo sfogliò distrattamente, e per la prima volta parlò.

«Americano?»

Tu che dici?, avrei voluto sibilargli, ma non era il momento di mettersi a giocare. «Sì.»

«Americano di dove?»

«Di New York» risposi sforzandomi di fare il bravo ragazzo.

«Intendo dire, da dove viene la tua famiglia. Los norteamericanos y los argentinos, todos emigrantes, verdad?»

«Dall’Irlanda.»

«Ah, irlandese, testa calda…»

Stavo per spazientirmi, ma dovevo rimanere calmo. E tacere.

«Hai usato armi qui in Argentina?»

La domanda mi piombò addosso come un cazzotto nello stomaco. I nervi stavano per cedere e per un istante mi passò per la testa di sfogare tutta la tensione accumulata e gridare: si è suicidata, giuro che si è suicidata, mi ha fatto credere che sparava a una foto e invece si è tirata un colpo in testa, ma io non la conoscevo nemmeno.

Invece dissi: «Una guida nel Chubut mi ha fatto sparare qualche colpo con la  sua arma».

«Adesso capisco», disse avvicinandosi alla borsa del computer appoggiata sul tavolo. «Lì dentro cosa c’è?»

«Se vuole gliela apro, c’è il mio computer.»

Se ne occupò lui e da una piccola tasca laterale sfilò il bossolo di Remington 223.

«Hai sparato questi nel Chubut?»

Tutto riprese come per magia il proprio posto. Avevo dimenticato il proiettile che mi aveva regalato Jorge, il ricordo dal Chubut. Il poliziotto aveva solo voluto mettermi alla prova, controllare le mie reazioni. Ma ora tutto gli tornava. Rimaneva la curiosità.

«Con che cosa avete sparato?»

«AK 47.»

«Cazzo, Kalashnikov.» Mi squadrò con una certa ammirazione. «Un’arma magnifica, potente e senza rinculo. E di che sei andato a caccia nel Chubut, Bob Collins?»

«Di parenti… Como todos los emigrantes norteamericanos», aggiunsi.

«E li hai trovati?»

«No, ma mi sono divertito a cercare. A volte andare a caccia è meglio che cacciare.»

Il poliziotto mi restituì il passaporto e le sue labbra si schiusero su una candida esplosione di denti. «Quando arrivi a New York, quel proiettile ficcatelo in valigia, è un consiglio d’amico. Agli agenti delle dogane non piacciono quelli che se ne vanno in giro con quei cosi.»

Accennai un sorriso e una specie di saluto militare.

Misi la borsa del computer in spalla e mi avviai verso la mia uscita.

Mi tornarono in mente le parole di Stairway to heaven.

To be a rock and not to roll.

 

Epilogo

 

Ventotto ore dopo ero a casa.

La cassetta della posta era piena di cartaccia. Oltre alle bollette da pagare e alla pubblicità, c’era una lettera.

Busta e carta leggera, azzurro chiaro.

Veniva da Circleville, Utah.

Salve, ragazzo,

come ti butta?

Io adesso sono rimasto davvero solo.

La mia Betty mi ha lasciato per sempre. Ma non ho pianto.

Di lacrime non me ne sono rimaste. Le ho consumate tutte tanti anni fa, e i litri di alcol che ho bevuto non sono riusciti a rimpiazzarle.

Forse però è meglio così.

Adesso so che Katy non è più sola e che Betty ha finito di tremare.

A volte mi faceva talmente pena che avrei voluto legarla alla sedia.

Da quando sei comparso, devo dire che la mia vita è cambiata. Mi hai dato un calcio in questo mio culone flaccido e mi hai fatto riaprire gli occhi.

Dopo la bottiglia di Bushmills che ci siamo scolati insieme, non ho toccato più un goccio, anzi, per essere sincero, me ne sono fatta un’altra intera il giorno in cui Betty mi ha lasciato, ma era solo il gran finale.

Poi ho smesso completamente e devo riconoscere che è stato grazie a te, dannato ragazzaccio irlandese.

Sono dimagrito di quindici chili e ho cominciato a riparare il tetto e a ripulire la stanza dove viveva mio padre Mark.

Perché non bisogna dimenticare né rinnegare il passato.

È vero, Bob?

Là dentro c’è sempre un pezzetto che ci appartiene.

Se un giorno ti verrà voglia di seguire un’altra pista, torna pure a Circleville.

Ci sarà una stanza tutta per te e un buon amico che ti cucinerà delle ottime bistecche.

Stammi bene, Bobby.

Alla fine, non siamo mai davvero soli.

 

Il tuo amico

James Cassidy

 

 

Ringraziamenti

 

Voglio ringraziare innanzitutto Hugo Pratt che mi ha insegnato a inseguire i sogni, e a cercare sempre di realizzarli. Questa storia prende spunto da una delle sue storie più belle, Tango.

Ringrazio Patrizia Zanotti, Fabrizio Paladini, Paolo Cazzaro, Peter Zegarelli, Daniela e Pierluigi Ferrari, Piero Morelli, Gabriella Galluzzi, Anne Lynch, Lele Vianello, Pedro Mangini, Margherita e Carlo Anderson Scimone, Marco D’Anna, Ernesto Franco, Carmen Llera Moravia, Stefano Tettamanti, Manuela La Ferla, il mio editore e tutti quelli che ci hanno creduto e mi hanno aiutato.

Un ringraziamento speciale ai Led Zeppelin, ai Pink Floyd e a tutti i musicisti che mi accompagnano in ogni momento della vita.

 

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L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 16/17

L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 16/17

sedici

Arrivai a Buenos Aires alle undici del mattino. Il mio aereo per New York sarebbe partito sette ore più tardi.

Era una domenica di maggio e l’autunno argentino iniziava con un’aria piacevolmente fresca.

Il sole, un grosso diamante di luce, sparava i colori. Il cielo di smalto irradiava un azzurro che entrava nelle vene.

Decisi di passare in città il tempo che avevo a disposizione. Salii su un taxi e chiesi all’autista di portarmi in una zona centrale, possibilmente verso il porto. Avevo voglia di respirare aria di mare.

Il tassista si fermò in una grande piazza e si affiancò a un palazzo dall’aspetto governativo.

«Le Poste Centrali. Se prosegui dritto da quella parte, trovi il Rio de la Plata e il mare».

Mi indicò una strada alberata di fronte a noi: «Dall’altra parte c’è la Casa Rosada e il centro della città», aggiunse.

Avevo lasciato i bagagli all’aeroporto e mi sentivo libero e soddisfatto per quello che avevo visto nel Chubut. Avevo maturato diversi elementi, sia riguardo alla storia di Butch Cassidy sia a quella di Louise Brookszowyc. In qualche modo adesso la sentivo più vicina, e con lei un pezzo della mia famiglia.

Era come se avessi riempito dei vuoti. Come se avessi marcato con tratti netti e decisi le linee sbiadite che cercavano di disegnare il mio passato. Avevo fatto chiarezza sulle ombre e sui fantasmi che popolavano i miei ricordi. E la cosa più importante era che adesso riuscivo a materializzare quegli spazi, li vedevo, perché li avevo riempiti di un contenuto reale, la mia storia.

Mi avvicinai a piedi a uno dei monumenti che popolavano la piazza, la statua di un certo Almirante Guillermo Brown, simbolo della gloria navale della Repubblica Argentina. Nato il 22 giugno 1777 a Foxford, Irlanda.

Un altro irlandese. Ne avevo incontrati diversi durante il mio viaggio.

A un tratto provai la sensazione di essere osservato.

Mi voltai e mi accorsi che un vecchio male in arnese mi stava scrutando. In mano aveva una bottiglia bianca di Vov, indossava una giacca sporca e consunta con le tasche scucite, pantaloni di due taglie troppo abbondanti, scarpe da ginnastica senza lacci e una cravatta a righe rosse e blu.

Alzò la bottiglia e m’indicò la statua. «Ammiraglio Guillermo Brown, il popolo argentino ti ringrazia!» Parlava con un forte accento italiano. «Ma se fossero stati più giusti, insieme a lui e a Cristoforo Colombo qui ci avrebbero messo anche un’altra statua. Una statua più grande delle altre, rivolta verso il mare. Dedicata alla puttana e al suo protettore. Un monumento per ricordare tutti gli emigranti che arrivarono da quell’oceano e trovarono solo loro ad accoglierli.»

Mi fissò. Aveva gli occhi lucidi.

«Puttane e protettori. Sono loro che hanno fatto grande questo Paese, perché hanno ricreato l’unica cosa importante, l’illusione dell’amore e dell’ospitalità. È solo grazie a loro che tutti quegli uomini sono rimasti.»

Mi avvicinai e lo guardai con un’espressione forse troppo sorpresa e divertita. Ma l’uomo continuò.

«Quando arrivammo, tanto tempo fa, chi credi che ci abbia aiutato? Il governo? La gente di qui? No, nessuno. Noi venivamo dai paesi più miserabili dell’Italia, o dal Galles, dall’Irlanda, dal Libano, dalla Polonia, dall’Ungheria, dai paesi più poveri del mondo. Abbiamo viaggiato su navi che puzzavano di sudore e di piscio, infestate di topi che di notte correvano sopra le nostre cuccette. Ma alla fine siamo arrivati qui e ci siamo dispersi in questa terra magnifica e lontana, una terra che ha fatto la fortuna di molti di noi, ma che per altri è stata un altro inferno o il cimitero.»

Bevve un lungo sorso di Vov e si tirò su i pantaloni.

«Eravamo soli e lontani. Lontani da tutto.» Aveva iniziato a gridare: «Dalle nostre famiglie, dalle nostre case, dal nostro modo di parlare e di mangiare, ma soprattutto eravamo lontani dalle nostre donne, e noi avevamo bisogno di donne. Loro soltanto ci hanno aiutato, le puttane. Erano le uniche che riuscivano a darci un po’ di calore. Dopo di loro c’erano soltanto solitudine e sudore».

Mi guardò negli occhi, aveva la barba lunga, occhiaie scure e rughe marcate, ma il suo sguardo era magnetico.

«Sei sorpreso di vedermi ridotto così, non è vero, ragazzo? Ma tu sei giovane e bello, vieni dal paese dei ricchi, hai belle scarpe morbide e comode, forse sei uno di quelli che arrivano in Argentina per giocare a golf, o a polo, per andare a cavallo nelle estancias

Iniziava ad alzare troppo la voce. M’innervosii.

«Sei uno stronzetto qualunque che non sa un cazzo di quello che vuol dire una vita di privazioni e di solitudine…»

Ne ebbi abbastanza. «Senti amico, io sono irlandese e non vengo dal paese dei ricchi. Quelli, al massimo, li vedo passare per strada. Sono qui solo per trovare ciò che è rimasto delle tracce di una famiglia che non ho mai conosciuto, e non ho intenzione di farmi insultare da uno che non sa niente di me e si permette di definirmi uno stronzetto qualunque, perciò gira al largo, perché non ho voglia di rovinarmi la giornata prendendoti a calci nel culo.»

Il vecchio rimase in silenzio. Si rabbuiò. Appoggiò la bottiglia a terra e si pulì la mano strofinandola sul retro dei pantaloni, poi si avvicinò con espressione pentita e implorante. Mi strinse le mani fra le sue, quindi con un gesto m’invitò a sedermi su una panchina.

Accettai, ma rimasi in silenzio.

«Scusami.»

Continuavo a non dire una parola.

«Sono arrivato in Argentina nel ’23, insieme a mio padre. Avevo tredici anni, arrivavamo dalla Carnia, una delle zone più povere di una poverissima regione d’Italia, il Friuli. Nei giorni di festa mettevamo un pezzo di burro e una manciata di sale nella polenta e dividevamo una fetta di formaggio. Dopo la guerra le cose non migliorarono, così mio padre decise di partire in cerca di fortuna e mi portò con sé. Non tornammo più indietro. Mio padre morì qui, nel 1930, accoltellato da un polacco. In quello stesso periodo venni a sapere che mia madre si era risposata, e decisi di rimanere.»

Bevve un sorso, poi riappoggiò la bottiglia a terra e continuò a parlare fissando il vuoto.

«Mio padre lavorava in un bordello. Era alto e robusto e sapeva fare di tutto. Proteggeva le ragazze dai prepotenti, convinceva chi non le voleva pagare, faceva le riparazioni in casa. Era il fattorino, l’autista, l’uomo di fiducia della tenutaria, una bella francese che si faceva chiamare Madame Jolie. Io, con quelle ragazze, ci sono cresciuto. Il bordello era la mia famiglia e ho continuato a lavorarci anche dopo la morte di mio padre. Insomma, presi il suo posto in tutto, anche nel letto di Madame Jolie. Ma le cose cambiarono presto e così un giorno Madame Jolie ripartì per la Francia, mi offrì perfino di seguirla, ma io rimasi, ero stupido e romantico allora, mi ero innamorato di una delle ragazze. Ci siamo anche sposati, ma anche quella è storia ormai, e come tutte le storie é finita».

Raccolse la bottiglia di Vov e mandò giù un lungo sorso, poi mi guardò e sorrise. Aveva notato il mio sguardo alla bottiglia.

«Questo è l’ultimo gradino sulla via della disperazione, ragazzo. Qui dentro c’è tutto quello che serve a uno come me. L’alcol è per la solitudine, e l’energia dell’uovo per non elemosinare un pezzo di pane a nessuno. Piatto unico, è la mia dieta. Ma non preoccuparti. Quando me ne andrò, nessuno piangerà per me, e tu non azzardarti a compiangermi. Me la sono spassata, sai, e non dimenticare una cosa fondamentale per capire l’Argentina: nessuna donna balla il tango come una puttana, nessuna. Il tango l’hanno inventato loro, ecco un altro buon motivo per meritarsi una statua.» Si alzò e fece un brindisi con la bottiglia. «Alla puttana e al suo protettore, caro almirante Brown del cazzo!»

 

diciassette

Mi alzai anch’io e mi avviai verso la zona del porto. Ero stordito.

Riflettevo su quello che mi aveva detto il vecchio e, soprattutto, sul fatto che era arrivato a Buenos Aires proprio nel 1923, l’anno in cui si erano svolti tutti i fatti tra i quali io cercavo di indagare. L’anno in cui Corto Maltese era ripartito con la sua barca a vela e la piccola Mania.

Louise.

Per quello che era riuscita a fare, una statua se la sarebbe meritata davvero.

Nella zona del porto c’era fermento di lavori. Da tutte le parti si vedevano grandi cartelli con i progetti delle opere che sarebbero state realizzate. Portavano tutti la stessa sigla, Corporacion Antiguo Puerto Madero S.A.

I vecchi dock e gli edifici fatiscenti del porto sarebbero stati abbattuti per ricavarne una marina con ristoranti, uffici, alberghi, banche. Era un progetto di riqualificazione di una zona che in alcune parti mostrava ancora vecchie catapecchie cadenti, magazzini arrugginiti e montagne di detriti. Di lì a pochi anni Puerto Madero sarebbe diventata la zona esclusiva di Buenos Aires, ma in quel momento era un cantiere, e da quelle parti non avrei trovato niente da mettere sotto i denti. Decisi di spostarmi.

Il sole era più caldo, ma l’azzurro del cielo era rimasto splendido e il vento fresco profumava di mare.

Il mio sguardo fu attratto da una baracca bassa e fatiscente, ancora in piedi in mezzo a due montagne di detriti di mattoni, assi di legno e a due bulldozer gialli.

Mi avvicinai. Dall’esterno sembrava un pub irlandese, un cartello diceva Chiuso e altri indicavano Pericolo di crolli. La porta era socchiusa e le due finestre ai lati avevano alcuni vetri rotti e altri sostituiti col cartone.

Sopra la porta penzolava un’insegna sbilenca in caratteri gaelici: Soldati del ‘22. Più in basso, c’era la strofa di una vecchia canzone:

Ammainate la bandiera, traditori dell’Irlanda,

la bandiera che noi repubblicani vogliamo

non è quella del Libero Stato,

voi l’avete coperta di vergogna.

Avevo un vago ricordo di quella canzone. Evocava un periodo terribile della storia d’Irlanda, quello che seguì al trattato anglo-irlandese del 6 dicembre del 1921, l’accordo fra il governo inglese di Lloyd George, un riluttante Michael Collins e un ancor più riluttante Eamon De Valera.

Dopo l’accordo fra Irlanda e Inghilterra, il 1922, che avrebbe dovuto essere l’anno della pace, segnò soltanto un cambio di orientamento degli obiettivi della violenza. Fu l’anno della guerra civile fra le frange dell’IRA che avevano accettato di entrare a far parte dell’esercito del nuovo stato e quelle che vi si opposero.

I soldati del ’22 della canzone erano loro, gli irriducibili, quelli che pochi anni prima avrebbero dato la vita per l’eroe Michael Collins e adesso lo insultavano come un traditore.

Cercai di sbirciare da una finestra, ma il buio interno contrastava troppo con la luminosità di quella giornata.

«Che volete adesso? Sono ancora qui. E allora? Volete buttare giù anche me? Accomodatevi, vi stavo aspettando.»

La voce arrochita che proveniva da dentro sembrava quella di una donna anziana.

Fuori non c’era nessuno. Solo alcuni gabbiani facevano la spola fra le macerie e il mare.

Gridavano anche loro.

Ero indeciso. Non avevo voglia di farmi di nuovo insultare. Ma alla fine la curiosità ebbe la meglio.

Mi appoggiai alla maniglia della porta socchiusa. Non si mosse. Spinsi più forte e si abbatté a terra. Una nuvola di polvere mi avvolse.

Sobbalzai per il colpo, ma le sorprese non erano finite.

«Fermati dove sei, figlio di puttana, o ti ritrovi un altro buco in quella faccia da culo che ti ritrovi!»

Mi bloccai sull’uscio e alzai istintivamente le mani. Ero coperto di polvere, ma riuscivo ancora a ragionare. «Non sono venuto per la demolizione, sono un turista, un irlandese, volevo solo dare un’occhiata a questo vecchio pub.»

Parlai senza interrompermi sperando di non sentire il rumore dell’ultimo sparo della mia vita.

Silenzio.

«Ho letto la strofa di quella canzone e mi ha fatto venire in mente mio nonno. Non l’ho mai conosciuto, ma so che anche lui era sempre stato contrario a quel trattato.»

Silenzio. Poi la voce di prima, più calma.

«Da dove arriva il ragazzo che sa tutte queste cose? Vieni avanti, non avere paura, non ce l’ho con tutto il mondo, solo con quei bastardi del cantiere.»

La polvere cominciava a posarsi e io, sempre impalato in quel buco vuoto, ero un’ombra a mani alzate, gli occhi però incominciavano ad abituarsi all’oscurità.

Di fronte all’ingresso c’era un bancone di legno scuro, tavolini sparsi o accatastati, qualche sedia per terra, bandiere irlandesi, arpe celtiche, una testa bianca in fondo al locale. E una mano che impugnava una pistola.

«Da Cork, signora.»

«Abbassa quelle mani, ragazzo, entra e dimmi subito come ti chiami.»

«Bo… Bob Collins.»

«Bob Collins di Cork, ma certo. Devi essere il figlio di Liam, giusto, Bob?»

Rimasi senza fiato.

«Vieni avanti, vieni avanti e non avere paura della vecchia Darsee, mi fa piacere parlare con qualcuno che mastica la mia stessa lingua.»

«Come fa a sapere chi sono?»

«Noi irlandesi in esilio ci siamo sempre tenuti in contatto, specie con un certo tipo di connazionali, e io conosco parecchia brava gente delle tue parti. Ho conosciuto tuo padre Liam, e tua madre Elisabeth. Mi dispiace per come è andata a finire. Troppi morti e forse non è ancora finita. Tuo nonno Seamus è stato una grande persona, e anche Mania, che Dio l’abbia in gloria.»

Spalancai gli occhi e probabilmente anche la bocca.

«Non devi stupirti. Io e Mania eravamo coetanee, classe 1920, ma io ho avuto più fortuna di lei e la pelle più dura. Ho messo al mondo cinque figli, che vorrei ricacciarmi in pancia per quanto sono stati ingrati, mentre quella poveraccia di tua nonna è morta mettendo al mondo il suo unico figlio.»

Fece una pausa e mi fissò in fondo agli occhi.

«Esatto, tuo padre. Un uomo eccezionale, Bobby, parlo sul serio.»

Mi diede una pacca sulla spalla e me la strinse quasi con affetto.

Ero paralizzato.

«Non si direbbe, vero?, ma ho compiuto 75 anni due giorni fa, anzi…» Prese due bicchieri e una bottiglia da sotto il bancone. «Dobbiamo festeggiare.» Allungò la mano. «Mi chiamo Darsee O’Malley.»

Mi si piegarono le gambe. Non potevo crederci. Era di certo una coincidenza, O’Malley è un cognome molto diffuso in Irlanda. Ma dovevo capire.

«Conosceva per caso un certo Patrick O’Maley, morto in Patagonia in circostanze misteriose nel 1923?»

«Sicuro che lo conoscevo, Bobby, non me lo posso ricordare perché è morto quando io avevo tre anni, ma era il fratello di mio padre Ernie, era un poliziotto pulito, lavorava agli archivi criminali, ma forse era stato un po’ troppo curioso…»

«Ma lui si chiamava O’Maley, con una sola “l”.»

«Una svista di quelle teste di cazzo dell’immigrazione. A quell’epoca c’erano file di disgraziati che sbarcavano dall’Irlanda, dall’Italia, dalla Polonia, dall’Ungheria e da altri paesi dove facevano la fame. Arrivavano a frotte in cerca di fortuna, i commissari copiavano alla bell’e meglio i loro cognomi e gli davano un lasciapassare, ma erano più le volte che sbagliavano.»

