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“Una Ballata del mare salato”, un racconto di formazione.

“Una Ballata del mare salato”, un racconto di formazione.

Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.” (J.D. Salinger, Il giovane Holden. Einaudi)

Salinger è morto il 27 gennaio del 2010 a 91 anni. Il suo romanzo “Il giovane Holden” é uscito nel 1951 e da allora, mentre il suo autore si ritirava in un ferreo silenzio e in volontario isolamento, ha venduto più di 60 milioni di copie in tutto il mondo e generazioni di ragazzi l’hanno letto e hanno trovato similitudini con i loro processi di crescita e con le loro problematiche esistenziali, insomma, il Giovane Holden è un tipico romanzo di formazione, come Demian, Davide Copperfield, Il rosso e il nero, Gli Indifferenti e tanti altri.

La Ballata ha le stesse caratteristiche perché il vero protagonista, in fondo, non è Corto Maltese e nemmeno l’Oceano Pacifico, ma sono Pandora e Cain, due ragazzi che all’inizio della storia non sono altro che due viziati rampolli di una ricca famiglia australiana e alla fine, dopo un anno di vagabondaggi si ritroveranno diversi e in un mondo reso diverso dalla guerra.

Le spedizioni di James Cook vennero commissionate dalla Royal Society per dimostrare l’esistenza della Terra Australis, ma gli intenti dello scettico Cook erano quelli di andare oltre: “…al di là di dove chiunque è andato prima, ma fin dove è possibile per un uomo andare”.

Il suo secondo viaggio iniziò da Plymouth il 13 luglio del 1772.

A bordo della Resolution c’era un giovane tedesco di diciassette anni, Georg Forster, che si era imbarcato col padre, Johann Reinhold Forster, il naturalista della spedizione. Forster “padre” era stato incaricato di redigere il resoconto del viaggio, ma il carattere di Johann Reinhold non era facile da digerire per Cook e tantomeno per Lord Sandwich che aveva commissionato il suo lavoro, ma che voleva poter dire la sua, guidare e correggere la linea di quel resoconto. Il rigido naturalista tedesco, secondo le sue stesse parole, non aveva alcuna intenzione di essere trattato come uno scolaro a cui si correggono i compiti e fu così che si arrivò alla rottura del contratto e alla decisione di Cook di pubblicare la sua personale storia della spedizione. Il viaggio dei due Forster sarebbe stata una bella e indimenticabile esperienza, niente di più. Ma il giovane Georg aveva sempre collaborato con suo padre, aveva girato tutte quelle isole brulle e pietrose o fantastiche e cariche di piante e animali meravigliosi, aveva sempre cercato di dialogare con le popolazioni locali, aveva preso appunti e fatto disegni, raccolto semi sconosciuti e tantissimi indelebili ricordi. Quando vide suo padre deluso e indignato subì lui stesso quella situazione, ma decise di reagire a modo suo. Lavorò giorno e notte per otto mesi e alla fine riuscì a concludere il suo “Viaggio intorno al mondo”. Lo pubblicò sei settimane prima dell’uscita del libro di James Cook. Aveva solo ventidue anni. Il suo era un racconto dichiaratamente non ufficiale, era destinato alla gente comune, lui voleva raccontare il suo punto di vista in tutta libertà. Descrisse la grandezza di quel navigatore che aveva combattuto lo scorbuto facendo sempre mangiare agrumi e crauti ai suoi uomini, che aveva sempre preteso ferree regole igieniche a bordo. Georg voleva raccontare alla gente quanto fosse diverso e meraviglioso quel mondo che aveva avuto occasione di conoscere. Sorprendentemente, il suo libro gli valse una grande notorietà in tutta Europa e tuttora viene considerato come uno dei migliori esempi di letteratura di viaggio. “I miei lettori dovevano sapere di che colore era la lente attraverso cui guardavo. Per quel che mi riguarda essa non è mai stata né oscura né appannata. A tutti i popoli della terra ho testimoniato la mia buona volontà a pari titolo. Sono anche consapevole che con ogni singolo uomo io ho in comune vari diritti.”

Questo scriveva nella sua prefazione il giovane Georg Forster riuscendo poi a raccontare quell’incredibile viaggio con lo spirito del filosofo, dello scienziato e del romanziere. Le annotazioni sui diversi linguaggi e sui comportamenti sociali delle popolazioni del Pacifico, gli schizzi sulle specie vegetali, gli utensili, le armi e le piroghe sono degni di un grande naturalista. La descrizione dello stato d’animo e dello stato fisico dei marinai che, dopo 103 giorni di navigazione ininterrotta fra i ghiacci del circolo polare antartico, si trascinavano sui ponti delle navi come fantasmi non può non ricordare le magiche atmosfere di un grande romanziere come Edgar Allan Poe nel suo “Il racconto di Arthur Gordon Pym”.

Anche Louis Antoine de Boungainville scrisse il suo Voyage autour du monde dopo la sua circumnavigazione del globo e anche lui si portò dietro oltre all’astronomo e al disegnatore, anche il suo bravo naturalista, si chiamava Philibert Commerçon e fu lui che scoprì in Brasile un genere di piante che nominò Bougainvillea in onore del suo comandante, ma descrisse anche un particolare tipo di delfino dello stretto di Magellano che prese il suo nome, Cephalorhynchus Commersonii. Ma anche Commerçon fece una cosa molto particolare nel corso del suo viaggio, fece imbarcare come suo valletto e assistente personale un ragazzo che si chiamava Jean Baré, peccato che in realtà fosse Jeanne Barret, la sua compagna, che così divenne la prima donna a completare un giro del mondo, naturalmente la scoprirono gli indigeni di Tahiti, mentre a bordo non se n’era accorto nessuno.

Tutti quei viaggi furono in realtà percorsi che avevano degli obiettivi generali, ma poi, quasi sempre, seguivano anche altre linee dettate dal caso, dalla natura, dagli incontri degli uomini stessi o dal destino.

Forse non servirà “rinnegare il mondo intero per cercare più verità in un mondo nuovo“, come dice la Niña de los Peines nella sua Petenera, ma basterà vedere questo mondo con un occhio diverso perché, secondo René Magritte “Noi non vediamo che un solo lato delle cose. E’ proprio l’altro lato che io cerco di esprimere”. Questa frase ricorda molto i diversi gradi di lettura possibili nelle storie di Pratt e, prima fra tutte, la Ballata.

Allora, cercando di “vedere” in questa maniera due dei quadri di Magritte ci accorgeremo, forse, che in effetti le nostre capacità percettive possono davvero allargarsi.

“La reproduction interdite” e “Il principio del piacere” sono entrambi dei “semplici” ritratti di Edward James, un grande collezionista, un poeta, un sognatore, un ricco mecenate di tanti grandissimi pittori surrealisti. La caratteristica fondamentale di questi due quadri consiste nel fatto che non c’è il volto del protagonista. Lo sguardo del pittore nasce da un falso specchio che trascende quello che si vede. Nella “Reproduction interdite” lo specchio, posto di fronte al soggetto del ritratto riflette la stessa immagine dell’uomo visto di spalle, cioè il punto di vista dell’osservatore. Un’immagine che va oltre il possibile. Eppure, lo stesso specchio, riflette invece perfettamente la copertina di un libro posto accanto ad Edward James. Guardando con attenzione si scopre che si tratta del libro di E.A. Poe “Il racconto di Arthur Gordon Pym” che, in fondo, è un viaggio in un’altra dimensione.

Ne “Il principio del piacere” il volto di Edward James questa volta è sostituito da un’indefinita esplosione di luce, come se un flash fotografico avesse dissolto la realtà dei tratti di quel viso, ma questo lampo luminoso richiama in mente proprio la visione di Pratt e quella sua capacità di raccontare e far viaggiare ben oltre le immagini disegnate, perché c’è un mondo bellissimo compreso nell’indefinibile spazio fra la vista e la visione.

C’è il viaggio del lettore mentre legge.

To the friendly people of the Friendly Islands…

Marco Steiner

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Paramaribo

Paramaribo

Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti.

(Charles Darwin 1809-1882)

A Paramaribo c’è un parco di palme, il Palmentuin, e un bel viale verde e ombroso prima di arrivare al forte olandese, oggi è diventato un museo, si chiama Fort Zeelandia Museum, si affaccia sulla costa del Suriname, il grande fiume marrone, un tempo difendeva con le sue batterie di cannoni l’entrata nella baia di Paramaribo. In una piazzetta, fra le vecchie case coloniali, ci sono una serie di barili di petrolio impilati uno sopra all’altro fino a formare dei totem alti 5 metri e con un diametro di 90 centimetri. I totem sono neri e lucidi, li hanno abbelliti con decorazioni di lettere e simboli in alluminio intagliato, sono segni e parole che vengono dalla lingua e dalla cultura Afaka.

