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La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

Tammy è americana, viene dall’Ohio, segue un progetto naturalistico, studia le Spider Monkeys, è qui da un anno, è sola, vive nella riserva naturale di Brownsberg nel Suriname, la Guyana olandese. Sylva è una guida turistica, ma è anche un’analista chimica e biologa, è nata a Paramaribo, ma i suoi antenati venivano dal Pakistan. Sono due ragazze che amano la foresta, stanno bene qui e non hanno bisogno di troppe comodità, studiano le scimmie e i cambiamenti della natura del parco. Hanno bisogne di poche cose, un buon paio di stivali, un binocolo, una cerata, una macchina fotografica, una borraccia per l’acqua. Camminare con loro è una continua scoperta, ogni seme per terra ha un suo significato, ogni pianta ha il suo nome corretto, i fiori sono punti di riferimento nel sentiero. Sanno guardarsi intorno, ascoltare i rumori, riconoscere i piccoli segnali della foresta, la rispettano, per questo non la temono. Hanno paura soltanto dei bracconieri e delle loro trappole per uccidere i cervi, le scimmie, il giaguaro.

Il sentiero scende ripido e viscido verso la valle delle scimmie, non c’è sottobosco, solo centinaia di alberi di specie differenti, le chiome, altissime, s’intrecciano e creano un verde e compatto soffitto, il cielo non c’è, il sole non filtra, forse splende, forse piove, non si riesce a capire. Le piante protendono i rami per raccogliere la luce là in alto, qui in basso conficcano radici per abbracciare la terra e raccogliere le sue umide essenze.

I rumori della selva s’intrecciano come lontani richiami. Gli uccelli cominciano a comunicare la nostra posizione, poi sembra di sentire una prolungata scossa elettrica, ma sono le ali di cicale giganti, ad un certo punto sembra di sentire il vento che s’incanala in una gola di pietre, ed è l’agghiacciante grido delle scimmie urlatrici, Tammy dice che mangiano solo foglie, per questo sono pigre e indolenti, si muovono poco e hanno un metabolismo e una digestione molto lenti. Se ne stanno in gruppo, sedute, e con la loro laringe grande quanto un’arancia emettono in continuazione il loro lugubre suono per tenere lontani i nemici.

Una farfalla blu attraversa il sentiero, segue un suo armonico e imprevedibile percorso, ma le leggende dei popoli della selva dicono che le Blue Morpho possono farci perdere la strada, possono portare in un altro mondo, un mondo di sogni perduti.

Il Ficus strangolatore inizia a scendere dal ramo di un albero come fosse un’innocua liana, raggiunge lentamente il suolo e assimila nutrimento dalla terra e dal suo ospite, fino a diventare sempre più grossa, sempre più forte, fino a trasformare il suo abbraccio in una simbiosi mortale, dove la morte di una creatura consente la vita ad un’altra più forte, dove la violenza è consentita perché conduce all’equilibrio della natura, dove il caos apparente è sintesi magistrale. Dove i cicli si succedono con regolarità e l’anidride carbonica del buio alimenta il verde e l’ossigeno della vita. Perfino l’anophele s’inserisce e rispetta questo ciclo e riduce l’eccesso di popolazione nei luoghi dove la vita dell’uomo potrebbe disturbare quel delicato equilibrio.

C’è un’altra strana liana che scende da un gigantesco albero sacro, è un Kankantri,  o albero Kapok, il gigante della foresta, un colosso di 40 metri che s’innalza sulle grosse radici triangolari come fossero ali di sostegno. Nelle notti di vento e tempesta gli spiriti si riparano qui e ricevono le offerte di chi li rispetta o scagliano rami e pietre addosso a chi osa profanare la loro casa. La grossa liana si attorciglia in mille spirali, si sdoppia e si spezzetta come fosse una scala a chiocciola, una primordiale catena di un Dna vegetale. E’la scala delle tartarughe.

In un tempo molto lontano le scimmie organizzarono una grandissima festa in cui tutti gli animali erano invitati. Ovviamente la festa si svolgeva nell’ambiente naturale delle scimmie, in cima agli alberi. Gli animali salirono tutti, ma la tartaruga non sarebbe mai riuscita ad arrampicarsi in linea retta sulla liana, così prese a torcerla, lentamente, molto lentamente e, mentre la ripiegava ne ricavava dei piccoli gradini per non scivolare. Alla fine, anche la tartaruga riuscì a salire in cima all’albero, ma anche se lo spettacolo della foresta la lasciò senza parole, fu molto dispiaciuta perché la festa era già finita da un pezzo. Così, da quel giorno, quel tipo di liana nacque sempre così, pronta per le prossime feste, pronta per le tartarughe. Però bisogna fare attenzione, dicono che di notte, sulla Turtle ladder ci dorma il giaguaro.

Abissi di sogni diversi

Prima della conquista portoghese, l’Amazzonia brasiliana contava otto milioni di Indios in completa armonia con la selva, oggi ne sono rimasti solo duecentomila. La nostra civiltà ha un continuo bisogno di materie prime e per cinquecento anni i conquistatori hanno cercato di carpirne tesori d’oro e smeraldi, gli affaristi hanno spianato foreste e costruito città per estrarre il petrolio dal suolo, il lattice o la cellulosa dagli alberi, hanno smosso montagne di terra per estrarre ferro e bauxite. Scavare, estrarre, raffinare, sfruttare, ma anche convertire, educare, sono tutti verbi che fanno parte di un sogno: conquistare, materialmente o spiritualmente. Per fortuna, nella storia di queste conquiste c’è stato anche qualcuno che è partito con un atteggiamento diverso, o che lungo la strada ha imparato il rispetto e la disponibilità, qualcuno che, spinto da curiosità e disponibilità, ha imparato a guardare, ascoltare, sognare.

Alvar Núñez Cabeza de Vaca era partito nel 1528 come tesoriere della spedizione di Pánfilo de Narváez, un novello Cortés privo del magnetismo del capo e della determinazione del conquistatore, era solo un grasso e presuntuoso comandante credulone carico di smanie di ricchezza e di potere. Il suo obiettivo era una città tutta d’oro da cercare in un luogo indistinto fra le foreste e le lagune della Florida e i deserti del Nuovo Messico. L’esito fu il disastro completo di un’intera spedizione che portò invece un pugno di uomini a provare il potere e la generosità di Madre Natura e a scoprire la vera forza dell’uomo.

L’avventura di Cabeza de Vaca è un percorso di progressive privazioni durato otto anni. Dei 578 gentiluomini spagnoli carichi di corazze e certezze, rimasero quattro scheletri derelitti che vagarono in terre desolate spogliati di tutto. Avevano visto uomini tuffarsi in mare perché resi pazzi dalla sete, implorare l’aiuto delle loro madri e poi gonfiarsi e morire, avevano visto soldati rosicchiare i cadaveri dei loro compagni e avevano pianto implorando la clemenza della natura. Indios implacabili li avevano decimati con frecce avvelenate, altri indios dalla pelle di rame li avevano derisi e trattati come bestie da soma, spogliandoli delle loro ultime certezze e speranze di uomini europei. Proprio a quel punto, nell’estremo abisso dell’annullamento, quegli ultimi uomini nudi e senza speranze avevano trovato una nuova forza, il vero potere, quello di riuscire a guarire altri uomini. Si trasformarono in sciamani in mezzo a quei selvaggi, guaritori carichi di energia proprio quando pensavano di aver perso ogni fibra di umanità. La loro vera e unica ricchezza era proprio quella forza essenziale che la natura aveva rivelato loro solo dopo un progressivo e terribile percorso di spoliazione, una forza che arrivava senza nessun segno, come il vento o la pioggia.

Insegnerò al mondo il modo di conquistare con la dolcezza, non con le stragi” (Alvar Núñez Cabeza de Vaca).

A quel punto in quegli uomini, la vita si moltiplicava in conseguenza degli sforzi e delle cure donate agli altri. Anche questa fu una grande, silenziosa conquista.

Estanislao Pryiemski era un tranquillo agronomo di Varsavia, era arrivato in Amazzonia negli anni ‘60 e aveva iniziato una classica storia di ricerca di denaro e di conquista. Aveva provato a fare soldi con la pelle dei coccodrilli, con le noci di cocco, con strane bacche afrodisiache, o con pesci che divoravano uova di zanzara. Poi, un giorno, decise di abbandonare la ricerca degli affari e s’incamminò verso la strada di un sogno: voleva registrare il suono della foresta.

Ci provò per vent’anni, nel Pantanal amazzonico, una delle regioni più inospitali del mondo, inondata per sei mesi all’anno dalle acque dei fiumi che l’attraversano, infestata da zanzare, serpenti d’acqua e caimani. Il professore polacco si armò di microfoni e imbuti sempre più grandi, voleva cablare i rami degli alberi e le acque, voleva raccontare la poesia di quei suoni, voleva raggiungere un sogno troppo lontano per essere descritto. Morì nel 1983 nel lebbrosario di Campo Grande, fuori dal cimitero dei conquistatori, ma ben dentro alle delicate e, a volte, incomprensibili righe dei poeti. “I lombrichi fanno respirare la terra come i poeti fanno respirare le parole”. (Estanislao Pryiemski, Le voci del Pantanal).

Un giorno, il sogno assurdo di un poeta può trasformarsi in una magnifica realtà, i sogni assurdi di conquista portano solo macerie e solitudine.

 

Marco Steiner, Union Island, 3 aprile 2009.

 

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Tropical Islander

Tropical Islander

Tropical Islander

La Tropical Islander, è la mia nave, è una grossa nave dallo scafo nero. E’ fredda e piena di scatole metalliche di ogni colore. E’ una portacontainer della New Guinea Pacific Line. Siamo partiti da Hong Kong il 28 aprile e dovremmo arrivare ad Apia il 14 giugno, abbiamo toccato i porti di Kobe, Yokohama, Tarawa, Nomea, poi ci hanno bloccati al largo del porto di Lautoka, nelle Fiji. L’ordine l’ha dato un ufficiale medico, il dottor Tarid Ali. Doveva essere un semplice controllo sanitario, ma a bordo hanno trovato tre tipi d’insetti strani, dovranno analizzarli e ci hanno messi in quarantena.

Siamo bloccati, a tre miglia dal porto di Apia, Upolu, la mia isola, se non riusciremo a partire al più presto, diventerò pazzo.

Il mio nome é Niuu, sono originario di Matautu, un villaggio di pescatori sulla costa meridionale. L’anno scorso, all’alba del 29 settembre, una data che non dimenticherò mai, lo tsunami investì l’isola, proprio da quel lato e con quattro onde più alte delle palme, mi portò via tutto, mia figlia di dodici anni, mio padre e mia madre, la mia casa, la mia moto e il mio cavallo, elencati nell’ordine d’importanza.

Mi ero svegliato di colpo, avevo sentito uno strano rumore, sembrava un ruggito nella terra, poi ci fu solo silenzio, un grande silenzio senza un alito di vento rotto solo dal richiamo di un uccello, poi arrivò il mare, quattro schiaffi di fango gelido, sembrava che tutto dovesse finire.

Rimasi attaccato al tronco di una palma, lei era riuscita a resistere, era elastica, leggera e io mi trovavo per caso lì.

Le altre, con le loro radici infilate nella sabbia e i tronchi spezzati, sembravano tristi ballerine su di un palco senza musica.

Ero un uomo felice, quasi benestante, da quel momento in poi, non ho avuto più niente.

Mi sono rimaste tre tombe, una moglie infelice, il ricordo della mia Fale e dieci palme spezzate, come la mia vita.

Fu così che accettai l’ingaggio del comandante giapponese su questa nave nera come la notte.

Mi ha venduto un container per 500 dollari di Samoa, pochi spiccioli, ma per le carte di navigazione quel container blu sarebbe stato mio durante i viaggi, lui non aveva responsabilità di quello che c’era là dentro.

Le autorità portuali fanno controlli a campione oppure guardano le provenienze, le destinazioni e il tipo di merci trasportate, quando c’è qualche dato sospetto controllano.

Nel porto di Hong Kong non ci sono più barche, ma un’impressionante distesa di container di tutti i colori, la prima volta che l’ho vista mi sembrava un’immensa città, o il disegno di un bambino. Non ho mai capito come facciano quelle braccia meccaniche a scegliere il cubo giusto e a caricarlo sulla nave giusta, ma in fondo, la cosa non mi ha mai interessato troppo. A me bastava sapere che il mio container blu viaggiasse sempre con me e che nessuno mi chiedesse di aprirlo per sapere cosa c’era dentro. Ho fatto tre viaggi da Hong Kong al Giappone e ogni volta ho infilato un sacchetto di coca in mezzo ai tonni congelati, oppure fra i materiali da costruzione, questo era il mio lavoro, ma facevo finta di fare il marinaio.

Al terzo viaggio, questo, il mio incarico si sarebbe dovuto concludere, il container tornava al comandante e io mi sarei preso il mio premio, 30.000 dollari americani. Con quei soldi avrei ricostruito tutto, mi sarei ricomprato una moto e un cavallo, avrei pregato per mia figlia e per i miei antenati, avrei costruito una tomba nella veranda della mia nuova casa, l’avrei rifatta sopra al pavimento di quella che le onde avevano portato via. Mi bastava un piccolo muro per il perimetro, un po’ di colonne azzurre, un tetto. Qui ad Apia, le nostre case sono fatte così, bastano tende leggere, non servono muri, porte, finestre, chiavi, basta un tetto per ripararci dalla pioggia.

L’aria, il vento e gli amici possono sempre entrare.

Con i quei soldi sporchi avrei rifatto tutto, volevo provare a ricominciare.

La Tropical Islander adesso è bloccata, per una stupida ispezione medica e per tre stupidi insetti di cui non saprò mai il nome.

Sono qui, sono sudato e ho il cuore che batte come un tamburo.

Ho il corpo quasi completamente tatuato, perché sono un uomo di rispetto, almeno secondo le nostre tradizioni, ma non sono contento di quello che ho fatto, e se mi dovessero scoprire vorrei strapparmi questa pelle di dosso.

Un ragazzo, per guadagnarsi il diritto al tatuaggio deve dimostrare il valore, e per farlo, deve superare tre prove: il mare, la terra, la famiglia.

Con la fiocina ho dimostrato di saper pescare, con la vanga, di saper coltivare la terra e di saper far crescere e mantenere la famiglia, per questo ho avuto il diritto di ricevere il tatuaggio.

Non sapevo quale disegno il Maestro avrebbe scelto per me, lui l’avrebbe sentito, senza parole, e avrebbe iniziato, senza uno schema.

Ho sofferto tutti i giorni, per quattr’ore filate, per una settimana, forse di più, ma in quei momenti il tempo sparisce.