Riempì fino all’orlo due bicchieri di Jameson e prima di scolarsi il suo brindò con un sorriso.

Come per l’incantesimo di una fiaba, quel sorriso compì una magia: la megera scomparve, tramutata in una ragazza piena d’entusiasmo e di ricordi.

«Alla salute di Tom Barry e alla tua, Bobby Collins di Cork.»

Mi girava la testa.

«Lo sai chi era Tom Barry, vero, Bobby?»

«Veramente no, signora O’Malley.»

«Sono Darsee per te, Bobby, la vecchia zia Darsee che ti racconta un po’ di storia irlandese. Cominciamo con Tom Barry. Prendi una sedia e mettiti comodo.»

Mi sedetti in silenzio.

«C’è una canzone che ricorda Tom. “Il 28 novembre, fuori della città di Macroon, i Tans sui loro grossi Crossley andarono incontro al loro destino…” Questa canzone ricorda il più importante successo dell’IRA contro i Black and Tans.»

Dovette leggermi in faccia il buio.

«Lo sai almeno chi erano i Black and Tans, vero, Bobby?»

«No.»

«Ma tu dove sei cresciuto, Bobby?»

«Mi hanno tirato su i nonni materni a New York.»

«Allora ti devo raccontare un po’ di cose, ragazzo, le cose che tuo padre non ha fatto in tempo a dirti.»

Buttò giù un sorso di whiskey e si accomodò di fronte a me. Il suo viso era segnato dalle rughe, l’espressione era dura, ma quando iniziò il suo racconto, in quegli occhi azzurri si accese una luce.

«In quegli anni le forze di polizia irlandesi fedeli all’Inghilterra si chiamavano Royal Irish Constabulary, ma in quel periodo, dopo tante provocazioni ricevute da parte dei ribelli, le forze locali non bastavano più, servivano rinforzi, e allora vennero arruolati in Inghilterra. Questi gentiluomini non erano certo dei bravi studenti di Oxford o di Cambridge con le giacchette con lo stemma e le cravatte regimental, e nemmeno soldati di leva regolari. Erano bastardi senza lavoro, gente violenta senza futuro e senza rispetto per nessuno, avanzi di galera e sbandati che avevano preferito arruolarsi piuttosto che finire in gattabuia. Sapevano quello che li aspettava, ma in Irlanda avrebbero avuto una buona paga e l’occasione di picchiare e sparare. Era quello che avevano sempre fatto, ma a casa, per farlo, non li pagavano. Quando questi teneri piccioncini arrivarono in Irlanda, le uniformi tradizionali, quelle color verde bottiglia, non bastavano per tutti, e così i nuovi arrivati si arrangiarono prendendosene delle parti, a volte i pantaloni, a volte la giacca, e poi ci aggiungevano quello che capitava, gli stivali, la cintura e un berretto nero. E così nella contea di Tipperary gli appiopparono il soprannome di una famosa razza di cani rabbiosi, i Black and Tans. E il nome rimase.

«Non erano tanti, ma sapevano bastare. Bisogna riconoscere che quei bastardi erano coraggiosi e soprattutto spietati. Giravano per le campagne irlandesi a bordo dei loro autocarri, i Crossley, e per i ragazzi dell’IRA diventarono l’obiettivo fondamentale, il nemico numero uno.

«In agguati notturni l’IRA uccideva singoli individui, poliziotti o informatori civili, sabotava le strade o i ponti, per bloccare o spesso per attaccare le forze di sicurezza inglesi; i Black and Tans bilanciavano questi metodi incendiando le case dei ribelli o di chi li aiutava, negli interrogatori li torturavano fino a farli parlare e poi li ammazzavano lo stesso.»

Darsee ebbe un attimo di esitazione, poi continuò.

«L’esercito regolare, formato da irlandesi fedeli agli inglesi, veniva guardato con un certo rispetto e talvolta perfino con affetto, in confronto all’odio feroce che si andava concentrando sui Black and Tans. L’impresa di Tom Barry rimase leggendaria perché fu la più grande vittoria dell’IRA contro quei bastardi.»

Guardavo Darsee come in trance, ascoltavo le emozioni profonde che trapelavano dalla sua voce, osservavo il buio e i lampi di luce che saettavano da quegli occhi carichi di energia.

«Era la fine di novembre e gli uomini di Barry avevano camminato per tutta la notte sotto una fitta pioggia irlandese per prendere posizione dalle parti di Kilmichael, una zona perfetta per un agguato. Si erano sdraiati a terra, immobili, senza alzare la testa, invisibili in mezzo ai cespugli che costeggiavano la strada. Erano rimasti così per ore ad aspettare senza che nulla succedesse, senza mangiare, senza bere. Continuavano a fissare le gocce d’acqua che cadevano dai loro capelli e quelle che scivolavano lungo i fili d’erba davanti ai loro occhi, ma soprattutto sentivano il freddo e l’umidità che salivano dalla terra, si infilavano sotto le loro giacche e penetravano dentro le ossa. Continuò a piovere tutto il giorno. I ragazzi erano mezzo assiderati, stanchi e sfiduciati. Sembrava che fosse stato tutto inutile. Erano pronti ad alzarsi e a rinunciare all’imboscata, quando, al calare del sole, sentirono il rombo dei camion. I Crossley avanzavano in mezzo alla nebbia e al fumo dei loro stessi motori, sobbalzavano nelle buche, schizzavano fango con le ruote artigliate e con i fari minacciosi illuminavano quel grigio pomeriggio rigato di pioggia. I ragazzi dell’IRA li osservarono arrivare a tiro. Avevano le dita intirizzite, così tormentavano i grilletti cercando di far circolare il sangue per essere pronti a sparare.

«Tom Barry in persona, da solo, si fece avanti con un’uniforme verde dei Volunteers che assomigliava a quella britannica e rimase immobile lungo il ciglio della strada. I camion rallentarono per controllare quell’uomo solo sotto la pioggia, e in quel preciso momento gli uomini di Barry cominciarono a lanciare bombe e a sparare sui Tans. Quell’inferno di fuoco e frastuono durò pochi secondi, poi calò il silenzio. Nove Tans furono uccisi, contro un solo uomo dell’IRA. Il resto degli ausiliari, gettati i fucili a terra, scese dagli autocarri e si arrese.

«Gli uomini di Barry uscirono allo scoperto, si avvicinarono per immobilizzarli, ma in quell’istante i bastardi estrassero le pistole Webley e cominciarono a sparare uccidendo altri due uomini. Barry ordinò di annientarli senza pietà, e così, in pochi minuti, i diciotto Black and Tans del convoglio furono crivellati di colpi. Ci volle l’autorità di Tom Barry per frenare la rabbia dei suoi uomini, che continuavano a sparare e a prendere a calci con rabbia i cadaveri dei loro nemici.»

Ero rimasto ammutolito, affascinato dal modo in cui Darsee nel frattempo aveva mimato tutta la scena.

«Mio padre era Ernie O’Malley di Castlebar, Contea di Mayo. Aveva iniziato a studiare medicina a Dublino, ma nel ’17 si unì ai militanti dell’IRA e partecipò all’attacco alle Hollyford Barracks e a quello alle Rearcross, poi fu catturato e torturato dai Black and Tans, ma riuscì a fuggire anche dalla loro prigione per beccarsi, un anno dopo, ventuno pallottole in un’altra azione. Non bastarono neanche quelle. Nel ’23, per protestare contro quello sporco trattato, fece uno sciopero della fame in carcere che durò quarantuno giorni. Non riuscì ad ammazzarsi neanche così. Uscì di galera nel luglio del ’24, fu uno degli ultimi prigionieri a essere rilasciato, era conciato piuttosto male. Decise di darsi alla letteratura e cominciò a girare l’Europa, a visitare musei e a scrivere. Nel ’28 andò in America, ma so che tornò in Irlanda nel ’35 e se ne andò dalle parti di Achill Island, un posto meraviglioso da dove veniva la sua famiglia. Io mio padre non l’ho conosciuto, perché nacqui da una relazione che ebbe con una donna che aiutava i militanti dell’IRA nascondendoli in casa sua. So solo che quella donna si chiamava Debby. Mia madre morì dandomi alla luce e lui non seppe mai di avere una figlia. Bella famiglia, non è vero?»

Un lungo sorso di whiskey.

In testa avevo una trottola.

«Mi allevò un’amica di mia madre che decise di trasferirsi qui a Buenos Aires dopo la guerra. Fu lei che mi raccontò tutte queste storie su mio padre e sui suoi amici ribelli. Così, per cercare di rifarmi uno straccio di famiglia, sono rimasta sempre in contatto con tutti gli irlandesi che laggiù avevano avuto dei problemi e avevano bisogno di un posto dove nascondersi. Venivano qui, mi davano una mano nel pub e quando la situazione si era calmata, se ne andavano per la loro strada.»

Si versò ancora un bicchiere e si alzò per prendere un’altra bottiglia. La pistola rimase sopra il bancone del bar.

«Forse ti annoio con tutte queste storie, ma non mi capita spesso di incontrare qualcuno che viene da Cork. È un evento che va festeggiato.»

«Mi piace ascoltarti, Darsee», riuscii a balbettare. E poi aggiunsi: «Sono qui per conoscere il mio passato. Tu sai cosa vuol dire non avere ricordi.»

«I ricordi non servono a un cazzo, Bobby, serve quello che hai dentro. E se hai avuto un padre con i coglioni, come ce l’ho avuto io e come ce l’hai avuto tu, il resto viene da sé. Noi siamo gente che la vita se la costruisce da sola, giorno per giorno. Sapere chi è stato tuo padre serve a darti un esempio in più, una carica particolare, ma ti lascia una dura eredità: non possiamo tradire il loro passato, ecco a cosa servono i nostri ricordi. Il resto sono solo puttanate. Lo sai insieme a chi ha combattuto mio padre?»

«Veramente no.»

L’energia di quella donna mi affascinava. Gettai uno sguardo all’orologio senza farmi notare, erano le due, avevo tempo.

«Mio padre faceva parte della Brigade Flying Column di Liam Lynch, tuo compaesano di Cork. C’era gente come George Power e i fratelli Fanning, gli Sweeney, Michael O’Keeffe, i fratelli Sheehan e tanti altri. Era il primo battaglione della Fermoy Company. Mio padre era il capitano istruttore, quello che doveva insegnare loro a preparare un agguato, strisciare di notte nel fango verso le baracche dei Tans, preparare bombe, usare la mitragliatrice Hotchkiss e i fucili Thompson. I Thompson venivano dall’America, glieli rimediava mio zio Patrick, quello di cui parlavi prima, tramite un trafficante d’armi che viveva fra l’Argentina e gli Stati Uniti.»

Un altro tuffo al cuore.

Adesso toccava a me. Scolai il mio mezzo bicchiere di whiskey e poi con voce tremante buttai lì la domanda. «Si ricorda come si chiamava quel trafficante amico di O’Maley?»

«Certo che me lo ricordo, Bobby, anche perché era uno famoso. Uno che aveva contatti importanti. Si chiamava Butch Cassidy.»

Chiusi gli occhi.

«Lui trovava i Thompson, le munizioni, le pistole Smith & Wesson, un marinaio con un veliero veloce faceva un carico, lo stipava in uno spazio nascosto sottocoperta, si faceva una traversata oceanica e sbarcava dalle parti di Kinsale. Tutta gente con le palle, Bobby.»

Fece un gesto esplicito.

«Palle vere. Quel marinaio oltre a essere uno che il mare lo conosceva come le sue tasche, era anche un pazzo romantico, il tipo che partiva alla ricerca del Santo Graal, delle Miniere di re Salomone o di chissà quali tesori da trovare in ogni angolo del mondo. Mi hanno detto che nel Pacifico, durante la prima guerra mondiale, avesse fatto il pirata insieme ai tedeschi, ma la gente racconta un sacco di stronzate, ma per quanto ne so io, era un vero signore. Pensa che da quelli dell’IRA non volle mai denaro, solo merce di scambio. Così loro gli davano casse del miglior whisky o libri rari che parlavano di formule magiche e di tesori, preziose bottiglie di vino, documenti segreti che non riuscivano a decifrare, montagne di cose trafugate agli inglesi. Era in gamba, Corto Maltese, chissà che fine avrà fatto.»

Adesso non stavo più nella pelle, ero eccitato come un ragazzino appena entrato al lunapark. Era come se la nebbia che aveva velato un mondo che avevo potuto soltanto immaginare si stesse dissolvendo e incominciassi a distinguerne i particolari. Di tanto in tanto intervenivo con qualche domanda o qualche parola di commento per confermare a Darsee il mio interesse, ma non volevo indirizzare i suoi ricordi, il suo monologo disordinato era talmente perfetto da non sembrare reale. Avevo la sensazione di vivere in un sogno.

«Butch Cassidy, quello del Wild Bunch con Sundance Kid», azzardai.

«Ed Etta Place, esattamente. Anche la dolce signorina Ethel contrabbandava armi. Però aveva un debole per la causa messicana e i suoi Thompson andavano ai guerrieri di Pancho Villa. Se penso che la gente era convinta che li avessero ammazzati in Bolivia… Era il sistema migliore, bastava una bella sparatoria, tre disgraziati che facevano da coniglietti al tiro a segno, un bel funerale, una croce di legno sopra un mucchietto di terra e pietre, e tutto poteva ricominciare, da un’altra parte e con un altro nome. Semplice come cambiarsi il vestito e tagliarsi barba e capelli finti.»

Darsee riempì i bicchieri e mi indicò una vecchia foto ingiallita. Era il ritratto di un uomo magro, con gli occhiali e un lungo impermeabile scuro.

«Eccolo là, quello è il grande Liam Lynch, di Barnaguraha, Anglesboro, il comandante della Prima Divisione del sud, ammazzato il 9 aprile del 1923 fra le montagne di Tipperary, dalle parti di Limerick. Lo sai quali furono le sue ultime parole, Bob?»

«No, non lo so.»

“Dio abbia pietà di me. Ma è un vero peccato, tutto questo non sarebbe mai dovuto accadere. Povera Irlanda, povera Irlanda.”

Aveva capito che era tutto finito. Lui era l’ultimo che poteva pensare di continuare quella guerra. Erano morti tutti, Michael Collins, Erskine Childers, Rory O’Connors, Liam Mellowes. Aveva ragione. Pochi mesi dopo, Eamon de Valera diede l’ordine di cessare il fuoco. Era il luglio 1923. Da allora la guerra è finita, ma non per noi, Bob. Quello che è stato scritto non è sufficiente e, mi dispiace per il tuo cognome, ma Michael Collins non doveva firmare quel cazzo di trattato. Sarebbe successo lo stesso, ma non doveva farlo lui. Se l’avesse firmato un altro politico bastardo, sarebbe stato diverso. La sua firma, invece, voleva dire rinnegare il sangue che era stato versato per lui. Beviamoci l’ultimo goccio, Bob.»

Riempì il proprio bicchiere fino all’orlo e versò il poco che rimaneva nel mio.

«Brindiamo alla libera Irlanda e a quanti sono morti per questo sogno.»

Scolammo i bicchieri.

«Adesso, prima che tu te ne vada, ti faccio vedere un’altra cosa interessante.»

Si alzò dalla sedia. Si era scolata i tre quarti della bottiglia ed era fresca e arzilla. Si voltò e mi guardò con uno sguardo pieno di tenerezza. «Bob Collins, devo dirti che sono contenta che tu sia venuto qui oggi. Domani potevi non trovare più niente, domani butteranno giù tutto e io sarei rimasta per sempre in silenzio. Credo che oggi sia una giornata importante per tutti e due, molto importante.»

Mi puntò l’indice in faccia e mi fissò.

«Tu sei il mio angelo nero, Bobby.»

Arrivò al banco di legno del bar, prese la pistola e tornò al tavolo. Rimase in piedi al mio fianco e l’appoggiò sul ripiano. Era una piccola arma, sembrava un giocattolo. Sulla canna era incisa una parola. Avvicinai la testa e lessi Destroyer.

«È una pistola spagnola, una calibro 32, una di quelle che le donne portavano nella borsetta, ma questa pistola ha una grande storia. Prima ti racconto la storia e poi sarà tua, sei la persona giusta a cui darla.»

«Ma io…»

«Taci, ascolta e impara. È importante quello che ti devo dire, e non azzardarti a discutere. A causa di questa pistola morì un grande irlandese. Si chiamava Erskine Childers. Venne fucilato perché gli trovarono in tasca quest’arma. Secondo la legge d’emergenza di quegli anni, l’Emergency Power Bill, ogni repubblicano catturato con le armi in pugno doveva essere fucilato. E quella pistola fu la condanna di Childers. A te sembra pericolosa?»

Non sapevo cosa dire, Darsee sembrava colta da un raptus, aveva la faccia contratta, stava tornando a essere la megera inquietante che avevo incontrato poche ore prima.

«Sembra un giocattolo.»

Diedi una sbirciata all’orologio. Si stava facendo tardi, erano le tre passate, ma non potevo interromperla in quel momento.

«Infatti era ridicolo fucilare un uomo come Childers per un’arma del genere. E lo sai cosa disse Childers al suo plotone d’esecuzione prima di morire?»

«No…»

«“Fate un passo avanti, ragazzi, così sarà più facile.”

E lo sai chi regalò questa pistola a Childers? Proprio quel bastardo di Michael Collins.»

Prese in mano l’arma e si avviò dietro al banco.

Rimasi seduto come se fossi l’unico spettatore invitato a una recita teatrale, ma ero un po’ distratto, la testa mi girava per il whiskey e per tutto quello che avevo sentito, e in più cominciavo a preoccuparmi per l’aereo.

«Allora, Bob, prima di regalartela e di farti andare per la tua strada, lontano da questa vecchia pazza, voglio vedere se questa pistola riesce a sparare ancora un ultimo colpo.»

Appoggiò la mano sinistra al bancone e allungò il braccio destro mirando sopra la porta del bar.

Da bravo spettatore, voltai la testa e vidi il suo obiettivo.

La foto di Michael Collins.

«Lo sai invece cosa disse Collins dopo aver firmato il trattato?

“Posso dirvi una cosa soltanto. Ho firmato un impegno con la mia morte.” Aveva ragione, Bobby.»

Udii lo sparo, ma la foto di Michael Collins rimase dov’era, intatta.

Darsee, invece, era caduta dietro il bancone.

C’era sangue dappertutto.

Aveva inclinato la testa a sinistra e si era sparata dal lato destro del collo. Il piccolo proiettile doveva aver trapassato la giugulare prima di entrare nel cervello. Era stata precisa.

Non capii più niente.

Ero sconvolto.

Poi, lentamente, cercai di farmi forza e di riacquistare lucidità. La pistola le era scivolata di mano, era poco distante da lei. Cercai di riflettere e di ricordare tutto quello che era successo dal momento in cui ero entrato. No, non l’avevo mai toccata. La lasciai lì.

Presi il mio bicchiere e lo strofinai tirando fuori dai pantaloni la camicia, poi, sempre tenendolo con il tessuto, lo scagliai contro il muro più lontano, ma non si ruppe e ruzzolò invece sotto una montagna di tavolini ammucchiati. Lasciai dov’era anche quello, non avevo altro tempo.

Lanciai uno sguardo al locale, avevo voglia di prendermi tutto, la foto di Michael Collins, la piccola pistola spagnola di Erskine Childers, ma non potevo rischiare di farmi incolpare per omicidio, così non portai niente con me. Soltanto il ricordo indelebile di quel posto, di quella donna e di tutto quello che mi aveva detto.

Fuori continuava a non esserci nessuno.

Un gabbiano mi passò sopra gracchiando qualcosa.

Tornai in fretta nella piazza da dove era iniziato quel folle giro turistico di Buenos Aires e mi precipitai alla stazione dei taxi.

Mancavano due ore alla partenza del mio aereo.

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L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 14/15

L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 14/15

Quattordici

Sulla strada verso Bariloche, prima di attraversare il ponte sul fiume Limay, c’è una costruzione bassa e bianca con il tetto verde. Oggi è un ristorante storico, un paraje historico, come dicono qui, si chiama El Boliche Viejo, ma un tempo era un importante emporio e apparteneva a Jarred August Jones, un texano trasferito in Argentina. Una sua discendente vive ancora lì e possiede la terra, oltre al ristorante. È la tipica vecchia parrilla argentina, si cucina la carne sulla grande griglia e in sottofondo si sente il tango. Alle pareti ci sono vecchie foto, fra cui quella di Butch e compagni.

Sapevo che Butch conosceva il vecchio Jones e che si riforniva in quell’emporio, ma non speravo di trovare qualcuno che me ne avrebbe parlato.

Mario Justiniano Ancalao era il nipote di Rafael Justiniano Ancalao, un vecchio cacique, un capo indigeno che lavorava per el señor Jones.

«Butch Cassidy veniva a rifornirsi qui, comprava le pallottole per le pistole, le finiture per i cavalli, tutto quello che gli occorreva, e poi giocava a poker, lì,  dove sei seduto tu.»

Mi guardai intorno e toccai d’istinto quel vecchio tavolo.

«Qualcuno di loro sparò anche in bocca a mio nonno, non so chi, ma la pallottola lo trapassò da una guancia all’altra. Quelli erano fatti così, venivano, si prendevano quello che gli serviva, giocavano, e se c’era qualcuno che faceva troppe domande o che soltanto non gli piaceva, lo lasciavano a terra in pasto ai cani e alle mosche.