La scrittura Afaka fu inventata all’inizio del XX° secolo da un uomo di una delle tribù maroon (una parola che viene dallo spagnolo cimarrón, cioè quelli che vivono in cima alle montagne) anche questa lingua, come l’Hakka dei cinesi, era una forma di difesa delle tribù locali per comunicare fra loro tramite una lingua segreta.

E’ stato Marcel Hendrick Pinas, un artista locale, ad avere l’idea e a realizzare l’installazione, si chiama Kibi Wi Totem, l’intento simbolico è quello di proteggere il Suriname dalle cattive influenze che provengono dall’esterno. Alcuni anni fa, nel 2006, all’epoca della creazione del progetto i totem erano 25 ed erano tutti lì, lungo il fiume e vicino al vecchio forte, l’antico simbolo della difesa, adesso alcuni sono stati spostati disponendoli anche in altre zone del paese, per cercare una pacifica catena di protezione da tutte le influenze esterne che possono provenire anche dagli altri confini.

Il messaggio é chiaro e semplice per tutti: la cultura indigena, la foresta pluviale, le riserve naturali del paese devono essere protetti tramite quei simboli totemici da tutti i diavoli esterni. Quei totem parlano nella lingua creata da chi ha sempre vissuto in quella terra ma sono fatti proprio con i materiali che hanno richiamato nel paese tanti colonizzatori esterni: barili di petrolio e alluminio.

Fuori dal Suriname, verso il nord, nel Mar dei Caraibi, in quella lunga manciata di isole disseminate fra il Sud America e le coste degli Stati Uniti, i barili di petrolio hanno avuto anche un altro impiego: hanno fatto ballare migliaia di persone al ritmo di calypso e reggae delle steelbands. I primi suonatori di steeldrums cominciarono a esercitare il loro innato senso del ritmo semplicemente picchiando con dei bastoni i bidoni di petrolio che rubavano in giro per le raffinerie. Uno di questi ragazzi si chiamava Winton “Spree” Simon, un giorno, Spree (che in inglese vuol dire baldoria) per non essere scoperto, iniziò a bruciare la parte esterna dei bidoni per far sparire la vernice che ne avrebbe svelato l’origine, facendo così si accorse che scaldando il metallo e provocandone degli avvallamenti si potevano ottenere dei suoni molto più dolci e talmente diversi fra loro da riuscire a riprodurre tutte le note musicali.

Oggi, a Trinidad e Tobago ci sono fabbriche specializzate nel realizzare i cosiddetti pan e i tuner, sono operai molto qualificati, in grado di accordate i vari strumenti alla perfezione prima di spedirli in giro per le isole e nel grande mondo delle steelbands.

Dai bastioni scuri di Fort Zeelandia si gode un bel panorama sul fiume, al piano terra hanno allestito la rappresentazione di una specie di farmacia coloniale con contenitori in ceramica decorata, alambicchi e vasi di vetro, dall’altro lato c’è un piccolo negozio di souvenir e un’esposizione di oggetti relativi alla storia del Suriname, ma al piano superiore, in una saletta appartata, c’è l’esposizione di riproduzioni delle opere di una pittrice ed entomologa molto importante, Maria Sibylla Merian (1647 Francoforte – 1717 Amsterdam), una donna davvero speciale che, nel 1699 arrivò qui con le sue due figlie. Si era pagata un viaggio di tre mesi in nave da sola e poi aveva affrontato i disagi del caldo, dell’umidità, della diffidenza degli uomini, per realizzare il suo sogno: osservare la natura e studiarne le trasformazioni.

Le “Metamorfosi degli insetti del Suriname” è il risultato della sua incredibile esperienza di vita, di studiosa e d’artista, 60 tavole di illustrazioni incise su rame. Un lavoro che viene definito dai naturalisti come “la più bella opera mai dipinta in America”.

 

I disegni, i colori e le composizioni sono perfetti, anche lo zar Pietro il Grande era un suo grande estimatore e collezionista e oggi le sue opere vengono esposte a Londra, New York e nei più grandi musei del mondo. La caratteristica e la particolarità di Sibylla Merian era l’originalità del suo punto di vista. Lei era affascinata dalla progressiva trasformazione del bruco in crisalide e dalla successiva evoluzione e liberazione, da questo amorfo contenitore, di meravigliose e coloratissime farfalle. Tutto questo tenendo conto che nella sua epoca gli insetti erano considerati bestie di Satana e le metamorfosi degli animali erano quasi sconosciute, tanto che si pensava che gli insetti nascessero attraverso una generazione spontanea derivata dalla putrefazione del fango.

Fra tutte le riproduzioni ce n’è una molto particolare, un caimano che afferra il collo di un serpente fra i denti mentre ne blocca la coda con una zampa posteriore e l’attorciglia con la sua stessa coda. Sembra di assistere a quella rapida scena di violenza proprio lì, nella saletta del museo. Il serpente ha una colorazione vistosa, fatta di anelli neri, gialli e arancio di varie dimensioni. Le scaglie della pelle del caimano sembrano in rilievo. Vicino al disegno, su un piedistallo di legno c’è un vaso di vetro con la dicitura: Reptilia Serpentes Boidae, Corallus enhydris.

E’ proprio lui, il serpente corallo che morde anche Corto Maltese in “Nonni e fiabe”.

Il terribile boa piomba sulle prede scivolando dagli alberi e le uccide inoculando con un morso il suo potente veleno neurotossico, ma Corto si spara sul braccio per scacciare il veleno, perché lui conosce quella natura. I caribi, gli aurachi, gli africani che aiutarono Maria Sibylla Merian a inoltrarsi nelle foreste, a navigare fra i fiumi, per raccogliere semi, foglie, fiori e bruchi, sapevano che anche quella strana donna bianca voleva conoscere meglio i segreti della foresta, era diventata quasi una di loro e lei li chiamava “i miei indiani”, non li chiamava selvaggi.

Cosa c’è di più preciso e descrittivo di un disegno naturalistico del 1700? Eppure le tavole realizzate dalla Merian non sono solo attenti studi scientifici dei fenomeni naturali, anche loro sono vere e proprie Suite, sintesi e racconti che vanno oltre le tavole e ci parlano della natura di questi luoghi e regalano personalissime osservazioni dell’evoluzione e dei cambiamenti che sono il mistero e la vera forza rigenerante della natura.

 

Ciò che per la crisalide è la fine del mondo,

il mondo chiama farfalla.

(Lao Tze)

 

 

 

Marco Steiner

 

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La collina di Tara

La collina di Tara

La Colline di Tara.

Tic tic, un continuo tic tic, piove sui vetri della macchina, sul cappello, sugli ombrelli, da quando si scende dall’aereo a Dublino.

Non ci sono rumori sulla collina di Tara, a parte il vento, il tic tic, il clang metallico del cancello che si apre e sbatte sul supporto arrugginito. Scalpiccio morbido, passi su foglie, sull’erba bagnata e sul fango. I rintocchi della campana s’affacciano sul cimitero. L’erba è pettinata, le colline hanno un fondo irregolare. Un campo da golf tutto sballato. Avvallamenti e improvvisi rilievi, cerchi concentrici, pietre e croci celtiche che s’innalzano dal verde e, più in là, il nastro marrone, il fango della nuova autostrada. Per ora è bloccata, ma la praticità di un fiume d’asfalto vincerà sul ricordo del Luogo. Eppure Tara, e quei tumuli di 5000 anni, furono il ker (luogo) dei druidi, i mistici re-sacerdoti d’Irlanda e della mitica regina Maeve, del potente Cormac Mac Airt e di san Patrizio che accese qui il primo fuoco cristiano sull’isola.

Il simbolo di Tara è “The stone of destiny”, quella Pietra del destino, su cui il futuro re doveva arrampicarsi, e solo se questa emetteva tre grida, quel re veniva incoronato. Roccia e potenza, capacità di vivificare l’inamovibile imperturbabilità dell’elemento terrestre, attraverso il coraggio, le doti morali, la profondità dello spirito. Una specie di spada che solo il prescelto potrà estrarre dalla pietra.

Stanchezza umida di vapore e di pioggia che inzuppa. Sensazioni, che salgono dalla terra bagnata, attraversano i piedi e il corpo incurvato, mentre il vento fa insaccare le spalle, abbassare la testa, fissare quel tramite umido e morbido infilato in un paesaggio duro e tagliente.

Strano posto, non immediato ed esplicito. Nascosto, rinchiuso nella Madre Terra. E’ necessario ascoltare e cercare in silenzio. Seguendo i disegni di tumuli, cerchi e pietre.

Dicono fosse la porta dell’oltretomba.