Quel martelletto picchiava con la punta irta di aghi, sottili come spine che s’infilavano nella mia pelle e quel rumore mi si era infilato in testa come un chiodo, migliaia di chiodi.

Non riuscivo a dormire perché continuavo a sentire quel rumore costante, però avevo voglia di svegliarmi per sdraiarmi di nuovo e ascoltarlo ancora, avevo voglia di finire.

Oggi sono qui, aspetto il mio destino a braccia incrociate, guardo i miei muscoli e i segni che mi ricoprono il corpo, ma non ho più l’orgoglio, vorrei graffiarmi di dosso questi segni con tutta la pelle e la mia anima ferita. Con quei soldi, forse, riuscirò a ricostruirmi una casa, a ricomprarmi la moto, il cavallo, ma non mi ridaranno il rispetto.

Ripenso al Pacifico, il mio mare infinito, il mare che parla col cielo.

Mi ha dato tutto, ha il diritto di riprendersi ogni cosa.

Se avrò la fortuna di ritornare senza essermi lasciato sporcare da questa nave nera, dimenticherò e andrò avanti.

Ricostruirò la mia canoa e tornerò a pescare, perché quando sono solo in mezzo al mare, non importa se piove o c’è il sole, mi bastano le stelle di una notte profumata, il vento e le onde che mi vogliono portare via con loro.

Forse dovevo perdere tutto per capire quanto ero ricco.

Upolu è la mia isola del tesoro e questi bastardi con i loro soldi non riusciranno a cambiarmi.

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Il cuoco di bordo, “Wayfinding”

Il cuoco di bordo, “Wayfinding”

The Sea Cook

Steven è il cuoco di bordo, il “sea cook”, del catamarano Te Matau a Máui, una splendida riproduzione, con materiali moderni, dell’imbarcazione tradizionale polinesiana, la Waka, una lunga canoa a doppio scafo e due alberi di 22 metri di lunghezza e 13 tonnellate di peso che ricorda tanto quella con la quale Rasputin raccolse Corto Maltese dopo il naufragio.

Te matau a Máui, “l’amo di Maui”, naviga soltanto con mezzi tradizionali, come strumenti moderni ha soltanto un Gps per la sicurezza dell’equipaggio e un grosso pannello solare per alimentare un piccolo motore elettrico che serve per manovrare nei porti. Per il resto del viaggio, ci sono soltanto il sestante e le stelle, le vele, il timone e il Pacifico.

Qui nel porto di Apia, nel giugno del 2010, non lontano dalla casa di Stevenson, quello che raccontava le storie, di catamarani così, ce ne sono quattro.

Le imbarcazioni di questa singolare regata che, in realtà, è un vero viaggio iniziatico, si assomigliano tutte, ma si differenziano per i colori e i disegni caratteristici delle rispettive isole, le ha costruite un modernissimo cantiere di Auckland che si chiama Salthouse Boatbuilders, “Costruttori di barche della casa salata”.

Anche la traduzione letterale del nome ha un notevole ricordo prattiano.

Il progetto, basato solo sulla raccolta di fondi privati, è quello di rivitalizzare la tradizione della navigazione a vela, la costruzione d’imbarcazioni tradizionali e la condivisione delle conoscenze marinare di tutti i popoli che abitano l’infinita collana di isole dei mari del Sud, in uno spirito di generale unione Polinesiana. Sembra di risentire le riflessioni di Tarao, ma invece è il vero progetto che ha consentito la realizzazione di questo sogno.

La chiamano “Wayfindind”, letteralmente “La ricerca della strada”, è la navigazione non strumentale, navigare seguendo le stelle, i segni del cielo, il soffio naturale degli alisei, la spinta delle correnti, o forse, perfino la pinna di un pescecane.

Te Matau a Maui, “L’amo di Maui” è la canoa che rappresenta la Nuova Zelanda; Marumaru Atua “Sotto la protezione del Signore” è quella delle Isole Cook, Uto ni Yalo è la barca delle Fiji; Hine Moana quella dei marinai misti che vengono da Samoa, da Tonga, da Vanuatu.

Sono bellissime, solide e leggere, come i sogni. Arrivano a toccare i dieci nodi quando filano nel vento giusto. In ogni porto c’è un’aka, la danza maori, che la gente del posto balla e urla percuotendosi il petto, le cosce e gli avambracci, in ogni porto ci sono preghiere, strette di mani, abbracci, fiumi di birra, barbecue, occhi lucidi, palme piegate dal vento, racconti a voce alta e risate, ma, soprattutto, la sensazione di ritornare a vivere qualcosa di vero, di riuscire a navigare nel silenzio, senza pensare al gasolio, senza preoccuparsi troppo di venti e di onde, perché quelle vele a forma di cuore, chiudendosi come ventagli li lasceranno sfogare, e quegli scafi arcuati, pesanti e sgraziati non le vorranno sfidare, ma le sapranno assecondare e cavalcare morbidamente, senza preoccuparsi troppo del tempo e della meta, perché una meta reale non c’è.

Quando le “canoe” salpano leggere dal porto di Apia dirette verso Tonga si sente solo il soffio del fiato di un marinaio maori all’interno di una grossa conchiglia e quello del vento che apre le vele di stuoia color ruggine. Quando quelle vele doppie di dissolvono nel grigio della lontananza e della pioggia, sembra di rivedere un acquarello di Pratt.

Una lama di sole s’inventa perfino un arcobaleno, forse è quasi troppo.

  • Steven, che significato ha per te questo viaggio?
  • La realizzazione di un sogno…anzi, forse…una specie di rinascita.

Steven è un uomo grosso e pesante, ha sicuramente più l’aspetto del cuoco immerso nella cucina fumosa di un ristorante cittadino che dell’agile marinaio maori calato in questi gusci leggeri.

E’ vestito soltanto con il tipico gonnellino polinesiano nero, il lava-lava, ha il torso massiccio, la pancia e il cranio rasato sono lucidi di minuscole gocce di pioggia, ma i suoi occhi dicono che è un uomo speciale. Per parlare non servono domande, forse, ha solo voglia di raccontare. Segue col dito un percorso ideale su una cartina umida e macchiata dell’Oceano Pacifico. Parte dalla Nuova Zelanda e poi spiega che Maui, dalla sua barca, ha pescato con l’amo l’isola su cui sorge Auckland e questo è il significato del nome della barca neozelandese, quella su cui lui sta vivendo l’avventura, il sogno.

Steven, il cuoco, è messo male coi denti, ci sono larghi spazi e finestre, ma non ha problemi a sorridere e riesce a masticare benissimo dei pezzetti di carne di cervo che si è portato dalla Nuova Zelanda e a suonare il flauto d’osso che s’è intagliato da solo. Racconta, con uno sguardo solare e l’entusiasmo di un ragazzino che non vuole più smettere di giocare:

  • Il Creatore di tutto è Io Matua Kore – indica un cielo grigio di pioggia sottile – il significato del suo nome è “Il nulla”, ma nel nulla c’è la potenzialità d’ogni cosa. – Silenzio. E lo spazio di tempo necessario a fissarsi negli occhi. Un sorriso che vuol dire “Capisco”, poi il sea cook continua – Per questo motivo, Hine Kahu Ataata, la prima donna, la “Donna delle sabbie”, ha generato tutta l’umanità ed è così che in ogni donna c’è la divinità della potenzialità. Perché la donna, dal suo grembo può generare ogni cosa: l’uomo più grande, un Signore della guerra, o la nullità più assoluta…

Il sottotitolo dell’Isola del Tesoro di Stevenson era proprio The sea cook, perché il grande RLS sapeva, fin dalle prime pagine del suo grande sogno, che a quel bravo ragazzo di Jim Hawkins la vera svolta della vita non sarebbe certo capitata fra i tavoli della locanda dell’Ammiraglio Benbow, non certo nell’aiutare sua mamma, né dietro ai consigli del buon dottor Livesey o del simpatico Trewlaney, né del capace capitano Smollet, ma il suo “apritore di porte” sarebbe stato proprio un bastardo come il cuoco dell’Hispaniola, John Long Silver, il pirata.

C’è un ricordo importante citato dallo stesso Pratt in un intervista, l’Isola del tesoro, la sua copia personale del libro, nell’edizione Heinemann di Londra, fu l’ultimo regalo di suo padre, ma proprio quel rigido volume nero sarebbe stato l’inizio di tutto. L’inizio di un viaggio, di ricerca, questo sicuramente, ma anche un viaggio divertente, perché, in fondo, non è poi così importante trovare, ma partire per cercare qualcosa, anche se spesso non si sa esattamente che cosa.

La meta da ricercare è la vera grande eredità, perché ognuno di noi deve ricercare la propria Isola del tesoro.

Per questo, per Pratt, rendere omaggio alla tomba di Stevenson in cima al monte Vaea era una sorta di pellegrinaggio, un omaggio dovuto. Perché lassù il colore del mare sarebbe stato più vivo, il profumo del vento più intenso e la fantasia sarebbe stata più vera.

Eppure Pratt non ce l’ha fatta, la strada era sbarrata dai tronchi abbattuti dall’uragano, il fondo era scivoloso per le piogge, così, lui la tomba di Stevenson la vide soltanto dall’alto, non toccò la pietra umida e bianca, non riuscì a sentire la delicata fragranza del frangipani che cade nel vento né i richiami degli uccelli dalla testa rossa, lui vide quel simbolo attraverso il frastuono delle pale di un elicottero neozelandese, ma Pratt era andato molto oltre, quel ragazzo che aveva sognato attraverso un libro nero regalato da un padre che sarebbe scomparso come il padre di Jim Hawkins, quel ragazzo era riuscito a inventare Corto Maltese e aveva insegnato a tanti altri ragazzi a sognare, e soprattutto, ad osare, anzi molto di più, ad andare oltre.

Il momento più bello nell’Isola del Tesoro è, sicuramente, il momento in cui Jim riesce ad impossessarsi e a condurre, anche se brevemente, ma da solo, fino ad arenarsi in un banco di sabbia l’Hispaniola, la nave, la vita.

Jim Hawkins che conduce la nave da solo e Ben Gunn che dopo aver trovato il tesoro vorrebbe solo un pezzo di formaggio sono la sintesi di tutto, l’avventura, il sogno, l’ironia di Stevenson e di Hugo Pratt tutti messi insieme, scrittori che non hanno mai preteso di spiegare niente, ma hanno soltanto voluto raccontare le loro storie e invece hanno detto molto di più.

L’omaggio a una tomba è il ringraziamento alla vita che la persona scomparsa è riuscita a trasmettere. Non c’è soltanto la malinconia del ricordo, c’è la gratitudine per quel ponte sottile che ha consentito un passaggio. Hermann Hesse, Yeates, Stevenson, sono le tre tombe simboliche di Pratt, gli “apritori di porte”, ma Corto Maltese ha saputo bere alla loro fonte e trasmettere un altro segnale, trovare una chiave che, partendo da loro, può guidare, anzi accompagnare, in leggerezza, verso un mondo salmastro e fantastico, un mondo fatto di vele e tesori, d’incontri e sorrisi, di silenzi e ballate.

  • Che lavoro fai Steven?
  • Sono uno studente.

C’è sempre tanto da imparare da un cuoco maori che a cinquant’anni si definisce uno studente e  che regala un amo intagliato in un osso di balena e poi rimane in silenzio e si mette a suonare il flauto pensando al niente di Io Matua Kore. Anche Stevenson suonava il flauto seduto nel giardino della sua casa di Vailima, forse anche lui pensava alla vita che vola via troppo veloce, ma quel suono è ancora forte, almeno qui, nel porto di Apia.

 

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Un viaggio quasi impossibile nel mondo perduto di Mü

Un viaggio quasi impossibile nel mondo perduto di Mü

Nuvole e scale infinite

E quando le risposte non soddisfano le domande? ( Levi Colombia )

Si dovrebbe rivisitare l’intuizione ( Corto Maltese )

Il volo Air France AF447 è scomparso nella notte fra il 31 maggio e l’alba del 1 giugno 2009 nell’Oceano Atlantico al largo delle coste brasiliane. E’ sparito dai segnali radar all’improvviso, dopo aver rilevato guasti elettrici, ma nessuna effettiva emergenza o richiesta d’aiuto. La macchina della ricerca francese e brasiliana si sono mosse immediatamente e le acque al largo dell’isola di Fernando de Noronha hanno cominciato a restituire maschere d’ossigeno, pezzi dei sedili, alcuni corpi. E’ stato un incidente, difficile da spiegare al momento attuale, ma quando e se verrà ritrovata la scatola nera si potrà comprendere il vero motivo o la concatenazione di cause della tragedia. Pensare che nel 1931, proprio da queste parti, dalle profondità dell’Oceano, emersero misteriosamente due isole e la Gran Bretagna ne reclamò immediatamente il possesso contro il parere del Brasile e di altri paesi sudamericani, ma le dispute diplomatiche si risolsero in breve tempo, in maniera del tutto “naturale”, perché prima di qualunque tentativo di accordo, le due isole che erano scaturite al largo di Fernando de Noronha, scomparvero altrettanto misteriosamente nell’Oceano.

Il 2 luglio del 1937 spariva il bimotore Lockheed Electra pilotato da Amelia Earhart, doveva arrivare a Howland Island, un’isoletta nel Pacifico, il punto di arrivo di un giro del mondo di 29.000 miglia. Pochi minuti prima di perdere i contatti, Amelia aveva lanciato un angosciato appello alla nave che doveva farle da ponte radio, avrebbe dovuto essere nei pressi della destinazione, ma non riusciva a vedere nulla e stava rapidamente esaurendo il carburante. Poi non ci fu più niente, solo silenzio. Amelia era un mito dell’aviazione statunitense, nel giugno del 1928 era stata la prima donna ad attraversare l’Atlantico senza scalo sul Fokker F7 pilotato da Stulz e Gordon. All’inizio del 1932 aveva compiuto la sua trasvolata atlantica in solitaria da Terranova al Galles in meno di 15 ore, in agosto aveva sorvolato tutta l’estensione degli Stati Uniti da Los Angeles a Newark, nel New Jersey. Nello stesso anno aveva attraversato il Pacifico, da Oakland in California a Honolulu nelle Hawaii. Amelia era bella, temeraria ed elegante con i suoi caschi da pilota poco tecnici, ma molto chic, stava per compiere 40 anni, era bionda e anticonformista, in qualche modo assomigliava a un altro grande trasvolatore solitario come lei, Lindbergh, per questo la chiamavano “Lady Lindy”. Per la sua ricerca il presidente Roosvelt non badò a spese, stanziò circa quattro milioni di dollari, furono inviate 20 imbarcazioni e 66 aerei per un totale di circa 3000 persone, ma Amelia scomparve nel mistero ed Eleanor Roosvelt, che avrebbe voluto imparare a volare insieme a lei, dovette rinunciare ad un’amica oltre che al suo futuro istruttore pilota.