«Quando si spostavano da Cholila, si guardavano in giro. Allora da queste parti girava parecchio denaro, perché la gente commerciava ogni genere di mercanzia e le navi che andavano e venivano dall’Inghilterra non passavano lontano da qui. Non c’erano banche e la gente teneva mucchi di soldi e oro. Perciò a quei tre non serviva assaltare le banche o i treni, dovevano solo sapere dov’era il malloppo e il gioco era fatto. Come il colpo a Tecka. Non ne parla nessuno, ma era un sacco di soldi, quello che serviva prima di cambiare aria.»

Mario parlava con calma.

«Qui non toccarono mai niente, avevano rispetto per el señor Jones e anche per i Newbery, e quelle famiglie se ne fregavano di quanto avevano fatto o se continuavano a farlo. A loro in fondo piaceva che in giro ci fosse un po’ di timore per i gringos, tutti pensavano a lavorare sodo e non si mettevano in testa strane idee. E chi si azzardava a dire qualcosa di troppo si beccava una pallottola in bocca. Non credo che quelli siano morti qui, ragazzo, erano troppo bene organizzati, non ci avrebbero messo molto ad andarsene in Cile o a prendere una barca che li avrebbe portati in Inghilterra o a casa loro. La sparatoria di Rio Pico, non ci credo. Quelle due tombe, non ci credo. Ma andava bene così, per tutti. Era finita per Butch in Argentina, finita e sotterrata, adelante, si cambia la commedia, ma il finale è sempre lo stesso. Vattene in giro, guarda tu stesso, e vedrai se non è come dico.»

Il giorno dopo tornai a Cholila. Arrivai all’albergo sul lago Futalaufquen e nel salone trovai Jorge che giocava a biliardo con gli amici.

«Com’è andata la caccia?»

«Benissimo, ho scovato un sacco di tracce.»

«Non hai sparato a niente, giusto?»

«No, ma porto con me diversi trofei.»

«Ci credo, ragazzo. A te rimarrà qualcosa per sempre, noi invece i nostri trofei ce li siamo mangiati. E adesso vieni a giocare.»

Mentre raccoglievo la stecca che Jorge mi stava porgendo e mi avvicinavo al tavolo, guardai gli altri giocatori e pensai alle parole di Gilberto Vendramin. «Non far mai giocare l’avversario, stringilo sempre fra la mattonella e il pallino, inchiodalo fra i birilli, mettilo in condizione di ricorrere all’accosto e, se è un piccoletto, fagli usare sempre lo steccone. Se è un marcantonio, tienilo a colla. Considera sempre dove stai giocando, non tutti i biliardi sono uguali. Tocca il tappeto verde prima d’iniziare una partita, concentrati, facci scorrere sopra la mano e ascolta quello che ti dice. Sui biliardi nuovi la palla fila come un treno, non c’è modo di rallentarla, se c’è umidità, la palla s’impantana nella stoffa. Prima d’iniziare controlla come rotolano le stecche e che rumore fanno le bilie. Ricordati tutto quello che ti ho detto, ragiona e metticela tutta. Forse riuscirai a fare qualche bel punto.»

Ce la misi tutta.

 

Quindici

La mattina successiva tornai alla capanna di Butch Cassidy e vagai nei dintorni.

Niente più magia.

Le catapecchie sfondate, i cespugli ingialliti, il fiume che scorreva rimbalzando inutilmente fra i sassi.

Tutto era sbiadito, privo di contorni, senza luce.

Il passato se n’era andato senza lasciare tracce, come quei tre.

Neppure il cavallo baio c’era più.

Tirava un vento freddo e teso. Fastidioso.

Ripresi la jeep e proseguii lungo un viottolo laterale. Trovai un cartello che indicava Casa Galesa.

Era un edificio massiccio e squadrato circondato da una palizzata di pioppi dalle foglie verdi e rossastre; a terra un tappeto di foglie gialle.

Salii i gradini e aprii una porta a vetri. Vidi sei o sette tavolini apparecchiati, dentro nessuno. Sembrava una sala da tè.

Provai a chiamare ma non ottenni nessuna risposta.

Entrai in un salotto più piccolo.

«C’è nessuno?»

Ripetei la stessa domanda diverse volte, in spagnolo e in inglese. Niente.

Sui tavolini c’erano dei foglietti che pubblicizzavano il locale, La Casa Galesa o La Casa de pietra, e riportavano la ricetta del suo dolce tipico, la Tarta Negra Galesa, o Taisen Ddu, in gallese, una specie di bomba a base di farina, uova, latte, burro, zucchero, noci, uvetta, cannella, zenzero, noce moscata e altri ingredienti che non riuscivo a decifrare.

Continuai ad addentrarmi.

Arrivai in cucina e vidi un vecchio. Se ne stava seduto a testa bassa e si guardava le mani. Le guardava e le sfregava lentamente.

«Buongiorno.»

Ero di fronte a lui. A meno che non fosse sordo, doveva sentirmi per forza.

Il vecchio alzò la testa e sorrise.

Chiesi se potevo avere un tè.

«La mia signora adesso non c’è. Perché non torna nel pomeriggio?»

Quindi riprese l’attività che aveva interrotto per guardarmi.

«È da tanto che la sua famiglia vive qui?»

Voleva essere solo un modo gentile per avviare la conversazione e invece, forse, avevo toccato il tasto giusto.

«Mio nonno arrivò in Argentina insieme a Sir Love Jones Parry, il barone di Madryn. Era il 28 luglio del 1865, erano partiti da Liverpool a bordo del “Mimosa” e sbarcarono nel Golfo Nuevo che più tardi diventò Puerto Madryn in onore del barone. Fondarono la prima città gallese, Rawson.»

Si alzò con una certa agilità e mi mostrò una vecchia foto ingiallita che raffigurava un folto gruppo di persone eleganti e impettite di fronte a un edificio che poteva essere un municipio. Una scritta a penna in un angolo diceva Rawson 1865.

«Mio padre si spostò qui a Cholila nel 1922 e l’anno dopo nacqui io. Questa casa l’ha costruita lui, pietra su pietra, tutto da solo.»

«Ha molti ricordi di suo padre?»

«Veramente no, morì quando avevo due anni e mia madre lo seguì per la tisi dopo altri due.»

«Anch’io sono orfano.»

«Sono cresciuto benissimo con le mie due zie e loro mi raccontavano che mio padre, Dio lo perdoni, quando non costruiva case faceva soltanto due cose: si ubriacava di Old Smuggler e picchiava mia madre.»

«Mi dispiace.»

«Non si dispiaccia, figliolo, è stato meglio per tutti.»

Il vecchio non era per niente rincretinito o sordo come avevo pensato, così cercai di addentrarmi in quella conversazione un po’ dissociata.

«Che cos’è l’Old Smuggler?»

«Il whisky argentino. Non lo conosce? Ne vuole un goccio?»

«Perché no, ma solo per assaggiare, non sono abituato a bere di mattina.»

Prese da un ripiano alle sue spalle una bottiglia dall’etichetta nera e oro e mi riempì fino all’orlo un bicchiere di medie dimensioni. Fece lo stesso per sé.

«È di mattina che bisogna bere, per darsi forza e iniziare di buonumore la giornata. Altro che quella schifezza di tè e torta gallese.» Guardò con disprezzo le tovagliette di pizzo che coprivano i tavolini, poi scosse la testa. «Del resto la vecchia deve pur combinare qualcosa, altrimenti mi starebbe sempre addosso a dirmi quello che devo e non devo fare.»

«Sono venuto a Cholila in cerca di notizie su Butch Cassidy.» Buttai l’amo, curioso di vedere che cosa avrei pescato.

«Per quel che ne so, era benvoluto da queste parti, lo dicevano sempre le zie. Era un galantuomo, educato, divertente e generoso con tutti. Anche il suo amico, Harry Place, era un tipo giusto. La loro donna, invece, faceva parlare di sé, capisci quello che intendo, sai come vanno le cose. Quando una donna vive con due uomini, prima o poi…»

Mi strizzò l’occhio e bevve una sorsata di quel whisky chiaro e duro che attraversava la gola con l’effetto di una raspa.

«Beati loro, ma forse sono le maldicenze di due zitelle invidiose.»

Finì di scolarsi il bicchiere e lo caricò di nuovo. Buttò uno sguardo al mio, ma era ancora pieno a metà.

«Di certo so che c’è un discendente della famiglia Hahn, uno strano individuo che vive con una sorella pazza in una casa anseatica dalle parti del Lago Puelo. Dicono che la sa lunga sulla sparatoria di Rio Pico. Suo nonno Eduardo Hahn pare fosse uno di quelli che avrebbero sotterrato i due bandoleros vicino a casa sua.»

«Una casa anseatica?»

«Sì, una di quelle con il tetto colorato, spiovente e aguzzo, di quelle che si facevano in Germania e in tutte le città del nord, Lubecca o le altre che si affacciano sul Baltico.»

«E come si chiama questo individuo?»

«Vai al Lago Puelo, non ci sono tante case anseatiche da quelle parti, tranquillo che lo trovi. Ma se non ci fosse, lascia perdere, fatti un bel giro sul lago e vattene in Cile a bere una buona bottiglia di vino. Sono tutte storie vecchie, fritte e rifritte nel tempo, e alla fine hanno perso il loro sapore.»

Rimise a posto la bottiglia e lavò con cura i due bicchieri, poi li asciugò e li ripose nell’armadietto da dove provenivano.

La nostra conversazione era terminata.

Sedette sulla sedia dove l’avevo trovato e ricominciò a sfregarsi le mani

Cercai di salutarlo e di ringraziarlo per il whisky e la chiacchierata ma era ripiombato nella sua assenza.

Montaii in macchina e mi resi conto che l’Old Smuggler si faceva sentire, abbassai il finestrino e me ne andai alla volta del Lago Puelo.

Lungo il tragitto il tempo cambiò e adesso splendeva un sole terso. Il vento aveva soffiato rabbioso e aveva spazzato il grigiore delle nuvole.

Quando la vidi ero quasi arrivato al lago.

La visione della casa anseatica degli Hahn era un’istantanea dal paradiso. Intorno alla casa un prato curato, del verde più squillante che avessi mai visto. Intorno al prato, un anello di piccoli fiori di luppolo blu e ancora più oltre una fila regolare di alberi di melo. Era stretta e allungata, con balconi carichi di fiori di tutte le tinte. Il tetto azzurro e spiovente, interrotto da sbalzi, finestrelle e minuscole torrette.

Rimasi a guardare con il motore acceso e la bocca aperta quella specie di casa delle favole. Pensai che da un momento all’altro potesse uscirne una principessa e invece mi resi conto che un cane lupo continuava a ringhiare da dietro il cancello. Poi la porta si aprì e mi venne incontro un vecchio con due lunghi e curatissimi baffi bianchi girati all’insù.

Vestiva un completo di velluto marrone e calzava stivali di cuoio che conferivano un aspetto marziale alla sua falcata energica.

«Cosa diavolo ha da guardare, giovanotto?» tuonò in uno spagnolo dallo spiccato accento tedesco.

Mi presentai con calma e gli spiegai il motivo del mio viaggio e il mio interesse riguardo al periodo argentino di Butch Cassidy.

Nel frattempo, ora da una finestra ora da un balcone, si affacciava a guardarmi una vecchia con il volto da strega e i lunghi capelli grigi che le scendevano fino ai polpacci.

Mi fissava con uno sguardo stralunato e ostile, mi indicava urlando improperi e poi cambiava finestra. Sembrava un gioco da lunapark.

Il vecchio con i baffi mi fissava sospettoso e continuava a ripetere che lui non sapeva niente di Butch Cassidy e della sua banda.

«C’è una sola cosa che so, giovanotto. Da queste parti si può fare di tutto, anche ammazzare delle persone, vestirle con gli abiti di qualcuno scomparso e poi spargere la voce che è stato ammazzato chi è ormai svanito nel nulla.»

La vecchia continuava a giocare a rimpiattino e io pensai che quel vecchio tedesco impeccabile doveva aver ragione. Butch se n’era andato e qualcuno se ne stava sottoterra al posto suo. La Patagonia era il posto giusto per scomparire, non per morire. Specie per uno come Butch.

«Addio, giovanotto, e glielo dica pure che questa casa non è in vendita, glielo dica, glielo dica.»

Il vecchio mi voltò le spalle e rientrò con la sua falcata dinoccolata. Da dietro un vaso di fiori la vecchia mi fece un gestaccio, scoppiò in una risata stralunata e scomparve.

La casa tornò a essere la visione idilliaca che era stata prima della comparsa di quei due strani folletti.

Mi ritornarono in mente alcuni passaggi che avevo letto nel dossier di Pedro Mangini:

“Ormai sono convinto, signor Londres, che i Newbery, forse a loro insaputa, collaborarono con il señor Habban e gli altri proprietari terrieri per reclutare yankee dalla pistola facile con il compito di controllare che nelle terre del sud tutto procedesse come le ho descritto. I Newbery possiedono vaste estensioni di terra dalle parti del lago Nahuel Huapi.

La loro estancia, di 12.000 acri, si chiamò all’inizio Traful e poi in seguito fu ribattezzata La Primavera. Insieme a loro c’erano un altro latifondista texano, Jarred August Jones, uno dei primi a portare una Ford T in quei paraggi, e il señor Habban.

Era una comunità di lingua inglese, si rifornivano negli stessi empori, parlavano la stessa lingua, mangiavano e bevevano le stesse cose e conducevano lo stesso genere di affari.

I pistoleros non erano alle loro dipendenze dirette, ma se serviva c’erano, senza dover fare troppe domande.

Butch, Ethel e Sundance andarono più volte all’Estancia dei Newbery al Nahuel Huapi, e furono ospiti anche di Jarred August Jones per diverse settimane, ma nessuno denunciò il fatto alla polizia. Perfino l’ex sceriffo texano John Comodoro Perry incontrò Butch a Cholila, e lui sapeva chi fosse quel mandriano che si faceva chiamare Santiago Ryan, ma non gliene importava più di tanto, anzi, anche lui si stabilì a Cholila e diventò un frequentatore della cabaña de los tres. Bevevano tè, ascoltavano musica e se ne andavano in giro insieme a cercare cavalli e a fare spese. Di solito arrivavano fino all’Acienda Leleque, di proprietà della Compañia de Tierras Sud Argentina, un emporio frequentato da tutti i gallesi della zona. I nomi di Santiago Ryan e di Harry Place sono ancora annotati sui registri contabili.

Anche la storia della sparatoria di Rio Pico e della loro morte è tutta una montatura, organizzata, secondo me, dallo sceriffo Perry, dallo sceriffo di Esquel Milton Roberts e dai fratelli tedeschi Hahn.

Dopo il famoso furto alla Compañia Mercantil di Arroyo Pescado e l’uccisione del gerente, l’ingegner Llwyd Ap Iwan, con una Mauser 45 che Butch non aveva mai usato, e il rapimento del giovane Ramos Otero, tutti capirono che quelli non erano i metodi della “famiglia dei 3” e che i colpevoli erano Bob Evans e William Wilson. Alcuni sostenevano che erano solo due nomi fra i tanti che Butch e Sundance avevano adottato, ma chi li conosceva sapeva che non era così. Evans e Wilson erano violenti, brutali, ma anche due coperture perfette per eliminare una volta per tutte Butch e il Kid.

Dopo la sparatoria al Rio Pico, i due corpi furono sotterrati dai fratelli Eduardo e Juan Hahn senza coinvolgere i responsabili dell’agenzia Pinkerton. Anzi, la notizia interessante che sono venuto a sapere è che i fratelli Hahn, dopo pochi mesi, si trasferirono dalla loro casupola di Rio Pico in una bella casa vicino al Lago Puelo. La costruirono come piaceva a loro, in uno stile particolare, un’architettura che ricordava le abitazioni delle loro parti in Germania. La tirarono su in un posto incantevole e senza badare a spese”.

 

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L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 12/13

L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 12/13

dodici

Prima di partire per l’Argentina, oltre a raccogliere il denaro che mi sarebbe servito per il viaggio, decisi di prepararmi come potevo all’atmosfera che avrei trovato. Ascoltai fino alla nausea il bandoneon di Astor Piazzola, le canzoni di Gardel e il tango moderno di Luis Rizzo. Studiai tutto quello che trovai sulla Patagonia e in particolare sul Chubut.

Lessi quello che c’era da sapere su Albert Londres, ma non trovai riferimenti al dossier di Louise e Pedro. Non era obbligatorio citarli, ma conoscendo la loro tragica fine, avrebbe dovuto almeno accennare a quei due disgraziati che avevano cercato di bloccare un meccanismo feroce e perverso infilandosi direttamente nei suoi ingranaggi.

Mi convinsi che quelle pagine non erano mai arrivate ad Albert Londres. Forse non sarebbe cambiato niente, ma mi dispiaceva per la memoria di Louise e per il lavoro di Pedro Mangini.

Per completare la mia preparazione la sera andavo al circolo di biliardo dove Gilberto Vendramin, un vecchio italiano di Castelfranco Veneto dai capelli bianchi e arruffati che davanti al tavolo verde si trasformava in un atleta e un artista ispirato, m’insegnò a non sfigurare in un’eventuale partita di Goriziana.

Dopo migliaia di tiri di mattonella corta e di garuffe, abbracciai Gilberto, mi feci consegnare dal proprietario dell’enoteca per cui lavoravo la paga di nove mesi in contanti e decisi che avevo tutto quello che mi serviva per partire.

Domani parto e questa notte è una bella notte. Un cielo blu con una falce perfetta di luna e un lungo tappeto di stelle.

Viene voglia di stare così, sdraiati per terra e la faccia per aria. Tira un’aria fresca, ma non la sento, mi sono bevuto una bottiglia di Pinot Nero argentino. Me l’ha regalata il mio capo dell’enoteca quando gli ho detto che partivo per la Patagonia.

«Beviti questo Newen prima di partire, viene dalla Bodega del Fin del Mundo. Varrebbe la pena di andare laggiù solo per vedere com’è fatta una cantina alla fine del mondo.»

Adesso, se stringo un po’ gli occhi, di lune ne vedo due. Due parentesi perfette. Come la mia vita. Una vita fra parentesi.

Nella casa dei nonni, generosi, protettivi, assenti. Senza mio padre, senza mia madre e senza ricordi.

Sono stato fortunato.

Ho vissuto un’adolescenza serena. Fra parentesi.

Forse era meglio saltare sulla Mustang insieme a loro.

Forse devo ancora piangere tutte le lacrime che non sono riuscito a versare.

Il vino mi ha sbattuto nel fondo della mia malinconia.

Eppure è strano.

Penso a Louise.

La sento vicina.

È qui.

– Sono venuta a trovarti, Bob…

-…ma non è possibile…

– Tutto è possibile se lo vuoi veramente…

– …non bloccarti sul passato, Bob, la vita è adesso, è quello che ti lascerai dietro.

– Perché hai vissuto così, Louise?

– Perché dovevo continuare a vivere per lei. Solo per lei. Non m’importava quello che avrei dovuto sopportare, ma dovevo sentirmela accanto e darle un futuro. Quando entravo nel letto, lei dormiva, ma mi sentiva sempre, a qualunque ora arrivassi. Continuava a dormire, ma allungava la manina e mi sentiva. Questo era quello che contava per lei. Questo era quello che contava per me. Quando sentii che ero in pericolo chiesi aiuto a Corto Maltese perché sapevo che lui era abbastanza pazzo e generoso da non chiedermi un perché.

  • Un perché?
  • Certo, questa era la sua amicizia. Il rispetto. Fai lo stesso, Bob, vai avanti senza chiederti troppi perché e rispetta quelli che incontrerai. Non giudicarli, dagli sempre una seconda possibilità. I migliori viaggi sono quelli improvvisati, i migliori incontri quelli casuali. Tu stai cercando il tuo passato, in realtà, lungo la strada troverai il tuo futuro.
  • Ma io non so dove andare…
  • Sei già arrivato, Bob…

 

Voglio vedere la Patagonia, sentire il vento del Chubut, bere il mate e sentire l’odore dei larici, degli spazi sconfinati, della solitudine e della libertà. Non so se riuscirò a trovare le tracce di Butch Cassidy e dei suoi amici, ma so che devo partire, sento che devo andare là, perché se devo trovare qualcosa la troverò solo là.

In realtà nel Chubut non c’è nessuno con cui io debba per forza parlare, nessuno da incontrare né da ascoltare. È soltanto un richiamo.

Non è solo perché ho bevuto, è che non sono più solo.

Da ragazzo, quando stavo coi nonni facevo spesso un sogno, sempre uguale. Me ne andavo in giro insieme a mio padre e a mia madre con la nostra macchina, il paesaggio era quello della campagna irlandese. A un certo punto entravamo in una nuvola di nebbia, non si vedeva più niente. La radio trasmetteva una musica dolcissima, era If dei Pink Floyd, e all’improvviso la bomba scoppiava.

Saltavamo in aria, ma non c’erano schegge, né sangue o dolore, non c’era niente. In quel momento mi sentivo bene, leggero, volavo nel cielo, sentivo le gocce di pioggia irlandese che mi arrivavano in faccia, guardavo quei prati verdi dall’alto, il mondo che si allontanava sempre di più. Ero felice e volavo come una farfalla, senza peso, nel vento, mio padre e mia madre lì, poco distanti. Anche loro volavano, si tenevano per mano, mi guardavano e sorridevano. Sembravamo tre piume nel vento in un dipinto di Chagall.