Io entro in macchina e comincio a pensare, in silenzio.

Tic, tic, la pioggia, il vento che soffia sempre più forte. Sibila e smuove perfino la macchina.

Un’Opel rossa parcheggia. Improvvisa, sgargiante, inopportuna e rumorosa come un tuono. Il rullo di una batteria riporta alla realtà del rock, poi entra un assolo di chitarra, “Whole lotta love”, sono i Led Zeppelin sparati a tutta birra dalla signora che adesso spegne il motore, ma non la musica.

Woman…you need…looooove” gridano i Led.

La dama venuta dal presente continua a invadere Tara e a bombardarmi di musica fino a quando tutto sfuma, e l’extraterreste spalanca il portellone posteriore per il suo boxer marrone sbavante, un bel cane, nervoso.

La replicante continua a fischiettare il motivo e poi chiude la macchina. Mi getta uno sguardo distratto e si accende una sigaretta. Anche questa è l’Irlanda, Mary O’Qualcosa porta a passeggiare il suo cane fra le pietre e i miti della collina di Tara, la collina dei Re.

Newgrange, o meglio Bru Na Boinne, è un sito megalitico antico di 3200 anni, 600 anni prima delle piramidi di Giza e 1000 anni prima di Stonehenge. Un tumulo di pietre ricoperte dal verde prato d’Irlanda. C’è un ingresso e un lungo cunicolo che s’infila in quella gran massa di sassi e raggiunge il centro del tumulo. Una pietra imponente protegge l’ingresso, una lunga losanga decorata con un disegno a triplice spirale. Il cunicolo della “tomba a passaggio” arriva fino al nucleo centrale, la vera tomba, suddivisa in tre nicchie e racchiusa da un tetto di lastre incastrate in una maniera così millimetrica che nei secoli non ha ceduto al peso e non ha fatto filtrare una goccia d’acqua. Ma qui c’è qualcos’altro di speciale: l’apertura della tomba è orientata in maniera perfetta verso il sorgere del sole, in un giorno preciso, il 21 dicembre, il solstizio d’inverno. Quel giorno, e solo quel giorno, verso le 9 del mattino, un raggio di sole penetra le pietre e si sdoppia. Un raggio segue lentamente il pavimento della grotta e attraversa i 24 metri del cunicolo che portano alla camera centrale della tomba, un altro raggio, che viaggia più in alto, colpisce una pietra circolare e diffonde una magica luce in tutto l’ambiente.

Tutto questo spettacolo, soltanto per 17, irripetibili, minuti all’anno.

Qualcuno ha congegnato un’opera del genere 3000 anni fa. Dicono che qui fu concepito l’eroe delle leggende irlandesi, il dio solare Cùchulainn, e a questo punto non resta che crederci.

Vendono i biglietti di una lotteria all’ingresso, per essere lì, proprio nella grotta, il 21 dicembre del prossimo anno, le domande sono decine di migliaia, all’interno ci saranno poche decine di persone, con la speranza che il sole riesca a sorgere e non venga bloccato da nuvole e pioggia.

Marco Steiner

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Tropical Islander

Tropical Islander

Tropical Islander

La Tropical Islander, è la mia nave, è una grossa nave dallo scafo nero. E’ fredda e piena di scatole metalliche di ogni colore. E’ una portacontainer della New Guinea Pacific Line. Siamo partiti da Hong Kong il 28 aprile e dovremmo arrivare ad Apia il 14 giugno, abbiamo toccato i porti di Kobe, Yokohama, Tarawa, Nomea, poi ci hanno bloccati al largo del porto di Lautoka, nelle Fiji. L’ordine l’ha dato un ufficiale medico, il dottor Tarid Ali. Doveva essere un semplice controllo sanitario, ma a bordo hanno trovato tre tipi d’insetti strani, dovranno analizzarli e ci hanno messi in quarantena.

Siamo bloccati, a tre miglia dal porto di Apia, Upolu, la mia isola, se non riusciremo a partire al più presto, diventerò pazzo.

Il mio nome é Niuu, sono originario di Matautu, un villaggio di pescatori sulla costa meridionale. L’anno scorso, all’alba del 29 settembre, una data che non dimenticherò mai, lo tsunami investì l’isola, proprio da quel lato e con quattro onde più alte delle palme, mi portò via tutto, mia figlia di dodici anni, mio padre e mia madre, la mia casa, la mia moto e il mio cavallo, elencati nell’ordine d’importanza.

Mi ero svegliato di colpo, avevo sentito uno strano rumore, sembrava un ruggito nella terra, poi ci fu solo silenzio, un grande silenzio senza un alito di vento rotto solo dal richiamo di un uccello, poi arrivò il mare, quattro schiaffi di fango gelido, sembrava che tutto dovesse finire.

Rimasi attaccato al tronco di una palma, lei era riuscita a resistere, era elastica, leggera e io mi trovavo per caso lì.

Le altre, con le loro radici infilate nella sabbia e i tronchi spezzati, sembravano tristi ballerine su di un palco senza musica.

Ero un uomo felice, quasi benestante, da quel momento in poi, non ho avuto più niente.

Mi sono rimaste tre tombe, una moglie infelice, il ricordo della mia Fale e dieci palme spezzate, come la mia vita.

Fu così che accettai l’ingaggio del comandante giapponese su questa nave nera come la notte.

Mi ha venduto un container per 500 dollari di Samoa, pochi spiccioli, ma per le carte di navigazione quel container blu sarebbe stato mio durante i viaggi, lui non aveva responsabilità di quello che c’era là dentro.

Le autorità portuali fanno controlli a campione oppure guardano le provenienze, le destinazioni e il tipo di merci trasportate, quando c’è qualche dato sospetto controllano.

Nel porto di Hong Kong non ci sono più barche, ma un’impressionante distesa di container di tutti i colori, la prima volta che l’ho vista mi sembrava un’immensa città, o il disegno di un bambino. Non ho mai capito come facciano quelle braccia meccaniche a scegliere il cubo giusto e a caricarlo sulla nave giusta, ma in fondo, la cosa non mi ha mai interessato troppo. A me bastava sapere che il mio container blu viaggiasse sempre con me e che nessuno mi chiedesse di aprirlo per sapere cosa c’era dentro. Ho fatto tre viaggi da Hong Kong al Giappone e ogni volta ho infilato un sacchetto di coca in mezzo ai tonni congelati, oppure fra i materiali da costruzione, questo era il mio lavoro, ma facevo finta di fare il marinaio.

Al terzo viaggio, questo, il mio incarico si sarebbe dovuto concludere, il container tornava al comandante e io mi sarei preso il mio premio, 30.000 dollari americani. Con quei soldi avrei ricostruito tutto, mi sarei ricomprato una moto e un cavallo, avrei pregato per mia figlia e per i miei antenati, avrei costruito una tomba nella veranda della mia nuova casa, l’avrei rifatta sopra al pavimento di quella che le onde avevano portato via. Mi bastava un piccolo muro per il perimetro, un po’ di colonne azzurre, un tetto. Qui ad Apia, le nostre case sono fatte così, bastano tende leggere, non servono muri, porte, finestre, chiavi, basta un tetto per ripararci dalla pioggia.

L’aria, il vento e gli amici possono sempre entrare.

Con i quei soldi sporchi avrei rifatto tutto, volevo provare a ricominciare.

La Tropical Islander adesso è bloccata, per una stupida ispezione medica e per tre stupidi insetti di cui non saprò mai il nome.

Sono qui, sono sudato e ho il cuore che batte come un tamburo.

Ho il corpo quasi completamente tatuato, perché sono un uomo di rispetto, almeno secondo le nostre tradizioni, ma non sono contento di quello che ho fatto, e se mi dovessero scoprire vorrei strapparmi questa pelle di dosso.

Un ragazzo, per guadagnarsi il diritto al tatuaggio deve dimostrare il valore, e per farlo, deve superare tre prove: il mare, la terra, la famiglia.

Con la fiocina ho dimostrato di saper pescare, con la vanga, di saper coltivare la terra e di saper far crescere e mantenere la famiglia, per questo ho avuto il diritto di ricevere il tatuaggio.

Non sapevo quale disegno il Maestro avrebbe scelto per me, lui l’avrebbe sentito, senza parole, e avrebbe iniziato, senza uno schema.

Ho sofferto tutti i giorni, per quattr’ore filate, per una settimana, forse di più, ma in quei momenti il tempo sparisce.

Quel martelletto picchiava con la punta irta di aghi, sottili come spine che s’infilavano nella mia pelle e quel rumore mi si era infilato in testa come un chiodo, migliaia di chiodi.

