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Io resto qui (Un racconto dedicato a Scicli)

Io resto qui (Un racconto dedicato a Scicli)

Io resto qui

Sono venuti in tanti a vedere, sono venuti per capire come si vive.

Sono entrati nelle nostre case, che non sono come le loro case,

le nostre grotte sono buchi nella terra, sono le tane, il rifugio degli ultimi.

Ma loro l’hanno fatto con rispetto, questo lo devo dire,

hanno detto che quel vivere troglodita era una vergogna per un paese civile.

Erano vestiti per bene, con giacche e cravatte, mani da stringere e bocche fiorite di sorrisi.

Pure noi eravamo parati a festa, sbiancati, ripuliti,

i panni li avevamo lavati giù con l’acqua di San Bartolomeo alla luce delle torce.

Io guardavo quella processione e restavo lì, immobile, come al solito,

coi piedi piantati nella mia roccia, guardavo e non m’importava.

La mia casa è questa terra bucata,

è l’ultima tana scavata in cima alla collina.

Io non mi muovo da qui,

ormai faccio parte di questa montagna, di questa terra, di questa roccia.

Resto qui, come un ulivo abbracciato ai suoi sassi,

un fico d’india di sangue e di spine che sbuca in mezzo alle pietre,

un fungo attaccato alla corteccia profumata del carrubo.

Trovo quello che serve in mezzo ai miei sassi,

qua c’è tutto, allungo pensieri e radici e lo afferro,

o mi dimentico tutto e lascio andare ogni cosa.

San Matteo è in cima alla nostra montagna,

da lassù lui mi guarda e mi lascia fare quello che voglio.

Non scrolla le spalle, non mi chiede preghiere, sa che ho sofferto abbastanza,

non cerca altra fatica, lui mi capisce e mi lascia stare, mi regala l’ombra e m’aiuta a campare.

E a me basta così.

Io non conosco altri santi e nemmeno altre montagne.

Conosco le grotte e la terra che ho aperto col sangue e il sudore.

Io non guardo per aria, vivo con le spalle incurvate.

Zappavo la terra, ogni giorno, dove capitava, dove qualcuno mi dava i piccioli per comprare il mio vino. Ogni giorno scendevo al paese, montavo sul carretto col buio e continuavo a dormire, sobbalzavo fra i sassi e il sole mi trovava e mi bruciava negli occhi. Io piegavo la testa, abbassavo la coppola e quando scendevo dal carro, iniziavo a zappare, con rispetto, tutto il giorno, fino al tramonto, a spaccare la terra, a togliere sassi, a spostare e allineare ogni pietra, come tanti soldati, tutti muti, ostinati e fedeli. Io restavo a travagliare fino al calare del sole e mi bastava il mio pezzo di pane, le olive, un pomodoro schiacciato e due capperi tanto per provare perfino un piacere.

E tornavo al carretto, alla stessa danza sui sassi, con la testa pesante e le mani spaccate dal legno, il collo che si vuole incurvare e la schiena che lo deve seguire,

come una virgola inutile, come una luna ricacciata nel ventre del mare.

E la terra s’infila in fondo alle scarpe, fino in fondo alle unghie sbeccate e si mischia alla polvere negli occhi che vedono tutto annebbiato.

È notte ogni volta che arrivo alle facce dei turchi, li guardo e quelli ridono alle case dei ricchi, vorrei fare lo stesso, ma non sono capace, io sto bene lassù, non mi muovo, non sogno di cambiare e non cerco cose o ricchezze da aggiungere al silenzio che basta a riempiere il mio vuoto.

Vivo bene così, rintanato nel mio buco fra i sassi.

Risalgo lento sulle pietre alla sera, le suole di fango scivolano e il caldo si appiccica dentro, poi arrivo alla grotta e mi siedo,

è l’ultima, proprio lassù in cima alla collina, nel buio, sotto all’ombra e alla mano del Santo.

Di notte fa freddo, non ti ripara una pezza, una coperta sfibrata, la paglia, il residuo del fuoco, solo le cicale mi cullano al mattino strofinando le ali, solo le erbe selvatiche profumano di fresco, si sbagliano e s’intrufolano pure là dentro, s’infilano come formiche negli spacchi in mezzo alle pietre e i capperi scendono dai muri come lente cascate, come lacrime di fiori mancati che sanno di pane, d’olio, di olive e di occhi rassegnati e socchiusi.

Solo l’infinita stanchezza mi aiuta a concludere il giorno, ogni giorno.

Spacco un fico d’india, schiaccio un’alice e tracanno il mio vino aspro e poi stringo fra le mani il bicchiere.

Sul tavolo storto c’è una crosta di ragusano da raschiare e le fave bollite, me le ha lasciate Maria, lei abita sotto, per quella santa un’altra bocca da sfamare è solo un gesto normale.

E non servirà ringraziare, basterà continuare il favore, domani, o un giorno qualunque.

Spengo la candela e la grotta diventa più nera, resto solo sul letto di paglia.

I manifesti del cinema mi guardano, girano intorno e mi sfidano, con le donne gagliarde di tette, i sorrisi perfetti e le cosce scoperte.