Poi mio padre alzava la mano e la muoveva in segno di saluto, mi sorrideva e guardava mia madre. Allora anche lei faceva lo stesso gesto, ma abbassava la testa, non le vedevo più gli occhi, forse piangeva. E lentamente scomparivano fra le nuvole mentre io ripiombavo a terra, come un sacco vuoto.

Le prime volte mi svegliavo piangendo, poi lentamente mi abituai. In fondo mi piaceva il silenzio della casa vuota, la penombra del mattino, le righe del sole che filtrava fra le tende o il rumore della pioggia sui vetri, il ronzio del frigorifero.

Dopo la bomba ci sono stati i nonni, la scuola, i compagni, gli insegnanti, qualche amico, alcune ragazze, ma in fondo sono sempre stato solo. Mi sono abituato a restare da solo senza soffrire troppo, ma c’era qualcosa che non riuscivo a digerire: il fatto che ero solo dentro, nell’anima.

Mi mancava una parte di me, mi mancava il mio passato.

Quando mi svegliai, l’angolo dello spicchio di una sola luna spuntava da dietro la collina, ma un debole grigio cominciava a intaccare quel blu perfetto.

Mi sentivo leggero come se mi fossi tolto un sacco di cemento dalle spalle.

Mi preparai un caffè e raccolsi le mie cose prima di partire.

 

tredici

Sbarcai a Buenos Aires alla fine di aprile del 1996. Avevo imparato la Goriziana, ascoltato i tanghi di Gardel e El Nuevo Tango di Astor Piazzolla. Sapevo riconoscere l’armonica dell’orchestra di Eduardo Arola, El Tigre del Bandoneon, e sapevo che Aleman Bernstein era l’unico capace di bere birra continuando a suonare il bandoneon. Avevo ascoltato Leguisamo solo e sapevo che Gardel l’aveva dedicato al suo amico jockey, quello che montava il purosangue Lunatico, mentre 86 l’aveva dedicato a Domingo Torterolo, che nel 1910 aveva vinto ottantasei corse.

Sapevo anche che nello stadio dove si erano svolti i funerali di Gardel, il pugile argentino Firpo, dopo un incontro memorabile, aveva battuto Dempsey.

Habban aveva perso la scommessa.

Il volo si era preso tutta la notte, ma ero riuscito a dormire, seppure un sonno agitato da sogni e pensieri.

Erano le 11 del mattino quando atterrai. Il volo Aerolineas Argentinas 1698 per Esquel sarebbe partito alle 12.50. Avevo il tempo di mangiare un boccone.

Presi un panchito e una birra argentina. Il panino traboccava di ottimo filetto e la birra era perfettamente amara. Si cominciava bene.

Gironzolai per l’aeroporto Jorge Newbery e notai che sulla pista erano parcheggiate autocisterne con la scritta YPF. Le cose non sembravano cambiate più di tanto negli ultimi settant’anni.

Le vetrate dell’aeroparque si affacciavano sul Rio de la Plata e l’estuario sembrava un mare dipinto con un colore sbagliato: ocra-rossiccio. Una fila di acacie agitate dal vento costeggiava la riva e la strada ampia come un lungomare. Al di là della vetrata, oltre il dedalo di piste, si alzavano i grattacieli della città. Nel cielo si ammassavano nuvoloni carichi di pioggia estiva anch’essi orlati da una punta di colore rosso-mattone. Come se, nell’acqua e nell’aria, la presenza della terra non potesse mancare.

Il volo per Esquel durò tre ore, scalo a San Carlos de Bariloche compreso.

La pampa dall’alto sembrava ricoperta da un panno di velluto marrone, rigato da pieghe dei rilievi e segnato dalle linee chiare sottili delle strade che l’attraversavano.

Esquel è una cittadina piatta e tranquilla che un gruppo di immigrati gallesi fondò all’inizio del Novecento su un altopiano incastonato fra imponenti catene di montagne di ogni forma e colore.

Picchi brulli e rocciosi si alternano a vallate di foreste e, più in alto, si stagliano i ghiacciai eterni, il Pirámides e il Torrecillas, che creano sfondi da cartolina a laghi pescosi e colorati delle più incredibili tonalità di verdi e di azzurri. I fiumi si intrecciano ai torrenti e insieme fanno un’ultima corsa per tuffarsi nel Pacifico.

Oggi Esquel è uno dei principali snodi di comunicazione dell’Argentina meridionale, in particolare del Chubut andino. Poco distante, il Parque Nacional Los Alerces, il Parque Nacional Lago Puelo e soprattutto Cholila, la mia meta, la dimora argentina di Butch Cassidy.

Dormii a Esquel una sola notte, perché a Esquel non c’è niente da fare né da vedere. Si fanno gli ultimi acquisti prima di ripartire verso zone più solitarie e affascinanti, si ripara la macchina, si comprano buoni scarponi, viveri, tende, carte geografiche dettagliate, si fa una doccia calda, si mangiano le lasagne. E poi si va via, verso il cuore della Patagonia.

Avevo saputo che il proprietario di un albergo sul lago Futalaufquen era la persona più adatta per darmi le informazioni di cui avevo bisogno per mettermi sulle tracce di Butch Cassidy. Chiamai l’albergo e prenotai una stanza.

Il lago Futalaufquen è a una trentina di miglia da Esquel, verso ovest, in direzione del Cile, ed è una specie di smeraldo incastonato fra foreste di cipressi patagonici, gli alerces.

Qui è normale pescare una trota di quattro chili o viaggiare per ore sull’unica strada sterrata senza incrociare un’altra macchina o un’altra persona, immersi in paesaggi sconfinati.

L’albergo di Jorge Goicoechea è una costruzione in legno e pietra che si affaccia sul lago accompagnata da tutta la sua decadente signorilità. Gli ambienti sono coperti da listoni di quercia e i mobili sono scuri e massicci. Il bar è rifornito di ogni sorta di liquori e di bicchieri di cristallo, dalle pareti occhieggiano teste di animali imbalsamati fra vecchi moschetti e Frank Sinatra è la colonna sonora.

Mi venne assegnata una enorme stanza con balcone sul lago. Feci una doccia e scesi nel salone per la cena.

Frank Sinatra cantava Night & Day, quindi sedetti in una poltrona di cuoio e ordinai un drink.

«Cosa desidera, señor?»

«Quello che vuole, anzi quello che prende di solito el señor Jorge.»

Dopo pochi istanti, un uomo si presentò con un vassoio d’argento, due Martini ghiacciati, bicchieri perfetti, patatine, olive, scaglie di queso. Si accomodò con un sorriso davanti a me. «Sono el señor Jorge. Vogliamo parlare della sua gita a Cholila? Così sarò in grado di capire che cosa le serve.»

Gli dissi del mio desiderio di ritrovare dei documenti storici su Butch Cassidy e la sua banda, anzi più che documenti storici dei segni, anche piccoli, delle suggestioni che mi facessero comprendere meglio quel periodo. Non ero uno studioso e nemmeno uno storico, e forse nemmeno uno scrittore.

«Allora io sono quello che le serve per andare en busca de Butch Cassidy, señor!»

Sorrise, divertito e malizioso.

Jorge Goicoechea poteva aveva cinquanta, forse cinquantacinque anni, ma era atletico e giovanile, indossava jeans scoloriti, una cintura di cuoio intrecciato e una camicia di velluto blu. I capelli erano folti e chiari, pettinati all’indietro, lunghe basette brizzolate, pelle abbronzata e rugosa, denti bianchi e squadrati. Una specie di Clint Eastwood.

Nonostante da quelle parti fossero tutti appassionati di pesca, Jorge amava la caccia, come i suoi antenati, e per questo conosceva così bene la zona.

«Per prima cosa parliamo della macchina. Le serve una buona jeep e a questo posso pensare io. Ma le voglio fare un’altra proposta, se le interessa.»

Scolò il Martini e fece cenno al cameriere di portarne altri due. Sembrava un ragazzino alla prospettiva di un programma eccitante.

«Fra due giorni ho un appuntamento con degli amici a Cholila, per una battuta di caccia. Se è d’accordo, possiamo partire insieme domani, girare un poco da quelle parti, e poi potrà venire con noi. Altrimenti le lascio la macchina e potrà andarsene in giro da solo alla ricerca del suo Butch, che da queste parti si faceva chiamare Santiago Ryan.»

«Mi sembra perfetto, señor Goicoechea.»

«Jorge.»

L’idea mi allettava e Jorge dimostrava di conoscere la storia. Si alzò, mi diede appuntamento per l’indomani mattina alle otto e mi lasciò cenare da solo.

Partimmo rombando su una vecchia Nissan Patrol verde. Solida, ma un po’ ammaccata.

Jorge notò la mia perplessità.

«Questa camioneta può salire sui muri, señor. È vecchia, ma io la curo personalmente perché voglio essere sicuro che non mi lasci in mezzo alla pampa o in cima a una montagna.»

La strada che costeggiava il lago iniziò con un piacevole tratto asfaltato, poi, in un’ora soltanto, percorremmo una cinquantina di miglia di sterrato.

Jorge guidava veloce e con disinvoltura. La macchina volava sopra le buche e assecondava con docilità i colpi di controsterzo del guidatore. Gli schizzi d’acqua e di fango ci avvolgevano in una nuvola di melma, ma due colpi di tergicristallo e un po’ d’acqua sul parabrezza ci rimettevano in condizione di vedere il percorso.

I rami degli alberi sfrecciavano vicini e sul lato opposto lo strapiombo sul lago era privo di protezione.

Dopo aver costeggiato la riva orientale c’inoltrammo in un bosco fitto finché, dopo diverse salite e discese lungo il fiume Arrayanes, arrivammo sulle sponde del lago Rivadavia.

Il tempo cambiava di continuo, nuvole infinite nascondevano il cielo e abbassavano di colpo la temperatura. Scaricavano secchiate di pioggia poi si aprivano a un sole violento e accecante.

Ero frastornato dai suoni, dagli sbalzi della jeep, dalle visioni fugaci e mutevoli. Mi sembrava di essere finito all’interno di un videogioco.

Una volta superata un’ultima collina, si aprì come per incanto la vallata di Cholila.

L’emozione che provai fu talmente intensa che dovetti chiudere gli occhi.

Jorge rallentò fino a fermarsi, scese e mentre io m’inebriavo di quel paesaggio, si mise a pisciare sul bordo della strada.

Non c’era anima viva. Scesi a godermi quella pace improvvisa. Il silenzio della campagna si era fatto assoluto.

Campi coltivati che si stendevano a perdita d’occhio e macchie di alberi dalle foglie gialle che si alternavano ad altre verdi o rosso-arancio. Mandrie di mucche al pascolo e gruppi di cavalli, casupole sparse e la strada sterrata che tagliava la vallata in tutta la sua lunghezza.

«Ai tempi di Butch non doveva essere troppo diverso», disse Jorge. Rimise in moto e continuò a volare fino alla cittadina.

Non si può dire che Cholila sia particolarmente attraente. Ci sono poche case sparpagliate lungo una strada che forma un anello, cani rinsecchiti, meticci che guardano immobili, muri diroccati, cartelli che penzolano nel vento e pochi trattori arrugginiti.

Jorge circumnavigò Cholila e si immise sulla strada 71, quella con l’indicazione per Epuyen, percorse poche miglia e svoltò a sinistra davanti a un edificio sul quale si trovava l’insegna Stacion de Policia. Parcheggiò la macchina e mi guardò indicandomi un’altra insegna di legno che penzolava da una staccionata.

Cabaña de Butch Cassidy.

C’era una freccia, ma indicava il nulla.

«Curioso, no? Oggi la loro casa sarebbe di fronte alla polizia.»

Ma io non vedevo niente.

Jorge scavalcò la staccionata e lo seguii.

Percorremmo qualche centinaia di passi seguendo i cespugli che costeggiavano un corso d’acqua. Dirigevamo verso un gruppo di alberi e finalmente, semicoperta da uno di essi, la vidi.

La capanna di Butch era costituita da tre basse costruzioni in legno, piuttosto malconce e mimetizzate nella vegetazione.

Entrai e guardai dappertutto nell’assurda speranza di trovare un pezzetto di qualcosa, un oggetto qualsiasi, magari un proiettile, ma là dentro non c’era assoltamente nulla, a eccezione delle tracce di una vecchia carta da parati a righine e fiori blu, del residuo incenerito di quello che doveva essere stato un camino e di una generale atmosfera di abbandono totale.

«Ti basta?» mi domandò Jorge mentre ci allontanavamo.

Non risposi e continuai a guardarmi intorno.

«Non erano fessi i tre norteamericanos. Dalla strada, anche oggi, non si scorge niente. Il fiume è il Rio Blanco e l’acqua a portata di mano è importante. Anche per cavalcare nel letto del fiume se si vogliono far perdere le tracce.» Indicò le montagne. «E poi, oltre le vette della Cordillera, c’è il Cile. Si erano stabiliti da queste parti come allevatori pacifici, ma tenevano sempre la porta aperta in caso di pericolo, e infatti… Ma sono faccende di cui ti occuperai più tardi, adesso andiamo a provare una cosa.»

Tornammo alla macchina. Accanto alla staccionata si era fermato un baio che ci guardava. Nel silenzio si avvertiva solo il ronzio di una mosca e il soffio lieve del vento. Il baio, d’un tratto, come se avesse sentito qualcosa, scosse la testa, emise un lungo nitrito e si allontanò al galoppo. Fui percorso da un brivido.

Ci fermammo a bere un caffè e a mangiare un paio di sandwich, quindi proseguimmo verso il lago Cholila, a una decina di miglia dal paese.

Il percorso per il lago Cholila è una specie di pista, poco diversa dal letto di un fiume parzialmente asciutto, quindi in parte sabbiosa e in parte fangosa, anche perché il fiume vero le scorre a fianco, senza argini né protezioni.

«Quando percorri una strada sterrata, la velocità migliore è intorno alle 55, 60 miglia all’ora. Se vai più piano, senti tutte le buche e diventa un inferno, se vai più forte, devi avere un gran manico. Su queste piste sabbiose devi ascoltare quello che ti dice il volante, devi essere morbido e sensibile. È come guidare sulla neve, mai fare movimenti bruschi, altrimenti la macchina s’incazza. Fai solo attenzione a non finire nel fiume. Ci sono sempre quattro solchi in queste piste, due li fanno le macchine che vanno nella tua direzione, due quelle che vengono dall’altra. Regolati sui solchi interni, così te ne stai in mezzo della strada e hai più spazio per gli imprevisti, ma non ti distrarre mai, altrimenti ti ritrovi a ruote all’aria. Se ti va bene.»

Sfiorava il fiume, e la macchina provava di continuo a imbarcarsi, ma lui la correggeva con gentilezza, controsterzando nella direzione opposta a quella della curva. Andava veloce, ma mi stavo abituando, anzi, per dirla tutta, mi divertivo.

«Bueno, siamo arrivati» disse Jorge infilando la macchina in un sentiero che passava su un piccolo ponte sospeso e largo pochi pollici più della jeep.

Dopo qualche secondo si fermò in una larga radura circondata da una collina che formava un anfiteatro naturale.

Cosa voleva dire che eravamo arrivati? Lì non c’era niente.

«Adesso ti farò sentire un poco più vicino a Butch.» Aprì il portellone posteriore della jeep e tirò fuori una sacca che, a giudicare dai suoi movimenti, doveva essere piuttosto pesante. Ne estrasse due fucili mitragliatori e varie scatole di munizioni. «Sai cosa sono questi?»

«Mitra.»

«Per l’esattezza sono due AK-47, più comunemente Kalashnikov, tra le migliori armi al mondo. Hanno un caricatore da trenta colpi e raggiungono un bersaglio fino a mille piedi, sparano anche se li metti nell’acqua o nel fango. Senti com’è leggero.»

Me ne porse uno. Gli brillavano gli occhi.

Tenere in mano quell’arma mi procurò un misto di sensazioni contrastanti: timore, ribrezzo, rispetto ma, soprattutto, voglia di provare a sparare.

«Pesa poco più di otto libbre. Da questi è stato tolto il meccanismo automatico, così sparano un colpo alla volta e quindi sono autorizzati anche per la caccia. Ma andiamo a provarli.»

Tirò fuori dal bagagliaio una serie di bersagli e li fissò con alcuni pezzi di legno a circa centocinquanta piedi di distanza, poi raccolse delle bottiglie di birra e le piantò a terra un po’ più vicine, prese un sacchetto di mele e le sparse intorno, quindi mise in fila dei tappi di bottiglia contro un sasso.

«Ecco fatto. Vari livelli. Comincio io o tu?»

Feci solo un gesto con la mano.

«Bene, prima di tutto le regole: carichiamo un’arma alla volta e la puntiamo sempre a terra. È un gioco, ma le regole sono ferree e devono essere sempre rispettate. Si spara uno alla volta, l’altro deve rimanere indietro, almeno di sei piedi. La seconda arma deve restare scarica e a terra.»

Imbracciò, mirò e iniziò a sparare, con estrema calma, verso il bersaglio più lontano. Ogni colpo provocava un frastuono d’inferno. Dopo i primi due, quando vidi alzarsi in volo una coppia di uccelli, pensai che ogni genere di animale fosse sparito dalle vicinanze. Sparò una decina di colpi, poi mise la sicura e appoggiò l’arma a terra prima di avvicinarsi al bersaglio.

«Non male, l’AK è preciso e regolato bene, ma dopo tutta quella guida tremo ancora un po’, mi devo rilassare. Prova tu adesso.»

Imbracciai il Kalashnikov e pensai a quanti ce n’erano in giro per il mondo. Capii all’istante che anche un ragazzino avrebbe potuto sparare con quell’arma.

Lasciai partire il primo proiettile verso il bersaglio e mi resi conto che, nonostante la potenza, non produceva il minimo contraccolpo. Feci centro varie volte, ma l’esaltazione vera era data dalle bottiglie e dalle mele che sembravano esplodere.

Mi fermai solo quando il grilletto non ottenne risposta e la canna era incandescente. Avevo le orecchie otturate e mi sentivo né più né meno come il caricatore, svuotato.

«È pauroso e fantastico allo stesso tempo», dissi.

«Adesso capisci cosa vuol dire avere un’arma in mano, giusto?»

Andammo avanti per un’ora. Non c’era più niente da colpire, avevamo distrutto ogni possibile bersaglio.

«Verrai a caccia con me?»

«No, io preferisco un altro genere di caccia, diciamo caccia di storie. Ma ti ringrazio, è stata un’esperienza che non dimenticherò.»

Rimise tutto in ordine con estrema cura, poi raccolse da terra il bossolo di un proiettile e me lo porse: «Prendi è una Remington 223, così ti ricorderai sempre dei Kalashnikov e di Jorge».

Ritornammo sulla strada per il lago e dopo un miglio arrivammo a un lodge di pesca, una graziosa costruzione vicino al lago Cholila che si chiamava El Pedregoso. Mangiammo asado e bevemmo una bottiglia di Cabernet-Sauvignon proveniente dai vigneti di Luigi Bosca a Mendoza.

L’indomani mattina alle otto Jorge era già partito con i suoi amici per la battuta di caccia. Mi aveva lasciato un biglietto:

Caro Bob,

sono sicuro che passerai bei momenti alla ricerca di Butch. Guardati in giro e portati a casa tutte le sensazioni e i ricordi che puoi. Parla anche con la gente, è naturale, ma ricordati che da queste parti raccontano tutti un sacco di frottole.

Non hanno niente da fare, e allora parlano, così, anche se non sanno niente, per passare il tempo.

Sono contento che tu non sia venuto a caccia; sparare a un animale è un’emozione troppo forte e può fare male. O piacere troppo.

A proposito, ricordati una cosa: se anche per una volta sola hai dovuto usare un’arma per fermare qualcuno che ti stava cacciando, dopo non potrai più farne a meno. Forse anche Butch cominciò così.

Usa la jeep come vuoi e non essere troppo prudente, divertiti. Tanto da queste parti non passa mai nessuno.

Buena busca,

Jorge

 

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L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 10/11

L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 10/11

dieci

Avevo passato la giornata a leggere il dossier di Pedro Mangini e a confrontare i dati con il materiale che avevo trovato nella cartella di Betenson. Alla fine, ormai erano le dieci di sera, ero stanco e non avevo voglia di trovarmi un ristorante per mangiare. Uscii dalla stanza e provai alla reception. Trovai un nero assonnato e sopra di lui Butch Cassidy, che mi guardava con quella faccia da gatto sornione. Gli chiesi se poteva rimediarmi qualcosa da mettere sotto i denti. Non aveva una faccia sveglia, ma era gentile.

«Il bar è chiuso, ma vado a vedere nel mio frigo se è rimasto qualcosa.»

Si allontanò dal banco ed entrò in un bugigattolo alle sue spalle. Sentivo la sua voce che risuonava come un’eco dal frigorifero vuoto.

«Gelatina di ciliegia e di fragola, biscotti al pistacchio, miele e cioccolato, un sandwich di tacchino, provolone, insalata e cipolla, una Coca Light, succo di mango e papaia, e una Bud, ma se vuoi posso farti anche un caffè. Ah, qui sopra c’è anche un pacchetto di pop corn.»

«Vada per la birra e i pop corn, grazie, non chiedo di meglio. Sono stanco morto, mi guardo un film in tv e poi a nanna.»

Lasciai sul banco una banconota da cinque dollari e tornai in camera.

In pochi minuti buttai giù la mia fantastica cena, in realtà avevo solo voglia di bermi una birra fresca e andarmene a dormire. Dopo un certo numero di ore al computer ti prende una specie di nausea che svuota da ogni desiderio e l’unica necessità diventa chiudere gli occhi e lasciar riposare il cervello.