Qualcuno sostenne che il mucchietto d’ossa umane e la scarpa numero trentanove ritrovate anni dopo a Nikumaroro, un’isoletta a nordest dell’Australia, fossero appartenute a lei. Salva dopo tante imprese e dopo l’ammaraggio, ma ironicamente finita a morire di fame come una specie di Robinson Crusoe solitario in un paradiso dimenticato. Altri insinuano che il suo aereo fosse stato potenziato con motori modificati ed equipaggiato con una sofisticata apparecchiatura fotografica. Insomma, che Amelia avrebbe spiato le postazioni giapponesi e sarebbe stata catturata e giustiziata in segreto dalle forze nipponiche che l’avevano recuperata dopo l’ammaraggio. Altri ancora sostengono che dopo la conclusione di una missione segreta fosse arrivata alle isole Marshall e da qui sarebbe rientrata sotto falso nome negli Stati Uniti dove sarebbe vissuta per molti altri anni sotto copertura.

Il 5 dicembre del 1945, una squadriglia di caccia Avengers, partiti da Fort Lauderdale per una missione d’addestramento in una zona a nord delle Isole Bahamas scomparve improvvisamente dai radar, il capo squadriglia e tutti gli altri piloti non riuscivano a comprendere la loro posizione, nelle loro ultime conversazioni radio dichiararono ripetutamente che gli strumenti sembravano impazziti, le bussole giravano come trottole, l’oceano era diventato improvvisamente bianco, non avevano più riferimenti, perfino la vicinissima costa della Florida non era più visibile, scomparsa alla vista. Eppure quel giorno le condizioni del tempo e della visibilità erano ottime. Quello stesso pomeriggio decollarono vari aerei di soccorso e fra questi c’era un grosso idrovolante Martin Mariner perfettamente equipaggiato per queste missioni di salvataggio con tredici uomini esperti a bordo. Dopo poche ore, la base aerea ricevette un annuncio dal comandante dell’idrovolante, anche loro erano in difficoltà per i forti venti che avevano trovato in quota. Non arrivò nessun’altra comunicazione e dopo una grande battuta di ricerca dei cinque caccia e del Martin Mariner da parte di centinaia di aerei, navi, e sottomarini, si dichiarò che non c’era alcuna traccia dei sei velivoli scomparsi e non c’era alcuna spiegazione logica per l’incidente. Si cominciò a parlare di mistero, di astronavi e di extraterrestri che li avrebbero prelevati dallo spazio, oppure di forze elettromagnetiche sottomarine che li avrebbero risucchiati nei fondali. Il fatto è che al largo della costa sud orientale degli Stati Uniti c’è una zona triangolare che si estende dalle Bermuda, fino alla Florida meridionale, alle Bahamas e a Puerto Rico, conosciuta come il Triangolo delle Bermuda, dove più di 100 aerei e navi, in maggioranza dopo il 1945 sono scomparsi nel nulla, senza lasciare una traccia o un piccolo reperto, anzi in alcuni casi, come per il veliero francese “Rosalie” nel 1840 o il brigantino tedesco “Freya” nel 1902, la imbarcazioni furono ritrovate intatte, i loro carichi perfettamente integri, ma i loro equipaggi si erano letteralmente volatilizzati nel nulla lasciando il cibo caldo nelle pentole e i coperti apparecchiati sui tavoli da pranzo, nessun segno di fuga o di colluttazione.

C’è un lungo elenco di vere sparizioni di navi ed aerei, ma le cause sono assolutamente ignote, anzi, per usare i termini corretti, i fenomeni non sono scientificamente spiegabili.

Il 26 dicembre del 2004, un’onda anomala, un muro liquido di una ventina di metri d’altezza si alzò nel bel mezzo di un Oceano Indiano letteralmente impazzito e sommerse d’acqua, detriti e fango le coste di tutti i paesi e le isole che vi si affacciano ad oriente: Indonesia, Malesia, Tailandia, Myanmar, Bangladesh, e a occidente: India, Sri Lanka e Maldive. L’Oceano si ritrasse delle spiagge di sabbie bianche come se volesse prendere una rincorsa, raccolse le sue forze immani in un lungo, terrificante, impossibile, istante sospeso e poi scatenò uno tsunami che si comportò esattamente come una valanga che precipita rotolando dalla cima di un monte: travolse e devastò tutto quello che incontrò lungo la sua strada. Interi villaggi vennero annientati, case scoperchiate come fossero scatole di cartone, foreste strappate dalla terra come esili fili d’erba di un prato, molte isole furono sommerse dai detriti e dal fango e più di trecentomila persone persero la vita. Questo evento catastrofico é stato perfettamente spiegato dalla scienza: a circa diecimila metri di profondità si è verificata una frattura sottomarina di una delle Placche che compongono il substrato profondo della crosta terrestre. La zona precisa era a circa 200 chilometri da Sumatra. In pratica, una delle zolle tettoniche orientali, la Placca indiana, era scivolata al di sotto della Placca birmana innalzandola di diversi metri, spostando ammassi enormi di terre e rocce verso est e causando un terremoto sottomarino che aveva determinato lo spostamento di un’enorme massa d’acqua libera e distruttiva che provocò il più grande disastro naturale dell’epoca moderna.

La scienza riesce a spiegare molti fenomeni, quasi tutti, anche quelli, apparentemente più misteriosi, eppure, a volte si devono formulare soltanto ipotesi, perché la dimostrazione scientifica non è sufficientemente completa, in quei momenti la fantasia prende il sopravvento e cerca di andare oltre ai dati inconfutabili, cerca di trovare uno spazio dove sconfinare perché in fondo la fantasia non vuole regole né limiti ristretti, ma a volte c’è qualcosa di più di un conflitto fra lo scientificamente dimostrabile e l’ipotesi fantasiosa, fra l’assolutamente sicuro e l’intuizione difficilmente riscontrabile. E’ il caso del Triangolo delle Bermuda, è il caso di Mu o di Atlantide o Lemuria. I continenti scomparsi.

 

La terra cava

Non riesco più a discernere qual’è la realtà e qual’è il sogno (Corto Maltese)

Sono due vite parallele perché limitarsi ad accettarne una sola? (La regina maya)

Tikal è un sito Maya immerso nelle fitte foreste del Petén, una regione settentrionale del Guatemala. Bisogna arrivarci molto presto al mattino, quando la nebbia sale dalla terra umida e avvolge la giungla che si risveglia con tutti i suoi profumi e i rumori. Le scimmie urlatrici delimitano il loro territorio con un grido lungo e cavernoso, sembra un rauco e agghiacciante vento lontano. Le cicale strofinano le ali e sembra che un cavo elettrico in corto circuito vibri nell’aria come una frusta di minuscoli anelli metallici incandescenti. L’umidità lascia la terra e avvolge le cime degli alberi che intrecciano foglie e liane, poi la foresta, a malincuore, si apre e compaiono i templi con le loro inquietanti scale di pietra perse fra il verde e le nuvole di vapore.

Il Tempio del Grande Giaguaro, il re Luna Doppio Pettine, El Mundo Perdido, l’Aguada Escondida, il Tempio dei Teschi, i nomi già affascinano, incutono soggezione, rispetto. Nella Gran Plaza i piccoli soldati guatemaltechi moderni, armati come se fossero stati catapultati qui da una zona di guerra, sembrano allegri ragazzini intenti a giocare, sorridono, si mescolano ai turisti e garantiscono la sicurezza, ma contribuiscono a generare tensione e a ricordare cerimonie sanguinarie guidate da sacerdoti che riuscivano a strappare a mani nude i cuori delle vittime destinate ad ingraziare le divinità e le stelle del cielo. L’estensione è enorme e si può camminare per decine di chilometri fino a raggiungere le zone meno frequentate e per questo ancora più coinvolgenti. Il tempio delle Iscrizioni è isolato, lontano da tutto, da quelle parti stanno ancora scavando e molte pietre sono ancora nascoste fra le radici degli alberi che si afferrano come artigli alla terra e alle rocce. Basta guardarsi intorno e restare in silenzio, quel mondo verde che cerca di nascondere e proteggere un grande passato forse è la porta per entrare in un altro mondo.

Ci si sente osservati e controllati da entità che si fingono selva.

Un brivido accappona la pelle, ma è solo un minuscolo colibrì che sfreccia ronzando intorno al suo piccolo nido col rumore di un gigantesco calabrone. Si guarda intorno, scattando e ruotando a 360 gradi e poi si cala in una pozza d’acqua con estrema attenzione. Prima di ogni tuffo si libra quasi immobile nell’aria girandosi come un periscopio di controllo, le sue ali sbattono fino a 80 colpi al secondo e il suo cuore attento pulsa 1200 volte al minuto. Il colibrì é simbolo di coraggio e ci vuole molto coraggio in quella giungla gonfia di esseri urlanti, striscianti ed alati per proteggere quella speranza di vita, per difendere quelle sue due delicatissime, minuscole uova dal guscio trasparente. Sembrano preziose gemme di madreperla.

Forse, per entrare nel regno sotterraneo del Re del Mondo, il capo supremo della misteriosa gerarchia iniziatica, bisogna entrare proprio da lì, da una delle grotte che scendono fino al Regno di Agarttha, percorrere gallerie, caverne e cunicoli che scendono nelle immense profondità della terra e collegano fra loro i continenti, mondi solo in apparenza perduti e misteriosi centri iniziatici, quelli di cui parla Saint-Yves d’Alveydre nella sua Mission de l’Inde del 1910 e Ferdinand Ossendowski nel suo Bêtes, Hommes et Dieux del 1924.

Mondi sotterranei di cui parlano anche le tradizioni induiste. La capitale, Shamballah, sarebbe in Asia, nascosta nelle profondità del deserto del Gobi. Gli ingressi a questo misterioso regno sotterraneo sarebbero sparsi in varie zone del mondo: in Egitto, in prossimità della Sfinge; ad Akakor, nel fitto della foresta Amazzonica brasiliana; ad Angkor, nella foresta cambogiana, dove esistono templi avvolti dalla foresta come a Tikal; sotto le nevi dell’Antartide o fra le montagne dell’Himalaya. Il regno di Agarttha sarebbe popolato da uomini dalla pelle chiara, dotati di grandi poteri e altissime conoscenze astronomiche e scientifiche. Uomini in grado di intuire tutti i pensieri, di conoscere i fatti che accadono sulla terra e prevedere il nostro futuro. Uomini in grado di collegarsi ed influenzare psichicamente i potenti della terra e di saper gestire e controllare l’energia Vril, che consentirebbe loro di volare, si spostare oggetti con la forza del pensiero e di leggere nella mente altrui.

In un altro sito Maya, al di là di un grande mare di foreste, cariche di foglie e scure di ombre, oltre un fiume, fra i ribelli e le montagne messicane del Chiapas, a Palenque, c’è un altro mistero, collegato col mondo sotterraneo, ma forse anche con un mondo molto più lontano. Anche a Palenque c’è un tempio delle Iscrizioni e qui c’è una pietra tombale su cui è scolpita una figura umana ritratta in una posa che ricorda un pilota in una navicella spaziale. Lo chiamano “l’astronauta di Palenque”, sembra che impugni le leve di comando di un razzo, sembra che dalla parte posteriore del velivolo escano delle fiamme e che il “pilota” respiri attraverso dei tubi. Il grande sarcofago è la tomba del grande governatore Pakal II, la rappresentazione del Dio del mais, il re-sacerdote il cui volto austero fu ritrovato coperto da una maschera di un finissimo mosaico di lastre di giada verde, conchiglia e ossidiana. Ogni dito delle mani era impreziosito da un anello di giada e sul petto aveva una decorazione con nove cerchi concentrici costituiti, ognuno, da 21 perle. In bocca c’era un grano di giada scura per comprarsi il cibo nell’aldilà, nella mano destra una perla cubica, nella sinistra una perla sferica. Simbologie e conoscenze che parlano di viaggi attraverso lontane costellazioni e porte segrete, di collegamenti fra mondi apparentemente lontani e di popoli che, pur divisi da oceani e immense distanze, conservavano inspiegabili similitudini rituali.

Mondi lontani, ma uniti da un passato comune, o da una conoscenza mediata attraverso dimenticate radici. Atlantide, celato nelle profondità dell’oceano Atlantico, Mu in quelle del Pacifico, come basi comuni di conoscenza superiore. Agarttha come ulteriore mondo sotterraneo segreto popolato da uomini alti e dalla pelle bianchissima che ricordano il leggendario re inca Viracocha, ma anche il Kukulcan dei Maya, bianco di carnagione e con barba e capelli rossi, divinità arrivata dall’Atlantico con una barca priva di remi.

Molti ne hanno parlato, ma pochissimi uomini nella Storia avrebbero avuto accesso a questo regno Sotterraneo, fra questi, la medium madame Blavatsky che ebbe accesso ad Agarttha attraverso un antico tempio nel Tibet e Dante Alighieri che avrebbe, in parte, rivelato quello che avrebbe visto romanzando tutto nella sua Divina Commedia.

Un ammiraglio americano, Richard Evelyn Byrd, nel corso di un viaggio d’esplorazione del Polo Sud nel 1947, trovò le tracce di questa civiltà ed ebbe contatto con gli abitanti di quel mondo. Byrd trascrisse un fantastico incontro nel suo diario che è attualmente conservato nel Centro di Ricerca Polare Byrd dell’Università di Stato di Columbus (Ohio. Usa). Attratto magneticamente da una forza sconosciuta insieme al suo aereo mentre stava esplorando le nevi e i ghiacci del Polo Sud, veniva guidato a motori spenti tramite una sorta di stallo pilotato. Atterrò senza toccare una leva in una verdissima valle, in una città scintillante e popolata da uomini biondi dalla pelle bianchissima. Il loro Maestro lo avrebbe ammonito sui rischi che correva l’umanità, gli aveva parlato di un futuro oscuro come una nera coltre che avrebbe distrutto una razza ormai dedita soltanto alle guerre e ai soprusi, ma gli aveva anche predetto che, dalle rovine, sarebbe emerso un nuovo mondo in cerca dei suoi lontani tesori perduti. In quel momento, dopo la distruzione e la presa di coscienza degli errori passati e delle grandi potenzialità future, il Mondo di Superficie sarebbe stato aiutato. L’ammiraglio Byrd fu interrogato ripetutamente dallo Stato Maggiore del Pentagono e fu esaminato da una commissione medica, ma alla fine tutto venne archiviato e a lui fu ordinato di tacere per il bene dell’umanità. Quegli uomini misteriosi potevano essere discendenti degli Atlantidi, forse si sarebbero potuti ricreare nuovi contatti, forse si sarebbero potuti spiegare tanti misteri, ma Byrd era un militare e obbedì agli ordini.