Non riuscivo a dormire perché continuavo a sentire quel rumore costante, però avevo voglia di svegliarmi per sdraiarmi di nuovo e ascoltarlo ancora, avevo voglia di finire.

Oggi sono qui, aspetto il mio destino a braccia incrociate, guardo i miei muscoli e i segni che mi ricoprono il corpo, ma non ho più l’orgoglio, vorrei graffiarmi di dosso questi segni con tutta la pelle e la mia anima ferita. Con quei soldi, forse, riuscirò a ricostruirmi una casa, a ricomprarmi la moto, il cavallo, ma non mi ridaranno il rispetto.

Ripenso al Pacifico, il mio mare infinito, il mare che parla col cielo.

Mi ha dato tutto, ha il diritto di riprendersi ogni cosa.

Se avrò la fortuna di ritornare senza essermi lasciato sporcare da questa nave nera, dimenticherò e andrò avanti.

Ricostruirò la mia canoa e tornerò a pescare, perché quando sono solo in mezzo al mare, non importa se piove o c’è il sole, mi bastano le stelle di una notte profumata, il vento e le onde che mi vogliono portare via con loro.

Forse dovevo perdere tutto per capire quanto ero ricco.

Upolu è la mia isola del tesoro e questi bastardi con i loro soldi non riusciranno a cambiarmi.

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Un’intervista

 

Viaggio nell’eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner

di Claudio Oreste Menafra

per “The Serendipity Periodical”

La continua ricerca di una suggestione che possa permetterci di entrare in un mondo diverso, toccare un’atmosfera in evoluzione, scendere nel profondo delle cose, Marco Steiner racconta Corto

In occasione della conferenza Gli orizzonti aperti di Hugo Pratt, tenutasi in Sapienza nell’edificio di Ex poste il 19 giugno scorso, la redazione di The Serendipity Periodical ha avuto la possibilità di rivolgere delle domande ad alcune delle personalità che si sono susseguite con i loro interventi durante il convegno; tra queste, la figura di Marco Steiner, un nome che già di per sé varrebbe un intero viaggio fatto di avventure, magia e terre remote emerse dall’immaginario, alla ricerca forse di una suggestione che irrompa bruscamente nella linearità del già costruito impostoci dal reale. Andiamo allora facendo rotta verso l’immaginario letterario di Steiner, ed andiamocene così, tanto per andare..

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

Quando Dio creò tutte le creature, chiese poi all’uomo di dare un nome ad ognuna di esse, oltre che a se stesso. Le immagini bibliche hanno da sempre suggerito il fatto che il nome sia un qualcosa di più di una semplice etichetta per denominare e facilitare l’identificazione di un qualcosa a qualcuno; il nome rappresenta l’identità e l’essenza degli esseri viventi. Lo stesso principio credo sia valido anche per lo pseudonimo di un autore, che ne anticipa, in un certo senso, la sua arte, si può dire lo stesso del tuo?

Il mio pseudonimo l’ha inventato Hugo Pratt quando abbiamo iniziato a parlare insieme di un mio sogno: iniziare a scrivere seriamente.

  • Hugo, ma posso scrivere storie di viaggio e avventura con il mio nome vero, Gianluigi Gasparini? Secondo me non funziona.
  • Forse bisognerebbe trovare uno pseudonimo.
  • Inventemolo
  • Quali sono i personaggi della letteratura a cui sei sempre stato legato?
  • Marlowe il detective di Raymond Chandler e Corto Maltese.
  • Ben, alora ti sarà Mar-Co da loro due.
  • E il tuo scrittore preferito?
  • John Steinbeck, su questo non ho dubbi, Hugo.
  • Alora, visto che ti xe furlan, ti saràSteiner, uno Steinbeck mitteleuropeo, così la gente non capisce se sei tedesco, svizzero, ebreo, italiano e poi   è breve, funzionerà…
  • In effetti in questo pseudonimo ci sono la mie due passioni letterarie, l’avventura e il noir americano.
Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese, Hugo Pratt

In quali circostanze hai conosciuto Pratt e in che modo successivamente ha contribuito alla tua produzione artistica?

L’ho conosciuto diventando per caso il suo dentista, abbiamo iniziato a parlare di viaggi, di musica, di cinema di tante altre cose meno che di denti. Poi scherzando mi chiese di fargli i denti d’acciaio come Squalo, un cattivo della serie dei film di 007 con James Bond, mi ha anche disegnato come avrebbe voluto che fosse il suo sorriso. Da quel momento ho iniziato a lasciare progressivamente il mio lavoro per diventare un suo “ragazzo di bottega”, andavo a cercare i libri che gli servivano, le carte geografiche, cercavo i colori giusti delle bandiere, dei gagliardetti, delle mostrine dei vari reparti militari, oppure le piante che crescevano in determinati territori, parlavamo di storie strampalate e di fatti reali. Poi ho iniziato a diventare il suo autista, nel frattempo ho visto centinaia di film con lui nelle più disparate lingue e agli orari più improbabili.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

Un giorno, mentre facevamo un lungo viaggio in macchina mi ha chiesto di collaborare con lui e così ho iniziato scrivendo un articolo giornalistico su una teoria che riguardava i continenti scomparsi di Atlantide, Mū e Lemuria, era la teoria del colonnello Churchward, poi dopo altro tempo mi ha fatto lavorare intensamente a un libro a cui teneva molto, “Avevo un appuntamento” delle Edizioni Socrates.  Pratt era appena rientrato da un lungo viaggio nel Pacifico alla ricerca dei suoi sogni giovanili a partire da un omaggio laico che aveva voluto rendere alla tomba di R. L. Stevenson ad Apia nelle Samoa. Facevamo lunghe passeggiate e lui mi raccontava le storie del veliero Yankee oppure mi parlava di “Pioggia” un romanzo di Somerset Maugham e di Emma Coe che aveva creato un suo impero nel Pacifico con il commercio della copra. Insomma mi raccontava i suoi sogni dei sui Mari del Sud e mi diceva di cercare e integrare quei ricordi con storie vere e immagini che sarebbero dovute scaturire da “tutte quelle isole che erano disseminate nell’Oceano come punti di sospensione messi lì solo per far immaginare e per continuare altre storie…” Queste furono le parole che innescarono la reale ricerca del sogno che avevo coltivato da sempre e quello fu il vero inizio di Marco Steiner scrittore.

Sono ormai passati anni sia dalla morte di Hugo Pratt, sia dalle ultime avventure esotiche di Corto Maltese; ma soprattutto è passato del tempo dalla pubblicazione di un romanzo prattiano rimasto incompiuto dal titolo Corte sconta detta Arcana; tu hai avuto il compito di terminare questo incompiuto prattiano; ecco vorrei entrare per un attimo nel tuo laboratorio di scrittore e capire in particolare cosa significa fare letteratura a partire da un tracciato diegetico-narrativo già iniziato e che tipo di ricadute ha sull’impegno intellettuale

La nostra collaborazione letteraria era iniziata già con la “Ballata del mare salato” nella versione romanzo edita da Einaudi. Questo può essere un buon inizio per parlare di questo argomento. Pratt mi fece notare che un romanzo non sarebbe potuto iniziare come nel fumetto con l’Oceano Pacifico che parla delle sue furie e di velieri distrutti e con il ritrovamento da parte di Rasputin sul suo catamarano figiani di un Corto Maltese barbuto e legato in croce su una zattera improvvisata.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Hugo Pratt, cortomaltese.com

In una delle nostre passeggiate mi guardò negli occhi come solo lui sapeva fare e mi domandò:

  • Cosa ti succede quando resti legato per ore e ore in mezzo al mare?
  • Sei disidratato, Hugo, le onde continuano a sbatterti addosso, hai la pelle incrostata, le labbra spaccate e gli occhi semichiusi per i cristalli di sale fra le ciglia.
  • Perfetto! Allora possiamo immaginare che attraverso i cristalli di sale, i riflessi del sole creino degli abbagli, delle allucinazioni e che quelle mettano in moto dei ricordi…
  • E poi aggiunse:
  • Potremmo immaginare che Corto in quel momento così vicino all’abbandono o forse alla morte, si riveda ragazzino, nella luce abbagliante della sua gioventù a Cordoba. Prova a pensare a una situazione del genere, buttami giù qualcosa.
Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corte sconta detta arcana, Einaudi