Mi addormentai all’istante, ma alle 03.50 i miei occhi si spalancarono e si fissarono su quei numeri rossi che lampeggiavano dalla radiosveglia che avevo di fronte.

Il cervello si era riposato e adesso avevo una fame da lupo, ma cercai di impormi di continuare a dormire.

Non c’è niente di meglio per svegliarsi del tutto.

Stavo per alzarmi, quando avvertii un leggero rumore. Rimasi immobile ad ascoltare. Un tramestio metallico contro la porta; qualcuno stava cercando di forzare la serratura. Nel buio della stanza, l’unica luce era quella dei numeri rossi che lampeggiavano sulla radiosveglia: 03.57.

A me bastava, ma non sarebbe bastato all’intruso.

Scivolai in silenzio a terra dal lato sinistro del letto e sistemai alla meglio le lenzuola. La porta era sulla destra del letto e davanti c’era una cassettiera con uno specchio rivolto verso l’ingresso. Non avevo la minima idea di quello che avrei fatto, anzi, di una cosa sola ero certo, il sangue mi si era gelato in tutto il corpo.

Il tizio scivolò dentro in silenzio e rimase immobile lasciando uno spiraglio aperto per far filtrare all’interno un po’ di luce.

Mi sembrava che il cuore mi rimbombasse talmente forte che avrebbe potuto sentirlo. Restai immobile.

L’intruso tese l’orecchio, il silenzio parve tranquillizzarlo e avanzò. Guardò nella mia direzione e vide il letto vuoto, quindi girò in fretta la testa in cerca di qualcosa da prendere.

Sul tavolo, accanto alla cassettiera, c’era il computer con la piccola luce verde che lampeggiava e, accanto, le chiavi della macchina.

Qualcosa dentro di me si mosse. Una specie d’istinto a reagire.

In realtà, se avesse preso solo le chiavi della macchina o i soldi, forse l’avrei lasciato fare, ma il computer, con gli appunti, le ricerche, le schede trascritte, quello non potevo permetterlo. E poi ero in vantaggio, mi trovavo alle sue spalle, e non mi sembrava troppo grosso, anzi.

Mi guardai intorno in cerca di qualcosa da usare come arma, ma non c’era nulla. L’incoscienza continuò a guidarmi e strisciai fuori dal mio nascondiglio dietro al letto.

Il tizio non si accorse di niente. Mi alzai. Adesso ero a un passo da lui, si era lievemente piegato per staccare l’attacco alla presa di corrente del computer.

Scattai in avanti come una furia e lo spinsi violentemente contro il muro. Il computer gli cadde dalle mani e lo schermo si frantumò in mille pezzi.

La testa dell’intruso picchiò contro il muro e sentii un rumore come di una mazza da baseball che colpisce la palla. Cadde a terra, intontito dal colpo, ma si voltò e mi guardò incredulo. Era un ragazzino, poteva avere al massimo diciassette anni.

Il mio corpo continuò ad avere reazioni di cui non l’avrei mai creduto capace. Gli diedi un calcio in faccia con l’energia che avrei usato per tirare il calcio piazzato più importante della mia vita, e provai un dolore tremendo irradiarsi a tutte le ossa del piede. Poi lo colpii sotto il mento, e questa volta sentii un orribile rumore secco di denti che sbattono fra loro. Mi chinai e lo colpii ancora più forte, con un pugno alla tempia, e la sua testa seguì quel colpo come inerte.

Era svenuto e perdeva sangue dalla bocca. Io tremavo come una foglia e non riuscivo a fermarmi. Uscii dalla stanza e cominciai a gridare.

Dopo dieci minuti il ragazzo era in manette e con la testa fasciata. Non dimenticherò mai lo sguardo d’odio che mi lanciò.

Passai ore al posto di polizia a spiegare la scena e a dire che non volevo sporgere denuncia, che mi bastava che non avesse rubato niente, e alla fine mi lasciarono andare.

Erano le 9 del mattino, avevo bevuto cinque pessimi caffè e mangiato un panino al formaggio che non sapeva né di pane né di formaggio.

Prima di uscire, il sergente che aveva redatto il rapporto mi si avvicinò con un sorriso. «L’ho sempre detto che è importante sapere giocare a football.»

Sorrisi.

«Ascoltami, Bob, questo stronzetto è un teppista piuttosto conosciuto da queste parti, ma ha sedici anni e senza la tua denuncia non so per quanto tempo potremo tenerlo al fresco. Se fossi in te, cambierei aria, o almeno motel, non si sa mai. Potrebbe avere un amico o un fratello più grosso di lui.»

Alzò la mano per salutarmi e tornò in ufficio.

Andai al motel e presi la mia roba. Ero diventato famoso, tutti mi volevano stringere la mano, ma io non mi sentivo troppo orgoglioso, avevo solo dato uno spintone e un calcio in faccia a un ragazzino. Se al posto suo ci fosse stato un delinquente vero, forse in quel momento mi sarei ritrovato una pallottola in corpo.

La prima cosa che feci una volta fuori di lì fu andare in un negozio di assistenza tecnica per il computer.

Mentre lo riparavano, pranzai. Dopo poco più di un’ora ritirai il mio computer e mi feci salvare su un dischetto tutto quello che avevo scritto, andai all’UPS e mi spedii il dischetto a casa. Adesso potevo ripartire.

Sapevo che il viaggio di ritorno mi sarebbe sembrato più lungo di quello dell’andata, ma volevo riflettere su quello che avevo saputo e su quello che mi era successo, e non c’è niente di meglio di un viaggio in macchina per pensare.

Ero uscito da Circleville da una ventina di minuti, quando un cartello luminoso attirò la mia attenzione: Finnegan’s Liquor Shop.

Accostai ed entrai. Non mi ero sbagliato, quel cognome non poteva essere casuale. Oltre ai soliti liquori, c’erano birre e whiskey irlandesi. Comprai una bottiglia di Bushmills di dieci anni e uscii.

Voltai la macchina e tornai indietro.

Erano le cinque del pomeriggio e Betty Betenson sedeva sotto la veranda, guardava davanti a sé, ma non mi vide. James si affacciò aprendo la porta della cucina. Aveva una paletta unta in mano, mi vide e sorrise.

«Bentornato, ragazzo, ti sei dimenticato qualcosa?»

Entrammo in cucina, era piena di fumo e puzzava di olio bruciato. La radio gracchiava una canzoncina degli anni Sessanta, Love potion number nine, The Searchers.

«Volevo darle questo prima di partire», dissi scartando la bottiglia di Bushmills.

«Lo sapevo che eri un tipo giusto, Bobby, un gran paraculo, bastardo figlio di un maledetto cazzone irlandese. Mettiti immediatamente seduto e non muovere quelle chiappe secche, perché Jimmy adesso ti prepara il tuo bel bisteccone speciale.»

Gli brillavano gli occhi per la gioia. Tirò fuori dal frigo un pezzo di angus che sarà pesato un chilo e lo buttò a sfrigolare insieme all’altro già mezzo carbonizzato.

«Adesso ci facciamo un bell’aperitivo con quella tua bella bumba irlandese e poi mi racconti cos’hai trovato di così bello nelle cartacce di papà Mark.»

Versò due bicchieri colmi fino all’orlo di whiskey. Alla radio The Mamas and Papas avevano attaccato con Monday, Monday.

Bevemmo in silenzio. Lui scolò il suo whiskey come fosse Coca-Cola.

«La mia bistecca va bene così, James, a me piace al sangue.»

«Come preferisci, vampiro.»

Preferivo evitare che carbonizzasse anche la mia. Iniziammo a mangiare continuando a chiacchierare. La carne era eccellente, quello che ci voleva per tirarmi su, e scoprii che pasteggiare a Bushmills non era poi così male.

Stavo mangiando nella casa in cui aveva vissuto Butch Cassidy.

Dopo tre quarti di bistecca e un bicchiere di whiskey, gli raccontai quello che mi era successo al motel. Divorata la sua carne, mentre io ero ancora a metà dell’opera, James era sprofondato in poltrona e si ingozzava di piccole meringhe ricoperte di zuccherini di tutti i colori. Rimase ad ascoltarmi a bocca aperta.

«Sei stato in gamba, ragazzo. Spero che a quel bastardello brufoloso la lezione sia servita, ma se mi capiterà d’incontrare un ragazzo con tre denti spaccati, cercherò di completare il tuo lavoro, Bobby, puoi scommetterci.»

Strinse il pugno di quella manona e lo picchiò contro il bracciolo della poltrona. Il pavimento vibrò.

«A proposito, l’altro giorno mi sono dimenticato di dirti una cosa. Butch aveva un altro amico con cui era rimasto in contatto, un altro irlandese come te, mi sembra che si chiamasse O’Malley, credo fosse il fratello di un poliziotto ammazzato. Questo O’Malley era uno che trafficava armi per i ribelli irlandesi, Butch rimediava il materiale e un marinaio con un veliero lo scaricava in Irlanda, a sud, su una spiaggia dalle parti di Cork.»

Un tuffo al cuore.

La sensazione che il cerchio si stava chiudendo.

Cercai di rimanere calmo, ma sentivo come una scossa elettrica attraversarmi il corpo.

«Si ricorda per caso se quel marinaio poteva chiamarsi Corto Maltese?»

«Sì, certo, lui. Ma tu come fai a saperlo?»

«È una strana storia d’incastri…»

Rimanemmo in silenzio per un po’.

Erano quasi le sette e avevo voglia di bere un caffè e di partire. Marvin Gaye cantava How sweet it is to be loved by you.

Guardai James Betenson. Si era addormentato.

Sembrava un bambino soddisfatto e felice. Un cristallo di zucchero verde gli era rimasto incastrato fra le labbra.

Presi un pezzo di carta da cucina e gli scrissi un saluto, poi ci misi sopra quello che era rimasto della bottiglia di Bushmills.

Me ne andai mentre Roger Miller sincopava Dang me.

Non riuscii a resistere, feci un passetto in avanti, uno a destra, uno a sinistra, uno indietro e solo dopo uscii da quella cucina fumosa.

Puzzavo di fumo, di olio fritto e di bistecca, ma stavo bene, forse come non mai, e l’aria fresca mi avrebbe ripulito in fretta mentre il sole tagliava a fette tutte le cose con luce radente.

James dormiva. Betty, seduta sotto le frasche, non mi vide passare.

 

undici

Puntai la prua a nord e salpai le ancore, ma quando mi ritrovai a Sevier mi resi conto di non avere alcuna intenzione di ripercorrere la stessa strada. L’Interstate 70 mi aveva stancato, ma c’era poco da cambiare, dovevo tornare a New York. Eppure avevo voglia di continuare a sentire quell’aria fresca, così proseguii verso nord, verso Salt Lake City, e da lì imboccai l’Interstate 80. Mi avrebbe portato dritto a casa, dovevo solo seguirla per 2189 miglia.

All’altezza di Evanston, entrai nel primo motel che incrociai. Erano le due di notte. Mi buttai come un sacco sul letto e mi svegliai alle undici. Continuavo a stare bene, il dischetto con dentro tutto quello che sapevo doveva essere arrivato a casa, il computer funzionava, avevo messo fuori combattimento il ragazzo di Circleville e conosciuto James Betenson.

Ma, soprattutto, avevo una nuova pista. Avevo deciso, sarei andato fino in fondo. Sarei andato in Argentina.

Non che avessi le idee troppo chiare su quello che volevo cercare, ma sapevo che avrei trovato qualcosa. Io non cerco, io trovo, diceva Pablo Picasso. E poi l’istinto che fino a quel momento non mi aveva tradito adesso mi reclamava a voce alta.

Guidare, bere, mangiare, dormire. Ma questa volta i paesaggi erano più interessanti e i nomi erano quelli che avevano eccitato la mia fantasia di ragazzino: Wyoming, Nebraska, Iowa, bistecche favolose, Illinois, Indiana, Cleveland.

Fino a quel punto ero stato piuttosto veloce e ormai mancavano appena 466 miglia. Ma non c’era fretta di tornare a casa, potevo starmene tranquillo in un posto qualunque, a riflettere e a organizzare quello che sapevo.

Continuai verso nord costeggiando le sponde infinite del lago Erie. A Utica decisi che avrei attraversato le montagne Adirondack, il lago Saranac e sarei arrivato a Lake Placid, ma c’era troppa gente per i miei gusti e proseguii fino a Keene Valley. Avevo voglia di riposarmi e di sentire il sole scaldarmi la faccia e le ossa. Mi fermai per un paio di giorni.

A Elisabethtown affittai per una settimana una casetta di legno che si affacciava su un lago splendido e minuscolo, il Lincoln Pond, insieme a una bicicletta e a un kajak.

Finii di leggere il dossier di Pedro Mangini e studiai le «cartacce» di James Betenson. Vogai sul lago col fresco delle prime luci dell’alba e nel rosa di tramonti silenziosi.

Può sembrare strano, ma mi sentivo meno solo. Come se quella storia mi avesse aperto gli occhi. Scoprivo infinite forme di vita intorno a me e finalmente mi sentivo scorrere dentro la mia. Scivolavo in silenzio su quell’acqua immobile e i miei sensi si riempivano di sensazioni che mi inebriavano, il profumo dei pini, della resina, dell’erba.

Mi tornò alla mente una frase di mio padre: «Fai in modo che il tuo passaggio attraverso la vita sia come quello di un carro carico d’erba appena tagliata. Il carro va, ma sulla strada rimane sempre qualche filo e rimane il suo profumo. Prova a lasciare un segno, o almeno un buon ricordo.»

C’era solo un aspetto che non riuscivo ancora a capire completamente, che tipo di legame ci potesse essere stato fra Louise e Corto Maltese, da quanto avevo capito, quel marinaio si era preso cura di Mania, ma il perché non mi era ancora perfettamente chiaro.

Poi, un giorno, prima di ripartire, proprio mentre ero lì a riordinare i documenti e i miei appunti, trovai un’altra lettera di Louise, era rimasta attaccata in mezzo alle foto di Butch, Sundance e Etta, per questo non l’avevo ancora vista.

Fu la chiave di tutto.

Caro Corto,

quando leggerai questa lettera, probabilmente io non ci sarò più, ed è per questo che ti scrivo, perché sei l’unico di cui mi fido fino in fondo.

Ti ricorderai, credo, di quando ci siamo conosciuti a Venezia. Mi trovavo là col signor Bessone, una brava persona, anche se mi viene una gran tristezza a ripensare a lui.

Gli avevano detto che aveva un cancro e che gli restavano pochi mesi di vita. Lui aveva fatto la valigia ed era uscito di casa senza dire niente alla famiglia, mi aveva chiamata e mi aveva detto che saremmo partiti per un po’.

Io non avevo fatto domande ed ero partita con lui.

Mi spiegò tutto durante il viaggio. Mi disse che voleva rivedere il suo paese, l’Italia, che voleva rivedere Parigi e che voleva farlo con me, perché ero l’unica che gli dava un po’ di gioia. Era il suo ultimo viaggio, la famiglia avrebbe capito, anche perché nel giro di pochi mesi gli avrebbe lasciato tanto di quel denaro che si sarebbero dimenticati di quel suo ultimo capriccio.

Era il 1919, ed era maggio quando arrivammo a Venezia. Bessone era gentile con me, spesso si sentiva male e rimaneva in albergo ma insisteva che io uscissi, che mi godessi quella vacanza, che non rimanessi in una camera d’albergo con un vecchio malato.

Venezia era meravigliosa e ti incontrai. Non dimenticherò mai la gita in barca all’isola degli armeni. Non dimenticherò mai il colore della laguna e il profumo delle rose sull’isola.

Ma non volevo parlarti del passato, Corto, quello ormai è andato. Volevo parlarti del futuro.

Da quando Lara è sparita – e per questo mi sento in colpa, visto le persone che le ho fatto incontrare – Laurentino non è più lui, si è chiuso nel suo dolore infinito e non vuole pensare che ai ricordi. Ogni mattina prepara la colazione per due e continua a sperare che Lara ritorni.

Pedro è il mio migliore amico, è una persona speciale, è buono, è intelligente, ma ha un problema riguardo a quello che sto per dirti: lui lavora, vive e pensa come un argentino.

Lui vivrà sempre qui, in Argentina.

Corto, ti scrivo per parlarti della mia bambina, Mania, che oggi ha tre anni ed è la cosa più bella, più pura e più vera che io abbia fatto in tutta la mia vita.

Forse l’unica.

Non preoccuparti, non voglio parlarti di date e di possibilità, anche se in un angolo del mio cuore vorrei che fosse figlia tua.

Non è per questo che ti scrivo.

Ti scrivo perché vorrei che Mania vivesse lontano da qui, lontano dal posto dove sua madre sarà ricordata per sempre come la bella Louise.

Corto, tu conosci il mondo e tanta gente. Ti chiedo solo questo: portala via da qui, falla crescere a Venezia, o dove vorrai, ma lontano da qui. Nient’altro.

Mi fido di te, perché sei diverso da tutti e vorrei che lei prendesse qualcosa da te. Non ti chiedo di farla crescere come un bravo zio premuroso, non ti ci vedo, ma sono certa che saprai scegliere il meglio per lei.

Lo so, è un grande favore quello che ti sto chiedendo, ma alle persone speciali si chiedono cose speciali. Una cosa ho imparato: i favori speciali hanno un prezzo, e io sono sempre stata giusta, almeno credo.

Se quando arriverai non ci sarò più, Mania sarà da una mia amica. Si chiama Faria Gomez, la chiamano China per il suo sguardo orientale, è una brava ragazza, sa tutto di me e sa perfettamente cosa dovrà fare quando t’incontrerà. Non ridere, ma Faria è una nipote di Habban.

Bene, allora eccoti una notizia carina tutta per te.

Quando sarai in Argentina, vai a sud, fatti una gita fino a San Carlos de Bariloche, sul lago Nahuel Huapi, è un posto magnifico, vedrai, ne varrà la pena. Quando arrivi vai dritto al porto, affitta una barca e dirigi la prua a nord. Supererai l’Isla Victoria che terrai a sinistra. A destra supererai la penisola Huemul, dove hanno terre i Newbery. A quel punto, dirigiti verso un porto naturale che si chiama Puerto Manzano.

Puerto Manzano è all’altezza della penisola Quetrihue, una lunga striscia di terra coperta da alberi dal tronco color cannella che qui chiamano arrayanes. Getta l’ancora e goditi il paesaggio.

Quando sarai sceso a terra, vedrai una casetta di pietra e legno, te la troverai sulla sinistra della spiaggia, non puoi sbagliare perché c’è una grande targa di legno che dice chi fu il primo colono ad arrivare lì nel 1902. L’attuale proprietario si chiama Ernest Jewell ed è uno scozzese. Bene, adesso fai attenzione, perché di fronte alla casa, cioè alle tue spalle, c’è un gande albero strano, è un’araucaria. A destra, a una ventina di passi, c’è una sequoia.

Gira intorno al tronco e spostati sul lato opposto alla casa, lì troverai una pietra larga e chiara, sollevala e scava un po’. Dovrai darti da fare, ma ti basteranno le mani.

Sotto c’è una cassetta con tre lingotti d’oro puro da un chilo ciascuno. Prendili e usali come vuoi, per comprarti una nuova barca, per fare il giro del mondo… 

Ma porta Mania via da qui, ti prego.

 

Louise

 

 

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L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 8/9

L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 8/9

otto

Il 25 novembre 1995 alle sette di mattino attraversai il Tappan Zee Bridge. A quell’ora il traffico dei pendolari in direzione Manhattan era già un tappeto di macchine. File compatte, ordinate, fari accesi e radio sintonizzate sui notiziari. Pioveva e i riflessi sul parabrezza mi davano fastidio.

Io filavo in direzione opposta verso il New Jersey, liscio come l’olio.

Non ricordo quanto impiegai ad arrivare. Forse una settimana.

Le prime ore guidai come un camionista a cottimo, senza soste, senza riposo, gli occhi arrossati che s’incrociavano e la testa che mi ordinava di rimanere sveglio. Ascoltavo musica, bevevo succo d’arancia e mangiavo panini al prosciutto e formaggio.

Guidai per un giorno e una notte interi, poi decisi di fermarmi in un motel. Ero sfinito, pentito di aver scelto la macchina e in preda a mille dubbi sull’utilità di quel viaggio.

Dopo quel primo sonno ristoratore decisi che me la sarei presa più comoda e mi imposi di dormire ogni notte in un letto. Mi tornò un po’ di ottimismo e la vecchia Dodge noleggiata a un prezzo stracciato soltanto perché era un po’ ammaccata divenne una fedele e docile compagna di viaggio.

Impostavo il cruise control sulla velocità massima consentita e non mi restava altro da fare che tenere in mano il volante. Sul sedile del passeggero avevo una custodia con cinquanta CD, una carta stradale, una bottiglia di succo d’arancia, un panino, gomme da masticare e caramelle alla menta glaciale. Mi servivano se cominciavo a sentirmi troppo rilassato, aprivo il finestrino, mi facevo schiaffeggiare dall’aria fresca e m’infilavo in bocca una di quelle piccole bombe che mi facevano salire il mentolo fino al cervello bucandomi il palato. E poi mettevo un po’ di rock. Roba nuova e roba vecchia, anche se di solito funzionava meglio la seconda: Pink Floyd, Led Zeppelin, Doors, Credence, Rolling Stones.

Attraversai New Jersey, Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Indiana e Illinois. Poi toccò a Missouri e Kansas e solo quando arrivai in Colorado, mi resi conto che il paesaggio era cambiato. Montagne e foreste avevano sostituito pianure e i campi di grano, al posto del giallo e del marrone adesso c’era solo verde.