Cesar, oggi ha circa vent’anni, è un ragazzo guatemalteco robusto e squadrato come un pugile, un sollevatore di pesi o un lottatore, ha deltoidi e bicipiti solidi e lucidi per il sudore. Anche lui si occupa di caverne, scava grotte e cunicoli nella montagna, entra in profondità, ma non scende sottoterra, non lo fa per cercare mondi scomparsi, lui lo fa per guadagnarsi da vivere. Prima strappa le pietre dall’interno della montagna friabile, poi le spacca e le sbriciola a colpi di martello fino ad arrivare a vendere i sacchi di materiale inerte che servirà per i pavimenti delle case, o per il sottofondo delle nuove strade asfaltate. Cesar non scava per scoprire qualcosa, lo fa per guadagnare pochi quetzal. Vive a Patzùn, ma lavora tutto il giorno sulla strada che porta a San Antonio Palopò, sul mitico lago Atitlan. La galleria che ha iniziato a scavare cinque anni fa con suo padre, sarà lunga più di cinquanta metri e porta in una grande grotta circolare alta più di 4 metri. Adesso ci lavorano in tre, usano bastoni di legno ai quali sono fissati uncini ricurvi che potrebbero venire da una macelleria. Vibrano colpi alle volte e alle pareti di quell’antro scuro, staccando pezzi di roccia, sassi e terra. S’inoltrano nella montagna, allargano gli ambienti, sembrano talpe. Nella grotta ci sono centinaia di bottiglie di plastica tagliate che sostengono mozziconi di candela. Tutto intorno, una strana luce, quasi sottomarina, oscilla per la poca aria smossa dai colpi o dal soffio del vento che arriva dalla strada. L’ambiente ricorderebbe un inferno dantesco se non fosse per la musica rap che gracchia da una radiolina appoggiata ai vestiti buttati in un angolo. La grotta, i cunicoli per arrivarci, le volte, sono tutte graffiate dai profondi segni regolari degli uncini che artigliano la roccia e annerite dalle strisce di fumo delle candele. Sembrano le zampate di una belva che vorrebbe sfuggire. Se la volta della grotta cedesse anche Cesar e i suoi compagni forse potrebbero raggiungere il mondo scomparso di Agarttha.

 

Oltre

 La terra con i suoi cataclismi partecipa attivamente al gioco delle perplessità.

( Corto Maltese )

Nel marzo del 1882 il capitano David Robson oltrepassò le colonne d’Ercole di Platone, cioè lo Stretto di Gibilterra e lasciò il Mediterraneo, lui non sapeva che secondo le teorie della tettonica a placche, quando, ai tempi della grande massa continentale chiamata Pangea, l’Africa era unita alla Spagna, quel passaggio non esisteva. Lui non sapeva che un giorno, dopo un immane terremoto le terre si aprirono e in quella fresca spaccatura, come da un immenso imbuto, colarono montagne d’acqua dall’Atlantico e riempirono un bacino di terre più basse che oggi chiamiamo Mediterraneo. Robson era solo il bravo comandante del vascello Jesmond, un mercantile inglese a vapore che veniva da Messina con un bel carico di profumata frutta secca siciliana, lui aveva un lungo viaggio da compiere, era diretto a New Orleans, le Colonne d’Ercole erano solo un ultimo paesaggio di terra, prima di affrontare il blu completo del cielo e dell’Oceano Atlantico.

In uno di quei tratti azzurri ad Ovest di Madera e a sud delle Azzorre, i marinai cominciarono a vedere il colore del mare mutare in maniera del tutto innaturale, il blu delle acque era invaso dall’ocra-marrone del fango, dal bianco e dall’argento delle pance di milioni di pesci morti, poi comparve del fumo all’orizzonte e iniziarono a delinearsi i tratti indistinti del profilo di una montagna, là dove le carte nautiche riportavano il vuoto più assoluto. Robson era molto prudente, osservò a lungo quelle coste fumanti e ordinò di calare l’ancora lontano dall’isola, là dove la carta nautica che continuava a studiare, a girare e a spostare sul tavolo da carteggio indicava una profondità impossibile. L’ancora toccò il fondo dopo tredici metri di cima anche se l’isola distava diverse miglia. Il capitano Robson aveva le sue scadenze per la consegna del carico, ma la situazione era troppo strana e la frutta secca non avrebbe avuto problemi per un piccolo ritardo, decise di procedere e di perlustrare l’isola. L’isola era un ammasso di scuri e affilati detriti vulcanici spaccati da profondi crepacci, si vedeva in lontananza un altopiano e le montagne da cui saliva il fumo che avevano visto dal mare, ma era impossibile arrivare laggiù camminando su quel terreno che spaccava le scarpe. I marinai di Robson rimasero soltanto due giorni nei pressi della riva e iniziarono a picconare gli strati più ghiaiosi e friabili. Trovarono punte di frecce, spade e sculture spaccate, vasi che contenevano frammenti d’osso, urne funerarie e imponenti muraglie sbrecciate. Il comandante decise che doveva bastare; fece raccogliere alcuni campioni e descrisse tutto meticolosamente nel suo libro di bordo: la posizione dell’isola, le sue impressioni, tutto quello che avevano raccolto e quello che avevano visto, ma avevano dovuto lasciare.

Quando arrivarono a destinazione raccontarono tutto al cronista del Times Picayune di New Orleans e decisero di donare i reperti al Museo Britannico. Oggi però, di tutta questa storia non è rimasta alcuna traccia. Il libro di bordo andò distrutto con tutto l’ufficio della compagnia Watts, Watts & C. durante il bombardamento di Londra del 1940 e al Museo Britannico non risulta niente di tutta questa faccenda anche se molti altri marinai di altre imbarcazioni avvistarono gli enormi banchi di pesci morti e un’altra goletta a vapore, il Westbourne avvistò un’isola in quello stesso tratto di mare e anche le dichiarazioni del capitano, James Newdick, furono riportate sul New York Post.

Sembra di leggere un racconto di Lovecraft, la storia di R’Iyeh, l’isola affiorata dal nulla col suo mostro alieno Cthulhu, la gigantesca piovra dall’aspetto orrendamente umano in grado di provocare visioni folli nelle menti degli uomini che riescono a vederla. La divinità aliena Cthulhu scomparirà con la sua isola misteriosa, esattamente com’è successo all’isola avvistata dai capitani Robson e Newdick, sprofondata in seguito ad un terremoto o ad una successiva eruzione vulcanica, e ai due marinai accadrà la stessa cosa successa all’ammiraglio Byrd e al protagonista del racconto di Lovecraft: saranno condannati all’oblio forse perché conoscevano troppo su un argomento che doveva rimanere sepolto nelle profondità, non soltanto marine.

Nel 1985, Kikachiro Aratake, un tuffatore sportivo giapponese, si tuffò nelle acque intorno all’Isola di Okinawa e, a 25 metri di profondità, scoprì un’immensa struttura piramidale a gradoni, la Piramide di Yonaguni. Secondo quanto affermano gli archeologi si tratterebbe della più antica costruzione mai realizzata dall’uomo. Alcuni sostengono che rappresenti la prova del mitico continente di Mu, inabissatosi nelle profondità del Pacifico 25 mila anni fa.

Secondo il colonnello Churchwood che, nel 1868, decifrò alcune tavolette in argilla ritrovate in un monastero orientale, la vita ebbe origine proprio su Mu, e il popolo di questo continente colonizzò tutto il mondo eleggendo in ogni paese un re figlio del Sole e nella piramide di Yonagumi è stata trovata una pietra orizzontale di 3 metri per 3 che potrebbe proprio rappresentare Ra-Mu, la divinità solare. In un’altra zona è stato ritrovato un grosso megalite alto sette metri che ricorda i volti scolpiti che popolano l’Isola di Pasqua.

Popol Vuh

Convergenze e sintesi di contrasti apparenti

Questo è un luogo iniziatico per riguadagnare la dimensione perduta, quella in cui è possibile incontrare il mistero della causa dell’esistenza”

(Mu. L’indigeno Fungo Magico)

Il santuario di Pascal Abaj è in cima a una collina coperta di alberi non lontana dalla piazza del mercato di Chichicastenango. Laggiù si vende ogni cosa, quassù si invoca Huyup Tak’ha che significa il Pianoro della Montagna e con questa definizione iniziano gli apparenti contrasti. L’antico volto scolpito della divinità Maya venerata quassù sembra soltanto un sasso scuro circondato da altre pietre annerite dal fumo. Dicono che anche questa pietra, un tempo assomigliasse ai Moai dell’Isola di Pasqua, forse un tempo, perché adesso è un soltanto un grosso sasso scuro, ma si sente benissimo che è consumato non solo dagli anni e dalle intemperie, ma anche dalle continue cerimonie, dalle preghiere, dalle offerte, dal fuoco, dalle mani che l’hanno toccato e strofinato con fede profonda. Ci sono anche le croci, naturalmente, un fedele che pronuncia le sue preghiere e lo sciamano che crea il contatto col dio.

La croce è parte del rispetto e del sincretismo fra fede cattolica e religione Maya, il fuoco è il tramite del contatto, la vera voce della divinità invocata, viene alimentato con alcool, incenso, mais, resine profumate e scoppiettanti. Il fuoco s’inclina, si alza più forte o scaglia piccoli frammenti di coppale addosso alla gente che prega, il fuoco comunica a chi sa capire il suo linguaggio. Intorno alle fiamme, un regolarissimo cerchio di candele colorate, sassolini bianchi, offerte, petali di fiori e l’officiante che esegue i rituali o li fa eseguire dal fedele. Offerte e preghiere. Fuoco, calore, sudore, fumo e gesti antichi. A pochi passi, un vecchio con la testa avvolta in un turbante colorato, agita una latta bucata che emana un fumo profumatissimo e prega, alza le braccia al cielo e pronuncia parole in lingua Quichè. Il vero sciamano è lui, lo chiamano Chuchkajau che vuol dire madre-padre.

Davanti al mercato di Chichi come chiamano qui questo grande villaggio pieno di gente, povertà, merci e colori, c’è l’antichissima chiesa di San Tomas. Qui c’è la summa di tutti i meravigliosi contrasti di tutto questo splendido paese. 18 scalini di pietra davanti all’ingresso principale, perché San Tomàs è stata costruita nel 1540 sui resti di un antichissimo tempio. 18 scalini ingombri di sciamani che bruciano incenso e candele, fiori e chicchi di mais. L’ingresso ricorda la salita al tempio e i 18 scalini sono i 18 mesi del calendario maya. I turisti non possono entrare da questa parte, ma soltanto dall’ingresso laterale, queste scale sono parte integrante del tempio e della preghiera. All’interno della chiesa, il centro è dedicato alla religione maya, le navate laterali alla Via Crucis, l’antichissimo altare è scolpito in un legno massiccio e annerito dal fumo. I 14 altari Maya sono disposti al centro della chiesa, sono semplicissimi rettangoli di pietra scura appoggiati sul pavimento e ricordano le 14 divinità maya. Le candele maya hanno due fuochi, quelle cristiane uno solo eppure convivono pacificamente, qui ognuno entra con un solo motivo: avere fede. Il Popol Vuh è una specie di Bibbia maya, fu ritrovato proprio in questa chiesa nel 1702 e il parroco Francisco Ximénez lo trascrisse in spagnolo. L’originale manoscritto maya è sparito chissà dove, parla dell’intera storia dei Maya fin dalla creazione:

Questo è il racconto di come tutto era sospeso, tutto era calmo e in silenzio, tutto immobile, tranquillo e la distesa del cielo era vuota…

La storia parte dalla creazione dell’umanità da parte del dio K’ucumatz, che iniziò a creare gli uomini col fango, ma questi erano talmente deboli che si dissolvevano nell’acqua. Poi ci provò con il legno, ma questi erano talmente sciocchi da non riuscire a lodare il loro creatore, allora li distrusse tutti e rimasero solo le scimmie della foresta, anche loro create dal legno. Per l’ultimo tentativo la divinità chiese consiglio a quattro animali: la volpe grigia, il coyote, il pappagallo e il corvo. Fu così che creò l’uomo, con grano bianco e grano giallo macinati insieme per creare la carne e mescolati con l’acqua per creare il sangue, per questo i guatemaltechi si definiscono uomini di mais. Tutta la cronologia Maya parte da un punto fisso, il nostro 3114 avanti Cristo, il lontano passato remoto in cui tutto venne di nuovo creato dopo l’immane distruzione di un mondo precedente. Ogni cosa ha un suo ciclo d’inizio e una fine, e ogni fine è segnata da una grande catastrofe, ma anche ogni alba e tramonto fanno parte di questa sacralità e ogni attività umana dipende dagli umori del sole che ad ogni alba emerge da Xibalbá, il mondo degli inferi, per raggiungere il cielo e riscaldare e illuminare la superficie terrestre. Per i Maya, il cielo, la terra e il “mondo invisibile” sono uniti dall’Albero del Mondo, la prima forma di vita scaturita dal caos primordiale. L’albero kapok (Ceiba pentandra), con i suoi rami cruciformi che escono direttamente dal tronco è l’asse della vita e quando i missionari arrivarono nel XVI° secolo con le loro croci, per gli occhi dei Maya anche questo simbolo si sovrappose al loro Albero del Mondo.

Florian Fricke era un musicista tedesco, ex critico e regista cinematografico, ma era anche un grande appassionato di tematiche religiose e dei miti Maya. Nel 1970, a Monaco, fondò il suo gruppo rock, i “Popol Vuh” e uno dei loro capolavori è il disco “Hosianna Mantra”. Anche qui, il concetto fondamentale di questa musica è proprio la fusione di apparenti contrasti mistici: la religiosità cattolica e la ritualità induista. L’Osanna, cioè l’inno a Cristo che ascende al cielo, si arricchisce della magica ripetitività del mantra e dei canti vedici, la “musica per catacombe spaziali”, come è stata definita la musica dei Popol Vuh, riesce a cogliere perfettamente il valore di questo naturale sincretismo religioso che non rimane soltanto una razionale mescolanza mistica, ma si trasforma in un accrescimento spirituale basato sul rispetto.

Quando Hernán Cortés inviò il suo sanguinario e brutale capitano Don Pedro de Alvarado a conquistare il Guatemala questi si scontrò con il capo dei Maya Quiché, Tecum Umam. Il loro duello, invece, è un leggendario esempio di scontro fra mondi talmente distanti da non trovare punti di confronto e di miglioramento, ma soltanto la costante realtà della sconfitta del più debole rispetto al più forte, o forse della spiritualità rispetto alla fredda e calcolata razionalità.

