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La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

Tammy è americana, viene dall’Ohio, segue un progetto naturalistico, studia le Spider Monkeys, è qui da un anno, è sola, vive nella riserva naturale di Brownsberg nel Suriname, la Guyana olandese. Sylva è una guida turistica, ma è anche un’analista chimica e biologa, è nata a Paramaribo, ma i suoi antenati venivano dal Pakistan. Sono due ragazze che amano la foresta, stanno bene qui e non hanno bisogno di troppe comodità, studiano le scimmie e i cambiamenti della natura del parco. A loro servono poche cose, un buon paio di stivali, un binocolo, una cerata, una macchina fotografica, una borraccia d’acqua. Camminare con loro è una continua scoperta, ogni seme a terra ha un significato particolare, ogni pianta ha il suo nome corretto, i fiori sono punti di riferimento nel sentiero. Sanno guardarsi intorno, ascoltano i rumori, riconoscono i piccoli segnali della foresta, la rispettano, per questo non la temono. Hanno paura soltanto dei bracconieri e delle loro trappole per uccidere i cervi, le scimmie, il giaguaro.

Il sentiero scende ripido e viscido verso la valle delle scimmie, non c’è sottobosco, solo centinaia di alberi di specie differenti, le chiome, altissime, s’intrecciano e creano un soffitto verde e compatto, il cielo non c’è, il sole non filtra, forse splende, forse piove, non si riesce a capire. Le piante tendono i rami per raccogliere la luce lassù in alto, qui in basso conficcano le radici a fondo per abbracciare la terra e assorbire le sue umide essenze.

I rumori della selva s’intrecciano come lontani richiami.

Gli uccelli cominciano a comunicare la nostra posizione, poi sembra di sentire una prolungata scossa elettrica, sono le ali di cicale giganti, ad un certo punto sembra di sentire il vento che s’incanala in una gola di pietre, è l’agghiacciante grido delle scimmie urlatrici, Tammy dice che mangiano solo foglie, per questo sono pigre e indolenti, si muovono poco e hanno un metabolismo e una digestione molto lenti. Se ne stanno in gruppo, sedute, e con la loro laringe grande quanto un’arancia emettono in continuazione il loro lugubre suono per tenere lontani i nemici.

Una farfalla blu attraversa il sentiero, segue un suo armonico e imprevedibile percorso, ma le leggende dei popoli della selva dicono che le Blue Morpho possono farci perdere la strada, possono portare in un altro mondo, un mondo di sogni perduti.

Il Ficus strangolatore inizia a scendere dal ramo di un albero come fosse un’innocua liana, raggiunge lentamente il suolo e assimila nutrimento dalla terra e dal suo ospite, fino a diventare sempre più grossa, sempre più forte, fino a trasformare il suo abbraccio in una simbiosi mortale, dove la morte di una creatura consente la vita ad un’altra più forte, dove la violenza è consentita perché conduce all’equilibrio della natura, dove il caos apparente è sintesi magistrale. Dove i cicli si succedono con regolarità e l’anidride carbonica del buio alimenta il verde e l’ossigeno della vita. Perfino l’anophele s’inserisce e rispetta questo ciclo e riduce l’eccesso di popolazione nei luoghi dove la vita dell’uomo potrebbe disturbare quel delicato equilibrio.

C’è un’altra strana liana che scende da un gigantesco albero sacro, è un Kankantri,  o albero Kapok, il gigante della foresta, un colosso di 40 metri che s’innalza sulle grosse radici triangolari come fossero ali di sostegno. Nelle notti di vento e tempesta gli spiriti si riparano qui e ricevono le offerte di chi li rispetta o scagliano rami e pietre addosso a chi osa profanare la loro casa. La grossa liana si attorciglia in mille spirali, si sdoppia e si spezzetta come fosse una scala a chiocciola, una primordiale catena di un Dna vegetale.

E’ la scala delle tartarughe.

In un tempo molto lontano le scimmie organizzarono una grandissima festa in cui tutti gli animali erano invitati. Ovviamente la festa si svolgeva nell’ambiente naturale delle scimmie, in cima agli alberi. Gli animali salirono tutti, ma la tartaruga non sarebbe mai riuscita ad arrampicarsi in linea retta sulla liana, così prese a torcerla, lentamente, molto lentamente e, mentre la ripiegava ne ricavava piccoli gradini per non scivolare.

Alla fine, anche la tartaruga riuscì a salire in cima all’albero, ma anche se lo spettacolo della foresta la lasciò senza parole, fu molto dispiaciuta perché la festa era già finita da un pezzo. Così, da quel giorno, quel tipo di liana nacque sempre così, pronta per le prossime feste, pronta per le tartarughe.

Però bisogna fare attenzione, dicono che di notte, sulla Turtle ladder ci dorma il giaguaro.

I disegni presenti in questo articolo sono di Giorgia Oldano

http://www.giorgiaoldano.com/

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Aran Islands

Aran Islands

Inishmóre. Isole Aran, il cuore celtico d’Irlanda.

Sono le 8 del mattino, tutto è buio, grigio, freddo. Il mondo sembra deserto, assopito. Anche il sole è in ritardo. I chilometri scorrono sotto le ruote in silenzio, nessuno in giro, solo qualche pecora seduta sull’asfalto. Il prato è troppo umido e freddo anche per loro.

Il traghetto è semivuoto, ci sono solo una ventina di persone a bordo, compreso l’equipaggio. Uomini taciturni.

Giubbotti macchiati d’olio dei tecnici che fanno girare le caldaie. Giubbotti scuri in Goretex dei fotografi di pietre, tombe e uccelli. Capelli corti, barbe arricciate, basette tozze e rossicce. Tanti occhi socchiusi a smaltire le ultime Guinness.

Uscendo dal porto di Rossaveel uno stormo di gabbiani ci segue. Il mare è d’acciaio, la costa è bruna e marrone, i picchi luccicano, spolverati di bianco, le isole sono tre strisce sottili di blu.

La quarta oggi non c’è.

Dún Aengus è un anfiteatro semicircolare di pietre incastrate e impilate a secco con l’apertura rivolta verso l’Atlantico, l’Occidente. Il mare è là sotto, duro e caparbio come un ariete che picchia contro un muro da abbattere. Sono secoli che cerca di rosicchiare quell’immensa scogliera che osa ergersi impavida a sfidare la sua forza, ma si sbuccia le corna.

L’onda rimbomba nel silenzio come un tuono lontano, come un rullo di tamburi.

Al centro del semicerchio c’è un altare di pietre scure come il cielo.

Intorno, un prato d’erba chiara che s’inchina alla potenza del vento.

Piega la testa, disegna onde verdi, morbide, tranquille.

Dietro al muro c’è il resto dell’isola, separata da un’infinita distesa di pietre appuntite, conficcate a terra e incrociate come “cavalli di frisia” a sbarrare il passo a chissà quale invasore.

Lo chiamano il Forte, perché “Dun” in gaelico significa “Fortezza”, alcuni storici dicono che era una costruzione di difesa, in effetti non è difficile immaginare in quel semicerchio una riunione di druidi e, in mezzo all’altare, il gran sacerdote alto e barbuto che invoca la potenza del sole, o della luna, un lugubre antico lamento si disperde nel vento.

Forse anche il resto del semicerchio di pietre è scivolato in mare come la quarta isola e allora anche Dún Aengus è una specie di Stonehenge che rappresenta la “Ruota della vita”, la primordiale Dea Madre che si cela in ogni pietra che ha segnato la storia.

Il muro di pietre scure è quasi caldo, protegge dal vento, aiuta a guardare il flusso del mare, a seguire lo spettacolo del vento che scompiglia le nuvole.

All’improvviso si apre una breccia in quel grigio sipario, un fascio di sole innalza una lama fredda di luce dall’acciaio del mare.

In due ore il vento spazza ogni cosa, l’azzurro del cielo scaturisce dall’acqua riflessi turchesi e verdi come alghe che invadono il nero.

Un ragazzo entra nell’anfiteatro con passo elastico e sportivo. Jeans e giaccone nero di panno aperto al vento gelido. Una faccia irlandese, squadrata, sembra un attore che reciti un ruolo preciso. Va dritto e deciso verso il bordo dello strapiombo, senza il minimo timore si mette a cavallo dell’ultimo trampolino di pietra.

Sotto di lui, a un centinaio di metri, le onde continuano a sbattere la roccia in un ribollire rabbioso.

Sembra un giovane Corto Maltese in carne e ossa e se ne sta seduto lì, a fissare l’Occidente, a ricordare il suo sogno di Oberon e Puck, guarda il rimorchiatore che dirige a tutta forza contro il sottomarino tedesco con Mago Merlino e Morgana in questa Stonhenge selvaggia e reale.

Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è. Infinito”. (William Blake – “The Marriage of Heaven and hell”)

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La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

Tammy è americana, viene dall’Ohio, segue un progetto naturalistico, studia le Spider Monkeys, è qui da un anno, è sola, vive nella riserva naturale di Brownsberg nel Suriname, la Guyana olandese. Sylva è una guida turistica, ma è anche un’analista chimica e biologa, è nata a Paramaribo, ma i suoi antenati venivano dal Pakistan. Sono due ragazze che amano la foresta, stanno bene qui e non hanno bisogno di troppe comodità, studiano le scimmie e i cambiamenti della natura del parco. Hanno bisogne di poche cose, un buon paio di stivali, un binocolo, una cerata, una macchina fotografica, una borraccia per l’acqua. Camminare con loro è una continua scoperta, ogni seme per terra ha un suo significato, ogni pianta ha il suo nome corretto, i fiori sono punti di riferimento nel sentiero. Sanno guardarsi intorno, ascoltare i rumori, riconoscere i piccoli segnali della foresta, la rispettano, per questo non la temono. Hanno paura soltanto dei bracconieri e delle loro trappole per uccidere i cervi, le scimmie, il giaguaro.

Il sentiero scende ripido e viscido verso la valle delle scimmie, non c’è sottobosco, solo centinaia di alberi di specie differenti, le chiome, altissime, s’intrecciano e creano un verde e compatto soffitto, il cielo non c’è, il sole non filtra, forse splende, forse piove, non si riesce a capire. Le piante protendono i rami per raccogliere la luce là in alto, qui in basso conficcano radici per abbracciare la terra e raccogliere le sue umide essenze.

I rumori della selva s’intrecciano come lontani richiami. Gli uccelli cominciano a comunicare la nostra posizione, poi sembra di sentire una prolungata scossa elettrica, ma sono le ali di cicale giganti, ad un certo punto sembra di sentire il vento che s’incanala in una gola di pietre, ed è l’agghiacciante grido delle scimmie urlatrici, Tammy dice che mangiano solo foglie, per questo sono pigre e indolenti, si muovono poco e hanno un metabolismo e una digestione molto lenti. Se ne stanno in gruppo, sedute, e con la loro laringe grande quanto un’arancia emettono in continuazione il loro lugubre suono per tenere lontani i nemici.

