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L’isola sacra sul lago gelato

L’isola sacra sul lago gelato

“Rendi grazie al giorno quando si è fatta sera…

…alla spada dopo averla usata

…al ghiaccio dopo averlo attraversato…”

(Havamal, Il discorso di Har, Edda poetica. Trad. Olive Bray edited by D.L.Ashliman)

 

Il Carrista poeta.

Sacha, classe 1946, è un siberiano nato fra i monti Sajani, il suo lavoro è fare l’autista. Fra il 1965 e il 1968 guidava i T62, i carri armati dell’esercito sovietico, la sua compagnia era stanziata a Cita, vicino al confine cinese, proprio come i cosacchi di Roman von Ungern Sternberg e come il grande cannone di Semënov. Il cannone del carro di Sacha era soltanto da 115 mm, non era molto preciso, ma era velocissimo, per questo i soldati lo chiamavano Falco.

Oggi, Sacha guida un vecchio furgone Uaz grigio-ferro e porta i turisti a vedere la “perla di ghiaccio”, il Bajkal. I suoi occhi hanno lo stesso colore del lago in inverno, azzurro-ghiaccio.

Il Bajkal non è un semplice lago, è un’immensa riserva d’acqua pura, circa il 20% di tutta l’acqua dolce del nostro pianeta. E’ lungo più di 600 chilometri, largo dai 40 ai 70. Una lunga virgola, una banana azzurra visibile dallo spazio insieme alla grande muraglia cinese. Nel suo punto più profondo, l’abisso supera i 1600 metri. L’immensa distesa liquida, d’inverno si blocca, cristallizzata in una tavolozza di ghiaccio blu coperta da una limpida, ma solida scorza trasparente.

L’isola sacra di Olchon è scura, è una surreale presenza che si staglia su quel lucido specchio e, grazie a quel gelo, è raggiungibile in macchina. Sospesa come in un sogno.

La leggenda della gente del posto dice che il dio del lago, una notte si svegliò e vide che una delle sue 337 figlie voleva fuggire insieme ai gabbiani per raggiungere l’uomo-fiume che amava, le tirò dietro un’immensa pietra, ma lei riuscì a sfuggire lo stesso. La ragazza si chiamava Angara ed è il nome dell’unico fiume che esce dal lago, gli altri 336 fanno affluire le loro acque in quell’immenso bacino sacro. La pietra scagliata dal Grande Uomo Baikal, sarebbe proprio la Roccia dello Sciamano che si protende dall’isola. Ci sono quattro larici avvolti da nastri azzurri votivi e una nave nera bloccata nella morsa del gelo. Si sente solo il rumore del vento e il crack-crack sinistro dell’assestamento dei ghiacci, la voce del lago. Sembra di camminare su di un blocco di quarzo, sembra d’intravedere un mondo incantato sotto a quella lucida superficie blu.

Ci si guarda intorno e non si ha molta voglia di parlare. E’una distesa infinita. Lunare.

Il vento più forte, quello che tira dal nord è il Sarma e il suo soffio gelato riesce a cristallizzare il movimento delle onde, a bloccare le navi e a rivestire i pali dei moli con un palmo di ghiaccio. Sembrano mani bianche del vento che s’aggrappino al legno.

Sembra che un mago, in una notte fatata abbia preso la sua bacchetta magica e abbia bloccato tutto quel mondo nella sua morsa di cristallo. Quando al mattino il Bajkal s’illumina della fredda luce bluastra dell’alba, è un’immensa cattedrale di luce. Allora Sacha guida il suo Uaz e, sbandando e danzando sul ghiaccio, fischietta un valzer di Strass, poi, con una lunga trivella appuntita come un grande cavatappi, fa un buco nella crosta ghiacciata del lago, ma non è facile perché lo spessore supera il metro. Sacha, completa il buco spezzando l’ultimo ponte gelato picchiando con un lungo bastone dal puntale di ferro, sembra un guerriero medievale che, con la picca, voglia finire il suo nemico. L’acqua gelata sgorga libera verso la superficie e lui ci piazza davanti un seggiolino e cala la lenza. E’ pronto a pescare l’”Omul”, un piccolo salmone dal corpo allungato. Ne farà una semplice zuppa con cipolle, carote e patate. La zuppa di pesce è una calda meraviglia mentre la schiuma della birra, in pochi minuti, si ghiaccia sul tavolo. Quando arriva la Vodka, Sacha decanta un verso di Maxim Gorkij: “Lodiamo il coraggio dei valorosi sognatori”. Si ricorda solo quel frammento della poesia “Il canto del falco”, forse gli sarà tornato in mente il cannone del suo carro armato, forse gli sarà tornato in mente un periodo che in qualche modo adesso rimpiange e allora racconta la poesia a modo suo, come fosse una storia:

“In cima ad un’alta scogliera c’era un serpente che strisciava in cerca di cibo. Il sole splendeva alto nel cielo e le onde del mare s’infrangevano sulle rocce, ma all’improvviso un falco cadde vicino al serpente. Lui si ritrasse impaurito, ma il falco non si curava affatto di lui, era ferito, stava morendo, ma alla fine riuscì ad avvicinarsi allo strapiombo, avrebbe preferito fare un ultimo volo piuttosto che aspettare la fine su quelle rocce. Precipitò in mare, fracassandosi sugli scogli e le onde si portarono via il valoroso uccello dalle ali spezzate…”

Marco Steiner

 

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Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro.

“Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa da abitare, quando la si sarà resa simile da un capo all’altro e non si potrà nemmeno più cercare di viaggiare per distrarsi un poco” (Pierre Loti).

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Aran Islands

Aran Islands

Inishmóre. Isole Aran, il cuore celtico d’Irlanda.

Sono le 8 del mattino, tutto è buio, grigio, freddo. Il mondo sembra deserto, assopito. Anche il sole è in ritardo. I chilometri scorrono sotto le ruote in silenzio, nessuno in giro, solo qualche pecora seduta sull’asfalto. Il prato è troppo umido e freddo anche per loro.

Il traghetto è semivuoto, ci sono solo una ventina di persone a bordo, compreso l’equipaggio. Uomini taciturni.

Giubbotti macchiati d’olio dei tecnici che fanno girare le caldaie. Giubbotti scuri in Goretex dei fotografi di pietre, tombe e uccelli. Capelli corti, barbe arricciate, basette tozze e rossicce. Tanti occhi socchiusi a smaltire le ultime Guinness.

Uscendo dal porto di Rossaveel uno stormo di gabbiani ci segue. Il mare è d’acciaio, la costa è bruna e marrone, i picchi luccicano, spolverati di bianco, le isole sono tre strisce sottili di blu.

La quarta oggi non c’è.

Dún Aengus è un anfiteatro semicircolare di pietre incastrate e impilate a secco con l’apertura rivolta verso l’Atlantico, l’Occidente. Il mare è là sotto, duro e caparbio come un ariete che picchia contro un muro da abbattere. Sono secoli che cerca di rosicchiare quell’immensa scogliera che osa ergersi impavida a sfidare la sua forza, ma si sbuccia le corna.

L’onda rimbomba nel silenzio come un tuono lontano, come un rullo di tamburi.

Al centro del semicerchio c’è un altare di pietre scure come il cielo.

Intorno, un prato d’erba chiara che s’inchina alla potenza del vento.

Piega la testa, disegna onde verdi, morbide, tranquille.

Dietro al muro c’è il resto dell’isola, separata da un’infinita distesa di pietre appuntite, conficcate a terra e incrociate come “cavalli di frisia” a sbarrare il passo a chissà quale invasore.

Lo chiamano il Forte, perché “Dun” in gaelico significa “Fortezza”, alcuni storici dicono che era una costruzione di difesa, in effetti non è difficile immaginare in quel semicerchio una riunione di druidi e, in mezzo all’altare, il gran sacerdote alto e barbuto che invoca la potenza del sole, o della luna, un lugubre antico lamento si disperde nel vento.

Forse anche il resto del semicerchio di pietre è scivolato in mare come la quarta isola e allora anche Dún Aengus è una specie di Stonehenge che rappresenta la “Ruota della vita”, la primordiale Dea Madre che si cela in ogni pietra che ha segnato la storia.

Il muro di pietre scure è quasi caldo, protegge dal vento, aiuta a guardare il flusso del mare, a seguire lo spettacolo del vento che scompiglia le nuvole.