Gli indios chiamavano Pedro de Alvarado, Tonatiuh (Figlio del sole) perché era alto, biondo, barbuto, era una specie di divinità agli occhi dei Maya Quiché, in più si presentò in sella al suo cavallo e per Tecum Umam cavallo e cavaliere erano un tutt’uno, forse da sconfiggere come invasori e conquistatori, ma forse da rispettare come attese divinità. Durante il duello, un Quetzal volava sopra la testa del capo indiano e lo aiutava, fra l’entusiasmo della folla, beccando il cavallo e il cavaliere come fosse un picador. Tecum Umam colpì il cavallo e pensò di aver sconfitto il suo avversario, ma quando il conquistador trapassò il petto di Tecum Uman con un poderoso colpo di lancia, tutti ammutolirono, anche il Quetzal, che si chinò sulla ferita del capo morente e, come ultimo gesto di saluto prima di volare lontano nel cielo, si bagnò di rosso sangue le piume del petto. Da allora il Quetzal o Kukul, in lingua Quiché, dalla lunga coda di un metro di piume colorate come un arcobaleno, ha il corpo verde come il colore degli alberi delle foreste del Guatemala e sul petto c’é la macchia rossa come il sangue del grande Tecum Umam.

Il Quetzal è il simbolo del Guatemala e può vivere soltanto libero, vola altissimo e si costruisce un nido nel tronco degli alberi, ma ci sono sempre due uscite, per non rovinarsi la coda.

La fantasia e la spiegazione scientifica, forse, sono come quelle due uscite, anzi, sono i due possibili ingressi ai mondi scomparsi, ma perché limitarsi a scegliere sempre una sola strada per raggiungere una meta? Perché cercare di conoscere perfettamente un unico percorso? Perché costringersi a spiegare proprio tutto? Le due uscite salvano la coda dello splendido Quetzal, le due strade, forse ci porteranno alla stessa meta, ma sicuramente ci daranno qualcosa in più: la libertà e la possibilità di scegliere.

 

Marco Steiner 4 luglio 2009.

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Il giovane psichiatra (Una storia)

Il giovane psichiatra (Una storia)

Il giovane psichiatra

Quando sono arrivato, ero giovane, entusiasta, ma poi è bastato poco, spesso succede così, non solamente in un manicomio. Le regole, i superiori, qualcuno, non importa chi, comunque quelli che seguono sempre la corrente, provano a tirarti in basso, nella corrente, con loro, se hai idee nuove ti legano al molo e buttano un’ancora in più, tanto per essere sicuri che non riuscirai a mollare gli ormeggi e partire.

La diversità spaventa, sempre e comunque.

Io arrivavo presto al mattino, volevo aiutare, invece non dovevo pensare, non dovevo fare niente di mia iniziativa, lui arrivava all’alba, aveva già fatto il giro di visite, controllato le terapie e guardato tutti dall’alto al basso, aveva setacciato il suo regno da cima a fondo e tutto filava regolare e ordinato come piaceva a lui, nella corrente. La macchina era oliata e a quel punto poteva fare l’unica cosa che gli piaceva: rintanarsi nel suo mondo preferito, la sala anatomopatologica, lì segava crani e sezionava cervelli e studiava quello che usciva dal controllo, cercava l’errore, il pezzo rotto nella testa dei suoi matti.

Io ero uno dei soldatini, dovevo eseguire le terapie che il Direttore lasciava scritte nelle salette dell’infermeria. All’inizio per me furono docce fredde, forse peggiori delle “docce” e dei bagni “idroterapici” riservati ai malati.

Quando vedevo girare l’infermiera con il carrello delle terapie, quando sentivo il cigolio delle ruote e l’odore delle medicine mi si attorcigliavano le budella.

Sono dimagrito molto in quegli anni.

Di quel periodo, sopra ogni cosa, mi rimase impressa una scena.

Quel giorno, come al solito, stavamo facendo il giro delle corsie, lui in testa e nell’ordine, medici, suore e infermieri, il codazzo del suo esercito.

Il direttore si fermò davanti a uno stanzone aperto, un grande ambiente, era la sala mensa, non c’era niente e nessuno, eccetto tavoli e sedie, un vago odore di minestra, e lui, dopo uno sguardo attento, si precipitò dentro per riallineare una sedia, una sola, rimasta fuori posto.

Continuammo il giro, mi sembrò di leggergli in faccia un sorriso soddisfatto.

Io ero il più giovane, non avevo trovato una stanza in città e rimanevo a dormire sull’isola. Mi fece diventare lo specialista dello shock insulinico.

Un’iniezione lenta d’insulina, il sonno profondo, quasi una morte, e poi, lentamente lo zucchero, il risveglio. Non capivo perché lo stavo facendo, ma in qualche modo era un gesto di comprensione, per i malati era quasi un sottile piacere.

Il Direttore, burbero, sempre sgarbato con tutti, un giorno mi disse che “avevo la mano”. Rimasi sorpreso, per lui era un gran complimento.

Ma forse non era solo la mia mano.

Li ascoltavo e ci parlavo. La medicina mi diceva che era lo zucchero a svegliarli dal coma, io preferivo pensare che fossero le mie parole. Mi piaceva pensare così e decisi di continuare. Le mie erano le prime parole che quei disgraziati sentivano dopo il sonno artificiale.

Volevo dire e fare non soltanto quello che sapevo, cercavo quello che sentivo.

E poi, dato che non dovevo riprendere il vaporetto per Venezia, di notte continuavo a parlare con i matti.

Senza allineare tavoli, sedie, matite e pensieri.

Li ascoltavo o restavo in silenzio con loro, aspettavo, raccoglievo le storie, le loro e quelle delle famiglie, m’interessavano soprattutto quelle più assurde e i pensieri più staccati dalla realtà, li lasciavo liberi di ridere, di strafare, avevo un unico sistema, non giudicare, lasciarli parlare a briglia sciolta, sempre.

Mi piaceva ascoltarli, mi piaceva parlare con loro, mi sentivo più vicino a loro che alle suore nevrotiche, agli infermieri ignoranti, ai colleghi menefreghisti.

Ero diventato invisibile e stavo bene così. Quello che facevo non era previsto né ordinato dal Direttore. Non potevo nemmeno scrivere le mie note sulle cartelle cliniche, solo lui le poteva compilare.

Ma conservavo e annotavo tutto sui miei manoscritti.

Dopo tre anni me ne sono andato. Da allora ho sempre continuato a parlare con i “matti” e ovunque andavo, ascoltavo, parlavo, cercavo le fantasie e lottavo contro i deliri. Ho imparato dalla mia invisibilità, ho imparato da quella sedia spostata, ho imparato a non mettere ordine e distanza.

Ho imparato a non seguire la corrente della distinzione ma solo il sogno della comunicazione.

E sono rimasto solo.

I percorsi sotto la linea del mare sono lunghi e tortuosi, ormai l’ho capito.

Ora anch’io non ci sono più, sono stato fulminato dalla freccia del tempo, ma a San Servolo ci torno. È bello vagare libero nello spazio e nel tempo, non cercavo mia madre Niobe né i miei fratelli e sorelle, quelle erano soltanto storie passate, io volevo ripercorrere i corridoi, anche adesso sono invisibile e sono ancora più libero di ascoltare le voci che raccontano, è un passato che vive.

Basta chiudere gli occhi, sentirsi addosso il dolore, solo così si riesce ad ascoltare ed entrare.

Io non dovevo avere un nome, volevo soltanto essere uno dei tanti.

Non lo sono stato.

Il mio nome è stato scritto e pronunciato mille volte, dopo.

Sono uno di quelli che hanno provato a cambiare.

 

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L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 3

L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 3

tre

Il dossier di Louise e Pedro Mangini, l’amico che scriveva per “La Razòn”, uno dei quotidiani serali di Buenos Aires, si presentava lungo e complesso.

Il documento doveva essere affidato ad Albert Londres, un celebre giornalista dell’epoca impegnato a redigere un fascicolo di denuncia sul fenomeno dello sfruttamento della prostituzione di donne provenienti dalle zone più povere dell’Est europeo, soprattutto dalla Polonia.

Buenos Aires, 27 maggio 1923.

Preg.mo Sig. Londres,

grazie alla testimonianza della mia amica Louise Brookszowyc, nata a Varsavia nel 1897, prostituta per necessità in Buenos Aires, sono riuscito a raccogliere una dettagliata documentazione relativa al traffico di giovani donne provenienti dalla Polonia e da altri paesi dell’Europa Orientale. Tale dossier intende documentare in maniera inequivocabile il legame che unisce inestricabilmente il fenomeno dello sfruttamento della prostituzione a quello della malavita organizzata

Sono rimasto impressionato nel profondo dai suoi reportage trasmessi dal fronte di guerra europeo, da quello sulla Russia dei Soviet e soprattutto da quelli riguardanti l’Indocina, l’India e la Cina.

Ho ragione di ritenere che il materiale ora nelle mie mani, nelle sue diverrà un’arma efficace contro un traffico umano che si va trasformando in una piaga ormai accettata e che le autorità locali e il comune sentimento delle persone non hanno reale intenzione di sradicare né di sondare nei suoi aspetti più reconditi, in particolare la connessione con la malavita e con l’immenso potere economico dei latifondisti meridionali.

Un giorno lei ebbe a scrivere una frase che rappresentò la spinta per decidermi a intraprendere l’arduo e meraviglioso mestiere di giornalista, imponendomi immodestamente il suo stile come modello: «Il nostro ruolo non è quello di essere pro o contro, ma di mettere il ferro nella piaga».

Per tutte queste ragioni la ringrazio, signor Londres, e nel trasmetterle l’intera documentazione in mio possesso, mi auguro che la risonanza che susciterà il suo lavoro in tutto il mondo possa servire a conferire maggiore dignità umana a moltitudini di ragazze sprovvedute e soprattutto povere, a salvare vite umane e a denunciare disgustosi sfruttatori che svolgono la loro attività manifestamente o, ancor peggio, si nascondono dietro paraventi di attività legali e rispettate.

Con sincera ammirazione e gratitudine,

suo devot.mo e modest.mo

Pedro Mangini

 

L’indagine partiva da una vecchia amicizia di Pedro Mangini, Laurentino C. Mejias.

Laurentino era un poliziotto in pensione che non amava starsene con le mani in mano e aiutava Mangini a scrivere i pezzi di cronaca nera. Nella sua lunga e onorata carriera era stato capace di guadagnarsi buoni rapporti con tutti, colleghi, malavitosi e gente di strada. Aveva un carattere aperto, affabile, sapeva come muoversi fra gli schedari della questura e aveva amicizie fidate in ogni locale e in ogni strada malfamata di Buenos Aires. Inoltre conosceva alla perfezione il tipo di armi che usavano i delinquenti abituali e quelle preferite dai gringos che venivano da fuori.

Insomma, Laurentino C. Mejias aveva l’esperienza di un poliziotto che ha osservato da vicino un’infinità di situazioni criminose, ha arrestato centinaia di delinquenti e ne ha frequentato per lo meno altrettanti, che è nato e vissuto da sempre nella stessa città.

Quando aveva perso la moglie si era dovuto arrangiare in casa con la figlia Lara e oltre al lavoro non gli era rimasto molto tempo per altro. Ma quel poco che aveva lo impiegava a leggere e a scrivere. Nel 1913 aveva pubblicato La policia por dentro: Mis cuentos, un saggio che documentava i rapporti fra politici e poliziotti corrotti e i prosseneti polacchi ed ebrei.

Dalla pubblicazione di quel libro Laurentino aveva ricavato tre cose: un encomio, la pensione e la solitudine. Era rimasto vivo solo per un motivo, i nomi citati erano già conosciuti, appartenenti a inchieste archiviate, legati a fatti inequivocabili ma ormai obsoleti.

Di cose da raccontare ce ne sarebbero state parecchie altre, ma Laurentino aveva Lara e aveva preferito tacere, indagare per conto proprio, e parlarne solo con chi meritava fiducia assoluta. Pedro Mangini.

Un pomeriggio Laurentino chiamò l’amico al telefono.

«Andiamo a prenderci un caffè, Pedro, ho bisogno di domandarti un favore.»

Si sedettero al consueto bar e ordinarono i caffè e due bicchierini di rum. Laurentino mise lo zucchero nella propria tazza e in quella di Pedro, un cucchiaino per il giornalista, mezzo per sé. Caffè, un sorso di rum, e rimase in silenzio finché il cameriere non si fu allontanato. Pedro aspettava.

«Devi seguire Lara.» Fissò l’amico negli occhi e con un sorso terminò il rum. «Prende lezioni di tango e frequenta una certa Louise, una polacca della Warsavia. Sembra una normale amicizia fra ragazze che amano ballare, ma io non sono tranquillo.»

«Allora questa volta toccherà a me fare il poliziotto. Ma stai tranquillo, Lara è una brava ragazza.»

Si accesero due sigarette.

«Cerca di essere discreto, non deve capire che stai lavorando per me. Mi vergogno a chiedertelo, ma tu sai quanto tengo a mia figlia, e quella gente non mi piace.»

«Sono già con loro a ballare il tango, fidati di me. Ti capisco.»

«Tu non puoi capirmi fino in fondo, tu non hai figli. E questa volta ho cattivi pensieri.»

Pedro non avrebbe potuto desiderare un incarico più piacevole. Lara era fresca e solare, guardarla ballare era uno spettacolo inebriante e, giorno dopo giorno, era diventata sempre più intima di Louise.

Da principio Pedro partecipò solo marginalmente a quel rapporto, poi, con il passare del tempo, s’introdusse nelle loro reciproche confidenze.

Le osservava chiacchierare per ore, fumava una sigaretta dopo l’altra, e aspettava. Durante la stessa serata, o il giorno successivo, Louise si confidava anche con lui, se non era Lara a parlare. Era un rapporto particolare fatto di affetto, tenerezza, confidenza. Pedro venne a sapere tutto della vita di Louise. Da lei direttamente, oppure tramite Lara, e anche da Laurentino.

Louise apparteneva a una organizzazione di prostitute gestita da un gruppo di ruffiani ebreo-polacchi, la Warsavia.

Era arrivata a Buenos Aires nel 1920 da un paesino dal nome impronunciabile non lontano dalla capitale polacca.

Un giorno un uomo ben vestito e rasato di fresco aveva bussato alla porta di casa sua con una lettera di presentazione da parte di un amico d’infanzia di suo padre.

Caro Pavel,

la persona che ti consegnerà questa lettera è il signor Poniatowski, una persona rispettabile, un ebreo polacco benestante, pensa che possiede una grande macchina americana e vive in un appartamento lussuoso nel centro di Buenos Aires. Il suo desiderio è di sposarsi con una brava ragazza della sua terra per farla vivere con lui in questo mondo ricco e caldo ma tanto lontano dalle nostre abitudini semplici.