È così che ho iniziato a pensare e ad abbozzare il primo capitolo, poi abbiamo continuato insieme, serviva un contesto storico che spiegasse meglio i motivi della presenza di un sottomarino tedesco nelle lontane isole del Pacifico e così via. La stessa cosa e a maggior ragione, visto che Pratt non c’era più, è successa con Corte Sconta detta Arcana. Questa è una storia complessa e bisognava raccontare in maniera più approfondita certe situazioni storiche e delineare meglio personaggi del calibro del barone Roman von Ungern-Sternberg il comandante della Cavalleria Selvaggia. Sapevo bene dove trovare i libri di Ossendorwski come “Uomini, Bestie e dei” oppure quelli di Joseph Kessel e di tanti altri. Serve tanta ricerca, sempre, sia nel disegno che nella descrizione letteraria. Le fonti originali sono fondamentali per l’ossatura portante della storia. “Divertirsi seriamente” è l’insegnamento fondamentale che mi ha regalato Hugo Pratt.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

In una pagina a fumetti Pratt disegnava una carica di cavalleria dove i movimenti dei cavalli, le armi dei cavalieri, i simboli delle bandiere, il terreno dove avveniva lo scontro erano illustrati con tecnica perfetta e con precisione di dettagli, nella stessa situazione raccontata in un romanzo, non si può descrivere e far sentire alla stessa maniera il movimento, ma ci saranno i rumori, gli odori del sudore dei cavalli, della terra, del fango o della neve alzata dagli zoccoli e poi le grida e il clangore del metallo delle spade e le esplosioni dei colpi di fucile. Scrivere e disegnare sono due mondi bellissimi che hanno tempi diversi, la lettura di una pagina disegnata Pratt riempie lo sguardo con un colpo d’occhio fulminante, quella di una pagina scritta e tratta dalla stessa situazione ha bisogno di un progressivo ingresso in quell’atmosfera, le parole dovrebbero lentamente riempire l’immaginazione.

È una piccola grande magia, è una tecnica diversa, a volte è possibile.

È curioso come tutti i tuoi romanzi abbiano come protagonista la giovinezza di Corto Maltese; di solito si preferisce continuare le storie già iniziate: a nessuno verrebbe mai in mente l’idea di scrivere sulla Bildung di Ulisse, mentre molti sono stati quelli che hanno immaginato una possibile prosecuzione delle sue avventure dopo il suo rientro ad Itaca. Nulla ti avrebbe vietato, nel nostro caso, di esplorare le vicende di Corto dopo l’ufficiale uscita di scena avvenuta intorno al 1926-27. Come mai questa decisione?

Dopo aver conosciuto abbastanza a lungo Hugo Pratt e il suo metodo di creazione delle storie, dopo aver tanto viaggiato sugli Itinerari di Corto Maltese, un personaggio che non esiste nella realtà, e aver cercato in giro per il mondo suggestioni del suo non-passaggio cento anni dopo, mi sembrava banale e non corretto “continuare” le sue storie. Hugo Pratt mi aveva sempre stimolato a “inventare” qualcosa di nuovo. Ha iniziato inventando con il mio nome, poi mi ha concesso di collaborare al suo fianco, in pratica mi ha invitato nel grande immaginario avventuroso che aveva sempre fatto parte del mio carattere, a quel punto, anche se più impegnativo e rischioso, sarebbe stato molto più stimolante e rispettoso provare a immaginare una giovinezza di Corto Maltese prima che diventasse il personaggio che Hugo Pratt ci ha fatto conoscere. Questo è stato il senso della mia grande avventura lungo gli itinerari di Corto. In fondo avevo iniziato immaginando insieme al mio Maestro il primo capitolo della Ballata con quel ragazzino che vaga nei vicoli assolati di Cordoba fra il profumo delle arance e quello dei gerani, mentre insegue una musica di flamenco intensa e malinconica.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
La ballata del mare salato, Hugo Pratt

Forse Pratt mi ha aiutato a entrare nella mente di quel ragazzino, era naturale continuare da quel momento. Sapevo da Hugo Pratt che il padre di Corto era un marinaio della Cornovaglia e che sua madre era una gitana andalusa amante di oroscopi e tarocchi, a quel punto ho provato a immaginare chi potessero essere gli amici da incontrare lungo la strada, mi serviva un marinaio esperto che gli insegnasse a navigare ed è nato il comandante Robart Kee e poi ho cercato di immaginare una serie di situazioni che iniziassero a forgiare il suo carattere. In fondo non mi sembrava corretto navigare nella stessa barca di Corto Maltese, sarebbe stato bellissimo viaggiare in vista del suo veliero e magari incontrarlo in qualche porto per parlare di tesori, di avventure o per restare insieme in silenzio a gustare un buon rum. È un buon amico Corto Maltese, ma ha bisogno di spazio.

Per scrivere i tuoi romanzi sulla gioventù di Corto hai dovuto viaggiare molto, ripercorrendo fisicamente gli itinerari ed i luoghi reali attraversati da un personaggio immaginario a distanza di quasi cent’anni dal suo fittizio passaggio; il connubio tra realtà ed immaginazione diventa quasi uno strumento propedeutico alla scrittura? Il viaggio mentale, da solo, non è sufficiente allora?

I miei viaggi nei luoghi reali delle avventure immaginarie di Corto Maltese mi hanno dato modo di seguire una specie di scia, solo dopo aver attraversato la Manciuria e la Mongolia si riesce a descrivere l’odore del vento e il colore della polvere di quelle piste; nella stessa maniera sarebbe difficile descrivere il rumore dei passi nelle notti veneziane senza aver vagabondato fino all’alba nelle zone più solitarie e meno frequentate dell’Arsenale o del Ghetto. Molte cose si possono immaginare, molte altre si possono ritrovare navigando in rete, ma seguire una storia prattiana nei luoghi dove si è svolta “realmente” aggiunge particolari e amplia un universo e consente, a volte, di entrare in un vero “straniamento”, un qualcosa che porta a vivere in maniera quasi reale le atmosfere disegnate o acquarellate. Ho provato a viaggiare in cerca del ricordo di qualcuno che non è mai esistito se non nella fantasia di un grande artista e queste derive, questi vagabondaggi non hanno solo formato la mia scrittura, ma anche il mio modo di vedere le cose. Lungo la strada, il viaggio mentale può intraprendere direzioni difficili da immaginare, è come entrare e vivere in un miraggio, i passi sono più leggeri e i profumi più intensi.

Hai spesso fatto riferimento, durante il tuo intervento alla conferenza Gli Orizzonti aperti di Hugo Pratt, alla letteratura prattiana come tentativo di produrre uno sradicamento del lettore dalla propria comfort zone culturale (to be uprooted); una letteratura che se ben accolta produce un distacco traumatico dal proprio mondo di preconcetti ed aspettative per incontrare il nuovo e l’inaspettato. Credi sia questo il compito costante della letteratura, cioè rinnovare le nostre sovrastrutture culturali? Aiutarci a dare sempre nuove prospettive ad un mondo storicamente pre-costruito?

La letteratura che amo è quella che racconta qualcosa che non conosco, quella che tende a superare la descrizione oggettiva. Non ho mai amato la letteratura d’intrattenimento, anche quella realizzata nella maniera migliore, ho sempre amato il fantastico e l’avventura perché racconta, come dice la parola stessa, l’advenirecioè quel qualcosa che non è ancora accaduto. Amo i viaggi non preorganizzati, quelli che non hanno una destinazione precisa perché consentono la scoperta, nella letteratura seguo lo stesso principio, penso a una storia possibile e poi inizio senza impostare rigidi cardini allo sviluppo della storia, quello che provo a immaginare subito è invece un buon finale. Il compito della letteratura credo sia quello di stimolare l’immaginazione, di scuotere dal torpore, di istigare alla curiosità, di sorprendere oppure di infilare il dito nella piaga delle problematiche di questo nostro mondo come fa “La strada” di Cormac McCarthy. Non ho mai amato i libri “carini”, i libri da spiaggia, i libri che una volta letti finiscono in uno scaffale e si dimenticano per sempre. Mi piacciono i libri da rileggere una seconda o una terza volta, non iniziando dall’inizio alla fine, ma leggendo a caso, per pescare qualcosa nel flusso delle parole. Ho un debito nei confronti di tutti quegli scrittori che hanno aperto il mio immaginario cambiandomi la vita, per questo cerco modestamente di restituire qualcosa.

Nell’economia di una storia, qual è il senso di proporsi un obiettivo, un telosdi ricerca anche se fittizio ed in fondo scarsamente rilevante? Il fantomatico tesoro, sempre anelato ma mai raggiunto, nelle vicende di Corto, è una semplice molla diegetica che produce intreccio oppure è indice di una condizione umana, quella di dove innestare per forza un orizzonte di senso nel vagabondare senza senso della vita?