Quando vidi il cartello che annunciava il mio ingresso nello stato dello Utah, sentii un brivido. Gli U2 cantavano I still haven’t found what I’m looking for, io pensai a Butch e provai a immaginare cosa volesse dire fare un viaggio del genere ai primi del Novecento.

Un branco di cavalli correva libero nel recinto di un enorme allevamento che costeggiava per alcuni chilometri l’autostrada. Svoltai nella prima stradina che incontrai e accostai alla staccionata. Mi fermai a lungo a osservare quei cavalli al galoppo.

Quando imboccai l’Interstate 89 guardai lo specchietto retrovisore e vidi che mi si era dipinto sul volto un sorriso da scemo che a lungo non riuscii a togliermi di dosso. Ero arrivato all’ultimo collegamento che avevo segnato sulla cartina, mi bastava seguire l’89ª e mi avrebbe condotto a Circleville, Contea di Piute, Utah.

Mezz’ora dopo ero arrivato.

Giravo senza meta, guardavo i cartelli che scorrevano ai lati della strada e cercavo di leggerli tutti. Guidavo piano e gli altri automobilisti mi suonarono prima gentilmente, poi più forte e alla fine iniziarono a sorpassarmi facendomi gestacci e lanciandomi insulti. Ma non li sentivo. Guardavo a destra e a sinistra. In cerca di cosa, non saprei.

Forse cercavo solo un segno, qualcosa che catturasse la mia attenzione. A un tratto lo trovai.

Butch Cassidy’s Hideout Motel & Café. Il posto per me.

Un po’ kitsch, ma era perfetto. Sulla parete dietro al banco della reception dominava un grande ritratto di Butch. Occhi stretti e azzurri, naso corto, bocca sottile incurvata in una specie di piega ironica, baffi color sabbia, mascella grossa, squadrata. L’espressione di un gatto soddisfatto. C’era  la celebre foto che lo ritraeva insieme a Sundance Kid e a Etta, pistole incorniciate e messe sotto vetro come quadri, e varie foto con la dicitura Wanted. Dead or Alive. E le taglie, sempre più alte. Però Butch ce l’aveva fatta, ogni volta.

Presi una camera. Il motel doveva essere completamente vuoto. La stanza era spartana, al limite dello squallore. Feci una doccia e scesi a mangiare un boccone, un hamburger passabile e una birra fresca.

Insieme al caffè, chiesi l’elenco telefonico della zona e trovai quello che cercavo. C’erano tre Betenson a Circleville, e una era Alicia Betenson-Sanchez, avvocato. Tutto può essere nella vita, ma non me la vedevo Alicia, parente di Butch Cassidy, fare l’avvocato da quelle parti. Gli altri due erano Mark Betenson e James Betenson. L’indirizzo era lo stesso. Era lui. James doveva essere il figlio di Mark. Me lo sentivo.

La casa era fuori mano e dovetti chiedere diverse indicazioni prima di trovarla. Era piuttosto malandata, ma emanava lo stesso fascino decadente della Mustang nera e arrugginita che vi era parcheggiata accanto.

Una di quelle case in legno che conoscono diverse aggiunte al nucleo originale, si deformano e crescono insieme alla famiglia e poi nel tempo decadono con il ridursi della famiglia stessa. Il tetto aveva bisogno di riparazioni e si capiva con un’occhiata che una parte della casa non veniva usata da anni. C’erano cartoni su due finestre e tavole di legno che rappezzavano quella parte di tetto. Nel giardino – ma ci voleva una certa fantasia per definirlo giardino – si vedeva una piscina prefabbricata da pochi soldi, una grande tinozza azzurra dai bordi alti a cui si accedeva tramite una scaletta bianca. Nell’acqua giocava un bambino di quattro o cinque anni con la voce di uno di dodici. All’ombra, sotto un pergolato di vite americana, sedevano quelli che avevano tutta l’aria di essere i nonni del piccolo.

Lei era piuttosto malandata, capelli bianchi e volto attraversato da solchi di rughe profonde. Seduta su una vecchia poltrona a dondolo, una coperta a scacchi sulle ginocchia, fissava un punto imprecisato davanti a sé. Non fosse stato per il movimento, sarebbe sembrata una statua. Ma non era una statua, perché tremava. Ininterrottamente. La testa, le mani che volevano appoggiarsi ai braccioli, i piedi che non trovavano pace.

Lui sembrava un ippopotamo seduto nel fiume. Era enorme e ondeggiava sulla sedia a dondolo ricoperta da un grande cuscino fiorato e stinto. Oltre a quella leggera oscillazione, eseguiva, sporadicamente, soltanto due rapidi movimenti: con la mano destra si portava alla bocca un’enorme lattina di birra, mentre con la sinistra vibrava rapidi colpi con lo scacciamosche agli insetti che cercavano di gustarsi i suoi polpacci.

Mi convinsi che quel viaggio era stato del tutto inutile.

«Salve ragazzo, come va?» chiese l’ippopotamo alzando la mano con la birra.

«Bene, signore, vengo da New York, mi chiedevo se conosce Mark Betenson.»

«Perché t’interessa il vecchio Mark, ragazzo?»

Guardò soddisfatto lo scacciamosche. Aveva fatto centro.

«Sto facendo una ricerca su Butch Cassidy e sono convinto che Mark Betenson fosse suo nipote.»

L’ippopotamo si alzò in piedi. Era quadrato. Non propriamente grasso, ma grosso. Le braccia, le gambe, il collo erano impressionanti, ma una volta in piedi non sembrò impacciato come mi sarei aspettato e nell’insieme la sua mole era proporzionata. Era come se qualcuno gli avesse infilato un tubo in bocca e l’avesse gonfiato con un compressore.

«Vieni dentro che ci facciamo un caffè.»

Lo seguii in casa. L’interno non era diverso dall’esterno.

Con un po’ di fantasia si poteva immaginare che una volta potesse essere stata una bella casa, ma ora cadeva a pezzi.

Mi fece il gesto di accomodarmi in salotto. Era angusto e due poltrone di velluto marrone lo occupavano quasi interamente. Scelsi la più piccola e mi guardai intorno.

«Mark Betenson non c’è più, ragazzo, è morto tre anni fa. Era mio padre, eccolo là.»

Allungò un dito che poteva pesare mezzo chilo. Su un tavolino vidi una foto che avrei giurato fosse di Butch, ma era recente e non poteva trattarsi di lui. Eppure la somiglianza con Butch era stupefacente.

«Mi chiamo James Betenson, sono il figlio di Mark, e lui era il figlio di Lula Betenson Parker. Tutto chiaro?» Sorrise e capì il mio stupore. «Quindi io sono il pronipote di Butch Cassidy in persona. Non si direbbe, vero?»

Mi guardò e in quel momento intuii una luce speciale nel fondo dei suoi occhi, una sorta di vitalità imprigionata in quell’aspetto monumentale.

«Sto facendo una ricerca sulle amicizie e sulla vita di suo zio in Argentina.»

«A dire la verità, non ne ho mai saputo granché di Butch, però mio padre, e soprattutto Lula, tenevano tutto, un sacco di ricordi, lettere, cartacce.»

Fui percorso da un brivido.

«A me interessa solo questo.» E da una credenza bisunta e ripiena di ogni genere di mercanzia, James estrasse un vecchio cappello da cowboy. «Ecco, questo era il cappello di Butch, e mi sta alla perfezione, puoi scommetterci tutte le birre che vuoi.»

Il caffè scese gorgogliando e me lo versò in una grossa tazza sbeccata e senza manico. Senza chiedermi niente ci infilò tre zollette di zucchero e l’appoggiò con delicatezza sul mio tavolino, senza cucchiaio né piattino, la grazia del movimento mi sorprese. Eseguì gli stessi gesti con la propria tazza e poi si lasciò cadere sulla poltrona di fronte a me. Sembrava sfinito.

«Non chiedermi date e spostamenti, di questo io non so niente, ma se vuoi sapere qualcosa sui suoi amici, ti dirò quello che mi diceva sempre mio padre. Butch aveva un amico che si chiamava Sundance Kid e non lo uccise in Bolivia, quelle sono tutte cazzate dei professoroni imbecilli e dei giornalisti coglioni, lui non sarebbe mai stato capace di uccidere il suo migliore amico. Un altro grande amico era Elza Lay, l’elegantone di Boston, il cervello del gruppo, ma forse a Butch interessava di più sua sorella, chi può dirlo.»

Risucchiò un lungo sorso di caffè mentre io non riuscivo a sollevare la tazza, rovente e senza manico com’era.

«Un altro amico si chiamava Cleophas, Cleophas Dowd, mercante di cavalli irlandese. Veniva dalla California, ma alla fine si stabilì da queste parti, verso lo Sheep Creek Canyon. Dowd fu uno di quelli che non lo tradì mai, neanche quando Butch aveva una taglia enorme sulla testa e lui era diventato sceriffo e poteva trovarlo in qualsiasi momento. Quelli erano uomini d’onore, ragazzo, ci puoi scommettere.»

Altra sorsata e altro risucchio.

«Se vuoi sapere qualcosa di più sul periodo passato in Argentina, devi leggerti le lettere che hanno messo da parte Lula e mio padre, io so che lavorava per un riccone di Chicago che si era trasferito laggiù con mandria e mandriani. Più di questo non so dirti, ci puoi scommettere, ma se vuoi puoi prenderti tutta quella cartaccia, te la porti a casa, te la studi, ti prendi i tuoi appunti, ci fai un compitino e poi, se vuoi, torni e mi lasci qualcosa per il disturbo. Mi affido al tuo buon cuore, ragazzo, un paio di bistecche e qualche birra per me e per la mia vecchia basteranno. Magari, se sarai contento di quello che avrai trovato, mi potrai portare anche una buona bottiglia di bumba, vedi tu. Per me ormai va tutto bene, basta che sia liquido e forte e mi scaldi il cuore.»

M’indicò una cartella di cuoio legata con lo spago e infilata fra la credenza e la stufa. Misi cento dollari sul tavolino e la presi.

«Ehi, ehi, ma allora sei un tipo generoso, ragazzo. Per quel centone ti puoi pure tenere tutta quella cartaccia e anche la cartella. Me lo sentivo che eri un tipo giusto, oggi è proprio la mia giornata fortunata.»

«La ringrazio, signor Betenson, ma le riporterò tutto. Forse un giorno quella roba potrebbe essere importante per qualcuno.»

Mi guardò. Era contento. Non aveva capito quello che intendevo dire, ma probabilmente nessuno lo aveva mai chiamato signor Betenson.

Poi si rabbuiò all’improvviso. «No, quella roba tienila tu, ragazzo, qui non servirà più a nessuno ormai.»

«Un giorno potrebbe interessare a quel bambino là fuori.»

«A chi, a Jimmy Allister? Al figlio di Bob Allister il pompiere? E per quale motivo?»

«Pensavo che fosse…»

«Mio figlio o mio nipote? No, io non ho più nessuno ormai, se si esclude il rudere di Betty là fuori.»

Adesso non mi sembrava giusto andarmene così. Tirai fuori un pacchetto di sigarette e mi alzai per offrirgliene una. L’accesi e poi tornai a sedermi. Fumammo per un po’, in silenzio. Mi guardava attraverso gli occhi semichiusi. Aspettai.

«Per noi, da quando Katy è scomparsa, tutto è finito.»

Non dissi niente, espirai solo una lunga boccata di fumo insieme a un sospiro.

«Scomparsa nel nulla. Aveva cinque anni. L’hanno cercata dovunque, hanno pubblicato annunci sui giornali, alla televisione, ci si è messa di mezzo pure l’Fbi, ma adesso sono passati vent’anni. Missing, dicevano le foto segnaletiche, ma le hanno tolte da un pezzo, ormai non la riconoscerebbe nessuno.»

Si interruppe.

Per fare qualcosa, spensi la sigaretta cercando di farmi spazio in un posacenere stracolmo.

«Avrebbe la tua età, ragazzo. Ti sembrerà impossibile, ma era bellissima.»

Anche lui spense la sigaretta schiacciandola con un’energia superiore al necessario. Con entrambe le mani m’indicò la pancia enorme.

«Da allora guarda come mi sono ridotto, questa corazza di ciccia serve a nascondere lo schifo che ho dentro. E Betty, là fuori, è una specie d’automa e non mi fa più molta compagnia. Se ne sta così tutto il giorno e se non fosse per il Parkinson starebbe immobile. D’inverno è peggio, perché mi ritrovo di fronte quella sua faccia vuota e quegli occhi tristi, in questa baracca che sta cadendo a pezzi, come noi.»

«Signor Betenson, se posso fare qualcosa per lei…»

Non sapevo cosa dire e fare.

«Vattene pure, ragazzo, e prenditi tutto. Noi di ricordi del passato non ne vogliamo più. Il nostro passato è una schifezza e il futuro non sarà migliore.»

Si alzò con uno slancio elastico inaspettato e sorrise, mi fece scomparire la mano destra fra entrambe le sue, poi mi diede una pacca sulla spalla.

«Addio, ragazzo, e fai un buon lavoro. Butch era in gamba e a quei tempi anche i peggiori fuorilegge erano dei signori, avevano delle regole loro e non sgarravano.»

«Grazie di tutto, signor Betenson, mi dispiace per Katy.»

Non riuscii ad aggiungere altro.

Quando la macchina si mise in moto, Betenson alzò una mano in segno di saluto.

 

nove

 

Nella cartella di cuoio c’erano parecchie cose interessanti. Trovai una copia della lettera del 10 agosto 1902, quella che Butch aveva scritto a Mathilda Davis, la sorella del suo amico Elza Lay, nella quale descriveva la sua terra in Patagonia. Era una copia con tanto di timbro degli archivi della Utah State Historical Society, che confermava che l’originale era conservato nell’archivio di Stato. C’era anche una lettera di Dan, il fratello più giovane di Butch, indirizzata a Lula. Si trattava di una semplice lettera di saluti, ma verso la fine Dan diceva a sua sorella che Butch, qualche giorno prima, era andato a trovarlo a casa sua, a Milford, una cinquantina di miglia a ovest di Circleville, e che aveva giocato e cantato a lungo per Max, il figlio appena nato. La lettera era datata 1930 e confermava quanto sosteneva Lula, Butch era rientrato negli Stati Uniti.

C’erano ritagli di giornali dell’epoca, fotografie di famiglia, una serie di foto segnaletiche di Butch, rapporti della polizia di numerosi stati.

E un’altra lettera del giugno 1923. Da Habban, il latifondista americano, a Butch Cassidy.

 

Caro Butch,

come te la passi a Buenos Aires? Spero non ti stia spendendo con le tue amiche señoritas bonitas tutti i soldi che hai nascosto.

Piuttosto, a proposito di soldi, ti consiglio di puntare quello che ti è rimasto su Dempsey, sono sicuro che Firpo non saprà resistergli a lungo. El toro selvaje de la pampa ce la metterà tutta, ma contro quell’armadio americano non potrà farcela.

Cerca di non perderti l’incontro, è il match del secolo.

Ma veniamo a noi. Avrei un lavoretto facile da proporti, una cosa di tutto riposo, da pensionato, quello che sei adesso. Dovresti fare da balia a una nostra vecchia conoscenza. Ti ricordi Corto Maltese? Bene, lo devi tenere d’occhio per qualche tempo. L’abbiamo incontrato alla estancia di George e Ralph Newbery, i dentisti. Corto Maltese adesso si sta interessando alla storia di quella ragazza polacca, Louise Brookszowych, l’amica del giornalista, quelli che facevano un sacco di domande sulla Warsavia e sulle compagnie petrolifere della Patagonia.

Bene, ora i due piccioni sono volati via e non possono più fare altre domande, e questo Corto Maltese sembra più interessato alla figlia di Louise che alle cose che interessano a noi, perciò tu lascialo fare, è troppo individualista e romantico per andare a cercare di sbrogliare vecchie matasse attorcigliate, specie se queste matasse sono fatte di spine. Corto è un tipo in gamba e conosce come funzionano i giochi, forse pesterà qualche piede di troppo, ma alla fine si prenderà la bambina e se ne andrà come è arrivato.

Tu lascialo libero di fare, ma stagli addosso, poi fa’ in modo che riparta da qui tutto intero. In questo periodo c’è tanta carne al fuoco, e tanti interessi che si incrociano, la Warsavia ha i giorni contati e noi non abbiamo bisogno di altro chiasso. Anche Estevez mi sta dando sui nervi e non so quanto durerà, non mi piacciono quelli che non riescono mai a fare i giochi puliti, per questo sono sempre andato d’accordo con te.

Ho nostalgia delle nostre bevute e di Buenos Aires.

A proposito, per tornare ad argomenti che sicuramente t’interessano di più, apri bene le orecchie perché voglio farti un regalo. Consideralo un anticipo per questo lavoretto.

Vai in Calle 25 de Mayo y Viamonte, c’è un locale che si chiama La Parda, bussa al portone e di’ che ti mando io. Ti chiederanno qual è la mia cantante preferita e tu rispondigli Pepita Avellaneda. Ti faranno entrare e ti chiederanno su quale cavallo vorresti puntare, tu rispondigli Melgarejo, e a quel punto ti potrai godere la meraviglia che non ti meriti.

Te la serviranno su un piatto d’argento. O, meglio, su un divano di velluto.

È una bruna magnifica, un’india con la pelle del colore della cannella e del miele bruciato, ha due occhi obliqui e scuri che sembrano due cioccolatini Suchard. È bella, anzi bellissima, e indossa solo un paio di mutandine di pizzo bianche, ha la pelle profumata e due labbra di pesca. Si muove come una pantera, ma non aver paura, non morde mai…

Poi mi dirai se non sono un amico.

 Habban

 

Stavo riordinando i nuovi documenti ricevuti da James Betenson inserendoli fra quelli che già possedevo, quando una pagina del dossier mi colpì in modo particolare perché parlava proprio di Habban.

… credo, signor Londres, che il problema principale, oltre al valore intrinseco delle terre possedute dalle famiglie inglesi e americane, e quindi dalle banche che le finanziano, sia legato ad altri fattori, decisamente più importanti. Nell’area di Comodoro Rivadavia, situata nella provincia patagonica del Chubut, a sud di questo fiume, nella zona dei due laghi Colhué e Musters, sono stati ritrovati importanti giacimenti d’idrocarburi che, secondo le prime analisi, risulterebbero cospicui

Queste notizie le ho apprese da un mio amico geologo che è stato mandato laggiù di recente per fare dei carotaggi in quel terreno e, secondo lui, là sotto c’è un mare di petrolio. Ho letto da poco un libro scritto da un nostro eminente connazionale, l’ingegnere Jorge Newbery, in collaborazione con Justino C. Thierry, il mio amico. Il libro s’intitola El Petroleo e i due autori parlano dell’importanza di questo materiale per un’infinita serie di applicazioni energetiche.

L’ingegner Jorge Newbery frequenta, naturalmente, data la sua posizione sociale, la più alta borghesia e l’aristocrazia argentina; al suo club ippico, El Jockey, si fanno feste favolose e lo stesso dicasi per l’Estancia, che la sua famiglia possiede al sud. Uno dei personaggi che frequenta la famiglia Newbery più assiduamente è un certo signor Habban, un americano trasferitosi in Patagonia da molti anni, come del resto il padre dell’ingegner Newbery, Ralph, il dentista. Bene, secondo il mio amico Thierry, questo signor Habban sarebbe il proprietario di tutta la terra che si estende a sud della penisola Váldes, all’altezza del Golfo de San Jorge. Tenga presente, e basta che consulti una cartina geografica, che stiamo parlando di un’estensione immensa. Habban possiede personalmente enormi appezzamenti, mentre avrebbe fatto acquistare ad alcuni «buoni amici» e a vari prestanome tutte le terre inframmezzate ai suoi possedimenti, creandosi una scacchiera perfetta di proprietà personali e altre controllabili.

Un’altra cosa interessante è che quelle terre dovrebbero essere demaniali e quindi lasciate in concessione solo per un certo numero di anni ai coltivatori e agli allevatori che le sfruttano, tuttavia, secondo alcune vecchie leggi ancora in vigore, dopo un certo periodo quegli stessi coltivatori e allevatori potrebbero diventarne i legittimi proprietari. Dunque Habban, col tempo, possiederà mezzo Chubut. Nel frattempo guadagna con il commercio della lana e con la carne delle pecore e con la carne e il latte delle vacche. Dietro a tutto questo c’è un’organizzazione perfetta che tiene sotto controllo i politici e che ha solo bisogno di stabilità e continuità. Perché tutto vada a buon fine, nulla deve cambiare e perché nulla cambi si usa il sistema più antico del mondo: i bordelli e le puttane.

Un caso fra tutti. In Calle 25 de Mayo y Viamonte c’è un locale elegante, si chiama La Parda, che significa india provinciana, che non vuol dire provinciale, ma piuttosto dalla pelle color del mate. Il locale appartiene alla Warsavia, ma in pratica è un locale riservato all’uso esclusivo degli «amici» del signor Habban. È impossibile entrare senza un suo preciso invito personale. So per certo, e questa notizia viene dal mio amico Laurentino C. Mejias, che la polizia stessa evita qualunque controllo del locale per evitare spiacevoli incontri con eminenti politici o con colleghi di alto grado. Si entra con parole d’ordine che cambiano ogni giorno e si scelgono le ragazze puntando su nomi di cavalli.