Si occuperà di lei per sempre e ti invierà la somma di cento zloty al mese per dimostrarti la sua eterna gratitudine.

Ho pensato che tu meritassi questo piccolo aiuto dal tuo vecchio amico Anton e penso anche che Louise si troverà bene da queste parti.

Bevi con il signor Poniatowski un buon bicchiere di vodka alla mia salute e ricordati che se un giorno ti stancherai di tutto quel freddo, qui ci sarà sempre un posto anche per te.

Il tuo vecchio amico Anton

I due uomini avevano cenato, bevuto la vodka migliore e poi spaccato i bicchieri per terra prima di firmare il contratto. Poniatowski avrebbe inviato alla famiglia Brookszowyc cento zloty al mese per tre anni e si sarebbe occupato di Louise.

Il giorno dopo, le lacrime trattenute in fondo al cuore, Louise era partita per l’America.

Avevano preso un treno per la Francia e durante il viaggio erano rimasti in silenzio. La traversata in nave da Le Havre a Montevideo era durata quasi un mese e Poniatowski si era comportato sempre con correttezza verso di lei, una cortesia tanto rispettosa da sembrare fredda e distaccata per un futuro marito. Tuttavia Louise non si era lamentata di certo.

Louise faceva una cosa sola, guardava.

Guardava tutto quello che le si muoveva intorno. Guardava il mare, la gente elegante sul ponte di prima classe, i salotti, le gonne e i cappellini delle donne, le scarpe lucide e gli orologi con la catena d’oro degli uomini, le valigie con lo spago, i berretti scuri e la barba lunga degli emigranti, le luci dei porti.

Toccarono Bilbao, Oporto, Tenerife, Dakar e poi fecero il grande balzo e attraversarono l’oceano fino a Rio de Janeiro, Santos e, infine, Montevideo. Poniatowski passava lunghe ore da solo sul ponte della nave, fumava e fissava il mare.

Da Montevideo si erano diretti a nord a bordo di un battello fluviale lento e maestoso, il “Mihanovich”, e in una notte in cui sembrava di poter toccare i milioni di stelle che incombevano sulle loro teste, avevano attraversato il grande Rio de la Plata ed erano sbarcati a Buenos Aires. Dal freddo grigiore della Polonia ai 36° di latitudine sud.

Del momento dello sbarco Louise ricordava soprattutto la luce del sole violento e accecante che riempiva quell’immensa città. Perfino la notte era inondata di luce. Buenos Aires era percorsa da fiumi di luce, milioni di lampadine che rivestivano tutte le case, lampade che illuminavano le strade, insegne luminose sui negozi, luci bianche che rischiaravano la strada davanti alle macchine e luci rosse che le seguivano. Luci, tante luci, troppo abbaglianti per i suoi occhi abituati al grigiore di un sole malato. Ma la città era inondata anche dagli uomini. Uomini che camminavano senza donne, uomini che bevevano senza donne, uomini che mangiavano senza donne, uomini che parlavano fra loro, uomini che la guardavano, anzi la squadravano da capo a piedi.

Louise si era guardata intorno in silenzio, attenta a non perdere di vista il taciturno e gentile signor Poniatowski. Ma non conobbe mai neanche il suo nome. Un giorno sparì e Louise non lo vide mai più.

Vide solo i suoi amici, e poi gli amici degli amici.

La prima realtà di quella scoperta?

Louise, la mia bisnonna, era una prostituta di Buenos Aires.

Avevo voglia di richiudere tutto e andarmi a ubriacare.

Se non fosse stato per la poesia di mio nonno.

Eppure, lei aveva cercato di ribellarsi a quel sistema, di trovare un riscatto, un’altra strada.

Proprio quello che serviva a me.

Ma chi era Louise?

Sentivo che dentro ai fogli ingialliti di quel dossier, le foto, le lettere, c’era qualcosa d’importante.

In fondo, non sapevo nulla della mia famiglia e volevo riempire quel vuoto, sentivo che là dentro c’era una pista che dovevo seguire.

Il dossier di Pedro era la storia, le lettere di Louise erano i sentimenti, e io avevo molta voglia di sentire qualcosa, poi, più lentamente, avrei saputo.

Incominciai dalle lettere di Louise a Corto Maltese, l’uomo che aveva salvato la piccola Mania, mia nonna.

 

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L’ultima pista (un racconto a puntate) 1

L’ultima pista (un racconto a puntate) 1

l’ultima pista

 

“C’è una verità elementare,

la cui ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani:

nel momento in cui uno s’impegna a fondo,

anche la provvidenza allora si muove,

infinite cose accadono per aiutarlo,

cose che, altrimenti, non sarebbero avvenute…

Qualunque cosa tu possa fare,

o sognare di fare.

Incominciala.

L’audacia ha in sé genio, potere, magia.

Incomincia adesso.”

 Wolfgang Goethe

 

 

uno

 

 

Qualche anno fa.

Pomeriggio di un giorno qualunque.

La radio trasmette una vecchia canzone, Summer 68, e i Pink Floyd riescono a essere la Musica: dolce, intensa, nostalgica, classica, moderna. Magica. La colonna sonora di una lettera da leggere, forse da scrivere. In una grafia minuta e regolare, fitta di annotazioni, correzioni, ricordi.

Il mio nome è Bob Collins. Sono irlandese, anche se sarebbe meglio dire che a essere irlandese era il lato paterno della mia famiglia. A questo punto sono rimasto solo io, una specie di bastardo nato lontano dalla verde terra dei Gaeli, dalle bombe e dalla musica degli U2.

Sono nato a New York il 16 maggio 1970 da Liam Collins, attivista militante dell’IRA e robusto bevitore di Guinness, e da Elisabeth Pierce, americana di Tarrytown, scrittrice di favole per bambini.

Mio padre parlava poco, aveva una faccia magra, pelle su osso. Due rughe profonde gli partivano dalle ali del naso, giravano intorno a una bocca indignata e si fermavano ai lati del mento.

Era nervoso. Si muoveva in continuazione.

Mia madre cucinava un pessimo stufato, ogni domenica. Per questo detestavo l’odore dei giorni di festa. Mia madre amava i vestiti a fiori, le tendine ricamate alle finestre, il tè nelle tazze di porcellana cinese. Camminava china e non fissava mai nessuno negli occhi.

In un modo che capivano solo loro, si amavano.

Un giorno mio padre portò a casa un mazzolino di violette avvolte in un foglio di carta di giornale e lo porse a mia madre come un gelato. Lei lo odorò estasiata, socchiuse gli occhi e se lo strinse al petto, poi incollò i suoi occhi celesti slavati in quelli neri di mio padre.

È il ricordo più bello che ho di loro.

Li persi per sempre quando avevo dieci anni.

Saltarono in aria insieme alla nostra vecchia Mustang nel momento in cui mio padre girò la chiavetta d’accensione. Un piccolo contatto e un grande botto sotto la nostra casa di Brooklin.

Era mattina presto e in quel momento non passava nessuno. L’esplosione provocò un bel po’ di trambusto nel quartiere, i vicini si svegliarono, i vetri delle case andarono in pezzi.

Un dito di mio padre fu ritrovato appiccicato sul muro del palazzo di fronte.

Nel complesso – scrissero i giornali – vista la potenza della carica, i danni potevano dirsi limitati e la notizia fu riportata nelle pagine interne senza particolare risalto.

Non se ne parlò molto anche perché la sera di quello stesso 8 dicembre 1980, Mark David Chapman sparò cinque colpi di una pistola calibro 38 nella schiena di John Lennon. L’aveva aspettato con pazienza, sulla 72ª strada, davanti all’entrata della casa americana di John, un antico palazzo gotico dove avevano abitato Judy Garland e Leonard Bernstein, dove Roman Polanski aveva girato Rosemary’s baby e dove si diceva si aggirasse il fantasma di un altro inquilino celebre, Boris Karloff. L’edificio era il Dakota Apartment Complex, il primo palazzo residenziale costruito a Manhattan alla fine del 1880.

«Quel palazzone è talmente fuori mano che sembra di andare a finire fra le montagne del Dakota.» Così aveva detto la gente, e il nome era rimasto.

Erano quasi le 11 di sera e Central Park era buio e silenzioso. Poi i cinque colpi.

John Lennon morì per dissanguamento nella macchina della polizia. Aveva 40 anni e aveva appena registrato “Double Fantasy”, dedicato a suo figlio Sean e alla moglie Yoko Ono.

Mio padre ne aveva 39 e non mi aveva dedicato neanche cinque minuti della sua vita.

A volte, per un motivo stupido, una vecchia colpa, la pazzia di qualcuno o semplicemente per un destino bastardo, un giorno qualunque diventa il tuo ultimo giorno. Fine della storia. Puoi chiamarti John Lennon, Liam Collins o Elisabeth Pierce. Non ha importanza. Sei finito.

Qualsiasi cosa avresti voluto fare non la farai più.

Oggi sono vivo perché i miei mi avevano portato dai nonni materni, dalle parti di Tarrytown.

Una villetta bianca, bassa, tranquilla e discretamente nascosta fra i boschi che circondano la tenuta Rockfeller.

Un posto da lasciare, un mondo da ricordare.

Una vita ancora da vivere.

Un piccolo quadro di pace borghese.

Verde rotondo di alberi senza una ruga e linee regolari di prati pennellati di fresco. Bianco di ville cariche di tende e finestre. Fiori. Riflessi di macchine grandi lustrate col panno di daino.

Bambini biondi che corrono.

New York è a un’ora di traffico, grigio, lento e imperturbabile. Una fila di solitudini.

Da queste parti, invece, è tutto sereno.

Poi arrivano le nuvole. Si accalcano qui sopra, pressate da altre più scure. Non la smettono più, continuano ad arrivare.

Gli alberi che sonnecchiavano adesso si scuotono pigri. Alzano la testa. Si stirano. Muovono le braccia. Mulinelli di foglie si staccano e si cercano nei viali. Si alzano vortici.

L’aria rinfresca di colpo.

Tutti riparano in casa.

Alla fine, piove. Piano, fitto. Poi scroscia a dirotto.

Non c’è più pace.

Neanche qui.

A mio nonno, Marcus Braddock-Pierce, mio padre non era mai piaciuto.

Il nonno era un tipo concreto, mio padre un sognatore; il nonno era schietto e diretto, mio padre misterioso e sfuggente. Di sicuro non era il tipo d’uomo con il quale mio nonno potesse andare d’accordo, anzi non riusciva a capire come sua figlia si fosse innamorata di lui ma, soprattutto, non capiva perché quell’irlandese si fosse innamorato di lei. Ma di questo non si era mai immischiato.

In quel periodo, pochi giorni prima del botto, aveva concordato con i miei che sarebbe stato più prudente tenermi lontano da casa per qualche tempo. Mia madre ci avrebbe raggiunti nel giro di pochi giorni.

Mio padre aveva avuto delle minacce, un fantasma del suo passato, una lettera anonima e alcune telefonate sospette, niente di cui preoccuparsi – gli avevano detto alla centrale di polizia – non c’erano problemi, eravamo a New York, mica a Belfast o a Dublino.

Eravamo a New York, ma dopo quel giorno di lui e di mia madre non mi è rimasto niente.

Il luogo della mia nascita e il mio nome di battesimo erano stati scelti di proposito per tenermi lontano dalla mia terra, dalla sua violenza e dal nostro passato.

Niente Michael, Patrick, Seamus, nessun nome che potesse far pensare alla verde Irlanda, alle riunioni segrete, alle bombe.

Solo Bob. Bob Collins di New York. Insignificante e difficile da individuare in un elenco telefonico.

Non era stato lo stesso per mio padre Liam.

Sono passati quindici anni dall’esplosione. Ho venticinque anni e sono solo. Intorno a me non è rimasto nessuno.

Nonna Valery se n’è andata in un mese per un cancro al pancreas, il vecchio con un’ex-attrice di Miami che dopo averlo stordito di viaggi, sesso, drink e pasticche, l’ha schiantato secco con un infarto.

Chiuso il capitolo delle mie ultime parentele.

Quel che mi è rimasto è una mansarda a Tarrytown dalle parti della stazione. Me l’ha lasciata la nonna insieme a qualche spicciolo in banca.

Ora sono solo e ho una gran voglia di andare.

Come una nota della chitarra di Ry Cooder.

 

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Isole di ordinaria follia. 1 La professoressa di lettere

Isole di ordinaria follia. 1 La professoressa di lettere

Certe volte ci si sente reclusi, bloccati da qualcosa.

Isole di ordinaria follia (Edizioni Studium, Marcianum Press) è un libro che è nato dopo una visita all’ex-manicomio di San Servolo, una piccola isola in laguna davanti a Venezia. Ho potuto leggere le schede sanitarie di molti internati ed è nato questo libro, con le fotografie di Gianni Berengo Gardin e di Marco D’Anna e con la guida delle parole di un grande amico psicoterapeuta, Antonio Dragonetto.

Ho provato a immaginare i pensieri e le parole non dette di chi non ha mai potuto raccontare la sua storia.

In certi momenti di ordinaria follia forse può far bene provare a pensare a chi è stato recluso davvero.

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Un’intervista

 

Viaggio nell’eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner

di Claudio Oreste Menafra

per “The Serendipity Periodical”

La continua ricerca di una suggestione che possa permetterci di entrare in un mondo diverso, toccare un’atmosfera in evoluzione, scendere nel profondo delle cose, Marco Steiner racconta Corto

In occasione della conferenza Gli orizzonti aperti di Hugo Pratt, tenutasi in Sapienza nell’edificio di Ex poste il 19 giugno scorso, la redazione di The Serendipity Periodical ha avuto la possibilità di rivolgere delle domande ad alcune delle personalità che si sono susseguite con i loro interventi durante il convegno; tra queste, la figura di Marco Steiner, un nome che già di per sé varrebbe un intero viaggio fatto di avventure, magia e terre remote emerse dall’immaginario, alla ricerca forse di una suggestione che irrompa bruscamente nella linearità del già costruito impostoci dal reale. Andiamo allora facendo rotta verso l’immaginario letterario di Steiner, ed andiamocene così, tanto per andare..

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

Quando Dio creò tutte le creature, chiese poi all’uomo di dare un nome ad ognuna di esse, oltre che a se stesso. Le immagini bibliche hanno da sempre suggerito il fatto che il nome sia un qualcosa di più di una semplice etichetta per denominare e facilitare l’identificazione di un qualcosa a qualcuno; il nome rappresenta l’identità e l’essenza degli esseri viventi. Lo stesso principio credo sia valido anche per lo pseudonimo di un autore, che ne anticipa, in un certo senso, la sua arte, si può dire lo stesso del tuo?