Una farfalla blu attraversa il sentiero, segue un suo armonico e imprevedibile percorso, ma le leggende dei popoli della selva dicono che le Blue Morpho possono farci perdere la strada, possono portare in un altro mondo, un mondo di sogni perduti.

Il Ficus strangolatore inizia a scendere dal ramo di un albero come fosse un’innocua liana, raggiunge lentamente il suolo e assimila nutrimento dalla terra e dal suo ospite, fino a diventare sempre più grossa, sempre più forte, fino a trasformare il suo abbraccio in una simbiosi mortale, dove la morte di una creatura consente la vita ad un’altra più forte, dove la violenza è consentita perché conduce all’equilibrio della natura, dove il caos apparente è sintesi magistrale. Dove i cicli si succedono con regolarità e l’anidride carbonica del buio alimenta il verde e l’ossigeno della vita. Perfino l’anophele s’inserisce e rispetta questo ciclo e riduce l’eccesso di popolazione nei luoghi dove la vita dell’uomo potrebbe disturbare quel delicato equilibrio.

C’è un’altra strana liana che scende da un gigantesco albero sacro, è un Kankantri,  o albero Kapok, il gigante della foresta, un colosso di 40 metri che s’innalza sulle grosse radici triangolari come fossero ali di sostegno. Nelle notti di vento e tempesta gli spiriti si riparano qui e ricevono le offerte di chi li rispetta o scagliano rami e pietre addosso a chi osa profanare la loro casa. La grossa liana si attorciglia in mille spirali, si sdoppia e si spezzetta come fosse una scala a chiocciola, una primordiale catena di un Dna vegetale. E’la scala delle tartarughe.

In un tempo molto lontano le scimmie organizzarono una grandissima festa in cui tutti gli animali erano invitati. Ovviamente la festa si svolgeva nell’ambiente naturale delle scimmie, in cima agli alberi. Gli animali salirono tutti, ma la tartaruga non sarebbe mai riuscita ad arrampicarsi in linea retta sulla liana, così prese a torcerla, lentamente, molto lentamente e, mentre la ripiegava ne ricavava dei piccoli gradini per non scivolare. Alla fine, anche la tartaruga riuscì a salire in cima all’albero, ma anche se lo spettacolo della foresta la lasciò senza parole, fu molto dispiaciuta perché la festa era già finita da un pezzo. Così, da quel giorno, quel tipo di liana nacque sempre così, pronta per le prossime feste, pronta per le tartarughe. Però bisogna fare attenzione, dicono che di notte, sulla Turtle ladder ci dorma il giaguaro.

Abissi di sogni diversi

Prima della conquista portoghese, l’Amazzonia brasiliana contava otto milioni di Indios in completa armonia con la selva, oggi ne sono rimasti solo duecentomila. La nostra civiltà ha un continuo bisogno di materie prime e per cinquecento anni i conquistatori hanno cercato di carpirne tesori d’oro e smeraldi, gli affaristi hanno spianato foreste e costruito città per estrarre il petrolio dal suolo, il lattice o la cellulosa dagli alberi, hanno smosso montagne di terra per estrarre ferro e bauxite. Scavare, estrarre, raffinare, sfruttare, ma anche convertire, educare, sono tutti verbi che fanno parte di un sogno: conquistare, materialmente o spiritualmente. Per fortuna, nella storia di queste conquiste c’è stato anche qualcuno che è partito con un atteggiamento diverso, o che lungo la strada ha imparato il rispetto e la disponibilità, qualcuno che, spinto da curiosità e disponibilità, ha imparato a guardare, ascoltare, sognare.

Alvar Núñez Cabeza de Vaca era partito nel 1528 come tesoriere della spedizione di Pánfilo de Narváez, un novello Cortés privo del magnetismo del capo e della determinazione del conquistatore, era solo un grasso e presuntuoso comandante credulone carico di smanie di ricchezza e di potere. Il suo obiettivo era una città tutta d’oro da cercare in un luogo indistinto fra le foreste e le lagune della Florida e i deserti del Nuovo Messico. L’esito fu il disastro completo di un’intera spedizione che portò invece un pugno di uomini a provare il potere e la generosità di Madre Natura e a scoprire la vera forza dell’uomo.

L’avventura di Cabeza de Vaca è un percorso di progressive privazioni durato otto anni. Dei 578 gentiluomini spagnoli carichi di corazze e certezze, rimasero quattro scheletri derelitti che vagarono in terre desolate spogliati di tutto. Avevano visto uomini tuffarsi in mare perché resi pazzi dalla sete, implorare l’aiuto delle loro madri e poi gonfiarsi e morire, avevano visto soldati rosicchiare i cadaveri dei loro compagni e avevano pianto implorando la clemenza della natura. Indios implacabili li avevano decimati con frecce avvelenate, altri indios dalla pelle di rame li avevano derisi e trattati come bestie da soma, spogliandoli delle loro ultime certezze e speranze di uomini europei. Proprio a quel punto, nell’estremo abisso dell’annullamento, quegli ultimi uomini nudi e senza speranze avevano trovato una nuova forza, il vero potere, quello di riuscire a guarire altri uomini. Si trasformarono in sciamani in mezzo a quei selvaggi, guaritori carichi di energia proprio quando pensavano di aver perso ogni fibra di umanità. La loro vera e unica ricchezza era proprio quella forza essenziale che la natura aveva rivelato loro solo dopo un progressivo e terribile percorso di spoliazione, una forza che arrivava senza nessun segno, come il vento o la pioggia.

Insegnerò al mondo il modo di conquistare con la dolcezza, non con le stragi” (Alvar Núñez Cabeza de Vaca).

A quel punto in quegli uomini, la vita si moltiplicava in conseguenza degli sforzi e delle cure donate agli altri. Anche questa fu una grande, silenziosa conquista.

Estanislao Pryiemski era un tranquillo agronomo di Varsavia, era arrivato in Amazzonia negli anni ‘60 e aveva iniziato una classica storia di ricerca di denaro e di conquista. Aveva provato a fare soldi con la pelle dei coccodrilli, con le noci di cocco, con strane bacche afrodisiache, o con pesci che divoravano uova di zanzara. Poi, un giorno, decise di abbandonare la ricerca degli affari e s’incamminò verso la strada di un sogno: voleva registrare il suono della foresta.

Ci provò per vent’anni, nel Pantanal amazzonico, una delle regioni più inospitali del mondo, inondata per sei mesi all’anno dalle acque dei fiumi che l’attraversano, infestata da zanzare, serpenti d’acqua e caimani. Il professore polacco si armò di microfoni e imbuti sempre più grandi, voleva cablare i rami degli alberi e le acque, voleva raccontare la poesia di quei suoni, voleva raggiungere un sogno troppo lontano per essere descritto. Morì nel 1983 nel lebbrosario di Campo Grande, fuori dal cimitero dei conquistatori, ma ben dentro alle delicate e, a volte, incomprensibili righe dei poeti. “I lombrichi fanno respirare la terra come i poeti fanno respirare le parole”. (Estanislao Pryiemski, Le voci del Pantanal).

Un giorno, il sogno assurdo di un poeta può trasformarsi in una magnifica realtà, i sogni assurdi di conquista portano solo macerie e solitudine.

 

Marco Steiner, Union Island, 3 aprile 2009.

 

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Il falco e il piccione

Il falco e il piccione

Il falco e il piccione

 Sono stato cresciuto non solo da genitori e da maestri, ma anche da potenze più remote, nascoste e misteriose, tra le quali anche dal dio Pan che stava, in sembianza di piccolo idolo indiano danzante, dietro il vetro nella libreria di mio nonno. Questa divinità, ed altre ancora, si sono prese cura della mia infanzia, e ancora prima che sapessi leggere e scrivere, mi hanno riempito di immagini e di pensieri d’oriente, antichissimi…

(H. Hesse, L’infanzia del piccolo mago. Stampa Alternativa 1996)

In tempi antichissimi, in India, viveva Indra, il dio del cielo che governava il bello e il cattivo tempo. Egli aveva molto a cuore la vita e le azioni di tutti gli esseri viventi, quando scorgeva un pensiero, un’azione o un gesto d’amore e generosità il suo cuore s’allietava e dispensava quella regione con il suo cielo più limpido e i raggi di sole più tiepidi, ma quando vedeva l’ipocrisia o la malvagità scatenava i suoi venti più violenti, tempeste, cicloni, terremoti.

In un giorno di tristezza, un giorno in cui non riusciva a notare neanche un piccolo gesto di giustizia e saggezza convocò il dio Visvakarma e questi gli raccontò che aveva sentito parlare di un re, Sibi, che governava il suo regno con la massima giustizia e comprensione per tutti.

Sibi viveva modestamente perché non voleva avere nulla di più dei suoi sudditi e ricercava continuamente l’equilibrio e la serenità di tutti gli esseri viventi che popolavano il suo regno.

Indra si trasformò in falco e Visvakarma in piccione e andarono a trovarlo.

Scesero veloci dal cielo e il piccione inseguito dal falco si rifugiò sotto al trono di Sibi.

Il falco, fra lo stupore della gente riunita in udienza, chiese al re:

  • O re dammi quel piccione perché è la mia preda.
  • Questo piccione pieno di paura si è rifugiato sotto al mio trono perché io lo proteggessi. – disse il re – Io sono il re Sibi e da molto tempo ho deciso di sostenere la vita di tutti gli esseri viventi a costo della mia stessa vita.
  • O re, quel piccione sarà il cibo per me e per i miei piccoli.
  • E non hai altro cibo per sostenere la tua vita, falco?
  • No, io mi nutro di carne e di sangue.
  • La mia carne sarebbe un buon cibo per te?
  • Certo, se mi darai la stessa quantità di carne, lascerò volare via libero il piccione.

Il re chiese a un servitore di portare una bilancia e un coltello affilato, si denudò la coscia e chiese al servo di tagliare un pezzo della sua carne, ma il servo balbettando si rifiutò di fare del male al suo signore così buono e giusto. Sibi allora si tagliò da solo un pezzo di carne e la mise sulla bilancia, ma il piccione, sull’altro piatto, pesava di più.

Il falco gli disse:

  • Dammi il piccione, o re, e io volerò via contento, tu hai sofferto abbastanza e hai dimostrato la tua grandezza e benevolenza.
  • Ormai ho deciso e il mio dolore é inferiore alla gioia di aver salvato una vita.

Sibi si tagliò un altro pezzo di carne, ma il piccione pesava sempre di più, il re continuò ad aggiungere la sua carne fino a quando arrivò all’osso, ma la bilancia non si muoveva. All’improvviso comprese che il valore di una vita poteva essere eguagliato soltanto da un’altra vita.

Allora salì lui stesso sulla bilancia e questa si allineò in un perfetto equilibrio.

In quel momento la terra tremò e il falco ritornò Indra e il piccione fu il dio Visvakarma, s’inchinarono di fronte a Sibi, il futuro Budda, e gli donarono all’istante un corpo nuovo e meraviglioso.

 

(Questa favola è tratta dal Sutralankara di Asvagosha e dalla rielaborazione di Giulio Maria Rampelli).