L’ambiente è splendido e gli arredamenti raffinati, si bevono solo i migliori champagne francesi o liquori invecchiati delle migliori etichette del mondo, si usano bicchieri di cristallo e le ragazze sono tutte selezionate e discrete. Cercano sempre di soddisfare i gusti più stravaganti dei loro ospiti e rispettano una regola ferrea: non conoscono i nomi dei clienti e non ricordano i loro volti e le loro inclinazioni, anche le più strane. Alla prima trasgressione per loro c’è lo sfregio, alla seconda un trattamento che nessuna ragazza ha mai potuto raccontare. Per questo motivo le ragazze vengono sempre da lontano, dalla provincia, sono giovani e ignoranti, non conoscono i personaggi più in vista del paese e sono obbedienti. Dopo un periodo che può andare dai due, tre mesi fino a un anno, vengono allontanate da Buenos Aires e finiscono in Uruguay o in Cile o anche più lontano.

Altre due piccole notizie interessanti: la principale compagnia petrolifera a pompare petrolio dai giacimenti di Comodoro Rivadavia è la Standard Oil, e indovini chi ne è un grosso azionista?

Giusto, el señor Habban. Tenga presente che la Standard Oil detiene anche il controllo della raffinazione del prodotto e della distribuzione della benzina e del kerosene da autotrazione.

E, per finire, uno dei proprietari di un bell’appezzamento nella zona del Chubut di cui parlavamo prima, precisamente a Cholila, è stato, nei primi del ‘900, un certo signor Santiago Ryan, che ha comprato un ranch di 12.000 acri insieme al signor Harry e alla signora Etta Place. Lo sa chi erano questi tre bravi allevatori amici del signor Habban?

Butch Cassidy, Sundance Kid ed Etta Place.

 

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L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 6/7

L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 6/7

sei

Patrick O’Maley era il responsabile degli archivi criminali alla centrale di polizia di Buenos Aires. Era argentino ma come lasciava chiaramente intendere il suo nome era di origini irlandesi. O’Maley non era il tipico topo d’archivio, aveva l’istinto del detective, si documentava, leggeva con attenzione i dossier, li confrontava e faceva ricerche personali.

«O’Maley, sono l’ispettore Estevez. Mi faccia pervenire l’incartamento relativo alle attività criminali del bandolerismo yankee in Patagonia, dal 1902 al 1910.»

Silenzio.

«Lo voglio sul mio tavolo immediatamente, capito?»

«Solo il tempo di trovarlo, capo.»

Estevez era alto e corpulento, mandibola prominente, denti scuri macchiati di nicotina.

«Bandolerismo yankee in Patagonia?» domandò Escudero, il poliziotto incaricato di perfezionare i lavori sporchi di Estevez.

Sedeva di fronte al superiore, le gambe allungate e incrociate, si controllava i mocassini, lucidissimi.

«Sì, una vecchia storia.» Estevez era sprofondato nella sua logora poltrona di cuoio. Si accese con calma un sigaro.

«Nel 1902 parecchi fuorilegge americani vennero a rifugiarsi da noi, sfuggendo alla cattura negli Stati Uniti. Tra gli altri LeRoy Parker, che poi sarebbe quel bastardo di Butch Cassidy, Harry Longabaugh, detto Sundance Kid, ed Etta Place, la loro femmina. Si unirono a ladri di bestiame cileni, anarchici italiani e rapinatori gallesi, e poi furono uccisi da qualche parte in Bolivia o forse in Cile.»

Estevez espirò una lenta boccata di fumo puzzolente e allargò la bocca di denti grigi in una specie di sorriso.

«Ero giovane, allora, non avevo neppure vent’anni e facevo parte della gendarmeria a cavallo di frontiera. Fu in quel periodo che sentii fare il nome di un certo Corto Maltese per la prima volta. Doveva essere giovane anche lui. Quei banditi assaltarono diverse banche a Mercedes, a Rio Gallego, ma la refurtiva non venne mai recuperata.»

«Ecco il dossier che mi ha chiesto, ispettore.»

Con un gesto che doveva essere abituale, O’Maley entrando si buttò all’indietro la lunga frangia di capelli lisci e sottili.

«Bene, molto bene. Grazie, O’Maley» disse l’ispettore sbattendo il voluminoso dossier sulla scrivania. Le penne rotolarono a destra e sinistra e lui le riordinò meticolosamente in una fila perfetta accanto alla pila di fogli.

«Adesso lasciatemi solo.»

Escudero aprì la porta e fece cenno a O’Maley di precederlo. Sarà stata deformazione professionale, ma non amava avere dietro di sé qualcuno con una pistola, chiunque fosse, anche un collega.

«Che cercherà mai in quegli incartamenti?» domandò l’irlandese.

«Vuole vedere se trova notizie su un certo Corto Maltese, frequentava una banda di fuorilegge americani e sembra che adesso sia rientrato in Argentina.»

Uscendo, Escudero si aggiustò il nodo della cravatta.

«Corto Maltese? Sì, è citato anche lui nel dossier. E perché dovrebbe essere ritornato? Non sarà che tutte quelle rapine hanno fruttato qualcosa di più che valuta ormai fuori corso?»

O’Maley camminava davanti a Escudero, ma era come se lo fissasse e controllasse le sue reazioni. «Forse la refurtiva non è mai uscita dal paese.» Pausa. «Forse quei rapinatori e ladri di bestiame sono morti troppo presto e non sono riusciti ad andarsene con i soldi. Forse li hanno nascosti da qualche parte a sud.» Altra pausa. «Forse Corto Maltese è tornato per questo.» Un colpo alla frangia e uno alla cravatta. «Però io non ci credo, dicono che sia tornato per una donna ebrea, una certa Louise Brookszowyc, una che ha creato un sacco di problemi alla Warsavia.»

Escudero si passò la punta della scarpa destra dietro al pantalone sinistro. Ecco, adesso era perfettamente lucida.

«Forse può essere tornato per entrambe le cose», concluse l’irlandese.

Patrick O’Maley conosceva bene gli archivi, e quindi conosceva bene molte vecchie storie. Trovava documenti per ogni cosa ma, soprattutto, era in grado di immaginare quello che non veniva trascritto.

Quando si rese conto di avere tra le mani materiale importante, Patrick scrisse tutto quello che era venuto a sapere in un dettagliato rapporto a Laurentino C. Mejias.

Mejias aveva sempre cercato di ostacolare la corruzione all’interno della polizia. Sapeva bene che senza i conniventi a beccarsi il pizzo e chiudere un occhio se non due, i signori della Warsavia e gli elegantoni francesi non avrebbero avuto vita facile. Laurentino conosceva altrettanto bene i metodi e i codici dei suoi vecchi colleghi e aveva capito che, in fondo, quando l’avevano mandato in pensione, era stato per proteggerlo. Ma sapeva anche che era stata l’ultima gentilezza che avrebbe ricevuto.

Le informazioni di Patrick O’Maley erano di prima qualità. Non si documentavano soltanto gli interessi economici legati alla prostituzione, ma si chiariva come la torta da spartire fosse più grande e si chiamasse Patagonia.

Louise e Pedro c’erano arrivati un po’ per caso e un po’ per intuito.

Li avevano accompagnati fuori dalla stazione di polizia, ed erano partiti in macchina con Estevez ed Escudero in modo da poter parlare in tutta tranquillità, gli avevano detto.

Dopo un lungo giro, la macchina si era fermata davanti a un palazzo in restauro completamente rivestito da un’impalcatura. Li portarono in un appartamento semivuoto all’ultimo piano.

Louise e Pedro si erano seduti di fronte a Estevez.

Pedro incominciò a raccontare quello che avevano scoperto nel corso della loro indagine, evitando di accennare all’esistenza del dossier. Louise capì che Pedro voleva tenerselo come carta di riserva, da tirare fuori in un secondo tempo, magari di fronte a qualche personaggio più importante di quell’ispettore.

Il giornalista aveva parlato a lungo ed Estevez lo aveva ascoltato annuendo in silenzio. Alla fine il poliziotto aveva sorriso e gli aveva dato una pacca amichevole sulla spalla, poi aveva stretto la mano a Louise.

«Bueno.» Soltanto questo. Quindi si era scusato con loro dicendo che doveva fare una telefonata e che sarebbe ritornato entro pochi minuti. Si era chiuso la porta alle spalle.

Louise e Pedro si erano guardati soddisfatti. Avevano anche tirato un sospiro di sollievo.

« Com’è andata, Pedro? »

«Non lo so, ma ormai è fatta…»

Erano seduti uno accanto all’altra.

Louise, le mani appoggiate sulle ginocchia, un vestitino azzurro.

La paura, le guance arrossate, i capelli stirati all’indietro.

Era bella, semplice, pulita.

Pedro le appoggia una mano sulla mano, sente le dita, la stoffa del vestito, la morbida pelle della gamba.

Louise ritrae la mano.

«Abbiamo fatto qualcosa di molto importante Louise…»

«Ti ringrazio, Pedro, perché anche se dovessi morire domani, saprei che la mia stupida vita è servita a qualcosa…»

«…Io però vorrei dirti…»

«No, Pedro, il nostro libro ormai è chiuso, abbiamo già scritto il finale.»

La portà si aprì. Era Escudero.

Li trovò uno spazzino italiano, il giorno dopo.

I loro corpi erano sul marciapiede, in un lago di sangue.

Escudero testimoniò che i due – la puttana e il suo protettore, che come copertura fingeva di fare il giornalista – erano riusciti a eludere la sua sorveglianza dopo l’interrogatorio cui l’ispettore Estevez li aveva sottoposti. Dovevano essere fuggiti allontanandosi dell’impalcatura intorno al palazzo. Evidentemente nel tentativo di fuga avevano perso l’equilibrio ed erano precipitati nel vuoto. Lui li aveva cercati invano ed era rientrato subito alla stazione di polizia per denunciarne l’allontanamento, subendo gli aspri rimproveri dell’ispettore Estevez.

Ma torniamo alla torta.

La Patagonia voleva dire molte cose, tuttavia quelle fondamentali erano il petrolio, gli animali e la terra. Tutte insieme, volevano dire un enorme quantità di denaro.

Le vaste estensioni in Patagonia appartenevano a latifondisti americani e britannici, gallesi in particolare, i quali non le avevano acquistate, ma acquisite grazie alla connivenza del governo. Quelle terre appartenevano in realtà al demanio pubblico, e i coloni e i braccianti che vi erano nati, e che da sempre le lavoravano, avrebbero potuto rivendicarle. Sarebbe bastato che qualcuno avesse cominciato a sobillarli, che la notizia delle loro richieste fosse arrivata a Buenos Aires, fino ai politici onesti, a quanti non venivano pagati dai latifondisti.

Gruppi di anarchici italiani tentavano di aiutare i contadini e, se fossero riusciti nel loro intento, il potere economico delle grandi famiglie sarebbe crollato.

Allo stato dei fatti, milioni di ettari di eccellente terreno e abbondanti corsi d’acqua appartenevano alla corona inglese. Diversi uomini politici argentini si trovavano sui libri paga della Cia, numerosi prestanome erano controllati da famiglie d’immigrati gallesi e le banche americane e inglesi avevano trasformato la Patagonia in una specie di colonia britannica.

Da qualche parte negli Stati Uniti un certo avvocato Preston aveva mantenuto una fitta corrispondenza con l’agenzia investigativa Pinkerton, con cui aveva stretto un accordo: Butch Cassidy, Sundance Kid ed Etta Place avrebbero ottenuto una lettera di presentazione per un altro Preston, probabilmente un parente, di certo un dirigente delle grandi estancias in Cile e in Argentina. L’agenzia Pinkerton avrebbe favorito l’espatrio dei tre, e il Preston argentino avrebbe fatto in modo che i tre «indesiderati» trovassero occupazione in quelle terre lontane e sperdute, cessando di far danni negli Stati Uniti.

O’Maley scoprì che i tre banditi non erano arrivati in Argentina solo per sistemarsi come rancheros dalle parti di Cholila. In realtà erano stati incaricati di organizzare le squadre di polizia interne create per proteggere i proprietari terrieri e tenere a bada coloni, peones e braccianti da eventuali sobillatori. I proprietari terrieri non si fidavano dei rancheros locali e preferivano che a parlare la loro lingua fossero mandriani yankee. E se si trattava di ex fuorilegge, tanto meglio, avrebbero saputo come farsi rispettare.

Tutto era andato secondo le previsioni finché ai tre non era tornata la voglia di sgranchirsi le gambe e avevano ricominciato le scorribande alla ricerca di banche da svaligiare.

Non erano quelli i patti.

E così era stata di nuovo data carta bianca all’agenzia Pinkerton e al loro agente in Argentina, Dimaio. Nel 1907 i tre erano dovuti sparire un’altra volta, e questa in maniera definitiva.

Secondo le ricerche di O’Maley, Sundance era stato ucciso nei pressi del lago Puelo, vicino alla frontiera cileno-argentina. Etta dopo essere fuggita in Messico e aver fornito nel 1910 armi al generale Pancho Villa, era tornata negli Stati Uniti dove le sue tracce si erano perse per sempre. Butch Cassidy, invece, era ancora vivo e vegeto e in contatto con uno dei potenti latifondisti americani, un certo Habban, erede di una grande famiglia di allevatori di Chicago.

Corto Maltese era un marinaio, un avventuriero arrivato casualmente in Argentina. Il bastimento che doveva portarlo in Africa, dov’era diretto alla ricerca delle miniere di re Salomone, aveva subito un ammutinamento. Corto era stato abbandonato in una scialuppa insieme al suo compagno d’avventure, un russo di nome Rasputin. I due erano stati poi recuperati da un cargo che li aveva sbarcati a Valparaiso. Da lì erano arrivati nel sud dell’Argentina e nel 1906 dalle parti del lago Nahuel Huapi, nella estancia dei Newbery, dove avevano incontrato Habban e Butch Cassidy.

Corto tornò in Argentina nel 1923, per assolvere il compito affidatogli da Louise.

Quello di cui ancora nessuno era a conoscenza, ad eccezione di O’Maley che faceva parte del gruppo, era il rapporto d’affari privato fra Corto, Butch Cassidy, la colonia irlandese-argentina e quella statunitense.

 

sette

 

La lettura del dossier, delle lettere e di varie schede di Pedro Mangini e di Laurentino Mejias mi aiutarono a comprendere l’estremismo irlandese. Fino a quel momento non ero mai riuscito a capire, né a giustificare, l’odio viscerale di tanti irlandesi per gli inglesi. Non ne coglievo le radici e tanto meno lo scopo. Poi la nebbia cominciò a diradarsi.

Quando nel 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale, uno dei patrioti irlandesi più agguerriti, Sean Russell, spinse l’IRA alla collaborazione con la Germania hitleriana. Parallelamente, in quello stesso anno, il suo gruppo compì una serie di devastanti attentati dinamitardi in territorio inglese senza perseguire obiettivi precisi né particolari strategie, ma solo con l’intento di seminare panico e morte. I pacchi esplosivi furono sistemati ovunque, nelle cassette delle lettere e nelle lavanderie pubbliche. Un pacco-bomba assicurato a una bicicletta abbandonata in una strada affollata di Coventry provocò una carneficina.

Alcuni militanti vennero catturati, altri perirono in azione. A Sean Russell toccò una morte disonorevole (o meritata, a seconda dei punti di vista): morì da traditore a bordo di un sottomarino tedesco, mentre faceva rientro in Irlanda.

Sean Russell era amico di mio nonno Seamus. E mio padre a volte mi parlava di lui.

«Sean era un assassino disperato, solo quello, e non esiste niente di più pericoloso di un assassino disperato. Il disperato non ha nulla da perdere e la sua stessa esistenza a volte è solo un peso. Se i politici provassero a eliminare la disperazione dalla faccia della terra, vivremmo tutti meglio, e anche più a lungo. Ricordatelo, Bob, un disperato in uno dei suoi momenti di esaltazione può combinare qualsiasi cazzata, e in più si porta dietro la iella. Stai alla larga dai disperati, figliolo.»

Quando Sean Russell si fermava in casa loro, a mio padre dicevano che doveva chiudersi in camera sua e non muoversi per nessuna ragione, qualunque cosa fosse successa. Dalla cucina arrivavano le grida di Seamus e Sean e il puzzo delle centinaia di sigarette che fumavano in una notte.

«Non riusciremo a sconfiggerli. Non ci riusciremo mai», gridava Sean, e batteva pugni sul tavolo. «Per questo dobbiamo rovinargli la festa a quei bastardi, rompere il culo alle loro mogli e far saltare in aria i loro figli. E se non basta, dobbiamo scatenargli contro qualcuno più forte e più bastardo di loro. Ricordati una cosa, Seamus, ricordati che di quello che pensano gli altri a me non me ne frega un cazzo di niente, tu sei l’unico che può permettersi di esprimere un giudizio e allora ricordati quello che ti dico: se mi metto con i tedeschi, non è perché sono un traditore. Sono soltanto un vero irlandese, uno che vuole ripulire il suo paese dalla feccia. Nessuna guerra è più importante della guerra contro gli inglesi.»

Per ironia della sorte mio nonno morì a causa di Sean Russell. Dopo averne identificato il cadavere nel sottomarino tedesco affondato, gli inglesi fecero una perquisizione in casa sua e trovarono una foto che Sean aveva lasciato alla moglie. Sul retro era scritto: Se mi succede qualcosa, vai da Seamus Collins. È l’unico bastardo onesto di cui ti possa  fidare. A te ci penserà lui. Fu la condanna a morte di mio nonno.

Il pensiero di chi ragionava come Sean era elementare: procurare il maggior numero possibile di danni gli inglesi. In ogni forma, con ogni mezzo, senza regole né morale, senza rispetto o pietà.

Nel corso della mia ricerca ho incontrato numerosi irlandesi e in ciascuno ho colto tracce del germe di Sean Russell.

Anche Butch Cassidy si trovò a essere, in qualche modo, un servitore di questa logica. Una volta «scomparso», aveva avviato un intenso contrabbando di armi fra Stati Uniti, Argentina e Irlanda. E questo era uno dei motivi per cui Patrick O’Maley era stato sistemato nell’archivio della polizia: perché la notizia non trapelasse.

Un giorno O’Maley ricevette una segnalazione da Julio Ruggiero, zelante funzionario doganale del porto di Buenos Aires. Ruggiero aveva controllato un carico di materiale equestre proveniente dagli Stati Uniti, per la precisione dallo Utah, e destinato al Jockey Club di Rawson, Chubut, Patagonia. La cassa era eccessivamente pesante e Ruggiero si era insospettito. Oltre ai finimenti e alle selle vennero rinvenuti trenta fucili Thompson e altrettante pistole Colt Pacemaker. E munizioni, una quantità enorme di munizioni. Ruggiero aveva fatto rapporto al suo capo, Dan Sweeney, un tipo grasso e rossiccio perennemente sudato. Sweeney aveva sorriso e gli aveva dato una calorosa pacca sulla spalla.

«Molto bene, Ruggiero, li hai beccati, sei stato in gamba, scriverò una nota di merito per te, ma per questa volta lasciamo correre, li conosco bene quelli del Jockey Club di Rawson, sono amici, ragazzacci irlandesi che si annoiano a morte da quelle parti. Non puoi andare in eterno avanti e indietro su un cavallo inseguito solo dal vento e dalla desolazione. Si rompono i coglioni da quelle parti, Julio, non c’è un cazzo da fare, e così, ogni tanto, organizzano una battuta di caccia e i loro amici dello Utah gli infilano qualche bel fucile nuovo nelle casse. Non c’è niente di cui preoccuparsi, Ruggiero, niente di illegale. Sono piccoli scambi di regali fra ragazzacci irlandesi che si capiscono.»

Sweeney offrì una birra e un’empanada a Ruggiero, poi prese il rapporto da inviare alla centrale e aggiunse Controllato. Fucili da caccia premio per concorsi ippici. Firmato Dan Sweeney. Ufficio Doganale del Porto di Buenos Aires. Ci stampò un bel cerchio verde e quella cassa, insieme a tutte le altre, arrivò puntuale al Jockey Club di Rawson, Chubut, Patagonia.

Ma Ruggiero pensò di inviare ugualmente due righe alla centrale in cui riferiva senza commenti l’accaduto, una nota da allegare all’archivio centrale.

La nota fu ricevuta da O’Maley che, naturalmente, la fece sparire. Una settimana dopo, Julio Ruggiero fu promosso e ottenne il primo incarico di comando in una stazione doganale al confine con la Bolivia, un posto fuori mano, forse un po’ troppo isolato, ma circondato da splendide montagne.

 

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L’ultima pista (Un racconto a puntate) 5

L’ultima pista (Un racconto a puntate) 5

cinque

Albert Londres era partito da Le Havre il 3 settembre del 1927 a bordo della nave “El Malta”, un vapore francese di quindicimila tonnellate appartenente alla flotta delle Chargeurs Reunis. Destinazione: Buenos Aires. Durata prevista del viaggio: ventiquattro giorni.

Oltre che giornalista, Londres era anche un agente del Deuxieme Bureau della Sureté Générale. Il suo compito era preciso, indagare sulla prostituzione che dilagava in Argentina per conto dell’ambasciata francese e, in seconda battuta, della Lega delle Nazioni.

Da quell’inchiesta nacque un libro di vigorosa denuncia, Le chemin de Buenos Aires, edito da Albin Michel nel 1927. Nel suo rapporto Londres descriveva nei dettagli quanto era venuto a sapere del commercio del sesso nel quale erano coinvolti insospettabili figure politiche, diplomatiche, del mondo della finanza e dell’aristocrazia argentina negli anni Venti e Trenta.