Il mio pseudonimo l’ha inventato Hugo Pratt quando abbiamo iniziato a parlare insieme di un mio sogno: iniziare a scrivere seriamente.

  • Hugo, ma posso scrivere storie di viaggio e avventura con il mio nome vero, Gianluigi Gasparini? Secondo me non funziona.
  • Forse bisognerebbe trovare uno pseudonimo.
  • Inventemolo
  • Quali sono i personaggi della letteratura a cui sei sempre stato legato?
  • Marlowe il detective di Raymond Chandler e Corto Maltese.
  • Ben, alora ti sarà Mar-Co da loro due.
  • E il tuo scrittore preferito?
  • John Steinbeck, su questo non ho dubbi, Hugo.
  • Alora, visto che ti xe furlan, ti saràSteiner, uno Steinbeck mitteleuropeo, così la gente non capisce se sei tedesco, svizzero, ebreo, italiano e poi   è breve, funzionerà…
  • In effetti in questo pseudonimo ci sono la mie due passioni letterarie, l’avventura e il noir americano.
Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese, Hugo Pratt

In quali circostanze hai conosciuto Pratt e in che modo successivamente ha contribuito alla tua produzione artistica?

L’ho conosciuto diventando per caso il suo dentista, abbiamo iniziato a parlare di viaggi, di musica, di cinema di tante altre cose meno che di denti. Poi scherzando mi chiese di fargli i denti d’acciaio come Squalo, un cattivo della serie dei film di 007 con James Bond, mi ha anche disegnato come avrebbe voluto che fosse il suo sorriso. Da quel momento ho iniziato a lasciare progressivamente il mio lavoro per diventare un suo “ragazzo di bottega”, andavo a cercare i libri che gli servivano, le carte geografiche, cercavo i colori giusti delle bandiere, dei gagliardetti, delle mostrine dei vari reparti militari, oppure le piante che crescevano in determinati territori, parlavamo di storie strampalate e di fatti reali. Poi ho iniziato a diventare il suo autista, nel frattempo ho visto centinaia di film con lui nelle più disparate lingue e agli orari più improbabili.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

Un giorno, mentre facevamo un lungo viaggio in macchina mi ha chiesto di collaborare con lui e così ho iniziato scrivendo un articolo giornalistico su una teoria che riguardava i continenti scomparsi di Atlantide, Mū e Lemuria, era la teoria del colonnello Churchward, poi dopo altro tempo mi ha fatto lavorare intensamente a un libro a cui teneva molto, “Avevo un appuntamento” delle Edizioni Socrates.  Pratt era appena rientrato da un lungo viaggio nel Pacifico alla ricerca dei suoi sogni giovanili a partire da un omaggio laico che aveva voluto rendere alla tomba di R. L. Stevenson ad Apia nelle Samoa. Facevamo lunghe passeggiate e lui mi raccontava le storie del veliero Yankee oppure mi parlava di “Pioggia” un romanzo di Somerset Maugham e di Emma Coe che aveva creato un suo impero nel Pacifico con il commercio della copra. Insomma mi raccontava i suoi sogni dei sui Mari del Sud e mi diceva di cercare e integrare quei ricordi con storie vere e immagini che sarebbero dovute scaturire da “tutte quelle isole che erano disseminate nell’Oceano come punti di sospensione messi lì solo per far immaginare e per continuare altre storie…” Queste furono le parole che innescarono la reale ricerca del sogno che avevo coltivato da sempre e quello fu il vero inizio di Marco Steiner scrittore.

Sono ormai passati anni sia dalla morte di Hugo Pratt, sia dalle ultime avventure esotiche di Corto Maltese; ma soprattutto è passato del tempo dalla pubblicazione di un romanzo prattiano rimasto incompiuto dal titolo Corte sconta detta Arcana; tu hai avuto il compito di terminare questo incompiuto prattiano; ecco vorrei entrare per un attimo nel tuo laboratorio di scrittore e capire in particolare cosa significa fare letteratura a partire da un tracciato diegetico-narrativo già iniziato e che tipo di ricadute ha sull’impegno intellettuale

La nostra collaborazione letteraria era iniziata già con la “Ballata del mare salato” nella versione romanzo edita da Einaudi. Questo può essere un buon inizio per parlare di questo argomento. Pratt mi fece notare che un romanzo non sarebbe potuto iniziare come nel fumetto con l’Oceano Pacifico che parla delle sue furie e di velieri distrutti e con il ritrovamento da parte di Rasputin sul suo catamarano figiani di un Corto Maltese barbuto e legato in croce su una zattera improvvisata.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Hugo Pratt, cortomaltese.com

In una delle nostre passeggiate mi guardò negli occhi come solo lui sapeva fare e mi domandò:

  • Cosa ti succede quando resti legato per ore e ore in mezzo al mare?
  • Sei disidratato, Hugo, le onde continuano a sbatterti addosso, hai la pelle incrostata, le labbra spaccate e gli occhi semichiusi per i cristalli di sale fra le ciglia.
  • Perfetto! Allora possiamo immaginare che attraverso i cristalli di sale, i riflessi del sole creino degli abbagli, delle allucinazioni e che quelle mettano in moto dei ricordi…
  • E poi aggiunse:
  • Potremmo immaginare che Corto in quel momento così vicino all’abbandono o forse alla morte, si riveda ragazzino, nella luce abbagliante della sua gioventù a Cordoba. Prova a pensare a una situazione del genere, buttami giù qualcosa.
Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corte sconta detta arcana, Einaudi

È così che ho iniziato a pensare e ad abbozzare il primo capitolo, poi abbiamo continuato insieme, serviva un contesto storico che spiegasse meglio i motivi della presenza di un sottomarino tedesco nelle lontane isole del Pacifico e così via. La stessa cosa e a maggior ragione, visto che Pratt non c’era più, è successa con Corte Sconta detta Arcana. Questa è una storia complessa e bisognava raccontare in maniera più approfondita certe situazioni storiche e delineare meglio personaggi del calibro del barone Roman von Ungern-Sternberg il comandante della Cavalleria Selvaggia. Sapevo bene dove trovare i libri di Ossendorwski come “Uomini, Bestie e dei” oppure quelli di Joseph Kessel e di tanti altri. Serve tanta ricerca, sempre, sia nel disegno che nella descrizione letteraria. Le fonti originali sono fondamentali per l’ossatura portante della storia. “Divertirsi seriamente” è l’insegnamento fondamentale che mi ha regalato Hugo Pratt.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner, foto di Luigi Maggio

In una pagina a fumetti Pratt disegnava una carica di cavalleria dove i movimenti dei cavalli, le armi dei cavalieri, i simboli delle bandiere, il terreno dove avveniva lo scontro erano illustrati con tecnica perfetta e con precisione di dettagli, nella stessa situazione raccontata in un romanzo, non si può descrivere e far sentire alla stessa maniera il movimento, ma ci saranno i rumori, gli odori del sudore dei cavalli, della terra, del fango o della neve alzata dagli zoccoli e poi le grida e il clangore del metallo delle spade e le esplosioni dei colpi di fucile. Scrivere e disegnare sono due mondi bellissimi che hanno tempi diversi, la lettura di una pagina disegnata Pratt riempie lo sguardo con un colpo d’occhio fulminante, quella di una pagina scritta e tratta dalla stessa situazione ha bisogno di un progressivo ingresso in quell’atmosfera, le parole dovrebbero lentamente riempire l’immaginazione.

È una piccola grande magia, è una tecnica diversa, a volte è possibile.

È curioso come tutti i tuoi romanzi abbiano come protagonista la giovinezza di Corto Maltese; di solito si preferisce continuare le storie già iniziate: a nessuno verrebbe mai in mente l’idea di scrivere sulla Bildung di Ulisse, mentre molti sono stati quelli che hanno immaginato una possibile prosecuzione delle sue avventure dopo il suo rientro ad Itaca. Nulla ti avrebbe vietato, nel nostro caso, di esplorare le vicende di Corto dopo l’ufficiale uscita di scena avvenuta intorno al 1926-27. Come mai questa decisione?

Dopo aver conosciuto abbastanza a lungo Hugo Pratt e il suo metodo di creazione delle storie, dopo aver tanto viaggiato sugli Itinerari di Corto Maltese, un personaggio che non esiste nella realtà, e aver cercato in giro per il mondo suggestioni del suo non-passaggio cento anni dopo, mi sembrava banale e non corretto “continuare” le sue storie. Hugo Pratt mi aveva sempre stimolato a “inventare” qualcosa di nuovo. Ha iniziato inventando con il mio nome, poi mi ha concesso di collaborare al suo fianco, in pratica mi ha invitato nel grande immaginario avventuroso che aveva sempre fatto parte del mio carattere, a quel punto, anche se più impegnativo e rischioso, sarebbe stato molto più stimolante e rispettoso provare a immaginare una giovinezza di Corto Maltese prima che diventasse il personaggio che Hugo Pratt ci ha fatto conoscere. Questo è stato il senso della mia grande avventura lungo gli itinerari di Corto. In fondo avevo iniziato immaginando insieme al mio Maestro il primo capitolo della Ballata con quel ragazzino che vaga nei vicoli assolati di Cordoba fra il profumo delle arance e quello dei gerani, mentre insegue una musica di flamenco intensa e malinconica.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
La ballata del mare salato, Hugo Pratt

Forse Pratt mi ha aiutato a entrare nella mente di quel ragazzino, era naturale continuare da quel momento. Sapevo da Hugo Pratt che il padre di Corto era un marinaio della Cornovaglia e che sua madre era una gitana andalusa amante di oroscopi e tarocchi, a quel punto ho provato a immaginare chi potessero essere gli amici da incontrare lungo la strada, mi serviva un marinaio esperto che gli insegnasse a navigare ed è nato il comandante Robart Kee e poi ho cercato di immaginare una serie di situazioni che iniziassero a forgiare il suo carattere. In fondo non mi sembrava corretto navigare nella stessa barca di Corto Maltese, sarebbe stato bellissimo viaggiare in vista del suo veliero e magari incontrarlo in qualche porto per parlare di tesori, di avventure o per restare insieme in silenzio a gustare un buon rum. È un buon amico Corto Maltese, ma ha bisogno di spazio.

Per scrivere i tuoi romanzi sulla gioventù di Corto hai dovuto viaggiare molto, ripercorrendo fisicamente gli itinerari ed i luoghi reali attraversati da un personaggio immaginario a distanza di quasi cent’anni dal suo fittizio passaggio; il connubio tra realtà ed immaginazione diventa quasi uno strumento propedeutico alla scrittura? Il viaggio mentale, da solo, non è sufficiente allora?

I miei viaggi nei luoghi reali delle avventure immaginarie di Corto Maltese mi hanno dato modo di seguire una specie di scia, solo dopo aver attraversato la Manciuria e la Mongolia si riesce a descrivere l’odore del vento e il colore della polvere di quelle piste; nella stessa maniera sarebbe difficile descrivere il rumore dei passi nelle notti veneziane senza aver vagabondato fino all’alba nelle zone più solitarie e meno frequentate dell’Arsenale o del Ghetto. Molte cose si possono immaginare, molte altre si possono ritrovare navigando in rete, ma seguire una storia prattiana nei luoghi dove si è svolta “realmente” aggiunge particolari e amplia un universo e consente, a volte, di entrare in un vero “straniamento”, un qualcosa che porta a vivere in maniera quasi reale le atmosfere disegnate o acquarellate. Ho provato a viaggiare in cerca del ricordo di qualcuno che non è mai esistito se non nella fantasia di un grande artista e queste derive, questi vagabondaggi non hanno solo formato la mia scrittura, ma anche il mio modo di vedere le cose. Lungo la strada, il viaggio mentale può intraprendere direzioni difficili da immaginare, è come entrare e vivere in un miraggio, i passi sono più leggeri e i profumi più intensi.

Hai spesso fatto riferimento, durante il tuo intervento alla conferenza Gli Orizzonti aperti di Hugo Pratt, alla letteratura prattiana come tentativo di produrre uno sradicamento del lettore dalla propria comfort zone culturale (to be uprooted); una letteratura che se ben accolta produce un distacco traumatico dal proprio mondo di preconcetti ed aspettative per incontrare il nuovo e l’inaspettato. Credi sia questo il compito costante della letteratura, cioè rinnovare le nostre sovrastrutture culturali? Aiutarci a dare sempre nuove prospettive ad un mondo storicamente pre-costruito?

La letteratura che amo è quella che racconta qualcosa che non conosco, quella che tende a superare la descrizione oggettiva. Non ho mai amato la letteratura d’intrattenimento, anche quella realizzata nella maniera migliore, ho sempre amato il fantastico e l’avventura perché racconta, come dice la parola stessa, l’advenirecioè quel qualcosa che non è ancora accaduto. Amo i viaggi non preorganizzati, quelli che non hanno una destinazione precisa perché consentono la scoperta, nella letteratura seguo lo stesso principio, penso a una storia possibile e poi inizio senza impostare rigidi cardini allo sviluppo della storia, quello che provo a immaginare subito è invece un buon finale. Il compito della letteratura credo sia quello di stimolare l’immaginazione, di scuotere dal torpore, di istigare alla curiosità, di sorprendere oppure di infilare il dito nella piaga delle problematiche di questo nostro mondo come fa “La strada” di Cormac McCarthy. Non ho mai amato i libri “carini”, i libri da spiaggia, i libri che una volta letti finiscono in uno scaffale e si dimenticano per sempre. Mi piacciono i libri da rileggere una seconda o una terza volta, non iniziando dall’inizio alla fine, ma leggendo a caso, per pescare qualcosa nel flusso delle parole. Ho un debito nei confronti di tutti quegli scrittori che hanno aperto il mio immaginario cambiandomi la vita, per questo cerco modestamente di restituire qualcosa.

Nell’economia di una storia, qual è il senso di proporsi un obiettivo, un telosdi ricerca anche se fittizio ed in fondo scarsamente rilevante? Il fantomatico tesoro, sempre anelato ma mai raggiunto, nelle vicende di Corto, è una semplice molla diegetica che produce intreccio oppure è indice di una condizione umana, quella di dove innestare per forza un orizzonte di senso nel vagabondare senza senso della vita?

Il senso è quello di partire e di muoversi, fisicamente, ma soprattutto intellettualmente, di non arenarsi in un porto sicuro e stantio, ma questo non vuol dire vagabondare senza senso, anzi al contrario, vagabondare serve a cercare un senso. L’inquietudine porta alla ricerca e la curiosità arriva nel corso del viaggio con gli incontri. Il “tesoro” potrebbe essere proprio il desiderio di non fermarsi per continuare a cercare.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese

In più battute hai definito Corto come un apritore di porte, che è in grado di generare incessantemente nuovi percorsi a partire da quelli già noti; è forse questa la grandezza di quei personaggi letterari che fanno ormai parte del nostro pantheon immaginario? La loro costante disponibilità ad imbarcarsi in sempre nuove storie; Ulisse ormai giunto nella sua comfort zone di Itaca è una sconfitta per la letteratura?