L’immagine in evidenza è di Sergio Toppi

 

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Tropical Islander

Tropical Islander

Tropical Islander

La Tropical Islander, è la mia nave, è una grossa nave dallo scafo nero. E’ fredda e piena di scatole metalliche di ogni colore. E’ una portacontainer della New Guinea Pacific Line. Siamo partiti da Hong Kong il 28 aprile e dovremmo arrivare ad Apia il 14 giugno, abbiamo toccato i porti di Kobe, Yokohama, Tarawa, Nomea, poi ci hanno bloccati al largo del porto di Lautoka, nelle Fiji. L’ordine l’ha dato un ufficiale medico, il dottor Tarid Ali. Doveva essere un semplice controllo sanitario, ma a bordo hanno trovato tre tipi d’insetti strani, dovranno analizzarli e ci hanno messi in quarantena.

Siamo bloccati, a tre miglia dal porto di Apia, Upolu, la mia isola, se non riusciremo a partire al più presto, diventerò pazzo.

Il mio nome é Niuu, sono originario di Matautu, un villaggio di pescatori sulla costa meridionale. L’anno scorso, all’alba del 29 settembre, una data che non dimenticherò mai, lo tsunami investì l’isola, proprio da quel lato e con quattro onde più alte delle palme, mi portò via tutto, mia figlia di dodici anni, mio padre e mia madre, la mia casa, la mia moto e il mio cavallo, elencati nell’ordine d’importanza.

Mi ero svegliato di colpo, avevo sentito uno strano rumore, sembrava un ruggito nella terra, poi ci fu solo silenzio, un grande silenzio senza un alito di vento rotto solo dal richiamo di un uccello, poi arrivò il mare, quattro schiaffi di fango gelido, sembrava che tutto dovesse finire.

Rimasi attaccato al tronco di una palma, lei era riuscita a resistere, era elastica, leggera e io mi trovavo per caso lì.

Le altre, con le loro radici infilate nella sabbia e i tronchi spezzati, sembravano tristi ballerine su di un palco senza musica.

Ero un uomo felice, quasi benestante, da quel momento in poi, non ho avuto più niente.

Mi sono rimaste tre tombe, una moglie infelice, il ricordo della mia Fale e dieci palme spezzate, come la mia vita.

Fu così che accettai l’ingaggio del comandante giapponese su questa nave nera come la notte.

Mi ha venduto un container per 500 dollari di Samoa, pochi spiccioli, ma per le carte di navigazione quel container blu sarebbe stato mio durante i viaggi, lui non aveva responsabilità di quello che c’era là dentro.

Le autorità portuali fanno controlli a campione oppure guardano le provenienze, le destinazioni e il tipo di merci trasportate, quando c’è qualche dato sospetto controllano.

Nel porto di Hong Kong non ci sono più barche, ma un’impressionante distesa di container di tutti i colori, la prima volta che l’ho vista mi sembrava un’immensa città, o il disegno di un bambino. Non ho mai capito come facciano quelle braccia meccaniche a scegliere il cubo giusto e a caricarlo sulla nave giusta, ma in fondo, la cosa non mi ha mai interessato troppo. A me bastava sapere che il mio container blu viaggiasse sempre con me e che nessuno mi chiedesse di aprirlo per sapere cosa c’era dentro. Ho fatto tre viaggi da Hong Kong al Giappone e ogni volta ho infilato un sacchetto di coca in mezzo ai tonni congelati, oppure fra i materiali da costruzione, questo era il mio lavoro, ma facevo finta di fare il marinaio.

Al terzo viaggio, questo, il mio incarico si sarebbe dovuto concludere, il container tornava al comandante e io mi sarei preso il mio premio, 30.000 dollari americani. Con quei soldi avrei ricostruito tutto, mi sarei ricomprato una moto e un cavallo, avrei pregato per mia figlia e per i miei antenati, avrei costruito una tomba nella veranda della mia nuova casa, l’avrei rifatta sopra al pavimento di quella che le onde avevano portato via. Mi bastava un piccolo muro per il perimetro, un po’ di colonne azzurre, un tetto. Qui ad Apia, le nostre case sono fatte così, bastano tende leggere, non servono muri, porte, finestre, chiavi, basta un tetto per ripararci dalla pioggia.

L’aria, il vento e gli amici possono sempre entrare.

Con i quei soldi sporchi avrei rifatto tutto, volevo provare a ricominciare.

La Tropical Islander adesso è bloccata, per una stupida ispezione medica e per tre stupidi insetti di cui non saprò mai il nome.

Sono qui, sono sudato e ho il cuore che batte come un tamburo.

Ho il corpo quasi completamente tatuato, perché sono un uomo di rispetto, almeno secondo le nostre tradizioni, ma non sono contento di quello che ho fatto, e se mi dovessero scoprire vorrei strapparmi questa pelle di dosso.

Un ragazzo, per guadagnarsi il diritto al tatuaggio deve dimostrare il valore, e per farlo, deve superare tre prove: il mare, la terra, la famiglia.

Con la fiocina ho dimostrato di saper pescare, con la vanga, di saper coltivare la terra e di saper far crescere e mantenere la famiglia, per questo ho avuto il diritto di ricevere il tatuaggio.

Non sapevo quale disegno il Maestro avrebbe scelto per me, lui l’avrebbe sentito, senza parole, e avrebbe iniziato, senza uno schema.

Ho sofferto tutti i giorni, per quattr’ore filate, per una settimana, forse di più, ma in quei momenti il tempo sparisce.

Quel martelletto picchiava con la punta irta di aghi, sottili come spine che s’infilavano nella mia pelle e quel rumore mi si era infilato in testa come un chiodo, migliaia di chiodi.

Non riuscivo a dormire perché continuavo a sentire quel rumore costante, però avevo voglia di svegliarmi per sdraiarmi di nuovo e ascoltarlo ancora, avevo voglia di finire.

Oggi sono qui, aspetto il mio destino a braccia incrociate, guardo i miei muscoli e i segni che mi ricoprono il corpo, ma non ho più l’orgoglio, vorrei graffiarmi di dosso questi segni con tutta la pelle e la mia anima ferita. Con quei soldi, forse, riuscirò a ricostruirmi una casa, a ricomprarmi la moto, il cavallo, ma non mi ridaranno il rispetto.

Ripenso al Pacifico, il mio mare infinito, il mare che parla col cielo.

Mi ha dato tutto, ha il diritto di riprendersi ogni cosa.

Se avrò la fortuna di ritornare senza essermi lasciato sporcare da questa nave nera, dimenticherò e andrò avanti.

Ricostruirò la mia canoa e tornerò a pescare, perché quando sono solo in mezzo al mare, non importa se piove o c’è il sole, mi bastano le stelle di una notte profumata, il vento e le onde che mi vogliono portare via con loro.

Forse dovevo perdere tutto per capire quanto ero ricco.

Upolu è la mia isola del tesoro e questi bastardi con i loro soldi non riusciranno a cambiarmi.

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Un viaggio quasi impossibile nel mondo perduto di Mü

Un viaggio quasi impossibile nel mondo perduto di Mü

Nuvole e scale infinite

E quando le risposte non soddisfano le domande? ( Levi Colombia )

Si dovrebbe rivisitare l’intuizione ( Corto Maltese )

Il volo Air France AF447 è scomparso nella notte fra il 31 maggio e l’alba del 1 giugno 2009 nell’Oceano Atlantico al largo delle coste brasiliane. E’ sparito dai segnali radar all’improvviso, dopo aver rilevato guasti elettrici, ma nessuna effettiva emergenza o richiesta d’aiuto. La macchina della ricerca francese e brasiliana si sono mosse immediatamente e le acque al largo dell’isola di Fernando de Noronha hanno cominciato a restituire maschere d’ossigeno, pezzi dei sedili, alcuni corpi. E’ stato un incidente, difficile da spiegare al momento attuale, ma quando e se verrà ritrovata la scatola nera si potrà comprendere il vero motivo o la concatenazione di cause della tragedia. Pensare che nel 1931, proprio da queste parti, dalle profondità dell’Oceano, emersero misteriosamente due isole e la Gran Bretagna ne reclamò immediatamente il possesso contro il parere del Brasile e di altri paesi sudamericani, ma le dispute diplomatiche si risolsero in breve tempo, in maniera del tutto “naturale”, perché prima di qualunque tentativo di accordo, le due isole che erano scaturite al largo di Fernando de Noronha, scomparvero altrettanto misteriosamente nell’Oceano.

Il 2 luglio del 1937 spariva il bimotore Lockheed Electra pilotato da Amelia Earhart, doveva arrivare a Howland Island, un’isoletta nel Pacifico, il punto di arrivo di un giro del mondo di 29.000 miglia. Pochi minuti prima di perdere i contatti, Amelia aveva lanciato un angosciato appello alla nave che doveva farle da ponte radio, avrebbe dovuto essere nei pressi della destinazione, ma non riusciva a vedere nulla e stava rapidamente esaurendo il carburante. Poi non ci fu più niente, solo silenzio. Amelia era un mito dell’aviazione statunitense, nel giugno del 1928 era stata la prima donna ad attraversare l’Atlantico senza scalo sul Fokker F7 pilotato da Stulz e Gordon. All’inizio del 1932 aveva compiuto la sua trasvolata atlantica in solitaria da Terranova al Galles in meno di 15 ore, in agosto aveva sorvolato tutta l’estensione degli Stati Uniti da Los Angeles a Newark, nel New Jersey. Nello stesso anno aveva attraversato il Pacifico, da Oakland in California a Honolulu nelle Hawaii. Amelia era bella, temeraria ed elegante con i suoi caschi da pilota poco tecnici, ma molto chic, stava per compiere 40 anni, era bionda e anticonformista, in qualche modo assomigliava a un altro grande trasvolatore solitario come lei, Lindbergh, per questo la chiamavano “Lady Lindy”. Per la sua ricerca il presidente Roosvelt non badò a spese, stanziò circa quattro milioni di dollari, furono inviate 20 imbarcazioni e 66 aerei per un totale di circa 3000 persone, ma Amelia scomparve nel mistero ed Eleanor Roosvelt, che avrebbe voluto imparare a volare insieme a lei, dovette rinunciare ad un’amica oltre che al suo futuro istruttore pilota.

Qualcuno sostenne che il mucchietto d’ossa umane e la scarpa numero trentanove ritrovate anni dopo a Nikumaroro, un’isoletta a nordest dell’Australia, fossero appartenute a lei. Salva dopo tante imprese e dopo l’ammaraggio, ma ironicamente finita a morire di fame come una specie di Robinson Crusoe solitario in un paradiso dimenticato. Altri insinuano che il suo aereo fosse stato potenziato con motori modificati ed equipaggiato con una sofisticata apparecchiatura fotografica. Insomma, che Amelia avrebbe spiato le postazioni giapponesi e sarebbe stata catturata e giustiziata in segreto dalle forze nipponiche che l’avevano recuperata dopo l’ammaraggio. Altri ancora sostengono che dopo la conclusione di una missione segreta fosse arrivata alle isole Marshall e da qui sarebbe rientrata sotto falso nome negli Stati Uniti dove sarebbe vissuta per molti altri anni sotto copertura.

