Preferisco guardare dal mare
Vercelli, il catalogo di una mostra fotografica dal titolo:
“Letterature Urbane 3.0 La città come testo”
Un’iniziativa organizzata a favore dell’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) Arca di San Marco, Vercelli, un luogo magnifico. (14 ottobre – 13 novembre)
Mi hanno chiesto un brano, l’idea era quella che scrivessi qualcosa che legava le città, la letteratura e il mare. Ho provato a raccontare una storia, che derivava da un’immagine che mi aveva colpito la scorsa estate, non era una fotografia, ma la dura visione della scogliera di un’isola greca del Dodecanneso, una di quelle più vicine alle coste turche, era stranamente coperta da macchie arancioni. Dopo essermi avvicinato ho capito cos’erano quelle chiazze colorate. Non erano fiori, erano i giubbotti di salvataggio usati e abbandonati (spero) da decine di migranti che si erano avventurati lontano dalle loro terre e che si erano salvati arrivando su quelle isole, per tentare un’altra avventura, quella di provare a vivere ricominciando da zero.
Normalmente scrivo storie d’avventura, mi è sembrato giusto perché credo che oggi i veri avventurieri siano proprio questi uomini, donne e bambini. Forse fa bene porsi una domanda: chissà che immagini si portano dietro queste persone dopo aver lasciato le loro città e quali altre visioni immaginano delle “nostre” città.
Forse è tutta una questione di disponibilità al cambiamento. E allora ho provato a raccontare il cambiamento di un marinaio a cui vanno stretti i porti, le regole, le abitudini. L’avventuriero abbandona tutto questo in cerca della libertà, ma anche la concezione della sua libertà può cambiare…
Ecco il mio testo:
Preferisco guardare dal mare
Non ricordo le città che ho attraversato.
Passavo soltanto. Bastava.
Non riesco a guardare, se non posso vedere.
Troppa polvere in giro, la ruggine attacca e corrode, l’odore di marcio s’infila nell’anima, spegne il calore. C’è solo fumo, terra senza vero colore.
Resto al largo.
Preferisco guardare dal mare.
Lo scoglio al confine col cielo accende la vista, l’isola nera stempera il buio di ricordi e paure. E l’acqua m’avvolge, m’abbraccia fin dentro alla pelle.
La linea grigia dell’orizzonte non vuole finire, la costa è dolce e lontana, sbiadita di sogni leggeri, quando la tenda s’alza pesante, scopre un palcoscenico irreale.
Non posso restare.
Lei era bella e imbronciata, profumava di riccioli chiari, di fiori bagnati, sfuggiva come una farfalla, come un girasole, mi faceva impazzire.
La notte m’incantavo nella nebbia di un sogno, accarezzavo lenzuola e sospiri.
E mi sentivo affogare, incapace di risalire. Volevo solo sparire.
Mi svegliavano capricciose e svogliate giornate di sguardi taglienti, unghie graffiate sul vetro, passi perduti, gelide cascate di grida e sciami di vuoti silenzi.
Non riuscivo a trattenere il destino, nell’amore non trovavo la grazia e non c’era abbandono, rotolavo fra spuma rotonda e pietre affilate. Quando la tela del ragno mi aveva quasi afferrato, ho mollato le cime, le ho gettate sul fondo del mare, e sono andato lontano.
Sprofondavo nel vuoto, ero attratto dal fondo, non mi volevo fermare, poi un riflesso rotondo di luna ha ammiccato il suo dolce richiamo.
Ho capito distanze, confidenze, silenzi, cercato gli schiaffi e le risate salate del mare.
Ora m’inebrio del legno e la spuma è morbida, leggera. Volo con la nuvola nera che scioglie il pensiero, seguo la scia dell’onda che socchiude gli occhi con me. E sorride.
La luce del faro è una spina sottile, artiglia la pelle indurita, s’insinua nelle fibre e mi trascina nel porto. L’abbraccio di una notte di note, incenso e vaniglia riapre la ferita e il ricordo stritola il cuore.
Riapro gli occhi e volto le spalle alla terra, mi allontano nel vento.
Liquido, libero blu da immaginare, colorare.
Preferisco guardare dal mare.
Punti bianchi di case scrostate s’inerpicano su rive scoscese, s’aggrappano a stecchi nodosi e arbusti bruciati, s’acquattano negli anfratti del monte.
Sono tutti infilati lassù, per sbirciare, muti e distanti dal mare.
L’onda vorrebbe strappare tentacoli, chiodi, cinghie e radici, schiaffeggiare di rondini e pesci volanti, sprigionare l’azzurro, l’aroma di sabbie lontane. Loro si aggrappano, si barricano dietro muri di sassi, grate di ferro, incastri di conchiglie scheggiate.
Gongolano immobili, immersi nella palude di un perfetto, implacabile oblio.