All’improvviso si apre una breccia in quel grigio sipario, un fascio di sole innalza una lama fredda di luce dall’acciaio del mare.

In due ore il vento spazza ogni cosa, l’azzurro del cielo scaturisce dall’acqua riflessi turchesi e verdi come alghe che invadono il nero.

Un ragazzo entra nell’anfiteatro con passo elastico e sportivo. Jeans e giaccone nero di panno aperto al vento gelido. Una faccia irlandese, squadrata, sembra un attore che reciti un ruolo preciso. Va dritto e deciso verso il bordo dello strapiombo, senza il minimo timore si mette a cavallo dell’ultimo trampolino di pietra.

Sotto di lui, a un centinaio di metri, le onde continuano a sbattere la roccia in un ribollire rabbioso.

Sembra un giovane Corto Maltese in carne e ossa e se ne sta seduto lì, a fissare l’Occidente, a ricordare il suo sogno di Oberon e Puck, guarda il rimorchiatore che dirige a tutta forza contro il sottomarino tedesco con Mago Merlino e Morgana in questa Stonhenge selvaggia e reale.

Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è. Infinito”. (William Blake – “The Marriage of Heaven and hell”)

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La torre della cicogna bianca

La torre della cicogna bianca

La torre della cicogna bianca

                                              “L’aurora irrompe, seguendo la montagna;

e intanto il Fiume Giallo fluisce verso il mare.

Ma tu potrai vedere un ampio panorama,

salendo ancor più in alto sulla torre.”

(“Salendo sulla torre delle cicogne” Wang Chih-Huan. 688-742 d.C.  Poesia Cinese dell’epoca Tang. BUR 1998)

Pechino. Entrata meridionale del Tempio del Cielo. Domenica pomeriggio. Yu Zuncheng è un pensionato, appena può, viene qui a passare il suo tempo, anche quando è grigio e freddo, come oggi. Yu scrive poesie, le scrive per terra, all’interno del piazzale che precede l’immenso giardino del tempio. Si porta un lungo pennello che all’estremità ha una spugna appuntita, imbeve la punta in un secchio d’acqua e scrive sul lastricato grigio. Yu scrive con grande attenzione, i segni sono precisi, i movimenti eleganti. La poesia che parla della salita sulla Torre delle Cicogne l’ha trascritta sul selciato, è una famosa poesia dell’epoca Tang, ricorda un po’ “L’infinito” di Leopardi e il concetto dello sforzo necessario per guardare oltre, al di là del visibile.

Lentamente i tratti scuri e umidi svaniscono sulla pietra e tutto ritorna grigio com’era.

La gente si avvicina, parla con lui oppure legge in silenzio la poesia.

Il tempo scorre e asciuga i segni che ricordano i caratteri dipinti da Vita Lunga per Corto Maltese. Poi si scopre che Yu non è un pensionato normale, lui il mondo lo conosce davvero, parla perfettamente l’inglese. Molti anni fa, era l’interprete personale del presidente Deng Xiaoping.

Prima di leggere Corte Sconta detta Arcana, bisognerebbe guardare un film: “Shanghai express” di Joseph von Sternberg. C’è un po’ di tutto lì dentro: il viaggio in treno in una Cina in grande fermento, un amore impossibile, una splendida Marlene Dietrich che interpreta Shanghai Lil, le spie, i trafficanti d’oppio, le divise, i cambiamenti di fronte e le mitragliatrici dei soldati.

C’è anche una frase emblematica del generale Chang cinematografico:

“Siamo in Cina, dove vita e tempo non hanno valore”.

Poi ci si rende conto che anche il nome del regista è lo stesso di uno dei protagonisti della storia di Pratt, il leggendario barone Roman Ungern von Sternberg e allora il gioco dei rimandi potrebbe continuare a snodarsi lungo i freddi binari che attraversano la Siberia, la Mongolia, la Cina.

D’inverno, il lungo paesaggio che separa Pechino da Mosca è bianco e ghiacciato, è fatto di spazi infiniti, di un esercito di betulle allineate come esili spettri di soldati, di treni impregnati dall’odore del carbone e da un caravanserraglio d’umanità.