Il 5 dicembre del 1945, una squadriglia di caccia Avengers, partiti da Fort Lauderdale per una missione d’addestramento in una zona a nord delle Isole Bahamas scomparve improvvisamente dai radar, il capo squadriglia e tutti gli altri piloti non riuscivano a comprendere la loro posizione, nelle loro ultime conversazioni radio dichiararono ripetutamente che gli strumenti sembravano impazziti, le bussole giravano come trottole, l’oceano era diventato improvvisamente bianco, non avevano più riferimenti, perfino la vicinissima costa della Florida non era più visibile, scomparsa alla vista. Eppure quel giorno le condizioni del tempo e della visibilità erano ottime. Quello stesso pomeriggio decollarono vari aerei di soccorso e fra questi c’era un grosso idrovolante Martin Mariner perfettamente equipaggiato per queste missioni di salvataggio con tredici uomini esperti a bordo. Dopo poche ore, la base aerea ricevette un annuncio dal comandante dell’idrovolante, anche loro erano in difficoltà per i forti venti che avevano trovato in quota. Non arrivò nessun’altra comunicazione e dopo una grande battuta di ricerca dei cinque caccia e del Martin Mariner da parte di centinaia di aerei, navi, e sottomarini, si dichiarò che non c’era alcuna traccia dei sei velivoli scomparsi e non c’era alcuna spiegazione logica per l’incidente. Si cominciò a parlare di mistero, di astronavi e di extraterrestri che li avrebbero prelevati dallo spazio, oppure di forze elettromagnetiche sottomarine che li avrebbero risucchiati nei fondali. Il fatto è che al largo della costa sud orientale degli Stati Uniti c’è una zona triangolare che si estende dalle Bermuda, fino alla Florida meridionale, alle Bahamas e a Puerto Rico, conosciuta come il Triangolo delle Bermuda, dove più di 100 aerei e navi, in maggioranza dopo il 1945 sono scomparsi nel nulla, senza lasciare una traccia o un piccolo reperto, anzi in alcuni casi, come per il veliero francese “Rosalie” nel 1840 o il brigantino tedesco “Freya” nel 1902, la imbarcazioni furono ritrovate intatte, i loro carichi perfettamente integri, ma i loro equipaggi si erano letteralmente volatilizzati nel nulla lasciando il cibo caldo nelle pentole e i coperti apparecchiati sui tavoli da pranzo, nessun segno di fuga o di colluttazione.

C’è un lungo elenco di vere sparizioni di navi ed aerei, ma le cause sono assolutamente ignote, anzi, per usare i termini corretti, i fenomeni non sono scientificamente spiegabili.

Il 26 dicembre del 2004, un’onda anomala, un muro liquido di una ventina di metri d’altezza si alzò nel bel mezzo di un Oceano Indiano letteralmente impazzito e sommerse d’acqua, detriti e fango le coste di tutti i paesi e le isole che vi si affacciano ad oriente: Indonesia, Malesia, Tailandia, Myanmar, Bangladesh, e a occidente: India, Sri Lanka e Maldive. L’Oceano si ritrasse delle spiagge di sabbie bianche come se volesse prendere una rincorsa, raccolse le sue forze immani in un lungo, terrificante, impossibile, istante sospeso e poi scatenò uno tsunami che si comportò esattamente come una valanga che precipita rotolando dalla cima di un monte: travolse e devastò tutto quello che incontrò lungo la sua strada. Interi villaggi vennero annientati, case scoperchiate come fossero scatole di cartone, foreste strappate dalla terra come esili fili d’erba di un prato, molte isole furono sommerse dai detriti e dal fango e più di trecentomila persone persero la vita. Questo evento catastrofico é stato perfettamente spiegato dalla scienza: a circa diecimila metri di profondità si è verificata una frattura sottomarina di una delle Placche che compongono il substrato profondo della crosta terrestre. La zona precisa era a circa 200 chilometri da Sumatra. In pratica, una delle zolle tettoniche orientali, la Placca indiana, era scivolata al di sotto della Placca birmana innalzandola di diversi metri, spostando ammassi enormi di terre e rocce verso est e causando un terremoto sottomarino che aveva determinato lo spostamento di un’enorme massa d’acqua libera e distruttiva che provocò il più grande disastro naturale dell’epoca moderna.

La scienza riesce a spiegare molti fenomeni, quasi tutti, anche quelli, apparentemente più misteriosi, eppure, a volte si devono formulare soltanto ipotesi, perché la dimostrazione scientifica non è sufficientemente completa, in quei momenti la fantasia prende il sopravvento e cerca di andare oltre ai dati inconfutabili, cerca di trovare uno spazio dove sconfinare perché in fondo la fantasia non vuole regole né limiti ristretti, ma a volte c’è qualcosa di più di un conflitto fra lo scientificamente dimostrabile e l’ipotesi fantasiosa, fra l’assolutamente sicuro e l’intuizione difficilmente riscontrabile. E’ il caso del Triangolo delle Bermuda, è il caso di Mu o di Atlantide o Lemuria. I continenti scomparsi.

 

La terra cava

Non riesco più a discernere qual’è la realtà e qual’è il sogno (Corto Maltese)

Sono due vite parallele perché limitarsi ad accettarne una sola? (La regina maya)

Tikal è un sito Maya immerso nelle fitte foreste del Petén, una regione settentrionale del Guatemala. Bisogna arrivarci molto presto al mattino, quando la nebbia sale dalla terra umida e avvolge la giungla che si risveglia con tutti i suoi profumi e i rumori. Le scimmie urlatrici delimitano il loro territorio con un grido lungo e cavernoso, sembra un rauco e agghiacciante vento lontano. Le cicale strofinano le ali e sembra che un cavo elettrico in corto circuito vibri nell’aria come una frusta di minuscoli anelli metallici incandescenti. L’umidità lascia la terra e avvolge le cime degli alberi che intrecciano foglie e liane, poi la foresta, a malincuore, si apre e compaiono i templi con le loro inquietanti scale di pietra perse fra il verde e le nuvole di vapore.

Il Tempio del Grande Giaguaro, il re Luna Doppio Pettine, El Mundo Perdido, l’Aguada Escondida, il Tempio dei Teschi, i nomi già affascinano, incutono soggezione, rispetto. Nella Gran Plaza i piccoli soldati guatemaltechi moderni, armati come se fossero stati catapultati qui da una zona di guerra, sembrano allegri ragazzini intenti a giocare, sorridono, si mescolano ai turisti e garantiscono la sicurezza, ma contribuiscono a generare tensione e a ricordare cerimonie sanguinarie guidate da sacerdoti che riuscivano a strappare a mani nude i cuori delle vittime destinate ad ingraziare le divinità e le stelle del cielo. L’estensione è enorme e si può camminare per decine di chilometri fino a raggiungere le zone meno frequentate e per questo ancora più coinvolgenti. Il tempio delle Iscrizioni è isolato, lontano da tutto, da quelle parti stanno ancora scavando e molte pietre sono ancora nascoste fra le radici degli alberi che si afferrano come artigli alla terra e alle rocce. Basta guardarsi intorno e restare in silenzio, quel mondo verde che cerca di nascondere e proteggere un grande passato forse è la porta per entrare in un altro mondo.

Ci si sente osservati e controllati da entità che si fingono selva.

Un brivido accappona la pelle, ma è solo un minuscolo colibrì che sfreccia ronzando intorno al suo piccolo nido col rumore di un gigantesco calabrone. Si guarda intorno, scattando e ruotando a 360 gradi e poi si cala in una pozza d’acqua con estrema attenzione. Prima di ogni tuffo si libra quasi immobile nell’aria girandosi come un periscopio di controllo, le sue ali sbattono fino a 80 colpi al secondo e il suo cuore attento pulsa 1200 volte al minuto. Il colibrì é simbolo di coraggio e ci vuole molto coraggio in quella giungla gonfia di esseri urlanti, striscianti ed alati per proteggere quella speranza di vita, per difendere quelle sue due delicatissime, minuscole uova dal guscio trasparente. Sembrano preziose gemme di madreperla.

Forse, per entrare nel regno sotterraneo del Re del Mondo, il capo supremo della misteriosa gerarchia iniziatica, bisogna entrare proprio da lì, da una delle grotte che scendono fino al Regno di Agarttha, percorrere gallerie, caverne e cunicoli che scendono nelle immense profondità della terra e collegano fra loro i continenti, mondi solo in apparenza perduti e misteriosi centri iniziatici, quelli di cui parla Saint-Yves d’Alveydre nella sua Mission de l’Inde del 1910 e Ferdinand Ossendowski nel suo Bêtes, Hommes et Dieux del 1924.

Mondi sotterranei di cui parlano anche le tradizioni induiste. La capitale, Shamballah, sarebbe in Asia, nascosta nelle profondità del deserto del Gobi. Gli ingressi a questo misterioso regno sotterraneo sarebbero sparsi in varie zone del mondo: in Egitto, in prossimità della Sfinge; ad Akakor, nel fitto della foresta Amazzonica brasiliana; ad Angkor, nella foresta cambogiana, dove esistono templi avvolti dalla foresta come a Tikal; sotto le nevi dell’Antartide o fra le montagne dell’Himalaya. Il regno di Agarttha sarebbe popolato da uomini dalla pelle chiara, dotati di grandi poteri e altissime conoscenze astronomiche e scientifiche. Uomini in grado di intuire tutti i pensieri, di conoscere i fatti che accadono sulla terra e prevedere il nostro futuro. Uomini in grado di collegarsi ed influenzare psichicamente i potenti della terra e di saper gestire e controllare l’energia Vril, che consentirebbe loro di volare, si spostare oggetti con la forza del pensiero e di leggere nella mente altrui.

In un altro sito Maya, al di là di un grande mare di foreste, cariche di foglie e scure di ombre, oltre un fiume, fra i ribelli e le montagne messicane del Chiapas, a Palenque, c’è un altro mistero, collegato col mondo sotterraneo, ma forse anche con un mondo molto più lontano. Anche a Palenque c’è un tempio delle Iscrizioni e qui c’è una pietra tombale su cui è scolpita una figura umana ritratta in una posa che ricorda un pilota in una navicella spaziale. Lo chiamano “l’astronauta di Palenque”, sembra che impugni le leve di comando di un razzo, sembra che dalla parte posteriore del velivolo escano delle fiamme e che il “pilota” respiri attraverso dei tubi. Il grande sarcofago è la tomba del grande governatore Pakal II, la rappresentazione del Dio del mais, il re-sacerdote il cui volto austero fu ritrovato coperto da una maschera di un finissimo mosaico di lastre di giada verde, conchiglia e ossidiana. Ogni dito delle mani era impreziosito da un anello di giada e sul petto aveva una decorazione con nove cerchi concentrici costituiti, ognuno, da 21 perle. In bocca c’era un grano di giada scura per comprarsi il cibo nell’aldilà, nella mano destra una perla cubica, nella sinistra una perla sferica. Simbologie e conoscenze che parlano di viaggi attraverso lontane costellazioni e porte segrete, di collegamenti fra mondi apparentemente lontani e di popoli che, pur divisi da oceani e immense distanze, conservavano inspiegabili similitudini rituali.