Il senso è quello di partire e di muoversi, fisicamente, ma soprattutto intellettualmente, di non arenarsi in un porto sicuro e stantio, ma questo non vuol dire vagabondare senza senso, anzi al contrario, vagabondare serve a cercare un senso. L’inquietudine porta alla ricerca e la curiosità arriva nel corso del viaggio con gli incontri. Il “tesoro” potrebbe essere proprio il desiderio di non fermarsi per continuare a cercare.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese

In più battute hai definito Corto come un apritore di porte, che è in grado di generare incessantemente nuovi percorsi a partire da quelli già noti; è forse questa la grandezza di quei personaggi letterari che fanno ormai parte del nostro pantheon immaginario? La loro costante disponibilità ad imbarcarsi in sempre nuove storie; Ulisse ormai giunto nella sua comfort zone di Itaca è una sconfitta per la letteratura?

Il ritorno non è una sconfitta, ma l’inquietudine del viaggio e le derive necessarie per una vera ricerca, che non sia la spasmodica tensione al raggiungimento di un luogo o di un limite, sono la condizione necessaria per la vera libertà di movimento e questo deriva da un desiderio fisico e mentale, ma anche da una sorta di tentativo di percezione ulteriore: di fronte a due strade qual è il motivo che ci spinge a sceglierne una? Probabilmente non c’è, ma a volte capita che il superamento di un ostacolo o di un imprevisto casuale ci guidi verso qualcosa che non stavamo cercando e che diventa il vero “regalo del viaggio”, un incontro, un paesaggio, una luce, una musica, un qualcosa che non avremmo mai trovato lungo l’itinerario tranquillo e pianificato. Credo molto nelle sincronicità, negli appuntamenti apparentemente casuali. Un certo tipo di letteratura, un certo tipo di personaggi riescono a trasportarci fra le righe verso un piacevole e inatteso incanto. Posso dire senz’altro che viaggiando alla ricerca di Corto ho imparato a viaggiare non solo con le gambe ma anche con l’immaginazione ed è tutto un altro viaggiare. Corto Maltese, un archetipo dell’avventura, mi ha portato in un certo modo alla poesia e alla filosofia, forse il senso dell’evoluzione dell’intera opera di Pratt sta tutto in questa estrema sintesi: dalla Ballata e dalle storie caraibiche fino a Mū, c’è un lungo percorso di sottrazione progressiva. Dopo le ballate nell’oceano pacifico, oltre le sabbie di Samarcanda e la neve di Siberia e Manciuria, dopo il tango e i concerti per arpa e nitroglicerina si arriva alla musica del silenzio di Mū, il pianeta perduto e il disegno e i testi delle storie diventano progressivamente sempre più rarefatti.

Nel tuo recente progetto Itinerari di Viaggio, accompagnato dall’obiettivo scrutatore di Marco D’anna, hai cercato ancora una volta, come nel fumetto di Pratt, la contaminazione reciproca tra supporto visivo e scrittura; come interagiscono tra di loro nella narrazione immagini e parole, percezione e memoria?

Ho sempre letto storie che mi hanno aperto l’immaginazione e amato la fotografia e il cinema che mi hanno regalato suggestioni, sogni, emozioni profonde o sorrisi. Leggere, guardare, viaggiare e allo stesso tempo pensare e collegare quel determinato momento con altre situazioni legate alla memoria o alla fantasia è come entrare in un mondo diverso, toccare un’atmosfera in evoluzione, scendere nel profondo delle cose. Viaggiare con un fotografo regala la modulazione del tempo: una determinata immagine ha bisogno di una ricerca che vuol dire attesa, per un cambio di luce, un gioco di regolazione fra la velocità nel focalizzare l’attenzione su un determinato soggetto oppure la grande apertura del diaframma per dare spazio a tutto il paesaggio. Sfuocare o centrare, cogliere l’attimo o descrivere la scena, o ancora, regalare una suggestione impalpabile?

Le nuvole di un temporale portano un cambio di luce nell’immagine che stiamo vedendo, la pioggia probabilmente ci bagnerà o ci bloccherà nel fango o in un luogo protetto, ma dopo la pioggia, dopo quel cambio di luce arriverà il profumo dell’erba bagnata e quello della terra e i rumori saranno diversi. Quello che stiamo vedendo cambia continuamente, il restare fermi in attesa della fine di un temporale ci consente di vagare mentalmente pensando a qualcosa: ricordare una scena di “Rain” di Somerset Maughan o una sequenza del film con Rita Hayworth, oppure ci ritorna in mente quel lontano acquazzone che ci ha inzuppati in una città sconosciuta abbracciati a qualcuno che avevamo quasi dimenticato. Viaggiare seguendo una storia di Corto ci costringe a cercare qualcosa che non esiste, ma ci obbliga a tendere lo sguardo e l’attenzione per superare quel labile confine che c’è fra la vista e la visione, fra l’osservazione e l’immaginazione, oscillare fra presente, sogno e memoria.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner e Riccardo Capoferro

In fondo questo tipo di atteggiamento è un ulteriore prolungamento del viaggio: il movimento fisico ci ha condotti in un luogo, il movimento mentale ci aiuterà a superare i confini del tempo e dello spazio portandoci in una dimensione diversa, una dimensione perfetta per raccontare e inventare oppure per fare come fa certe volte Corto Maltese, fermarci in una veranda a guardare il mare per gustare semplicemente il nulla o i racconti del vento fra le palme.

Se dovessi tracciare una costellazione di autori che maggiormente ti hanno influenzato e continuano ad aprire porte nella tua scrittura, quali citeresti?

Inizio con Emilio Salgari e con Stevenson perché sono loro che hanno aperto per primi il mio immaginario, Jack London mi ha fatto iniziare i viaggi mentali con uno dei miei libri preferiti “Il vagabondo delle stelle”, Conrad mi ha portato nelle zone di confine fra luce e ombra con “Cuore di Tenebra”, poi sono arrivati i sudamericani: Coloane, Soriano, Arlt e Borges. Ho già parlato del mondo dei vagabondi di John Steinbeck e dell’asciutta ironia di Raymond Chandler, ma poi ci vuole anche la potenza di Melville e il fantastico di E. A. Poe (un altro dei miei libri in cima alla lista è il suo “Le avventure di Gordon Pym”) e poi c’è altra grande letteratura e grande scrittura da Paul Auster a Saramago, da Simenon a J.C. Izzo e Leo Malet. Sicuramente i libri di Bruce Chatwin mi hanno spinto al viaggio e “La lunga rotta” di Moitessier mi ha spinto ad amare il mare e la vela intesa come una “Lunga rotta” esistenziale. Sto dimenticando sicuramente molti altri pilastri, ma non posso non nominare un piccolo libro perfetto di Haniel Long, “La meravigliosa avventura di Cabeza de Vaca”, lì c’è tutto.

Hai spesso avvicinato le avventure di Corto al genere letterario del Realismo Magico; cos’è che avvicina questi due mondi? Si tratta in tutti e due i casi di narrazioniatopiche, in grado cioè di spaesare e perturbare la regolarità simmetrica del reale attraverso l’inaspettato? È forse questa la cifra del nostro ‘900 letterario, intendo la sovrapposizione dell’assurdo nel convenzionale?

Mi piacciono molto le narrazioni atopiche, mi piace Calvino, Cortázar, Borges, Buzzati, Süskind, mi piacciono le sorprese, mi piace chi non scrive le solite storie, chi non segue i corsi di scrittura creativa, chi rischia inventando qualcosa senza seguire schemi usurati e ripetitivi, chi incita al sogno, chi non vuole inventare un ennesimo detective o commissario dal fiuto infallibile, mi piacciono dischi come “Atom Hearth Mother” dei Pink Floyd e l’assolo di batteria infinito di “Moby Dick” dei Led Zeppelin. Mi piace Leopardi che immagina l’Infinito dietro a una siepe e i film di Iñárritu, mi piace la chitarra di Ry Cooder con le sue note che vogliono perdersi verso un fantomatico “Paris Texas” senza curarsi se si perderanno in un deserto. Ma non voglio dare una risposta dotta a questa domanda e allora faccio un esempio:

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese

Un giorno a Buenos Aires vicino a una stazione ferroviaria periferica ho visto un gruppo di ragazzi che stavano per iniziare a suonare, erano giovani, piuttosto stravaganti, pieni di anelli, tatuaggi, capelli rasta, dread, borchie, braccialetti di pelle e catene. Mi sono seduto in disparte e ho aspettato il primo pezzo, è uscito fuori un sorprendente “The days of wine and roses” un vecchio e romantico brano scritto da Harry Mancini negli anni ’60 e suonato da molti grandi autori fra i quali Dexter Gordon a cui s’ispirava sicuramente il bravissimo sassofonista, sono rimasto ad ascoltarli incantato. Poi sono salito sul treno, che fra l’altro era il Tren de la Costaquello che prendeva Hugo Pratt per andare a San Isidro dove viveva e giocava a rugby (fra l’altro il treno che passa anche per una stazione che si chiama Borges), e su quel treno c’era un venditore ambulante che non vendeva merendine, biglietti delle lotteria, penne o giocattoli inutili, no, lui vendeva lenti d’ingrandimento di vetro “per vedere meglio la vita”, diceva proprio così. Questo per me è incontrare qualcosa di diverso, qualcosa che “spaesa” e fa guardare le cose con occhi diversi e un mezzo sorriso sulla bocca, qualcosa che porta lontano, dove?

