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Il cuoco di bordo, “Wayfinding”

Il cuoco di bordo, “Wayfinding”

The Sea Cook

Steven è il cuoco di bordo, il “sea cook”, del catamarano Te Matau a Máui, una splendida riproduzione, con materiali moderni, dell’imbarcazione tradizionale polinesiana, la Waka, una lunga canoa a doppio scafo e due alberi di 22 metri di lunghezza e 13 tonnellate di peso che ricorda tanto quella con la quale Rasputin raccolse Corto Maltese dopo il naufragio.

Te matau a Máui, “l’amo di Maui”, naviga soltanto con mezzi tradizionali, come strumenti moderni ha soltanto un Gps per la sicurezza dell’equipaggio e un grosso pannello solare per alimentare un piccolo motore elettrico che serve per manovrare nei porti. Per il resto del viaggio, ci sono soltanto il sestante e le stelle, le vele, il timone e il Pacifico.

Qui nel porto di Apia, nel giugno del 2010, non lontano dalla casa di Stevenson, quello che raccontava le storie, di catamarani così, ce ne sono quattro.

Le imbarcazioni di questa singolare regata che, in realtà, è un vero viaggio iniziatico, si assomigliano tutte, ma si differenziano per i colori e i disegni caratteristici delle rispettive isole, le ha costruite un modernissimo cantiere di Auckland che si chiama Salthouse Boatbuilders, “Costruttori di barche della casa salata”.

Anche la traduzione letterale del nome ha un notevole ricordo prattiano.

Il progetto, basato solo sulla raccolta di fondi privati, è quello di rivitalizzare la tradizione della navigazione a vela, la costruzione d’imbarcazioni tradizionali e la condivisione delle conoscenze marinare di tutti i popoli che abitano l’infinita collana di isole dei mari del Sud, in uno spirito di generale unione Polinesiana. Sembra di risentire le riflessioni di Tarao, ma invece è il vero progetto che ha consentito la realizzazione di questo sogno.

La chiamano “Wayfindind”, letteralmente “La ricerca della strada”, è la navigazione non strumentale, navigare seguendo le stelle, i segni del cielo, il soffio naturale degli alisei, la spinta delle correnti, o forse, perfino la pinna di un pescecane.

Te Matau a Maui, “L’amo di Maui” è la canoa che rappresenta la Nuova Zelanda; Marumaru Atua “Sotto la protezione del Signore” è quella delle Isole Cook, Uto ni Yalo è la barca delle Fiji; Hine Moana quella dei marinai misti che vengono da Samoa, da Tonga, da Vanuatu.

Sono bellissime, solide e leggere, come i sogni. Arrivano a toccare i dieci nodi quando filano nel vento giusto. In ogni porto c’è un’aka, la danza maori, che la gente del posto balla e urla percuotendosi il petto, le cosce e gli avambracci, in ogni porto ci sono preghiere, strette di mani, abbracci, fiumi di birra, barbecue, occhi lucidi, palme piegate dal vento, racconti a voce alta e risate, ma, soprattutto, la sensazione di ritornare a vivere qualcosa di vero, di riuscire a navigare nel silenzio, senza pensare al gasolio, senza preoccuparsi troppo di venti e di onde, perché quelle vele a forma di cuore, chiudendosi come ventagli li lasceranno sfogare, e quegli scafi arcuati, pesanti e sgraziati non le vorranno sfidare, ma le sapranno assecondare e cavalcare morbidamente, senza preoccuparsi troppo del tempo e della meta, perché una meta reale non c’è.

Quando le “canoe” salpano leggere dal porto di Apia dirette verso Tonga si sente solo il soffio del fiato di un marinaio maori all’interno di una grossa conchiglia e quello del vento che apre le vele di stuoia color ruggine. Quando quelle vele doppie di dissolvono nel grigio della lontananza e della pioggia, sembra di rivedere un acquarello di Pratt.

Una lama di sole s’inventa perfino un arcobaleno, forse è quasi troppo.

  • Steven, che significato ha per te questo viaggio?
  • La realizzazione di un sogno…anzi, forse…una specie di rinascita.

Steven è un uomo grosso e pesante, ha sicuramente più l’aspetto del cuoco immerso nella cucina fumosa di un ristorante cittadino che dell’agile marinaio maori calato in questi gusci leggeri.

E’ vestito soltanto con il tipico gonnellino polinesiano nero, il lava-lava, ha il torso massiccio, la pancia e il cranio rasato sono lucidi di minuscole gocce di pioggia, ma i suoi occhi dicono che è un uomo speciale. Per parlare non servono domande, forse, ha solo voglia di raccontare. Segue col dito un percorso ideale su una cartina umida e macchiata dell’Oceano Pacifico. Parte dalla Nuova Zelanda e poi spiega che Maui, dalla sua barca, ha pescato con l’amo l’isola su cui sorge Auckland e questo è il significato del nome della barca neozelandese, quella su cui lui sta vivendo l’avventura, il sogno.