Mondi lontani, ma uniti da un passato comune, o da una conoscenza mediata attraverso dimenticate radici. Atlantide, celato nelle profondità dell’oceano Atlantico, Mu in quelle del Pacifico, come basi comuni di conoscenza superiore. Agarttha come ulteriore mondo sotterraneo segreto popolato da uomini alti e dalla pelle bianchissima che ricordano il leggendario re inca Viracocha, ma anche il Kukulcan dei Maya, bianco di carnagione e con barba e capelli rossi, divinità arrivata dall’Atlantico con una barca priva di remi.

Molti ne hanno parlato, ma pochissimi uomini nella Storia avrebbero avuto accesso a questo regno Sotterraneo, fra questi, la medium madame Blavatsky che ebbe accesso ad Agarttha attraverso un antico tempio nel Tibet e Dante Alighieri che avrebbe, in parte, rivelato quello che avrebbe visto romanzando tutto nella sua Divina Commedia.

Un ammiraglio americano, Richard Evelyn Byrd, nel corso di un viaggio d’esplorazione del Polo Sud nel 1947, trovò le tracce di questa civiltà ed ebbe contatto con gli abitanti di quel mondo. Byrd trascrisse un fantastico incontro nel suo diario che è attualmente conservato nel Centro di Ricerca Polare Byrd dell’Università di Stato di Columbus (Ohio. Usa). Attratto magneticamente da una forza sconosciuta insieme al suo aereo mentre stava esplorando le nevi e i ghiacci del Polo Sud, veniva guidato a motori spenti tramite una sorta di stallo pilotato. Atterrò senza toccare una leva in una verdissima valle, in una città scintillante e popolata da uomini biondi dalla pelle bianchissima. Il loro Maestro lo avrebbe ammonito sui rischi che correva l’umanità, gli aveva parlato di un futuro oscuro come una nera coltre che avrebbe distrutto una razza ormai dedita soltanto alle guerre e ai soprusi, ma gli aveva anche predetto che, dalle rovine, sarebbe emerso un nuovo mondo in cerca dei suoi lontani tesori perduti. In quel momento, dopo la distruzione e la presa di coscienza degli errori passati e delle grandi potenzialità future, il Mondo di Superficie sarebbe stato aiutato. L’ammiraglio Byrd fu interrogato ripetutamente dallo Stato Maggiore del Pentagono e fu esaminato da una commissione medica, ma alla fine tutto venne archiviato e a lui fu ordinato di tacere per il bene dell’umanità. Quegli uomini misteriosi potevano essere discendenti degli Atlantidi, forse si sarebbero potuti ricreare nuovi contatti, forse si sarebbero potuti spiegare tanti misteri, ma Byrd era un militare e obbedì agli ordini.

Cesar, oggi ha circa vent’anni, è un ragazzo guatemalteco robusto e squadrato come un pugile, un sollevatore di pesi o un lottatore, ha deltoidi e bicipiti solidi e lucidi per il sudore. Anche lui si occupa di caverne, scava grotte e cunicoli nella montagna, entra in profondità, ma non scende sottoterra, non lo fa per cercare mondi scomparsi, lui lo fa per guadagnarsi da vivere. Prima strappa le pietre dall’interno della montagna friabile, poi le spacca e le sbriciola a colpi di martello fino ad arrivare a vendere i sacchi di materiale inerte che servirà per i pavimenti delle case, o per il sottofondo delle nuove strade asfaltate. Cesar non scava per scoprire qualcosa, lo fa per guadagnare pochi quetzal. Vive a Patzùn, ma lavora tutto il giorno sulla strada che porta a San Antonio Palopò, sul mitico lago Atitlan. La galleria che ha iniziato a scavare cinque anni fa con suo padre, sarà lunga più di cinquanta metri e porta in una grande grotta circolare alta più di 4 metri. Adesso ci lavorano in tre, usano bastoni di legno ai quali sono fissati uncini ricurvi che potrebbero venire da una macelleria. Vibrano colpi alle volte e alle pareti di quell’antro scuro, staccando pezzi di roccia, sassi e terra. S’inoltrano nella montagna, allargano gli ambienti, sembrano talpe. Nella grotta ci sono centinaia di bottiglie di plastica tagliate che sostengono mozziconi di candela. Tutto intorno, una strana luce, quasi sottomarina, oscilla per la poca aria smossa dai colpi o dal soffio del vento che arriva dalla strada. L’ambiente ricorderebbe un inferno dantesco se non fosse per la musica rap che gracchia da una radiolina appoggiata ai vestiti buttati in un angolo. La grotta, i cunicoli per arrivarci, le volte, sono tutte graffiate dai profondi segni regolari degli uncini che artigliano la roccia e annerite dalle strisce di fumo delle candele. Sembrano le zampate di una belva che vorrebbe sfuggire. Se la volta della grotta cedesse anche Cesar e i suoi compagni forse potrebbero raggiungere il mondo scomparso di Agarttha.

 

Oltre

 La terra con i suoi cataclismi partecipa attivamente al gioco delle perplessità.

( Corto Maltese )

Nel marzo del 1882 il capitano David Robson oltrepassò le colonne d’Ercole di Platone, cioè lo Stretto di Gibilterra e lasciò il Mediterraneo, lui non sapeva che secondo le teorie della tettonica a placche, quando, ai tempi della grande massa continentale chiamata Pangea, l’Africa era unita alla Spagna, quel passaggio non esisteva. Lui non sapeva che un giorno, dopo un immane terremoto le terre si aprirono e in quella fresca spaccatura, come da un immenso imbuto, colarono montagne d’acqua dall’Atlantico e riempirono un bacino di terre più basse che oggi chiamiamo Mediterraneo. Robson era solo il bravo comandante del vascello Jesmond, un mercantile inglese a vapore che veniva da Messina con un bel carico di profumata frutta secca siciliana, lui aveva un lungo viaggio da compiere, era diretto a New Orleans, le Colonne d’Ercole erano solo un ultimo paesaggio di terra, prima di affrontare il blu completo del cielo e dell’Oceano Atlantico.

In uno di quei tratti azzurri ad Ovest di Madera e a sud delle Azzorre, i marinai cominciarono a vedere il colore del mare mutare in maniera del tutto innaturale, il blu delle acque era invaso dall’ocra-marrone del fango, dal bianco e dall’argento delle pance di milioni di pesci morti, poi comparve del fumo all’orizzonte e iniziarono a delinearsi i tratti indistinti del profilo di una montagna, là dove le carte nautiche riportavano il vuoto più assoluto. Robson era molto prudente, osservò a lungo quelle coste fumanti e ordinò di calare l’ancora lontano dall’isola, là dove la carta nautica che continuava a studiare, a girare e a spostare sul tavolo da carteggio indicava una profondità impossibile. L’ancora toccò il fondo dopo tredici metri di cima anche se l’isola distava diverse miglia. Il capitano Robson aveva le sue scadenze per la consegna del carico, ma la situazione era troppo strana e la frutta secca non avrebbe avuto problemi per un piccolo ritardo, decise di procedere e di perlustrare l’isola. L’isola era un ammasso di scuri e affilati detriti vulcanici spaccati da profondi crepacci, si vedeva in lontananza un altopiano e le montagne da cui saliva il fumo che avevano visto dal mare, ma era impossibile arrivare laggiù camminando su quel terreno che spaccava le scarpe. I marinai di Robson rimasero soltanto due giorni nei pressi della riva e iniziarono a picconare gli strati più ghiaiosi e friabili. Trovarono punte di frecce, spade e sculture spaccate, vasi che contenevano frammenti d’osso, urne funerarie e imponenti muraglie sbrecciate. Il comandante decise che doveva bastare; fece raccogliere alcuni campioni e descrisse tutto meticolosamente nel suo libro di bordo: la posizione dell’isola, le sue impressioni, tutto quello che avevano raccolto e quello che avevano visto, ma avevano dovuto lasciare.

Quando arrivarono a destinazione raccontarono tutto al cronista del Times Picayune di New Orleans e decisero di donare i reperti al Museo Britannico. Oggi però, di tutta questa storia non è rimasta alcuna traccia. Il libro di bordo andò distrutto con tutto l’ufficio della compagnia Watts, Watts & C. durante il bombardamento di Londra del 1940 e al Museo Britannico non risulta niente di tutta questa faccenda anche se molti altri marinai di altre imbarcazioni avvistarono gli enormi banchi di pesci morti e un’altra goletta a vapore, il Westbourne avvistò un’isola in quello stesso tratto di mare e anche le dichiarazioni del capitano, James Newdick, furono riportate sul New York Post.

Sembra di leggere un racconto di Lovecraft, la storia di R’Iyeh, l’isola affiorata dal nulla col suo mostro alieno Cthulhu, la gigantesca piovra dall’aspetto orrendamente umano in grado di provocare visioni folli nelle menti degli uomini che riescono a vederla. La divinità aliena Cthulhu scomparirà con la sua isola misteriosa, esattamente com’è successo all’isola avvistata dai capitani Robson e Newdick, sprofondata in seguito ad un terremoto o ad una successiva eruzione vulcanica, e ai due marinai accadrà la stessa cosa successa all’ammiraglio Byrd e al protagonista del racconto di Lovecraft: saranno condannati all’oblio forse perché conoscevano troppo su un argomento che doveva rimanere sepolto nelle profondità, non soltanto marine.

Nel 1985, Kikachiro Aratake, un tuffatore sportivo giapponese, si tuffò nelle acque intorno all’Isola di Okinawa e, a 25 metri di profondità, scoprì un’immensa struttura piramidale a gradoni, la Piramide di Yonaguni. Secondo quanto affermano gli archeologi si tratterebbe della più antica costruzione mai realizzata dall’uomo. Alcuni sostengono che rappresenti la prova del mitico continente di Mu, inabissatosi nelle profondità del Pacifico 25 mila anni fa.

Secondo il colonnello Churchwood che, nel 1868, decifrò alcune tavolette in argilla ritrovate in un monastero orientale, la vita ebbe origine proprio su Mu, e il popolo di questo continente colonizzò tutto il mondo eleggendo in ogni paese un re figlio del Sole e nella piramide di Yonagumi è stata trovata una pietra orizzontale di 3 metri per 3 che potrebbe proprio rappresentare Ra-Mu, la divinità solare. In un’altra zona è stato ritrovato un grosso megalite alto sette metri che ricorda i volti scolpiti che popolano l’Isola di Pasqua.