Verso il mondo della pura fantasia.

Per concludere, ad un narratore credo che la miglior richiesta che si possa fare, rispettando in pieno la sua natura, sia quella di farsi narrare un qualcosa di nuovo; hai qualche aneddoto in particolare che vorresti narrarci, magari dei tuoi viaggi sugli itinerari di Corto?

Hugo Pratt ha disegnato un ponte, un bellissimo piccolo ponte di pietre e ha anche specificato dov’era: Sligo, the musical bridge, in Bellacorick Cross Molina.

E poi ha aggiunto che quel ponte portava in un mondo magico e bellissimo.

Era un esplicito invito a cercare.

Di solito con Marco D’Anna non abbiamo mai cercato i veri luoghi disegnati nelle storie di Corto; lui con le foto, io con i miei testi cercavamo sempre la suggestione, mai la documentazione precisa, ma in questo caso la curiosità era troppo forte.

Non è difficile andare in Irlanda e trovare la tomba di Yeats, l’isola di Innisfree, le colline di Tara e Newgrange, ma non è facile trovare il ponte musicale di Sligo disegnato da Pratt.

Alla fine ce l’abbiamo fatta.

Il ponte è sulla strada che da Bellacorick va verso Bangor e attraversa il fiume Owenmore.

C’era molto vento quel giorno, abbiamo camminato, da una parte e dall’altra del ponte, abbiamo superato un filo spinato per guardarlo dal basso, per sentire qualcosa, un rumore, un suono speciale, ma niente. Si sentiva il sibilo del vento che spirava fra le quattro campate, lo sbattere dell’acqua fra sassi e pilastri scuri, lo stormire dei rami dei pini sulla fiancata del ponte…insomma, c’erano solo rumori, suoni, fascino, ma non si poteva certo definirla musica, perché allora quel nome: “The Musical Bridge”?

Ce ne siamo andati per guardare dalla distanza, per cercare un’angolazione diversa, per vedere un’altra immagine e in quel momento abbiamo visto una ragazza che passeggiava sul ponte, sembrava arrivata dal nulla. Andava e veniva. Da una parte e dall’altra. Aveva il passo di chi cerca qualcosa. Ci siamo avvicinati. Non volevamo disturbarla, ma alla fine ho chiesto se sapeva qualcosa di quel ponte.

  • Perché lo chiedi proprio a me?
  • Perché sei una ragazza irlandese. – Azzardai, ma la sentivo distante, a disagio.
  • Io vivo a Londra.

Aveva una faccia davvero irlandese: ricci rossicci e ribelli sbucavano dalla lana marrone del suo berretto, lentiggini e fessure sospettose nascondevano i guizzi azzurri dei suoi occhi da gatta.

  • Ti chiedevo soltanto se sapessi qualche storia legata al ponte…
  • Siamo venuti solo per sapere perché si chiama Musical Bridge, non ti volevamo disturbare, scusa.

E lei sorride.

  • Dicono che se si fa scorrere una pietra sul parapetto camminando velocemente il ponte emette note musicali e diventa come una specie di xilofono.
  • Ricambiamo il sorriso.
  • Lo potresti fare per noi?
  • E’ una proposta strana…chissà cosa penserà mia nonna.
  • Indica una piccola macchina verde seminascosta dietro a un cespuglio.
  • È là in macchina.
  • Noi restiamo a distanza, facciamo solo una foto e ascoltiamo il suono.

Lei si convince e parte.

E’ stato incredibile.

Quella sconosciuta banshee irlandese imbacuccata nel suo piumino azzurro, camminava spedita, faceva scorrere una pietra piatta lungo il parapetto irregolare del ponte e, invece di stridere, le pietre sprigionavano una magica e inattesa melodia di campanelle che veniva da uno strano mondo fatto di fiabe e leggende.

Ci vuole pazienza per trovare quel mondo, ci vuole curiosità, costanza e spesso, una guida, apparentemente casuale. Chissà cosa avrà detto la ragazza irlandese alla nonna rimasta in macchina? Forse era proprio la nonna la fata che un tempo aveva svelato quel segreto a lei, e adesso si stavano facendo un viaggio in macchina nel mondo dei loro ricordi regalando anche a noi un granello di quella magia. Ci sono due sassi sul parapetto, uno più piatto, l’altro più grosso e pesante. Stanno lì ad aspettare chi conosce quel trucco. Il ponte suona davvero e noi stavamo per desistere e accontentarci della risposta più banale e scontata, quella del vento.

Inseguire le note correndo è una sensazione di pura felicità. È un gioco inatteso, è la liberazione di una gioia pura e semplice, quasi antica. È come quando da bambini ci si sdraiava a terra e s’iniziava a rotolare scendendo da un pendio d’erba a braccia incrociate gridando di gioia. Il parapetto del ponte ha una lunga striscia consumata. Molta gente conosce quel suono, molta gente ha ancora voglia di giocare in Irlanda. Quel disegno di Pratt non racconta solamente quel ponte, è anche un ponte fra realtà e fantasia, leggende, cultura e immagini cinematografiche.

E non solo quel ponte.

Intervista di

Claudio O. Menafra

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Appuntamenti quasi impossibili

articolo comparso su Linus, luglio 2016

 

Il primo viaggio è iniziato all’improvviso, un fulmine in una giornata di sole. Ero vicino all’acqua e nelle zone liquide molte cose possono partire, specialmente i percorsi mentali. C’era un lago svizzero e Hugo Pratt appena rientrato dal più grande dei mari, il Pacifico. Voleva realizzare un libro di memorie e visioni. Testi, foto e acquarelli, aveva già il titolo giusto: Avevo un appuntamento.

– Voglio parlare di Stevenson, dello Yankee, un veliero arenato a Rarotonga, di Rain il libro di Somerset Maughan e dei film che ne hanno tratto, di Emma Coe, la regina dei mari del Sud, di pirati gentiluomini. Voglio raccontare la mia Isola del tesoro. Io disegnerò, le storie le scriverai tu, ti darò alcune tracce, il resto lo trovi o lo inventi.

Entrare nei sogni di un’altra persona, specialmente se si chiama Hugo Pratt, percorrere strade e acque in cerca di appuntamenti quasi impossibili, significa trasformare quel viaggio in un’avventura da vivere. Mi piace la parola “quasi” perché dentro c’è una sottile possibilità, un percorso non lineare, da immaginare, improvvisando rotte lontane da quelle tracciate. Hugo mi mise in mano un coltellino da tasca, uno di quelli che si piegano e servono per sbucciare le mele o affettare il salame. Manico di legno e lama affilata, semplice. Acuto e morbido nello stesso tempo.

– Prendi questo, quando non sai come aprire una porta, lavora di punta. Se non si apre e non sai come fare stringilo nel pugno e chiudi gli occhi, vedrai che in qualche modo sarai dentro. Corto ti aiuterà, lui se ne intende di lame che segnano il destino. Non ti darà consigli, forse t’indicherà una pista e ti farà compagnia per un po’, se avrai voglia di impegnarti a cercare e non sarai insistente.

Poi tutto si mescola nel tempo, le date iniziano a girare in una giostra d’immagini e ricordi.

L’ho trovato sul serio uno degli appuntamenti di Pratt, l’isola era Apia, la capitale delle Samoa, nel Pacifico dei suoi sogni, quello di Escondida e della “Ballata del mare salato”. Là c’è la tomba di Stevenson, in cima al monte Vaea. The road of the loving hearts è il nome della strada che porta lassù. Non c’è niente di più rudemente romantico per uno che ha raccontato storie di pirati tagliagole e uomini che si sdoppiano in bestiali Mr Hyde, che guidare i suoi visionari lettori lungo la strada dei cuori innamorati. Un sentiero difficile, una salita ripida, scivolosa. La foresta provava a chiudersi come una pianta carnivora per proteggere il sogno. Richiami di uccelli, ronzio d’insetti d’ogni dimensione che si accaniscono sulle caviglie. C’era un leggero ticchettio sulle foglie, come pioggia, erano petali di frangipani che si staccavano liberando il profumo nel vento.

Tusitala racconta storie silenziose da lassù, da una tomba che sembra una solida nave con la quale partire, o una casa, dove poter sempre tornare.