Steven, il cuoco, è messo male coi denti, ci sono larghi spazi e finestre, ma non ha problemi a sorridere e riesce a masticare benissimo dei pezzetti di carne di cervo che si è portato dalla Nuova Zelanda e a suonare il flauto d’osso che s’è intagliato da solo. Racconta, con uno sguardo solare e l’entusiasmo di un ragazzino che non vuole più smettere di giocare:

  • Il Creatore di tutto è Io Matua Kore – indica un cielo grigio di pioggia sottile – il significato del suo nome è “Il nulla”, ma nel nulla c’è la potenzialità d’ogni cosa. – Silenzio. E lo spazio di tempo necessario a fissarsi negli occhi. Un sorriso che vuol dire “Capisco”, poi il sea cook continua – Per questo motivo, Hine Kahu Ataata, la prima donna, la “Donna delle sabbie”, ha generato tutta l’umanità ed è così che in ogni donna c’è la divinità della potenzialità. Perché la donna, dal suo grembo può generare ogni cosa: l’uomo più grande, un Signore della guerra, o la nullità più assoluta…

Il sottotitolo dell’Isola del Tesoro di Stevenson era proprio The sea cook, perché il grande RLS sapeva, fin dalle prime pagine del suo grande sogno, che a quel bravo ragazzo di Jim Hawkins la vera svolta della vita non sarebbe certo capitata fra i tavoli della locanda dell’Ammiraglio Benbow, non certo nell’aiutare sua mamma, né dietro ai consigli del buon dottor Livesey o del simpatico Trewlaney, né del capace capitano Smollet, ma il suo “apritore di porte” sarebbe stato proprio un bastardo come il cuoco dell’Hispaniola, John Long Silver, il pirata.

C’è un ricordo importante citato dallo stesso Pratt in un intervista, l’Isola del tesoro, la sua copia personale del libro, nell’edizione Heinemann di Londra, fu l’ultimo regalo di suo padre, ma proprio quel rigido volume nero sarebbe stato l’inizio di tutto. L’inizio di un viaggio, di ricerca, questo sicuramente, ma anche un viaggio divertente, perché, in fondo, non è poi così importante trovare, ma partire per cercare qualcosa, anche se spesso non si sa esattamente che cosa.

La meta da ricercare è la vera grande eredità, perché ognuno di noi deve ricercare la propria Isola del tesoro.

Per questo, per Pratt, rendere omaggio alla tomba di Stevenson in cima al monte Vaea era una sorta di pellegrinaggio, un omaggio dovuto. Perché lassù il colore del mare sarebbe stato più vivo, il profumo del vento più intenso e la fantasia sarebbe stata più vera.

Eppure Pratt non ce l’ha fatta, la strada era sbarrata dai tronchi abbattuti dall’uragano, il fondo era scivoloso per le piogge, così, lui la tomba di Stevenson la vide soltanto dall’alto, non toccò la pietra umida e bianca, non riuscì a sentire la delicata fragranza del frangipani che cade nel vento né i richiami degli uccelli dalla testa rossa, lui vide quel simbolo attraverso il frastuono delle pale di un elicottero neozelandese, ma Pratt era andato molto oltre, quel ragazzo che aveva sognato attraverso un libro nero regalato da un padre che sarebbe scomparso come il padre di Jim Hawkins, quel ragazzo era riuscito a inventare Corto Maltese e aveva insegnato a tanti altri ragazzi a sognare, e soprattutto, ad osare, anzi molto di più, ad andare oltre.

Il momento più bello nell’Isola del Tesoro è, sicuramente, il momento in cui Jim riesce ad impossessarsi e a condurre, anche se brevemente, ma da solo, fino ad arenarsi in un banco di sabbia l’Hispaniola, la nave, la vita.

Jim Hawkins che conduce la nave da solo e Ben Gunn che dopo aver trovato il tesoro vorrebbe solo un pezzo di formaggio sono la sintesi di tutto, l’avventura, il sogno, l’ironia di Stevenson e di Hugo Pratt tutti messi insieme, scrittori che non hanno mai preteso di spiegare niente, ma hanno soltanto voluto raccontare le loro storie e invece hanno detto molto di più.

L’omaggio a una tomba è il ringraziamento alla vita che la persona scomparsa è riuscita a trasmettere. Non c’è soltanto la malinconia del ricordo, c’è la gratitudine per quel ponte sottile che ha consentito un passaggio. Hermann Hesse, Yeates, Stevenson, sono le tre tombe simboliche di Pratt, gli “apritori di porte”, ma Corto Maltese ha saputo bere alla loro fonte e trasmettere un altro segnale, trovare una chiave che, partendo da loro, può guidare, anzi accompagnare, in leggerezza, verso un mondo salmastro e fantastico, un mondo fatto di vele e tesori, d’incontri e sorrisi, di silenzi e ballate.

  • Che lavoro fai Steven?
  • Sono uno studente.

C’è sempre tanto da imparare da un cuoco maori che a cinquant’anni si definisce uno studente e  che regala un amo intagliato in un osso di balena e poi rimane in silenzio e si mette a suonare il flauto pensando al niente di Io Matua Kore. Anche Stevenson suonava il flauto seduto nel giardino della sua casa di Vailima, forse anche lui pensava alla vita che vola via troppo veloce, ma quel suono è ancora forte, almeno qui, nel porto di Apia.

 

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