Il ritorno non è una sconfitta, ma l’inquietudine del viaggio e le derive necessarie per una vera ricerca, che non sia la spasmodica tensione al raggiungimento di un luogo o di un limite, sono la condizione necessaria per la vera libertà di movimento e questo deriva da un desiderio fisico e mentale, ma anche da una sorta di tentativo di percezione ulteriore: di fronte a due strade qual è il motivo che ci spinge a sceglierne una? Probabilmente non c’è, ma a volte capita che il superamento di un ostacolo o di un imprevisto casuale ci guidi verso qualcosa che non stavamo cercando e che diventa il vero “regalo del viaggio”, un incontro, un paesaggio, una luce, una musica, un qualcosa che non avremmo mai trovato lungo l’itinerario tranquillo e pianificato. Credo molto nelle sincronicità, negli appuntamenti apparentemente casuali. Un certo tipo di letteratura, un certo tipo di personaggi riescono a trasportarci fra le righe verso un piacevole e inatteso incanto. Posso dire senz’altro che viaggiando alla ricerca di Corto ho imparato a viaggiare non solo con le gambe ma anche con l’immaginazione ed è tutto un altro viaggiare. Corto Maltese, un archetipo dell’avventura, mi ha portato in un certo modo alla poesia e alla filosofia, forse il senso dell’evoluzione dell’intera opera di Pratt sta tutto in questa estrema sintesi: dalla Ballata e dalle storie caraibiche fino a Mū, c’è un lungo percorso di sottrazione progressiva. Dopo le ballate nell’oceano pacifico, oltre le sabbie di Samarcanda e la neve di Siberia e Manciuria, dopo il tango e i concerti per arpa e nitroglicerina si arriva alla musica del silenzio di Mū, il pianeta perduto e il disegno e i testi delle storie diventano progressivamente sempre più rarefatti.

Nel tuo recente progetto Itinerari di Viaggio, accompagnato dall’obiettivo scrutatore di Marco D’anna, hai cercato ancora una volta, come nel fumetto di Pratt, la contaminazione reciproca tra supporto visivo e scrittura; come interagiscono tra di loro nella narrazione immagini e parole, percezione e memoria?

Ho sempre letto storie che mi hanno aperto l’immaginazione e amato la fotografia e il cinema che mi hanno regalato suggestioni, sogni, emozioni profonde o sorrisi. Leggere, guardare, viaggiare e allo stesso tempo pensare e collegare quel determinato momento con altre situazioni legate alla memoria o alla fantasia è come entrare in un mondo diverso, toccare un’atmosfera in evoluzione, scendere nel profondo delle cose. Viaggiare con un fotografo regala la modulazione del tempo: una determinata immagine ha bisogno di una ricerca che vuol dire attesa, per un cambio di luce, un gioco di regolazione fra la velocità nel focalizzare l’attenzione su un determinato soggetto oppure la grande apertura del diaframma per dare spazio a tutto il paesaggio. Sfuocare o centrare, cogliere l’attimo o descrivere la scena, o ancora, regalare una suggestione impalpabile?

Le nuvole di un temporale portano un cambio di luce nell’immagine che stiamo vedendo, la pioggia probabilmente ci bagnerà o ci bloccherà nel fango o in un luogo protetto, ma dopo la pioggia, dopo quel cambio di luce arriverà il profumo dell’erba bagnata e quello della terra e i rumori saranno diversi. Quello che stiamo vedendo cambia continuamente, il restare fermi in attesa della fine di un temporale ci consente di vagare mentalmente pensando a qualcosa: ricordare una scena di “Rain” di Somerset Maughan o una sequenza del film con Rita Hayworth, oppure ci ritorna in mente quel lontano acquazzone che ci ha inzuppati in una città sconosciuta abbracciati a qualcuno che avevamo quasi dimenticato. Viaggiare seguendo una storia di Corto ci costringe a cercare qualcosa che non esiste, ma ci obbliga a tendere lo sguardo e l’attenzione per superare quel labile confine che c’è fra la vista e la visione, fra l’osservazione e l’immaginazione, oscillare fra presente, sogno e memoria.

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Marco Steiner e Riccardo Capoferro

In fondo questo tipo di atteggiamento è un ulteriore prolungamento del viaggio: il movimento fisico ci ha condotti in un luogo, il movimento mentale ci aiuterà a superare i confini del tempo e dello spazio portandoci in una dimensione diversa, una dimensione perfetta per raccontare e inventare oppure per fare come fa certe volte Corto Maltese, fermarci in una veranda a guardare il mare per gustare semplicemente il nulla o i racconti del vento fra le palme.

Se dovessi tracciare una costellazione di autori che maggiormente ti hanno influenzato e continuano ad aprire porte nella tua scrittura, quali citeresti?

Inizio con Emilio Salgari e con Stevenson perché sono loro che hanno aperto per primi il mio immaginario, Jack London mi ha fatto iniziare i viaggi mentali con uno dei miei libri preferiti “Il vagabondo delle stelle”, Conrad mi ha portato nelle zone di confine fra luce e ombra con “Cuore di Tenebra”, poi sono arrivati i sudamericani: Coloane, Soriano, Arlt e Borges. Ho già parlato del mondo dei vagabondi di John Steinbeck e dell’asciutta ironia di Raymond Chandler, ma poi ci vuole anche la potenza di Melville e il fantastico di E. A. Poe (un altro dei miei libri in cima alla lista è il suo “Le avventure di Gordon Pym”) e poi c’è altra grande letteratura e grande scrittura da Paul Auster a Saramago, da Simenon a J.C. Izzo e Leo Malet. Sicuramente i libri di Bruce Chatwin mi hanno spinto al viaggio e “La lunga rotta” di Moitessier mi ha spinto ad amare il mare e la vela intesa come una “Lunga rotta” esistenziale. Sto dimenticando sicuramente molti altri pilastri, ma non posso non nominare un piccolo libro perfetto di Haniel Long, “La meravigliosa avventura di Cabeza de Vaca”, lì c’è tutto.

Hai spesso avvicinato le avventure di Corto al genere letterario del Realismo Magico; cos’è che avvicina questi due mondi? Si tratta in tutti e due i casi di narrazioniatopiche, in grado cioè di spaesare e perturbare la regolarità simmetrica del reale attraverso l’inaspettato? È forse questa la cifra del nostro ‘900 letterario, intendo la sovrapposizione dell’assurdo nel convenzionale?

Mi piacciono molto le narrazioni atopiche, mi piace Calvino, Cortázar, Borges, Buzzati, Süskind, mi piacciono le sorprese, mi piace chi non scrive le solite storie, chi non segue i corsi di scrittura creativa, chi rischia inventando qualcosa senza seguire schemi usurati e ripetitivi, chi incita al sogno, chi non vuole inventare un ennesimo detective o commissario dal fiuto infallibile, mi piacciono dischi come “Atom Hearth Mother” dei Pink Floyd e l’assolo di batteria infinito di “Moby Dick” dei Led Zeppelin. Mi piace Leopardi che immagina l’Infinito dietro a una siepe e i film di Iñárritu, mi piace la chitarra di Ry Cooder con le sue note che vogliono perdersi verso un fantomatico “Paris Texas” senza curarsi se si perderanno in un deserto. Ma non voglio dare una risposta dotta a questa domanda e allora faccio un esempio:

Viaggio nell'eredità di Corto Maltese: intervista a Marco Steiner
Corto Maltese

Un giorno a Buenos Aires vicino a una stazione ferroviaria periferica ho visto un gruppo di ragazzi che stavano per iniziare a suonare, erano giovani, piuttosto stravaganti, pieni di anelli, tatuaggi, capelli rasta, dread, borchie, braccialetti di pelle e catene. Mi sono seduto in disparte e ho aspettato il primo pezzo, è uscito fuori un sorprendente “The days of wine and roses” un vecchio e romantico brano scritto da Harry Mancini negli anni ’60 e suonato da molti grandi autori fra i quali Dexter Gordon a cui s’ispirava sicuramente il bravissimo sassofonista, sono rimasto ad ascoltarli incantato. Poi sono salito sul treno, che fra l’altro era il Tren de la Costaquello che prendeva Hugo Pratt per andare a San Isidro dove viveva e giocava a rugby (fra l’altro il treno che passa anche per una stazione che si chiama Borges), e su quel treno c’era un venditore ambulante che non vendeva merendine, biglietti delle lotteria, penne o giocattoli inutili, no, lui vendeva lenti d’ingrandimento di vetro “per vedere meglio la vita”, diceva proprio così. Questo per me è incontrare qualcosa di diverso, qualcosa che “spaesa” e fa guardare le cose con occhi diversi e un mezzo sorriso sulla bocca, qualcosa che porta lontano, dove?

Verso il mondo della pura fantasia.

Per concludere, ad un narratore credo che la miglior richiesta che si possa fare, rispettando in pieno la sua natura, sia quella di farsi narrare un qualcosa di nuovo; hai qualche aneddoto in particolare che vorresti narrarci, magari dei tuoi viaggi sugli itinerari di Corto?

Hugo Pratt ha disegnato un ponte, un bellissimo piccolo ponte di pietre e ha anche specificato dov’era: Sligo, the musical bridge, in Bellacorick Cross Molina.

E poi ha aggiunto che quel ponte portava in un mondo magico e bellissimo.

Era un esplicito invito a cercare.

Di solito con Marco D’Anna non abbiamo mai cercato i veri luoghi disegnati nelle storie di Corto; lui con le foto, io con i miei testi cercavamo sempre la suggestione, mai la documentazione precisa, ma in questo caso la curiosità era troppo forte.

Non è difficile andare in Irlanda e trovare la tomba di Yeats, l’isola di Innisfree, le colline di Tara e Newgrange, ma non è facile trovare il ponte musicale di Sligo disegnato da Pratt.

Alla fine ce l’abbiamo fatta.

Il ponte è sulla strada che da Bellacorick va verso Bangor e attraversa il fiume Owenmore.

C’era molto vento quel giorno, abbiamo camminato, da una parte e dall’altra del ponte, abbiamo superato un filo spinato per guardarlo dal basso, per sentire qualcosa, un rumore, un suono speciale, ma niente. Si sentiva il sibilo del vento che spirava fra le quattro campate, lo sbattere dell’acqua fra sassi e pilastri scuri, lo stormire dei rami dei pini sulla fiancata del ponte…insomma, c’erano solo rumori, suoni, fascino, ma non si poteva certo definirla musica, perché allora quel nome: “The Musical Bridge”?

Ce ne siamo andati per guardare dalla distanza, per cercare un’angolazione diversa, per vedere un’altra immagine e in quel momento abbiamo visto una ragazza che passeggiava sul ponte, sembrava arrivata dal nulla. Andava e veniva. Da una parte e dall’altra. Aveva il passo di chi cerca qualcosa. Ci siamo avvicinati. Non volevamo disturbarla, ma alla fine ho chiesto se sapeva qualcosa di quel ponte.

  • Perché lo chiedi proprio a me?
  • Perché sei una ragazza irlandese. – Azzardai, ma la sentivo distante, a disagio.
  • Io vivo a Londra.

Aveva una faccia davvero irlandese: ricci rossicci e ribelli sbucavano dalla lana marrone del suo berretto, lentiggini e fessure sospettose nascondevano i guizzi azzurri dei suoi occhi da gatta.

  • Ti chiedevo soltanto se sapessi qualche storia legata al ponte…
  • Siamo venuti solo per sapere perché si chiama Musical Bridge, non ti volevamo disturbare, scusa.

E lei sorride.

  • Dicono che se si fa scorrere una pietra sul parapetto camminando velocemente il ponte emette note musicali e diventa come una specie di xilofono.
  • Ricambiamo il sorriso.
  • Lo potresti fare per noi?
  • E’ una proposta strana…chissà cosa penserà mia nonna.
  • Indica una piccola macchina verde seminascosta dietro a un cespuglio.
  • È là in macchina.
  • Noi restiamo a distanza, facciamo solo una foto e ascoltiamo il suono.

Lei si convince e parte.

E’ stato incredibile.

Quella sconosciuta banshee irlandese imbacuccata nel suo piumino azzurro, camminava spedita, faceva scorrere una pietra piatta lungo il parapetto irregolare del ponte e, invece di stridere, le pietre sprigionavano una magica e inattesa melodia di campanelle che veniva da uno strano mondo fatto di fiabe e leggende.

Ci vuole pazienza per trovare quel mondo, ci vuole curiosità, costanza e spesso, una guida, apparentemente casuale. Chissà cosa avrà detto la ragazza irlandese alla nonna rimasta in macchina? Forse era proprio la nonna la fata che un tempo aveva svelato quel segreto a lei, e adesso si stavano facendo un viaggio in macchina nel mondo dei loro ricordi regalando anche a noi un granello di quella magia. Ci sono due sassi sul parapetto, uno più piatto, l’altro più grosso e pesante. Stanno lì ad aspettare chi conosce quel trucco. Il ponte suona davvero e noi stavamo per desistere e accontentarci della risposta più banale e scontata, quella del vento.

Inseguire le note correndo è una sensazione di pura felicità. È un gioco inatteso, è la liberazione di una gioia pura e semplice, quasi antica. È come quando da bambini ci si sdraiava a terra e s’iniziava a rotolare scendendo da un pendio d’erba a braccia incrociate gridando di gioia. Il parapetto del ponte ha una lunga striscia consumata. Molta gente conosce quel suono, molta gente ha ancora voglia di giocare in Irlanda. Quel disegno di Pratt non racconta solamente quel ponte, è anche un ponte fra realtà e fantasia, leggende, cultura e immagini cinematografiche.

E non solo quel ponte.

Intervista di

Claudio O. Menafra

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by in / Isole di ordinaria follia / Senza categoria / Una Storia
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Guglielmo, il fabbricatore di bussole

Guglielmo, il fabbricatore di bussole

Ho scritto un libro un po’ di tempo fa, si chiama “Isole di ordinaria follia” l’Editore è Marcianum Press, editore veneziano, che ringrazio.

ho lavorato con te grandi Amici: Marco D’Anna e Gianni Berengo Gardin,

fotografi e sognatori di un mondo migliore

e con Antonio Dragonettto psicoterapeuta e Guida di questo libro.

è una viaggio libero fra le schede di un ex-manicomio, quello di San Servolo, a Venezia.

Non voglio aggiungere altro, questa è una delle storie…

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