Popol Vuh

Convergenze e sintesi di contrasti apparenti

Questo è un luogo iniziatico per riguadagnare la dimensione perduta, quella in cui è possibile incontrare il mistero della causa dell’esistenza”

(Mu. L’indigeno Fungo Magico)

Il santuario di Pascal Abaj è in cima a una collina coperta di alberi non lontana dalla piazza del mercato di Chichicastenango. Laggiù si vende ogni cosa, quassù si invoca Huyup Tak’ha che significa il Pianoro della Montagna e con questa definizione iniziano gli apparenti contrasti. L’antico volto scolpito della divinità Maya venerata quassù sembra soltanto un sasso scuro circondato da altre pietre annerite dal fumo. Dicono che anche questa pietra, un tempo assomigliasse ai Moai dell’Isola di Pasqua, forse un tempo, perché adesso è un soltanto un grosso sasso scuro, ma si sente benissimo che è consumato non solo dagli anni e dalle intemperie, ma anche dalle continue cerimonie, dalle preghiere, dalle offerte, dal fuoco, dalle mani che l’hanno toccato e strofinato con fede profonda. Ci sono anche le croci, naturalmente, un fedele che pronuncia le sue preghiere e lo sciamano che crea il contatto col dio.

La croce è parte del rispetto e del sincretismo fra fede cattolica e religione Maya, il fuoco è il tramite del contatto, la vera voce della divinità invocata, viene alimentato con alcool, incenso, mais, resine profumate e scoppiettanti. Il fuoco s’inclina, si alza più forte o scaglia piccoli frammenti di coppale addosso alla gente che prega, il fuoco comunica a chi sa capire il suo linguaggio. Intorno alle fiamme, un regolarissimo cerchio di candele colorate, sassolini bianchi, offerte, petali di fiori e l’officiante che esegue i rituali o li fa eseguire dal fedele. Offerte e preghiere. Fuoco, calore, sudore, fumo e gesti antichi. A pochi passi, un vecchio con la testa avvolta in un turbante colorato, agita una latta bucata che emana un fumo profumatissimo e prega, alza le braccia al cielo e pronuncia parole in lingua Quichè. Il vero sciamano è lui, lo chiamano Chuchkajau che vuol dire madre-padre.

Davanti al mercato di Chichi come chiamano qui questo grande villaggio pieno di gente, povertà, merci e colori, c’è l’antichissima chiesa di San Tomas. Qui c’è la summa di tutti i meravigliosi contrasti di tutto questo splendido paese. 18 scalini di pietra davanti all’ingresso principale, perché San Tomàs è stata costruita nel 1540 sui resti di un antichissimo tempio. 18 scalini ingombri di sciamani che bruciano incenso e candele, fiori e chicchi di mais. L’ingresso ricorda la salita al tempio e i 18 scalini sono i 18 mesi del calendario maya. I turisti non possono entrare da questa parte, ma soltanto dall’ingresso laterale, queste scale sono parte integrante del tempio e della preghiera. All’interno della chiesa, il centro è dedicato alla religione maya, le navate laterali alla Via Crucis, l’antichissimo altare è scolpito in un legno massiccio e annerito dal fumo. I 14 altari Maya sono disposti al centro della chiesa, sono semplicissimi rettangoli di pietra scura appoggiati sul pavimento e ricordano le 14 divinità maya. Le candele maya hanno due fuochi, quelle cristiane uno solo eppure convivono pacificamente, qui ognuno entra con un solo motivo: avere fede. Il Popol Vuh è una specie di Bibbia maya, fu ritrovato proprio in questa chiesa nel 1702 e il parroco Francisco Ximénez lo trascrisse in spagnolo. L’originale manoscritto maya è sparito chissà dove, parla dell’intera storia dei Maya fin dalla creazione:

Questo è il racconto di come tutto era sospeso, tutto era calmo e in silenzio, tutto immobile, tranquillo e la distesa del cielo era vuota…

La storia parte dalla creazione dell’umanità da parte del dio K’ucumatz, che iniziò a creare gli uomini col fango, ma questi erano talmente deboli che si dissolvevano nell’acqua. Poi ci provò con il legno, ma questi erano talmente sciocchi da non riuscire a lodare il loro creatore, allora li distrusse tutti e rimasero solo le scimmie della foresta, anche loro create dal legno. Per l’ultimo tentativo la divinità chiese consiglio a quattro animali: la volpe grigia, il coyote, il pappagallo e il corvo. Fu così che creò l’uomo, con grano bianco e grano giallo macinati insieme per creare la carne e mescolati con l’acqua per creare il sangue, per questo i guatemaltechi si definiscono uomini di mais. Tutta la cronologia Maya parte da un punto fisso, il nostro 3114 avanti Cristo, il lontano passato remoto in cui tutto venne di nuovo creato dopo l’immane distruzione di un mondo precedente. Ogni cosa ha un suo ciclo d’inizio e una fine, e ogni fine è segnata da una grande catastrofe, ma anche ogni alba e tramonto fanno parte di questa sacralità e ogni attività umana dipende dagli umori del sole che ad ogni alba emerge da Xibalbá, il mondo degli inferi, per raggiungere il cielo e riscaldare e illuminare la superficie terrestre. Per i Maya, il cielo, la terra e il “mondo invisibile” sono uniti dall’Albero del Mondo, la prima forma di vita scaturita dal caos primordiale. L’albero kapok (Ceiba pentandra), con i suoi rami cruciformi che escono direttamente dal tronco è l’asse della vita e quando i missionari arrivarono nel XVI° secolo con le loro croci, per gli occhi dei Maya anche questo simbolo si sovrappose al loro Albero del Mondo.

Florian Fricke era un musicista tedesco, ex critico e regista cinematografico, ma era anche un grande appassionato di tematiche religiose e dei miti Maya. Nel 1970, a Monaco, fondò il suo gruppo rock, i “Popol Vuh” e uno dei loro capolavori è il disco “Hosianna Mantra”. Anche qui, il concetto fondamentale di questa musica è proprio la fusione di apparenti contrasti mistici: la religiosità cattolica e la ritualità induista. L’Osanna, cioè l’inno a Cristo che ascende al cielo, si arricchisce della magica ripetitività del mantra e dei canti vedici, la “musica per catacombe spaziali”, come è stata definita la musica dei Popol Vuh, riesce a cogliere perfettamente il valore di questo naturale sincretismo religioso che non rimane soltanto una razionale mescolanza mistica, ma si trasforma in un accrescimento spirituale basato sul rispetto.

Quando Hernán Cortés inviò il suo sanguinario e brutale capitano Don Pedro de Alvarado a conquistare il Guatemala questi si scontrò con il capo dei Maya Quiché, Tecum Umam. Il loro duello, invece, è un leggendario esempio di scontro fra mondi talmente distanti da non trovare punti di confronto e di miglioramento, ma soltanto la costante realtà della sconfitta del più debole rispetto al più forte, o forse della spiritualità rispetto alla fredda e calcolata razionalità.

Gli indios chiamavano Pedro de Alvarado, Tonatiuh (Figlio del sole) perché era alto, biondo, barbuto, era una specie di divinità agli occhi dei Maya Quiché, in più si presentò in sella al suo cavallo e per Tecum Umam cavallo e cavaliere erano un tutt’uno, forse da sconfiggere come invasori e conquistatori, ma forse da rispettare come attese divinità. Durante il duello, un Quetzal volava sopra la testa del capo indiano e lo aiutava, fra l’entusiasmo della folla, beccando il cavallo e il cavaliere come fosse un picador. Tecum Umam colpì il cavallo e pensò di aver sconfitto il suo avversario, ma quando il conquistador trapassò il petto di Tecum Uman con un poderoso colpo di lancia, tutti ammutolirono, anche il Quetzal, che si chinò sulla ferita del capo morente e, come ultimo gesto di saluto prima di volare lontano nel cielo, si bagnò di rosso sangue le piume del petto. Da allora il Quetzal o Kukul, in lingua Quiché, dalla lunga coda di un metro di piume colorate come un arcobaleno, ha il corpo verde come il colore degli alberi delle foreste del Guatemala e sul petto c’é la macchia rossa come il sangue del grande Tecum Umam.

Il Quetzal è il simbolo del Guatemala e può vivere soltanto libero, vola altissimo e si costruisce un nido nel tronco degli alberi, ma ci sono sempre due uscite, per non rovinarsi la coda.

La fantasia e la spiegazione scientifica, forse, sono come quelle due uscite, anzi, sono i due possibili ingressi ai mondi scomparsi, ma perché limitarsi a scegliere sempre una sola strada per raggiungere una meta? Perché cercare di conoscere perfettamente un unico percorso? Perché costringersi a spiegare proprio tutto? Le due uscite salvano la coda dello splendido Quetzal, le due strade, forse ci porteranno alla stessa meta, ma sicuramente ci daranno qualcosa in più: la libertà e la possibilità di scegliere.

 

Marco Steiner 4 luglio 2009.

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L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 2

L’ultima pista (Un romanzo a puntate) 2

due

Era una cassetta di ferro verde dall’aspetto solido, con una strana chiave di sicurezza e il manico cromato. Me l’aveva data nonno Marcus prima di partire.

«Vado via per un po’, non so per quanto, ma adesso che la nonna Valery non c’è più, potrai startene finalmente da solo. Ti farà bene.»

Mi aveva consegnato la cassetta e una busta. Era una limpida giornata di maggio del 1995, una di quelle giornate che ti fanno venir voglia di partire.

Io sarei rimasto. Lui se ne sarebbe andato per sempre.

«Nella busta ci sono duemila dollari, ti basteranno per qualche tempo, ma è ora che ti trovi un lavoro e una strada.»

Era entrata in casa l’attrice. «Marcus, è tardi, dai andiamo, c’è traffico sulla strada per l’aeroporto, non possiamo… Oh, scusate.»

«Aspettami fuori, Cindy. Arrivo.»

Lui rigido e imbarazzato. Lei sinuosa e ammiccante.

«Nella cassetta c’è una parte del passato della tua famiglia. Era di tuo nonno Seamus e di sua moglie Mania Brookszowyc, i genitori di quel matto di tuo padre. Gente strana, ma con le palle, niente da dire. Tua nonna Valery l’ha sempre tenuta nascosta, diceva che potevano venirti idee strane. Ma prima di morire mi ha detto dov’era e mi ha autorizzato a dartela.»

Aveva infilato una piccola chiave e fatto scattare la serratura. Clic.

«Eccotela. Non ho mai guardato cosa c’è dentro. È roba tua. Posso solo dirti che tuo nonno Seamus la trattava come una reliquia e che prima di morire l’ha affidata tutto solenne a tuo padre. Un giorno che aveva bevuto parecchio, uno dei tanti, Liam mi disse: “Mia nonna Louise con le parole è stata capace di rivoltare l’Argentina più di quanto abbiamo fatto in Irlanda mio padre, io e quella manica di idealisti ubriaconi con le bombe”.»

Ero rimasto in silenzio a fissare la cassetta di ferro e il volto rugoso di mio nonno che partiva.

«Non ho capito bene quello che voleva dire tuo padre, cazzate ne sparava tante, ma forse vale la pena che tu dia un’occhiata qui dentro, non si sa mai.»

Fuori, il clacson aveva iniziato a suonare insistente. Nonno Marcus si era avviato.