Non ci sono vagoni carichi d’oro, né cannoni, non ci sono diafane Marlene Dietrich, né bionde baronesse russe dal fascino distaccato, ci sono soltanto grasse prostitute cinesi che s’impomatano il viso e variopinti personaggi che trascinano valigie di merci da vendere a ogni fermata.

Il treno è uno sferragliante mercato ambulante invaso da borsoni telati a strisce azzurre, bianche e rosse, imbottiti di magliette, jeans, tute Adidas false e giubbotti di autentica stoffa sintetica, calze, calzini, occhiali griffati, lucide borse di pelle.

In giro circola soltanto denaro stropicciato, cinese, mongolo, russo, dollari ed euro che passano continuamente di mano in mano ad ogni stazione di sosta.

Nel treno c’è un sentore misto di vodka, sudore, grasse zuppe con carne stufata, carbone, sigarette e caffè. Alle dogane notturne il tempo si blocca, immobilizzato da controlli, cambi di carrelli e motrici che procederanno su binari dal passo diverso. Le guardie di confine s’infilano come gatti negli anfratti sotto i sedili e sopra i soffitti, fissano le pagine dei passaporti e gli occhi dei passeggeri per secondi che scorrono infiniti senza bisogno di parole, qui contano solo gli sguardi. Le teste dei controllori s’inclinano impercettibilmente e loro occhi scrutano in profondità, come animaleschi segnali di studio prima dell’attacco. La falsità trasuda da un battito di ciglia o da un sorriso ostentato, poi il passaporto viene richiuso e, magicamente, come per grazia ricevuta, tutto si sblocca e la marcia del treno continua.

È un procedere lento, che  ingoia chilometri, confini, sbadigli, fusi orari, giornate fatte di grigi e albe che si confondono con i tramonti.

Fuori dal finestrino, il paesaggio che sfila sembra una tela rigata da un’impercettibile linea centrale: bianco increspato di neve e azzurro pallido di cielo.

Il tutto, macchiato dal vento.

Il sole non si vede, si nasconde da qualche parte, dietro ad un diafano alone.

Quando ci si avvicina alle stazioni, la neve diventa sporca, grigia, triste, stropicciata come il denaro, come il profilo delle città.

I vetri dei finestrini sono decorati da cristalli ghiacciati e gli spazi fra un vagone e l’altro sembrano celle frigorifere spazzate da un vento polare. Poliziotti silenziosi, ferrovieri svogliati, passeggeri rassegnati, ossigenate e corpulente cameriere s’incontrano nel vagone ristorante e sono una sintesi variopinta dei possibili incontri che avvengono realmente lungo quell’infinito doppio nastro d’acciaio e di paesi tanto diversi.

Ci sono oltre 7000 chilometri fra Mosca e Pechino, 5000 di Siberia, 1000 di Mongolia, 1000 di Cina, eppure il frate minore Giovanni da Pian del Carpine, inviato dal papa Innocenzo IV, arrivò a cavallo fino alla corte di Guyuk, il Gran Khan erede di Gengis partendo dalla Francia nel 1245.

Dopo di lui ci arrivò Guglielmo da Rubruc con una lettera del re di Francia Luigi IX.

I silenziosi viaggi dei due francescani avrebbero modestamente aperto la strada al celebre itinerario di Marco Polo, eppure tanti altri avventurieri, esploratori e geografi si erano spinti in quelle terre lontane descrivendo i Takhi, i cavalli selvaggi che non esistevano in altri luoghi del mondo e gli Almas, gli uomini-animali, yeti ricoperti di peli che vivevano in piccoli branchi nelle zone più inospitali e desolate di queste durissime terre.

Il sogno del barone Ungern von Sternberg partiva da questo centro del mondo, dalla Mongolia. Il generale dalle nobili origini teutoniche e baltiche, il fondatore dell’Ordine Militare Buddista e della Cavalleria Selvaggia voleva ristabilire il predominio culturale e religioso asiatico spazzando il materialismo dei conquistatori cinesi e dei rivoluzionari russi.

Oggi la patria di Genghis Khan si erge solitaria in mezzo a due grandi colossi come la Cina e la Russia che dopo aver abbandonato i loro idealismi rivoluzionari, ora inseguono diversi ma simili materialistici sogni di un moderno benessere.