Londres aveva messo le basi della sua ricerca a Parigi. Era entrato in contatto col mondo della prostituzione locale e si era fatto un’idea sufficientemente precisa di dove avrebbe dovuto cercare e chi avrebbe dovuto contattare a Buenos Aires. Un giorno al Bar Ideal aveva conosciuto un certo Victor, detto El Victorioso.

A 37 anni, di cui cinque passati in prigione, Victor possedeva due milioni di franchi, una gigantesca Packard color avorio, un appartamento a Londra in Old Koston Street e uno nella zona di Charcas; aveva una donna a Buenos Aires, una nella provincia argentina, una alla Boca e una a Londra. E faceva il magnaccia.

Un giorno gli era stata richiesta una delle sue ragazze più belle, Opal, una bionda che a vent’anni aveva un corredo di curve rivestite da una pelle di velluto in grado di far impazzire qualsiasi uomo.

Victor aveva dovuto accompagnarla personalmente verso sud, fino in Patagonia, a Comodoro Rivadavia, su richiesta di uno dei suoi clienti abituali, un americano dalla stazza ciclopica, un texano ricco sfondato con lo Stetson bianco perennemente calcato in testa.

L’americano si faceva chiamare Chuck ed era un alto dirigente della Standard Oil. Chuck doveva chiudere una partita importante e voleva far conoscere la bionda Opal a un generale della Direcciòn Nacional de los Yacimentos Petroliferos Fiscales, la società governativa che controllava i due terzi del petrolio pompato in Patagonia. Il restante terzo era in mano alle compagnie private, fra cui, appunto, la Standard Oil.

Dopo tre giorni in Patagonia, El Victorioso era rientrato a Buenos Aires con oltre 40.000 franchi in tasca, Opal con le righe del frustino da cavallerizzo del generale sui fianchi e sulla schiena. La Standard Oil si era aggiudicata il controllo dei canali di distribuzione interna della benzina e del kerosene, oltre ad alcuni stabilimenti per la raffinazione del petrolio.

A Buenos Aires tutto ciò che era di ferro, dai macchinari alle punte degli elmetti, era tedesco. I treni, i vestiti alla moda e i sandwich con cetriolini e mostarda erano inglesi. Le automobili, le lamette dei rasoi e l’arroganza americane. Gli spazzini, italiani. I camerieri, spagnoli. I lustrascarpe, siriani. Ma le donne, le migliori, erano francesi. Le chiamavano franchutas bonitas.

Per avere una donna polacca ci volevano due pesos, per una franchuta cinque. Una francese giovane dalla pelle di pesca come Opal poteva guadagnare in una settimana circa duemila pesos, ventottomila cinquecento franchi e, a parte qualche incontro più ruvido come quello con il generale della YPF, poteva trascorrere piacevoli serate con la crema dell’imprenditoria, della politica e della finanza argentina.

Salvo qualche rara eccezione, dunque, all’aristocrazia femminile della bellezza toccava l’aristocrazia maschile del denaro e del potere, alle ragazze polacche, invece, era riservata una umiliante, e spesso violenta, tratta delle bianche.

Le ragazze polacche lavoravano nella miseria e per quanto lo facessero nella speranza di una vita migliore, non avevano occasione di uscire da quel degrado. A Buenos Aires non c’era polacco che non tenesse cinque, sei o sette donne. Erano organizzati con assoluto rigore, tutti inseriti all’interno di una scala gerarchica al cui vertice si trovava un capo supremo che emetteva ordini insindacabili.

La Warsavia era stata fondata da un tale Noé Trauman, ebreo polacco anarchico che aveva avuto la geniale pensata di creare una società segreta fra i prosseneti, legalizzandola come fosse una società di mutuo soccorso. Pianificavano operazioni di reclutamento nelle città più povere della Polonia e di altri paesi dell’Europa orientale, dove gli agenti organizzavano fidanzamenti e matrimoni che una volta in Argentina si scoprivano fasulli. Avevano intensi rapporti di collaborazione e amicizia con politici, poliziotti, magistrati e funzionari degli uffici dell’immigrazione. La società ebraica li condannò aspramente espellendoli dalla sinagoga e dalla vita sociale e arrivò a proibire la sepoltura dei prosseneti nel cimitero ebraico, ma Trauman riuscì a neutralizzare quell’umiliazione acquistando una porzione del cimitero israelita di Avellaneda.

La sede centrale della società era a Buenos Aires, in Calle Còrdoba, in un elegante edificio a due piani con giardino, da dove Trauman controllava la prostituzione polacca su scala nazionale. Come in molte imprese, anche la Warsavia aveva una doppia contabilità, quella trasparente delle attività sociali e culturali e quella di cui non rimaneva traccia.

Anche se Trauman e i suoi uomini giunsero a falsificare gli atti di nascita, per aggirare l’ostacolo della proibizione dell’esercizio della prostituzione alle minori di ventidue anni, i loro metodi erano improntati a un’estrema, anche se discutibile, correttezza e parvenza di democrazia. Se la prostituta non intendeva convivere con il suo protettore, poteva farlo, e aveva diritto al cinquanta per cento degli introiti. Questo, in teoria, lasciava alle ragazze la possibilità di ricomprarsi la libertà.

La Warsavia toccò il suo massimo splendore negli anni Venti, a dispetto della comunità ebraica che fece di tutto per stroncare la tratta. Intervenne persino l’ambasciatore polacco, il quale aveva più volte dichiarato che lo stesso nome della società fosse un insulto alla capitale del suo paese.

Il nome venne cambiato e si trasformò in Zwi Migdal. A quel punto Noé Trauman era morto di cancro e la lotta per la successione vide prevalere un ebreo di Odessa, Simon Rubinstein, che provocò ben presto la prima scissione all’interno dell’organizzazione.

Lo zar della prostituzione riunì romeni e russi in una nuova società, l’Askenazum, e trasformò l’organizzazione in un’internazionale della prostituzione.

Ma ormai i tempi erano cambiati. Furono il commissario Julio Alsogaray e il giudice Rodriguez Campo a mettere fine alla tratta delle bianche, nel 1931, quattro anni dopo lo sbarco di Albert Londres a Buenos Aires, ma parecchi operatori del settore se n’erano già andati e molti capitali avevano cambiato banche e nazionalità.

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L’ultima pista (un romanzo a puntate) 4

L’ultima pista (un romanzo a puntate) 4

quattro

Iniziai a leggere due lettere.

Caro Corto,

come tu sai (o forse non più?), dal mio arrivo sto cercando di raccogliere tutte le notizie possibili sui luoghi che, dopo i ghetti della Polonia, alimentano di carne fresca i bordelli argentini. Insieme a un amico giornalista speriamo di riuscire a denunciare questo traffico che mi fa orrore per le ragioni che tu ben conosci.

Inutile dirti che tutto questo non è senza pericoli, perché dietro agli sfruttatori si celano pesci assai più grossi.

Vedo il tuo sorriso immaginandomi nelle vesti di giustiziere dei poveri.

Che cosa vuoi farci, mi è cresciuta una specie di disgusto per certe cose e allora provo a cambiarle.

Ho saputo da alcuni amici di Parigi che Albert Londres dovrebbe arrivare da noi per un grande reportage sulla tratta delle bianche.

Non mi piace quest’espressione, ma apprezzo la sua idea di giornalismo e il suo stile.

In ogni caso preparo questo dossier per lui. Ne faccia pure ciò che vuole. Quanto a te, non oso sperare di rivederti presto, a meno che non ti venga nostalgia dell’Argentina.

 Louise

 

Caro Corto,

 forse non mi sarà più possibile scriverti. Da qualche settimana gli avvenimenti stanno precipitando.

Procediamo con la nostra inchiesta che si spinge sempre più lontano e che, soprattutto, ci porta sempre più in alto. Stiamo scoprendo metodi terrificanti, interessi economici immensi, corruzioni inaudite.

Ho paura.

Credo che si sia messo in moto un ingranaggio che finirà per schiacciarmi. Come dice il Salmo III che a volte recito prima di addormentarmi, «Signore, i miei nemici sono numerosi! Molti si accaniscono contro di me».

Ma mi viene in mente anche un pezzo del Sabbat che aggiunge che non si deve accettare la vergogna e che si deve, invece, sfidare il disprezzo.

Sono diventata la «donna valorosa» evocata dalla Bibbia.

Ritroverai tutto questo nel sacro libro che ti aveva donato un tempo il rabbino Toledano, ma che avrai sicuramente perduto, miscredente che non sei altro.

Non dimenticarti di me quando tornerai qui.

Comportati bene.

Louise

Poi iniziai a sfogliare distrattamente il resto del materiale contenuto nella cassetta: schede, ricevute, foto.

Tutto era ordinato, rigoroso, catalogato con metodo, mentre io volevo iniziare a raccogliere impressioni generali, verificare sensazioni.

Presi in mano una scheda, c’era una foto che conoscevo benissimo, era quella di Butch Cassidy, il celebre bandito americano.

Quello che mi colpì era l’annotazione:

Amico di Corto Maltese, uccise il sicario David Lipszia dell’organizzazione Warsavia, mentre questi cercava di eliminare il marinaio Corto, amico di Louise.

Avevo la sensazione che quel particolare potesse essere la chiave per accedere a tanti segreti: Corto Maltese, l’uomo a cui Louise aveva chiesto aiuto e che salvò mia nonna, a sua volta era stato salvato dal famoso Butch Cassidy. Perché?

A quel punto, oltre all’interesse per la storia che era costata la vita a Louise Brookszowyc, avevo un motivo in più per indagare il rapporto fra Butch Cassidy e il marinaio Corto Maltese.

Butch Cassidy, o meglio Robert LeRoy Parker, nacque il 15 aprile del 1866 a Beaver, Utah, primo di tredici figli di una famiglia di mormoni.

Il proprietario del ranch dove iniziò a lavorare guardava con una certa ammirazione quel tredicenne serio e taciturno che sgobbava come un adulto.

Ma le cose cambiarono presto.

Un giorno si incamminò per la strada che separava il ranch dall’unico emporio della zona dove avrebbe potuto comprare dei vestiti nuovi. Alla fine del lungo tragitto Robert trovò il negozio chiuso. Visto che non aveva intenzione di tornarsene indietro a mani vuote, decise di entrare lo stesso e forzò la porta con una sola spallata.

Una volta dentro, scelse lo stretto necessario, un cappello, un paio di stivali, una cintura di cuoio, una camicia, quindi lasciò in bella mostra una nota in cui descriveva quello che aveva preso, nome, cognome, da dove era venuto, e la garanzia che sarebbe tornato a saldare.

Ma il proprietario del negozio era di quelli che non facevano credito. Avvisò lo sceriffo e Robert LeRoy Parker venne accusato di furto, ricercato e catturato.

Nell’ufficio dello sceriffo, Robert spiegò con calma la propria versione dei fatti, che era entrato nel negozio con l’intenzione di pagare – altrimenti perché avrebbe scritto nome e cognome? – ma quello lo guardava e sorrideva, fumava e beveva whiskey e si rigirava la pistola intorno all’indice della mano sinistra.

«Non sei soltanto un ladro, sei anche un bugiardo, ma sarà un piacere insegnarti a rigare dritto.»

In quel momento Robert ebbe l’istinto di alzarsi, prendergli la pistola e piantargli una pallottola in fronte. Invece rimase seduto e continuò a fissare negli occhi lo sceriffo, che gli sbuffò una nuvola di fumo in faccia e poi spense il sigaro sul tavolo, a pochi centimetri dalla mano di Robert.

I due uomini rimasero a fissarsi per un lungo istante e nessuno dei due sembrava voler abbassare lo sguardo.

«Sbatti in cella questo signorino che vuole prenderci per il culo, Tod. Ho l’impressione che lo rivedremo spesso.»

«Lo accoglieremo sempre a braccia aperte, capo.»

Dopo alcuni giorni, Robert fu rilasciato, ma il torto gli bruciava, e non solo perché aveva perso il lavoro.

Nel giugno del 1884, quando aveva 18 anni, Robert partì in cerca di fortuna insieme a Mike Cassidy, l’amico del quale sarebbe rimasto debitore in eterno per almeno tre cose: il talento nel domare i cavalli, la precisione nella mira e il cognome che divenne una leggenda.

La loro prima meta fu il Colorado, per la precisione la zona di Telluride, una città frequentata da sbandati, ubriaconi e avventurieri. Lì ogni sera Robert e Mike si bevevano fino all’ultimo centesimo il denaro guadagnato come mandriani.

A quell’epoca Butch, che aveva smesso di chiamarsi Robert da quando aveva lavorato per alcune settimane in qualità di aiuto-macellaio, possedeva due cavalli e li teneva a pensione dal proprietario del ranch dove era stato assunto come mandriano. Un giorno partì di buon’ora con entrambe le bestie per domare il puledro. Il proprietario del ranch si convinse che quel giovane cowboy dalla mascella quadrata fosse sparito senza pagargli la retta dei cavalli e lo denunciò.

Senza fargli troppe domande, lo sceriffo di Montrose City lo sbatté in prigione. Di nuovo.

Una volta libero, Butch si mise a vagare per il Wyoming e il Montana prima di ritornare a Telluride, dove, nel 1887, incontrò l’uomo che lo avrebbe introdotto alla sua futura e definitiva carriera: svaligiare banche e assaltare treni.

Matt Warner, come Butch, era figlio di mormoni dello Utah. Possedeva una puledra, Betty, leggera ed elegante, scattante e nervosa, piuttosto piccola e solo in apparenza poco potente. Perché quella puledra era in grado di sbaragliare qualunque avversario.

Le cose si misero presto a funzionare alla grande per i due amici. Betty vinceva le corse e Butch e Matt intascavano le scommesse.

In quel giro, Butch conobbe i due fratelli Tom e Bill McCarthy. E fu insieme ai McCarthy e a Harry Longabaugh, meglio noto come Sundance Kid perché aveva cominciato da ragazzo a rubare bestiame nei dintorni di Sundance, che Butch formò il Wild Bunch.

La rapina più celebre del Mucchio Selvaggio fu quella del 19 settembre 1900 alla First National Bank di Winnemucca, nel Nevada, che fruttò un bottino di 32.640 dollari.

Quando l’agenzia Pinkerton, la più prestigiosa agenzia investigativa d’America, fu incaricata di mettere fine alle loro gesta, Butch Cassidy, insieme a Sundance Kid e alla sua donna, Ethel Etta Place, decise che era il momento di cambiare aria.

Arrivarono a New York, comprarono da Tiffany un orologio d’oro a spilla per Etta e si imbarcarono sul vapore “Soldier Prince” diretto in Argentina.

A Buenos Aires presero alloggio all’Hotel Europa, finché, grazie ai buoni uffici del Dipartimento del Territorio, acquistarono un ranch a Cholila, provincia del Chubut, Patagonia.

Butch era il signor Santiago Ryan, Sundance ed Etta erano il signor e la signora Harry Place. I documenti dicono che il loro ranch si estendeva per 12.000 acri sui quali pascolavano 300 bovini, 1500 pecore e 28 cavalli.

Secondo le parole di Butch, «il miglior posto del Sudamerica».

Butch era un tipo gioviale e aveva due grandi passioni, la storia medievale e quella dei clan scozzesi. Per i primi tempi in Patagonia filò tutto a meraviglia, ma dopo sei anni, sarà stata la noia, la solitudine o la nostalgia della vecchia vita, Butch, Sundance Kid ed Etta Place vendettero tutto e se ne andarono in Bolivia. O così almeno si racconta.

E si racconta anche che, dopo alcune rapine in quella zona, i tre amici venissero uccisi, il 4 novembre 1908, nella cittadina di San Vicente. Secondo questa versione, Butch, ferito a morte, avrebbe finito con il colpo di grazia Sundance, anche lui gravemente ferito, prima di togliersi la vita. Forse qualcuno ricorderà l’ultima scena del film di George Roy Hill del 1969 con Paul Newman nei panni di Butch e Robert Redford in quelli di Sundance Kid.

C’è però chi dice che Butch fosse tornato negli Stati Uniti sotto falso nome e che fosse poi morto nel nord-est nell’autunno del 1937. È la teoria dello stesso Robert Redford nel libro The outlaw trial, e si basa sulle parole di Lula Betenson Parker di Circleville, sorella di Butch.

Mi immaginai quel bandito che se ne va in giro a rapinare treni e a svaligiare banche, mentre gli sceriffi di mezza America scrivono manifesti a caratteri sempre più grandi, offrono taglie sempre più ricche e lui, imperturbabile, si ferma accanto al fuoco, si prepara un caffè, si scola un whiskey, fuma un sigaro e alla fine prende carta e penna e si mette a scrivere alla sorella Lula.

Iniziai a fare delle ricerche in rete, non sapevo se Lula Betenson Parker fosse ancora viva, anzi a fare due conti era praticamente impossibile, ma avevo trovato un possibile figlio, Mark Betenson a Circleville. E poi, da qualche parte nello Utah, si trovavano le lettere e gli oggetti personali di Butch Cassidy.

Non avevo alternative. Dovevo iniziare da lì.

Avevo deciso di partire da lontano, di girare intorno all’obiettivo, quasi con indifferenza, entrare nello sfondo, rendermi irriconoscibile e cercare di cogliere le sfumature, i dettagli, e solo alla fine cercare di affondare il colpo.

Volevo ricostruire la storia di Louise e attraverso quella risentire la musica e il profumo del mio passato.

L’odore dello stufato irlandese mi faceva rivivere i gesti di mio padre, il rumore fastidioso che faceva spostando la sedia per sedersi a tavola e quello un po’ disgustoso del risucchio del sugo dal cucchiaio.

Rivedevo le violette regalate a mia madre e la tenerezza delle sue guance lentigginose attraversate dalle lacrime. Immaginavo Pedro Mangini che fumava guardando Lara e Louise ballare il tango e sentivo quella musica appassionata, lo schiocco dei tacchi sul pavimento e il profumo delle gonne che ruotavano strusciando sulle cosce delle ballerine.

A spingermi a partire per il mio viaggio furono diverse cose, ma come spesso accade, alla fine si rivelò determinante un elemento in apparenza marginale, una canzone del 1971 dei Led Zeppelin, Stairway to heaven.

Quella mattina pioveva fitto e sottile, fuori era solo grigio. Il tempo non cambiava da diversi giorni. Avevo fatto la doccia e stavo iniziando a radermi. Avevo dormito male e mi sentivo addosso un misto senza nome di noia e malinconia che mi bloccavano come corde bagnate.

Cercai fra i CD un pezzo di buon rock, una scossa per la faccia giallastra e depressa che detestavo.

Black dog, adrenalina pura.

Lo feci andare a volume gagliardo e compii i soliti gesti quotidiani con la tranquillità di chi non ha un orario da rincorrere. Lavarsi i denti, strofinarsi in faccia il dopobarba, asciugarsi, vestirsi, buttare giù un caffè, vedere i titoli dei giornali ripetuti ossessivamente dai diversi canali televisivi. E al di sopra di tutto, il rock classico ed energico dei Led Zeppelin.

Alcuni minuti dopo ero vestito e ricaricato davanti al lettore, pronto a spegnerlo e uscire, ma in quel momento il rock si sciolse. Ci fu una lunga pausa di silenzio. Poi, senza neppure rendermene conto, mi ritrovai imprigionato nella magia degli arpeggi della chitarra di Jimmy Page.

Stairway to heaven.

Lì c’è tutto.

Dicono addirittura che facendola suonare al contrario si riesca a sentire una strana voce che dice «666», il numero magico di Satana. Il patto col diavolo dei Led Zeppelin? Non lo so, non credo, so soltanto che mi lasciai cadere sulla poltrona e iniziai a seguire le parole del testo, l’unico trascritto in tutto il libretto.

 There’s a feeling I get

when I look to the west

And my spirit is crying for leaving…

Ooh, it really makes me wonder…

La voce di Robert Plant m’implorava.

Me li rivedo nel video del concerto del 1973. Jimmy Page vestito di scuro, concentrato sulla sua Double Hand. E Robert Plant alto, sottile, con i lunghi boccoli biondi da cherubino e una ridicola camicia corta e slacciata, il petto nudo. Dopo la dolcezza iniziale, Jimmy comincia a infilare nelle sue schitarrate qualche giro di blues, e Robert accetta la sfida, anzi a sua volta la provoca. A un certo punto entra in scena la batteria di John Bonham che inizia a lavorare pesante. Il ritmo cresce e, mentre Robert continua a riflettere, sputa la frase che fece riflettere me:

Yes, there are two paths you can go by, but in the long run

There’s still time to change the road you’re on

La musica continua a salire di intensità, diventa sempre più robusta, Plant ormai grida e la chitarra di Jimmy lascia partire una serie di accordi graffiati che vibrano nell’aria, poi vola e svisa sempre più in alto.

La chitarra a due manici è rosso-bordeaux e nera, è enorme, sproporzionata, ma fra le mani di Jimmy sembra leggera come una farfalla. Le sue note volteggiano. La batteria non dà respiro, Bonham sostiene, incalza, dà corpo e Plant se ne sta tranquillo, lascia fare, batte un tamburello e segue il ritmo scuotendo felice la testa e i boccoli.

Ma a un certo punto s’incazza e comincia a urlare come un pazzo.

Sembrava si stesse rivolgendo direttamente a me.

… to be a rock and not to roll…

Si dice che gli Zeppelin abbiano scritto Stairway to heaven pensando al paradiso che un ragazzo scopre facendo per la prima volta l’amore con una puttana.

Curioso, una canzone che parla di una puttana mi aveva dato la carica giusta per mettermi in cerca della verità su mia nonna e sulla tratta delle bianche di quasi un secolo prima.

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