«Adesso vado, Bob, scusami se non sono riuscito a darti abbastanza, ma vedi come sono fatto.»

Aveva indicato la porta e sorriso.

Mi aveva abbracciato forte. Era la prima volta.

«Forse ho ancora voglia di dimostrare a me stesso di essere vivo. E forse sono ridicolo. Ma sono fatto così e non posso più cambiare. Tu no. Tu cerca di essere diverso, tu sei un Collins.»

Aveva due occhi azzurri profondi e velati di tristezza.

«Non riesco neppure a immaginare cosa possa aver fatto Louise di tanto importante, ma un giorno me lo racconterai.»

Se n’era andato così.

È incredibile come certe persone, con una frase, un gesto, possano trasformare il ricordo di sé che si lasciano dietro.

Quando la porta si chiuse mi ero sentito più solo che mai. Quella casa non era mia, quel posto non era mio, e l’idea che in quella cassetta potessi trovare qualcosa di importante per la mia vita rendeva ancora più acuto il senso di abbandono che provavo.

Mio padre sapeva rinunciare alle cose materiali, era sempre stato pronto a spostarsi, a fuggire, e si portava dietro solo oggetti indispensabili.

La cassetta conteneva un dossier voluminoso composto di centinaia di fogli ingialliti, attraversati dalle righe regolari di una scrittura ordinata e sottile. Oltre ai fogli c’erano foto, alcune lettere, ricevute di pagamenti e diversi biglietti da visita.

Il primo foglio del dossier portava la firma di Louise Brookszowyc, la mia bisnonna, e di un certo Pedro Mangini, giornalista argentino.

Era datato 1923.

Mania lo aveva conservato e dopo di lei era toccato al vecchio Seamus prendersene cura fino all’ultimo giorno di vita. Nella cassetta aveva lasciato anche qualcosa di indubitabilmente suo: una Webley RIC. Era la pistola in dotazione ai Royal Irish Constabulary, le forze di polizia irlandesi filo-inglesi incaricate di tenere a bada i ribelli dell’Irish Republican Army che non avevano mai accettato il trattato di pace del 1921. Mio nonno era stato uno di quegli irriducibili e la pistola era il ricordo di un nemico ucciso.

Oltre alla Webley, di Seamus c’era anche un foglio di carta rigato dai segni di numerose pieghe. Conteneva una poesia, scritta da lui.

A colpirmi furono la dedica e la data:

Al nipote che non conoscerò mai.

Nonno Seamus

16 maggio 1941

Era la data di nascita di mio padre. Ventinove anni esatti prima della mia. A volte il destino organizza le cose davvero per bene.

Nel giorno in cui nasceva suo figlio, invece di andare a ubriacarsi con gli amici, mio nonno aveva pensato al figlio di suo figlio. Aveva pensato a me che non c’ero ancora.

Ce n’era abbastanza per incuriosirsi.

Partii dalla poesia che nonno Seamus mi aveva dedicato.

Farfalle rosse e splendidi sorrisi

 Non ho timore dei colpi che esplodono nel vento.

Ali vibranti,

sciami pulsanti

farfalle impazzite,

si poseran rosse

su candide camicie.

Svaniran sogni insieme coi respiri,

ma la paura, il terror mio

sarà il candor lordo di sangue, terra e oblio.

 Non ho timore di porte sbarrate.

Né del rumore di ferri e catene.

Non ci son sbarre per sogni e passioni.

 Segui il Sinn Fein, figlio, se vorrai,

ma cerca la pace per un domani

che forse tu non vivrai.

Odio e violenza, cibo per padri

Ché di vendetta voi ancor ne fremete,

ma per i figli,

i  figli dei figli,

il grido è uno solo:

vi prego smettete!

 Rosse farfalle seguono il vento

e posan le ali su giovani visi,

ma saran calmi

quei giorni dorati,

e quelle ali

saran soltanto

niente e nient’altro che

splendidi sorrisi.

 

Seamus Collins, 16 maggio 1941

 

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Io resto qui (Un racconto dedicato a Scicli)

Io resto qui (Un racconto dedicato a Scicli)

Io resto qui

Sono venuti in tanti a vedere, sono venuti per capire come si vive.

Sono entrati nelle nostre case, che non sono come le loro case,

le nostre grotte sono buchi nella terra, sono le tane, il rifugio degli ultimi.

Ma loro l’hanno fatto con rispetto, questo lo devo dire,

hanno detto che quel vivere troglodita era una vergogna per un paese civile.

Erano vestiti per bene, con giacche e cravatte, mani da stringere e bocche fiorite di sorrisi.

Pure noi eravamo parati a festa, sbiancati, ripuliti,

i panni li avevamo lavati giù con l’acqua di San Bartolomeo alla luce delle torce.

Io guardavo quella processione e restavo lì, immobile, come al solito,

coi piedi piantati nella mia roccia, guardavo e non m’importava.

La mia casa è questa terra bucata,

è l’ultima tana scavata in cima alla collina.

Io non mi muovo da qui,

ormai faccio parte di questa montagna, di questa terra, di questa roccia.

Resto qui, come un ulivo abbracciato ai suoi sassi,

un fico d’india di sangue e di spine che sbuca in mezzo alle pietre,

un fungo attaccato alla corteccia profumata del carrubo.

Trovo quello che serve in mezzo ai miei sassi,

qua c’è tutto, allungo pensieri e radici e lo afferro,

o mi dimentico tutto e lascio andare ogni cosa.

San Matteo è in cima alla nostra montagna,

da lassù lui mi guarda e mi lascia fare quello che voglio.

Non scrolla le spalle, non mi chiede preghiere, sa che ho sofferto abbastanza,

non cerca altra fatica, lui mi capisce e mi lascia stare, mi regala l’ombra e m’aiuta a campare.

E a me basta così.

Io non conosco altri santi e nemmeno altre montagne.

Conosco le grotte e la terra che ho aperto col sangue e il sudore.

Io non guardo per aria, vivo con le spalle incurvate.

Zappavo la terra, ogni giorno, dove capitava, dove qualcuno mi dava i piccioli per comprare il mio vino. Ogni giorno scendevo al paese, montavo sul carretto col buio e continuavo a dormire, sobbalzavo fra i sassi e il sole mi trovava e mi bruciava negli occhi. Io piegavo la testa, abbassavo la coppola e quando scendevo dal carro, iniziavo a zappare, con rispetto, tutto il giorno, fino al tramonto, a spaccare la terra, a togliere sassi, a spostare e allineare ogni pietra, come tanti soldati, tutti muti, ostinati e fedeli. Io restavo a travagliare fino al calare del sole e mi bastava il mio pezzo di pane, le olive, un pomodoro schiacciato e due capperi tanto per provare perfino un piacere.

E tornavo al carretto, alla stessa danza sui sassi, con la testa pesante e le mani spaccate dal legno, il collo che si vuole incurvare e la schiena che lo deve seguire,

come una virgola inutile, come una luna ricacciata nel ventre del mare.

E la terra s’infila in fondo alle scarpe, fino in fondo alle unghie sbeccate e si mischia alla polvere negli occhi che vedono tutto annebbiato.

È notte ogni volta che arrivo alle facce dei turchi, li guardo e quelli ridono alle case dei ricchi, vorrei fare lo stesso, ma non sono capace, io sto bene lassù, non mi muovo, non sogno di cambiare e non cerco cose o ricchezze da aggiungere al silenzio che basta a riempiere il mio vuoto.

Vivo bene così, rintanato nel mio buco fra i sassi.

Risalgo lento sulle pietre alla sera, le suole di fango scivolano e il caldo si appiccica dentro, poi arrivo alla grotta e mi siedo,

è l’ultima, proprio lassù in cima alla collina, nel buio, sotto all’ombra e alla mano del Santo.

Di notte fa freddo, non ti ripara una pezza, una coperta sfibrata, la paglia, il residuo del fuoco, solo le cicale mi cullano al mattino strofinando le ali, solo le erbe selvatiche profumano di fresco, si sbagliano e s’intrufolano pure là dentro, s’infilano come formiche negli spacchi in mezzo alle pietre e i capperi scendono dai muri come lente cascate, come lacrime di fiori mancati che sanno di pane, d’olio, di olive e di occhi rassegnati e socchiusi.

Solo l’infinita stanchezza mi aiuta a concludere il giorno, ogni giorno.

Spacco un fico d’india, schiaccio un’alice e tracanno il mio vino aspro e poi stringo fra le mani il bicchiere.

Sul tavolo storto c’è una crosta di ragusano da raschiare e le fave bollite, me le ha lasciate Maria, lei abita sotto, per quella santa un’altra bocca da sfamare è solo un gesto normale.

E non servirà ringraziare, basterà continuare il favore, domani, o un giorno qualunque.

Spengo la candela e la grotta diventa più nera, resto solo sul letto di paglia.

I manifesti del cinema mi guardano, girano intorno e mi sfidano, con le donne gagliarde di tette, i sorrisi perfetti e le cosce scoperte.

Io le guardo, chiudo gli occhi, me ne vado lontano e mi viene da ridere, se una di loro entrasse qua dentro scapperebbe per l’afrore di capra e di piscio, per la mia faccia barbuta, per gli occhi e le mani da bestia selvatica,

non arriverebbe a vedere che nascosto qua sotto c’è perfino un sorriso sincero.

Sono solo un campagnolo, zappo la terra dove mi portano, questo è il mio lavoro e ogni giorno è uguale per me. Ho le mani dure e le spalle robuste, ogni giorno m’inchino e spacco la terra perché questo so fare e la terra si lascia toccare e palpare

e poi sorride con me, perché questa è la nostra specie d’ammore.

 

Poi una notte sono montato sul carro,

ma quello ha cambiato la strada,

dopo la piazza è partito in salita, sempre in alto,

verso la collina e il convento,

verso la Croce,

lassù dove non ero mai stato,

alla fine la strada si stanca come il mulo e comincia a piegare,

e poi scende come un ruscello impetuoso,

si butta e corre veloce,

ma la bestia è troppo veloce,

ci possiamo schiantare,

aooo, aooo, gli urla Tanuzzo mentre suda e tira le briglie.

Tanuzzo lo deve fermare, corre troppo quel bastardo di mulo, chissà dove si crede di andare, se si spacca le gambe è finito il carretto e il lavoro per tutti

e noi avremo ancora più fame.

Ma poi tutto si calma.

Ci fermiamo dopo un muro di sassi,

dopo una siepe di fichi d’india fioriti,

dopo un cespuglio di more

e io comincio a zappare

come sempre, senza il tempo e la voglia di guardare.

Il sole è ancora accasciato, resta infilato sotto alla terra, ma in alto nel cielo, c’è una striscia di luce che incomincia a brillare mentre io continuo a spaccare.

Alzo in alto le mani e la zappa rimane impigliata in un filo di quell’aria perfetta,

è incollata là in alto, nel brillare del cielo,

è rimasta incantata e per una volta non mi voglio curvare, resto solo a guardare.

Sono sospeso, nel fresco, con lei, la mia zappa.