Quando ridiscendo al porto lo spettacolo è imprevedibile. Ci sono cinque catamarani usciti dalle pagine di Salgari, sembra d’essere a Mompracem, le vele di fibre intrecciate frusciano nel vento, gli equipaggi coperti di tatuaggi maori vengono dalle Fiji, Tonga, Samoa, Nuova Zelanda e Australia, vogliono dimostrare qualcosa: si può navigare in maniera tradizionale, senza strumenti, solo mare, vento, stelle e il volo degli uccelli per guidare le barche verso liberi destini.

Incontro uno di loro, è il cuoco di bordo della waka che viene da Auckland. Un tipo massiccio, pelato, ha due occhi chiari che trapassano lo sguardo. Immediatamente ci vedo una miscela di Corto Maltese, Pratt, Tarao e il cuoco di bordo dell’Ispaniola. E quel rude colosso, con un gesto gentile mi regala un osso di balena che ha appena finito di intagliare e lucidare. È un amo da pesca, mi dice, si chiama Hei Matau, rappresenta la baia di Hawke in Nuova Zelanda, uno scoglio scolpito da Maui, ma rappresenta anche l’unica cosa che serve a un pescatore per continuare a vivere e viaggiare. Quella notte il coltellino di Hugo Pratt incontra nella stessa tasca Hei Matau, si toccano e parte la scintilla.

Non so se stessi dormendo o sognando, forse ero sveglio e nella penombra vidi Corto Maltese. Era seduto davanti a me, silenzioso, fumava la sua sigaretta, aveva una mappa nautica sulle ginocchia. La cenere cadde sul mare, fra le Cayman e Cuba. La spazzò via, ma rimase una linea sottile, collegava le isole.

Mi guardò con una specie di sorriso.

–                    Non sono riuscito a raggiungere Rasputin a Cayman Brac quella volta, peccato, c’era un raduno di Gentiluomini di fortuna.

No osavo muovermi, figurarsi fiatare. Lui lascia andare una lunga boccata di fumo verso il soffitto. C’era un ragno nell’angolo, anche lui rimase immobile nella rete.

–                    Strano. Questo momento mi ricorda una giornata di fine 1916 e quel ragno potrebbe essere Nansi, l’animale debole, ma capace di adattarsi alle cose o fuggire sull’esile trama dei fili che si è costruito da solo. Per i neri delle isole, Nansi è l’amico, il compare, il ricordo della madre Africa, la speranza.

Io ascoltavo seduto sul letto, con le mani puntellate dietro alla schiena e non capivo più niente.

–                    Una tempesta può sbatterti su un’isola lontana, ma ti regala un incontro e da lì parte il viaggio che non avresti immaginato. A Cuba ci sono tesori nascosti e una montagna dalla cima tagliata. È un posto magico.

Nient’altro. Poi ci fu un colpo di vento e la finestra che si frantuma. Quel mattino anche il cuoco di bordo della Waka neozelandese se ne stava andando. Mentre la vela si apriva nel vento lui era a poppa, aveva fra le mani una grossa conchiglia e ci soffiava dentro. Quel suono non lo dimenticherò mai, era la voce del mare.

Dopo qualche tempo ero a Cuba, ai piedi di El Yunque, una montagna che sembrava tagliata da un colpo di sciabola e mi ritrovai coinvolto in una strana storia che mi riportava a Ogun Ferraille e a un musicista belga che cercava ricordi e risposte fra santeri e belle donne con capelli dai riflessi di miele. C’era un ketch ancorato nel punto in cui le acque verdi del fiume entravano in quelle turchesi del mare. Corto alzò un bicchiere di rum prima di salpare. L’ho incontrato altre volte in questi anni, da quando ho iniziato a viaggiare con il fotografo Marco D’Anna seguendo i suoi Itinerari imprecisi. L’ultima volta è stato nel Chubut argentino, eravamo sulle tracce di un suo vecchio amico, Butch Cassidy. Sapevo che s’erano incontrati due volte nella pampa a distanza di anni, ma non sapevo che alla fine di Tango, quando entrambi dovevano lasciare velocemente la Patagonia c’era qualcun altro con loro, uno strano personaggio, un cacciatore di indios, ma questa è un’altra storia.

Ci eravamo fermati da qualche parte lungo La strada, la Ruta 40. Avevamo notato un vecchio boliche con tanto di griglia e profumo di bistecche alte quattro dita. L’ambiente era completamente di legno, cadente, fumoso, sbeccato, il posto giusto. Fuori c’erano immensi pioppi coperti di foglie gialle che nel vento lasciavano piovere petali di sole. Il cielo da un lato era turchese perfetto, dall’altro era coperto da dense nuvole nere. Corto era seduto là dentro, non fumava, si girava fra le mani un oggetto bianco. Mi avvicinai. Era l’amo d’osso di balena Hei Matau. Misi istintivamente la mano in tasca, il mio era al suo posto, vicino al coltello.

–                    Non cercare le cose che tutti sanno, non seguire strade logiche o ben segnate. Perditi e a vaga oltre la Linea d’Ombra, tanto so che ti è sempre piaciuto. Vedrai che qualcosa o qualcuno ti porterà un poco più in là. E se per caso dovessi sbattere il muso su una porta sbarrata, aspetta e goditi quello che trovi, magari una veranda all’ombra delle palme. Ti aspetterò in Cornovaglia, c’è qualcuno che ha scritto un diario, parla della mia gioventù, ma ricordati che le storie hanno sempre due facce e la più bella è quella nascosta.

Grazie a Hugo Pratt e a Corto Maltese ho imparato che viaggiare non è guardare, ma scostare tende impolverate, girare dietro alle case e infilarsi nei vicoli dimenticati, chiudere gli occhi e stringere in mano un oggetto che aiuta a sentire la musica giusta, quella vera.

 

Marco Steiner

 

 

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Come acqua che scorre

Come acqua che scorre

Sono successe molte cose in questo ultimo periodo: Oltremare (Sellerio)  ha vinto il Premio di Letteratura Avventurosa “Emilio Salgari”, ho scritto i testi di libro che scivola leggero nell’incanto della Venezia di Hugo Pratt realizzandolo con un mito della fotografia come Gianni Berengo Gardin e il grande compagno di Viaggi Marco D’Anna, s’intitola Il gioco delle perle di Venezia e poi c’è la Mostra Hugo Pratt e Corto Maltese, 50 anni di viaggi nel mito a Bologna, uno splendido viaggio nell’universo della Letteratura Disegnata Prattiana. Ho avuto tante dimostrazioni di stima e affetto. Mi è sembrato di vivere un sogno che lentamente si concretizzava, ma sul più bello…quando avrei voglia di assaporare questo momento magico, mollo gli ormeggi per partire. Mi ritorna in mente Corto, forse anche lui farebbe la stessa cosa. È giusto così, inutile crogiolarsi, meglio staccare, rendersi conto del risultato ottenuto e viverlo continuando a cercare, per andare ancora un po’ più in là…come direbbe Pratt.

Con Marco D’Anna stiamo partendo per l’India senza alcun itinerario prestabilito, sarà un viaggio in cui il ricordo di Corto diventerà talmente esile da essere indefinito, perso nella memoria. Proverò a staccare anche da lui e questo viaggio è l’occasione, quello che cercavo, per camminare con l’incertezza come compagna di viaggio, per inventare un percorso e una storia.

Per questo motivo, per non lasciare i miei lettori in silenzio troppo a lungo, voglio condividere su questa pagina un racconto che fa parte degli Itinerari di Corto Maltese. Sarà interessante per chi ha letto il Corvo di pietra e Oltremare, ma la storia è autonoma, un racconto breve, di quelli che piacciono a me, con sintesi e significato, ma senza troppe spiegazioni. È un po’ la premessa per immaginare la futura continuazione del Corvo e Oltremare, anche se penso che non la scriverò subito, mi prenderò una pausa per lasciare spazio a un’altra avventura che mi sta bussando dentro e ha troppa voglia di uscire…

Intanto ecco Come acqua che scorre, per capire che non c’è mai una sola verità, basta cliccare sul link sottostante e si aprirà un PDF accompagnato dalle liquide visioni di Marco D’Anna…

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“Oltremare” Sellerio Editore vince il Premio di Letteratura Avventurosa “Emilio Salgari” 2016

“Oltremare” Sellerio Editore vince il Premio di Letteratura Avventurosa “Emilio Salgari” 2016

“Essere ciò che siamo e diventare ciò che siamo capaci di diventare è il solo fine della vita”
“To be what we are, and to become what we are capable of becoming, is the only end of life”
Questo diceva Robert Louis Stevenson

Sono semplicemente felice, è stato un lungo percorso, ma il bello del viaggio è continuare scoprendo nuove strade…

Chi è Marco Steiner, il vincitore del Premio Salgari 2016

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