Io le guardo, chiudo gli occhi, me ne vado lontano e mi viene da ridere, se una di loro entrasse qua dentro scapperebbe per l’afrore di capra e di piscio, per la mia faccia barbuta, per gli occhi e le mani da bestia selvatica,

non arriverebbe a vedere che nascosto qua sotto c’è perfino un sorriso sincero.

Sono solo un campagnolo, zappo la terra dove mi portano, questo è il mio lavoro e ogni giorno è uguale per me. Ho le mani dure e le spalle robuste, ogni giorno m’inchino e spacco la terra perché questo so fare e la terra si lascia toccare e palpare

e poi sorride con me, perché questa è la nostra specie d’ammore.

 

Poi una notte sono montato sul carro,

ma quello ha cambiato la strada,

dopo la piazza è partito in salita, sempre in alto,

verso la collina e il convento,

verso la Croce,

lassù dove non ero mai stato,

alla fine la strada si stanca come il mulo e comincia a piegare,

e poi scende come un ruscello impetuoso,

si butta e corre veloce,

ma la bestia è troppo veloce,

ci possiamo schiantare,

aooo, aooo, gli urla Tanuzzo mentre suda e tira le briglie.

Tanuzzo lo deve fermare, corre troppo quel bastardo di mulo, chissà dove si crede di andare, se si spacca le gambe è finito il carretto e il lavoro per tutti

e noi avremo ancora più fame.

Ma poi tutto si calma.

Ci fermiamo dopo un muro di sassi,

dopo una siepe di fichi d’india fioriti,

dopo un cespuglio di more

e io comincio a zappare

come sempre, senza il tempo e la voglia di guardare.

Il sole è ancora accasciato, resta infilato sotto alla terra, ma in alto nel cielo, c’è una striscia di luce che incomincia a brillare mentre io continuo a spaccare.

Alzo in alto le mani e la zappa rimane impigliata in un filo di quell’aria perfetta,

è incollata là in alto, nel brillare del cielo,

è rimasta incantata e per una volta non mi voglio curvare, resto solo a guardare.

Sono sospeso, nel fresco, con lei, la mia zappa.

Tutto il mondo rimane bloccato in quel momento speciale,

oltre la siepe di fichi,

oltre il muro di pietre,

oltre il cespuglio di more.

E mi appare l’azzurro del mare.

È solo una striscia di luce, ma quella è speciale.

Sampieri era un nome troppo lontano,

non avevo mai visto nient’altro che pietre, terra dura e grotte bagnate.

Oggi ho trovato quell’azzurro lontano, ma è sempre troppo lontano.

E che fa il campagnolo che sa solo zappare?

Non si può mica fermare a guardare, lui deve continuare a travagliare,

ma questa volta non posso, m’intontisce un richiamo, uno stridore di gioia,

è una giostra di rondini che girano in tondo, girano, sono pazze e felici nella luce del mare e io rimango come una creatura incantata a guardare.

Gridano e girano intorno a qualcosa e mi cade la zappa di mano e cammino per andare a vedere, un passo e poi un altro con la testa nell’aria e in quel momento preciso, con quel passo di troppo, con quel raggio rosso di sole che si riflette sul mare e rimbalza e s’infila negli occhi come una freccia affilata che mi acceca con la cosa più bella che sono riuscito a vedere.

Vivo un sogno prima del buio e poi tutto scompare.

E rimango bloccato sul fondo scuro del pozzo,

è un pozzo antico, nascosto, sperduto,

forse l’ha scavato la terra apposta per me,

le gambe si frantumano come semi e il mio corpo è sparpagliato laggiù,

ma non riesce a germogliare.

 

Sono venuti in tanti a vedere, sono venuti a capire cos’era successo,

ma non succede mai niente.

E allora ho guardato anche quella processione passare

e sono rimasto con i piedi piantati nel mio buco scavato dal tempo solo per me.

 

Io non mi muovo da qui,

dopo quello sguardo al mare,

dopo quell’ultimo passo

resto come una rondine senz’ali sospesa nel cielo alla sera,

guardo intorno e non c’è niente di nuovo.

Io non voglio niente di nuovo.

C’è pure un tesoro sotto all’ulivo,

me ne parlava la nonna, lei conosceva le storie segrete del Santo,

sapeva dei teschi, delle trovature, delle preghiere arabe e delle antiche monete,

bastano poche parole,

rispettare la fame,

la sete,

la fede senza preghiere

e il tempo che rotola in cielo insieme alle nuvole.

Io resto inchiodato alla mia sedia di paglia,

tanta gente continuerà a passare,

ma a me non servono case o tesori,

io ho già tutto,

guardo Scicli là sotto e la vedo brillare,

rimango quassù e me ne vado lontano,

sul riflesso dorato del mare,

di quell’unico pezzo di mare

che mi ha fatto sognare.

 

 

Marco Steiner

 

Dedicata a Scicli e a Pietro Sudano il poeta di Chiafura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo è apparso sulla Rivista Suq N°4

https://www.suqmagazine.com/suq04

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