L’altrove non cambia, altre case si rovesciano come biglie di mercurio, l’olio scivola lento nella fumante caldana di un’immensa pianura, le formiche sgambettano e sfuggono il mare, mostro sconosciuto dai passi pesanti.
Non mi voglio seppellire ebbro e pigro nel tepore di una grotta stantia, non mi voglio inoltrare in un bosco di specchi e riflessi, ascoltare il biascicare di vuote parole, navigo, dove non importa, dove mi porterà un mare che sorride, mette alla prova, e non si vuole fermare.
Scivola il tempo e s’insinua nelle acque salmastre, isole ombrose, correnti di spezie.
La pelle indurisce, cambia colore, lo sguardo scavalca muri di leggi e miraggi, sfiora, lambisce, accarezza musiche nuove. Penetro nel suono, vibro note con occhi argentati.
Città e terre si disgregano nella lenta deriva mentre navigo un’inquieta melodia.
Escondida non c’è, per questo la continuo a cercare, voglio andare più in là, dove non posso vedere, dove non so di arrivare, dove è necessario cercare. Cambiare.
Poi in un giorno di sole il vento si gira e non serve spiegare. Non esiste il “non luogo”.
Si può solo sentire.
Il miraggio si trasforma in visione e diventa presenza.
La costa è calcinata di pietre, coperta di spine e pitturata da macchie arancioni. Non ci sono case bianche intente a scappare dal mare, non c’è niente, restano lacrime e il sangue di un mondo schiacciato e sbattuto.
La memoria è svanita, troppo lontano. I silenziosi deserti, gli sguardi muti, le oasi galleggianti su tremolanti calure, il profumo dei datteri, il suono di palme e cicale fruscianti, sono ormai frantumati, non resta che cenere, un vortice di polvere e poi il nulla.
Laggiù non bastava marciare per ore per trovare l’acqua da bere, l’otre sulle spalle era carica di un solo infinito dolore. Non esisteva una casa dove tornare, restava l’acre odore d’incendi e dei corpi straziati.
Le città erano bocche sdentate, le finestre occhi spauriti.
L’unica strada, l’acqua del mare, una madre per poter ricominciare.
Fra le macchie di sangue arancione c’era un uomo ferito, trafitto dal dolore, sbattuto dal mare in mezzo alle pietre. Era piegato come un ramo spezzato, rannicchiato come un cane in una cuccia di plastica e legni bruciati.
Scivolavo fra la schiuma e le pietre taglienti, lui era rimasto incastrato, nella rete, sul fondo. E avrebbe preferito l’abisso.
Non dimenticherò gli occhi dell’uomo. Sbattuto e perduto, lo sguardo carico di distruzione in ogni direzione. Ovunque arrivasse la vista o il ricordo, ma non era finito.
Non riusciva a fissare la sabbia, non osava guardare le stelle.
Sapeva aspettare, senza niente da perdere, scivolava nel tempo.
Non importa il suo nome, non importa il luogo dal quale fuggisse e a lui non importava dove andare. Aveva un solo rimpianto: essere vivo, ancora, da solo, scampato da quel mondo sfasciato.
Sono un marinaio e non ho mai avuto una casa, però adesso lo ero per lui.
Sono trascorsi degli anni oramai, è diventato un fratello, no, è molto di più.
Insieme siamo rinati, ci siamo salvati.
Abbiamo visto mari lontani e condiviso silenzi, olive, acciughe sul pane e bicchieri di vino. Poi un giorno un pezzo di terra ci ha accolti.
Una culla, forse proprio Escondida, c’era pace, le lucciole e il frinire di mille cicale che venivano da un mondo lontano. C’erano ulivi contorti come noi e fichi d’india altrettanto spinosi. Riuscimmo a comprare un mulo gagliardo e un carretto sbilenco. Costruimmo un rifugio di pietre pittate di bianco.
Quando i legni del pergolato s’inondarono di foglie e grappoli d’uva chiara come quei riccioli biondi, alzai un bicchiere sbeccato e lo guardai. L’ombra ondeggiava, il nero degli occhi brillava. Non servivano altre parole.
Era il nostro saluto. Anche il vino era schietto, come il nostro sorriso.
Presi il mare, alzai una mano e non mi voltai.
Si continua, sempre in cerca del resto, sempre oltre il passato.
Preferisco guardare dal mare, ma una cosa è cambiata, so che adesso se dovessi cercare riposo, una casa o il ricordo più vero, tornerò là, a Escondida, l’isola forse non ci sarà, ma ritroverò il mio sconosciuto fratello. Non sono più solo.
Marco Steiner
Mare greco. Luglio 2016
Una costa coperta di giubbotti di salvataggio arancioni abbandonati.
Una città fantasma. Oltre Escondida. Al di là dal mare c’è l’Oriente infuocato.