 

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Hy Brasil, l’isola inghiottita dalle mappe.

Hy Brasil, l’isola inghiottita dalle mappe.

Clifden, Connemara.

Il posto migliore per cominciare a girare nel Connemara, che in Irish significa “Insenatura del mare” è Clifden, la base di uno spettacolare circuito di 12 chilometri che viene chiamato non a caso “The sky road” (La strada del cielo) per un motivo semplicissimo, sembra davvero di volare a metà strada fra la terra e il Paradiso e non si capisce bene se sia la terra che cerca con mille dita d’allungarsi nel mare, oppure se sia proprio l’Oceano a cercare d’infilarsi per far riposare le onde in qualche anfratto fra il calcare e i prati.

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Kundry e il mago Klingsor

Kundry e il mago Klingsor

Kundry e il mago Klingsor

 Kundry o Erica oggi abita a Cully, vicino a Losanna. Ha un negozio dove si vendono vini, l’ha chiamato semplicemente “Vinoteque de la maison rose”.

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Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro.

 

“Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa da abitare, quando la si sarà resa simile da un capo all’altro e non si potrà nemmeno più cercare di viaggiare per distrarsi un poco” (Pierre Loti).

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Come acqua che scorre

Come acqua che scorre

Sono successe molte cose in questo ultimo periodo: Oltremare (Sellerio)  ha vinto il Premio di Letteratura Avventurosa “Emilio Salgari”, ho scritto i testi di libro che scivola leggero nell’incanto della Venezia di Hugo Pratt realizzandolo con un mito della fotografia come Gianni Berengo Gardin e il grande compagno di Viaggi Marco D’Anna, s’intitola Il gioco delle perle di Venezia e poi c’è la Mostra Hugo Pratt e Corto Maltese, 50 anni di viaggi nel mito a Bologna, uno splendido viaggio nell’universo della Letteratura Disegnata Prattiana. Ho avuto tante dimostrazioni di stima e affetto. Mi è sembrato di vivere un sogno che lentamente si concretizzava, ma sul più bello…quando avrei voglia di assaporare questo momento magico, mollo gli ormeggi per partire. Mi ritorna in mente Corto, forse anche lui farebbe la stessa cosa. È giusto così, inutile crogiolarsi, meglio staccare, rendersi conto del risultato ottenuto e viverlo continuando a cercare, per andare ancora un po’ più in là…come direbbe Pratt.

Con Marco D’Anna stiamo partendo per l’India senza alcun itinerario prestabilito, sarà un viaggio in cui il ricordo di Corto diventerà talmente esile da essere indefinito, perso nella memoria. Proverò a staccare anche da lui e questo viaggio è l’occasione, quello che cercavo, per camminare con l’incertezza come compagna di viaggio, per inventare un percorso e una storia.

Per questo motivo, per non lasciare i miei lettori in silenzio troppo a lungo, voglio condividere su questa pagina un racconto che fa parte degli Itinerari di Corto Maltese. Sarà interessante per chi ha letto il Corvo di pietra e Oltremare, ma la storia è autonoma, un racconto breve, di quelli che piacciono a me, con sintesi e significato, ma senza troppe spiegazioni. È un po’ la premessa per immaginare la futura continuazione del Corvo e Oltremare, anche se penso che non la scriverò subito, mi prenderò una pausa per lasciare spazio a un’altra avventura che mi sta bussando dentro e ha troppa voglia di uscire…

Intanto ecco Come acqua che scorre, per capire che non c’è mai una sola verità, basta cliccare sul link sottostante e si aprirà un PDF accompagnato dalle liquide visioni di Marco D’Anna…

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Viaggiare…Oltre

Viaggiare…Oltre

È dal 2004 che viaggio in giro per il mondo con un fotografo visionario come Marco D’Anna, è da 27 anni che la mia fantasia si è arricchita con le avventure di Corto Maltese, è da tutta la vita che navigo, cammino, sogno attraverso i libri che ho letto, dai mari di Stevenson ai fiumi di Conrad, dalla polvere di Steinbeck a quella di Cormac McCarthy, dalle ombre di Simenon al noir di Léo Malet, dalle isole di Salgari alle Avventure di Gordon Pym…

Gli “Itinerari alla Corto Maltese” che sto percorrendo in libertà con Marco D’Anna sono viaggi Oltre il luogo geografico e al di fuori dal tempo. Cerchiamo tracce delle storie di Corto, ma siamo come due Vagabondi delle Stelle per dirla alla Jack London…

CORTO MALTESE

Itinerari di viaggio

intervista a Marco Steiner a cura di Cristina Mesturini fotografie di Marco D’Anna

E’ un progetto nuovo, quello a cui Marco Steiner e Marco D’Anna stanno lavorando insieme, e che li impegnerà, inizialmente per tre anni, attraverso piste non ancora battute, scelte in base all’improvvisazione e alla imprevedibilità degli incontri. Un progetto che comprende il lavoro simbiotico tra scrittore e fotografo, un intrecciarsi di parole e immagini.

Marco Steiner è avvezzo a questo tipo di sinergie narrative: è stato il più stretto collaboratore di Hugo Pratt, per il quale ha compiuto le ricerche filologiche riguardanti le storie di Corto Maltese, e con il quale ha condiviso la passione per il viaggio, la letteratura d’avventura, la musica. Dopo la morte di Pratt, Steiner ha completato il suo libro Corte Sconta detta Arcana (Einaudi 1996) e, di recente, ha scritto due romanzi che vedono Corto Maltese tra i protagonisti: Il corvo di pietra e Oltremare (Sellerio).

Ma con questo nuovo lavoro il viaggio prattiano esce dalla dimensione dell’immaginario e si concretizza: si parte davvero. Corto Maltese non è mai stato un fine, piuttosto un tramite per realizzare qualcosa di diverso. Insieme a Marco D’Anna, Steiner passa dalla letteratura disegnata di Hugo Pratt a un racconto fotografico che non è semplice reportage di viaggio, non è nulla di puramente descrittivo, ma è stimolo per aprire nuovi spazi sui mondi della visione fantastica.

Corto Maltese. Itinerari di viaggio. Marco, com’è strutturato questo progetto?

Il senso è quello di creare itinerari di viaggio “alla maniera di Corto”, cioè in grande libertà. Sono nuove visioni possibili delle sue avventure. Come nelle storie di Pratt c’è una trama, una meta, un luogo geografico, un periodo storico, il “tesoro da cercare” nel nostro caso è un racconto, tutto il resto nasce per caso, sulla strada. Il progetto prevede dodici Itinerari che partano, arrivino o inventino “deviazioni” dalle storie di Corto Maltese. C’è voluto uno sponsor capace di sognare per lasciarci questa libertà totale di andare. Alessandro Seralvo di Cornér Banca a Lugano ha immaginato una serie di carte di credito con l’immagine di Corto, “Viaggiare leggeri” è il senso di tutto. Quando abbiamo definito il progetto la prima persona che mi è venuta in mente è stata Florenzo Ivaldi, l’imprenditore genovese che ha dato carta bianca a Hugo Pratt di viaggiare e raccontare le sue storie. Ci vuole un grande sogno per iniziare un vero viaggio.

 Raccontaci come hai conosciuto Marco D’Anna, o meglio: cosa vi ha fatto incontrare. Quali affinità avete intuito tra voi, come avete visto la possibilità di creare qualcosa insieme?

Marco D’Anna l’ho conosciuto nel più prattiano dei modi, in Etiopia, seguendo le tracce di una storia “Gli Scorpioni del Deserto”. Lui doveva documentare fotograficamente il lavoro di due giovani autori che avrebbero continuato un episodio di questa saga africana di Hugo Pratt, io seguivo il gruppo, prendevo appunti e pensavo a storie possibili. Non ci conoscevamo. Un giorno eravamo seduti vicini in un bus, dopo un po’ di silenzio, mi chiese cosa stessi scrivendo. Eravamo dalle parti del lago Assal, una distesa turchese in pieno deserto. Gli lessi alcune frasi di una storia, parlava di una carovana di sale e di un guerriero ribelle ferito che quegli sconosciuti avevano raccolto. Viaggiava con loro, lentamente guariva, e altrettanto lentamente iniziava il racconto fra quegli uomini e, senza saperlo, fra noi due. Da allora abbiamo fatto 14 viaggi in 7 anni per scrivere tutte le prefazioni alle storie di Corto Maltese in giro per il mondo.

 Lo scrittore e il fotografo. Qual è il vostro metodo di lavoro, come vi rapportate? Quali sono i vostri tempi, i vostri spazi?

I tempi e gli spazi sono quelli dell’acqua, dipendono dalle situazioni. Entriamo in un ambiente, un paesaggio, il vagone di un treno e ci adeguiamo. Di fronte a una roccia, il torrente l’aggira, quando si accentua la pendenza la corrente diventa impetuosa, in pianura scorre placido o compie larghi giri senza un vero motivo. Abbiamo una modalità “rispetto” che sentiamo dentro, quando vedo Marco interessato a soggetti da fotografare, mi faccio da parte, osservo a distanza. L’interazione fotografo-soggetto deve essere diretta, se ci fossi anch’io sarebbe un’intrusione, l’equilibrio non funzionerebbe. Io osservo, immagino, chi potrebbe essere quella persona, cosa potrebbe raccontare. Quando la cosa procede Marco mi fa un cenno e arrivo, la roccia viene lambita senza essere aggredita e lo scorrere liquido prosegue. Viaggiando ci lasciamo spazi vuoti, giornate di silenzio. Lui esce all’alba o di notte per cercare qualcosa, altre volte lo faccio io. Siamo sempre pronti ad assorbire suggestioni, immagini, un pezzetto di storia. Senza dirlo, senza cercare razionalmente, senza precisione né regolarità. Quando si sente una nota che vibra, il gioco parte da solo.

 Nella comunicazione contemporanea, la contaminazione tra visivo e scritto è sempre più intensa e presente. Nella narrazione come interagiscono tra loro i diversi linguaggi? Come giocano, tra percezione e memoria, le immagini e le parole?

Marco vorrebbe che gli raccontassi fin dall’inizio cosa sto cercando, per tarare il tema delle immagini, così il nostro dialogo s’imposta su una base di storia, c’è un accordo iniziale, una specie di tema musicale. Poi il viaggio comincia e i sensi si tendono e guidano il percorso che la mente segue. È sbagliato cercare un obiettivo ben definito, meglio lasciarsi andare come una vela spinta dalla brezza. A quel punto è la strada, l’incontro casuale, una porta chiusa, un cartello storto che suggeriscono l’itinerario da seguire e si comincia a suonare il jazz. Le immagini s’intrecciano alle parole, a volte spuntano ricordi, disegni di Pratt, frasi di Corto, uno specchio, una giostra. L’accordo iniziale risuona, poi arrivano le note nuove, la melodia cambia e tutto s’ingrana, morbido. Certe volte ci rendiamo conto a posteriori che il viaggio e la storia hanno tracciato un cerchio e la musica diventa armonia. È successo in Argentina e Cile, nell’ultimo viaggio. Guardando la cartina, alla fine del nostro percorso, avevamo tracciato un cerchio imperfetto. Non l’avevamo pianificato, ogni tappa ci ha guidato alla successiva, fra inconvenienti, scelte e casualità. Qualcuno ci ha detto che il canto di un uccello può essere un segnale per il viaggiatore, non è un suono, è la voce del bosco. La nota imprevista, il regalo del viaggio.

…continua sulla Rivista Achab…oppure venite a Milano, BookCity il 20 novembre.

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Itinerari alla Corto: miraggi di memoria

Itinerari alla Corto: miraggi di memoria

Con Marco D’Anna abbiamo da sempre cercato di realizzare quest’idea e finalmente è arrivato lo sponsor giusto, Cornèrcard, per un semplicissimo motivo: la libertà completa nel realizzare e ideare i nostri “Itinerari alla Corto”.
La vera novità di questo progetto di «itinerari» consisterà nel fatto che nel corso di ogni viaggio realizzeremo un racconto in compagnia di Corto perché c’è un mondo bellissimo che si può ricercare o inventare partendo dalle storie del marinaio di Pratt. Marco D’Anna con le sue fotografie ed io con le mie parole cercheremo di raccontare un percorso attraverso suggestioni, sapori, atmosfere, emozioni.

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