Tutto il mondo rimane bloccato in quel momento speciale,

oltre la siepe di fichi,

oltre il muro di pietre,

oltre il cespuglio di more.

E mi appare l’azzurro del mare.

È solo una striscia di luce, ma quella è speciale.

Sampieri era un nome troppo lontano,

non avevo mai visto nient’altro che pietre, terra dura e grotte bagnate.

Oggi ho trovato quell’azzurro lontano, ma è sempre troppo lontano.

E che fa il campagnolo che sa solo zappare?

Non si può mica fermare a guardare, lui deve continuare a travagliare,

ma questa volta non posso, m’intontisce un richiamo, uno stridore di gioia,

è una giostra di rondini che girano in tondo, girano, sono pazze e felici nella luce del mare e io rimango come una creatura incantata a guardare.

Gridano e girano intorno a qualcosa e mi cade la zappa di mano e cammino per andare a vedere, un passo e poi un altro con la testa nell’aria e in quel momento preciso, con quel passo di troppo, con quel raggio rosso di sole che si riflette sul mare e rimbalza e s’infila negli occhi come una freccia affilata che mi acceca con la cosa più bella che sono riuscito a vedere.

Vivo un sogno prima del buio e poi tutto scompare.

E rimango bloccato sul fondo scuro del pozzo,

è un pozzo antico, nascosto, sperduto,

forse l’ha scavato la terra apposta per me,

le gambe si frantumano come semi e il mio corpo è sparpagliato laggiù,

ma non riesce a germogliare.

 

Sono venuti in tanti a vedere, sono venuti a capire cos’era successo,

ma non succede mai niente.

E allora ho guardato anche quella processione passare

e sono rimasto con i piedi piantati nel mio buco scavato dal tempo solo per me.

 

Io non mi muovo da qui,

dopo quello sguardo al mare,

dopo quell’ultimo passo

resto come una rondine senz’ali sospesa nel cielo alla sera,

guardo intorno e non c’è niente di nuovo.

Io non voglio niente di nuovo.

C’è pure un tesoro sotto all’ulivo,

me ne parlava la nonna, lei conosceva le storie segrete del Santo,

sapeva dei teschi, delle trovature, delle preghiere arabe e delle antiche monete,

bastano poche parole,

rispettare la fame,

la sete,

la fede senza preghiere

e il tempo che rotola in cielo insieme alle nuvole.

Io resto inchiodato alla mia sedia di paglia,

tanta gente continuerà a passare,

ma a me non servono case o tesori,

io ho già tutto,

guardo Scicli là sotto e la vedo brillare,

rimango quassù e me ne vado lontano,

sul riflesso dorato del mare,

di quell’unico pezzo di mare

che mi ha fatto sognare.

 

 

Marco Steiner

 

Dedicata a Scicli e a Pietro Sudano il poeta di Chiafura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo è apparso sulla Rivista Suq N°4

https://www.suqmagazine.com/suq04

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Guglielmo, il fabbricatore di bussole

Guglielmo, il fabbricatore di bussole

Ho scritto un libro un po’ di tempo fa, si chiama “Isole di ordinaria follia” l’Editore è Marcianum Press, editore veneziano, che ringrazio.

ho lavorato con te grandi Amici: Marco D’Anna e Gianni Berengo Gardin,

fotografi e sognatori di un mondo migliore

e con Antonio Dragonettto psicoterapeuta e Guida di questo libro.

è una viaggio libero fra le schede di un ex-manicomio, quello di San Servolo, a Venezia.

Non voglio aggiungere altro, questa è una delle storie…

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Un itinerario in Colombia

Un itinerario in Colombia

Un itinerario in Colombia

Marco Steiner

“Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco”
Josef Koudelka

Questo non è un resoconto di viaggio e nemmeno un itinerario ideale, queste cose le fanno bene le agenzie e le guide turistiche che sono modulate per capire tutte le esigenze ed esaudire ogni richiesta.

Nelle guide si possono trovare le informazioni sui luoghi e le distanze, i consigli per alberghi e ristoranti, i prezzi, le caratteristiche di tante cose, ma sono tutti elementi che devono essere continuamente aggiornati per essere utili, perché le informazioni siano precise.

Questa è soltanto una storia, o forse un insieme di storie diverse che vorrei provare a raccontare dopo un mio viaggio in una zona abbastanza limitata della Colombia, la zona nord-occidentale, un luogo che mi ha profondamente colpito perché è quasi un Altrove ed è sicuramente una fragile terra di confine fra sogno e realtà, fra durezza e splendore ed è anche un esempio di come le cose con il tempo possono cambiare, a volte in peggio, altre volte per fortuna in meglio.

Non mi è mai piaciuto cercare di conoscere un paese intero in un unico viaggio perché serve tempo, a volte serve anche perdere tempo, per sentire un luogo, per respirarne l’atmosfera per sentirsi per un po’ parte di quel mondo.

Ho scelto un itinerario che non prevedesse spostamenti in aereo perché mi piace camminare o spostarmi in macchina.

Tutto è iniziato da Cartagena de Indias e già il nome riporta a un certo passato di viaggi leggendari, di ritmi caraibici e di storie di navigatori e commercianti di schiavi e perché da qui si possono raggiungere comodamente due destinazioni dalle caratteristiche completamente opposte: le montagne delle Sierra Nevada di Santa Marta per l’escursione alla Ciudad Perdida e più a nord la zona selvaggia e desertica della Guajira, una penisola battuta dal vento, un non-luogo che confina con il Venezuela e i cui deserti e lagune salate s’infilano profondamente nel Mar dei Caraibi come la prua di un immenso veliero.

In entrambe le zone la caratteristica fondamentale è che la gestione del turismo in questi territori, almeno in questo momento, è affidata alle popolazioni locali.

Le montagne, le foreste, le pietre antiche e i fiumi che le attraversano sono il mondo del popolo Tayrona; le lagune, le coste caraibiche dell’estremo nord del Sudamerica e i deserti appartengono al popolo Wayuu.

Il mio non sarà un racconto lineare perché le sensazioni che ho provato sono come le nuvole che racconta Fabrizio de André:

Vengono
vanno
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte e si mettono lì
tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia…”

La Ciudad Perdida

Tutto inizia da Santa Marta con un vecchio 4×4 rosso che ci porta fino al villaggio di El Mamey, come il nome degli alberi che circondano il luogo, una splendida magnolia che regala frutti rotondi che qui chiamano Zapote, cioè “frutto dolce”, ma molti questo posto lo chiamano anche Machete perché c’è stato un triste periodo dove molte discussioni si concludevano a colpi di lama di machete, uno strumento che tutti portano legato al fianco.

Da Machete alla cima della Ciudad Perdida ci sono circa 60 chilometri di sentieri, continue salite e discese fra canaloni di argilla rossa oppure sabbia bianca e polverosa, attraversamenti di fiumi più o meno impetuosi e percorsi nel fitto di foreste umide popolate da voraci zanzare. Ci vogliono 4 o 5 giorni in totale e lungo la strada ci sono diversi accampamenti con tettoie che proteggono file di comode amache oppure una serie di letti allineati e protetti dalle zanzariere. Si mangia in maniera semplice, ma bene, in maniera genuina, ci sono i servizi igienici e la sera, almeno per un po’ di ore c’è perfino l’elettricità, per quanto riguarda la copertura telefonica non se ne parla nemmeno. Si parte e ci si allontana progressivamente e sempre più profondamente dal mondo da cui provenivamo.

Passo dopo passo ci si stacca da tutto, con lentezza.

La Ciudad Perdida si raggiunge come una meta fortemente sognata e forse per questo potrebbe diventare una delusione, ma non è così, lassù in cima il panorama è un sogno, soprattutto al mattino presto, quando il sole inizia a illuminare i terrazzamenti di pietra e i colori diventano diversi, macchie di fitta vegetazione e tappeti d’erba si colorano di ogni sfumatura di verde e il silenzio ricopre ogni cosa di pace. È inutile aspettarsi torri o strutture di pietra, ci sono solo terrazzamenti, ma si sente il ricordo di una magia che la natura ha protetto e che adesso si lascia respirare.

Non serve che racconti la storia di questo luogo archeologicamente importante, dico soltanto che, come spesso accade, questa città sacra venne scoperta per caso dai guaqueros, cioè i tombaroli che cominciarono a scavare al centro di una serie di cerchi di pietre che avevano ritrovato in mezzo alla giungla più fitta. Quei cerchi erano le basi sulle quali i Tayrona, fra l’XI° e il XIV° secolo, avevano costruito le loro capanne di legno e foglie e dove, proprio al centro, seppellivano insieme ai resti dei loro antenati anche il cibo, gli oggetti e i tesori che servivano per il viaggio verso l’Oltremondo.

Uno dei primi tombaroli aveva un bel nome letterario: Florentino Sepúlveda e  diede a quel luogo un nome che raccontava tutte le sue sensazioni, El Infierno Verde.

Florentino insieme ai suoi due figli, César e Jacobo dopo un terribile viaggio fra pietre scivolose, foreste impenetrabili, serpenti, fango, pioggia, salite durissime e giorni e notti di accampamenti di fortuna si ritrovò su quelle pietre antiche in mezzo alle montagne e in quei buchi iniziò a trovare ciotole di ceramica, anfore, ma anche monili e maschere d’oro, erano gli anni ’70 del 1900 e da quel momento in poi iniziò tutto quello che accade quando si ritrova qualcosa di prezioso: scavi, distruzioni, rivalità, spedizioni agguerrite, furti e spargimenti di sangue fino a quando il governo non decise di proteggere, almeno in parte, la città sacra del popolo Tayrona.

Il resto fa parte della storia della Colombia perché la Sierra Nevada di Santa Marta e quindi tutto l’attuale percorso per salire da Machete alla Ciudad Perdida vide l’inizio del disboscamento degli alberi secolari compiuto negli anni ’50 dai campesiños per vendere a valle il legno necessario per costruire le case dei ricchi. Era molto più redditizio vendere legno che coltivare caffè e cioccolata. In seguito, negli anni ‘60/’70, in quei vasti spazi disboscati iniziò la coltivazione sempre più massiccia della marijuana, sostituita in seguito dalla coca che un tempo le popolazioni locali coltivavano a puro scopo religioso, per arrivare alla conoscenza.

Insomma, con tutti i soldi che giravano, i tesori della Ciudad Perdida non facevano più gola a nessuno, né ai narcotrafficanti né alle truppe paramilitari, né ai guerriglieri rivoluzionari e perfino per i tombaroli quelle zone erano diventate troppe pericolose.

Oggi dopo anni di lavori di sistemazione, studio e protezione dei circa 170 terrazzamenti e delle scalinate che salgono con gli ultimi ripidi 1200 gradini fino alla cima della Ciudad e dopo il processo di pacificazione fra il governo colombiano e i guerriglieri delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucianarias de Colombia) un esercito capitanato anche da un certo Manuel Marulanda soprannominato Tirofijo per la sua mira precisa che mi ricorda, forse non a caso un altro Tiro Fisso, il personaggio ribelle delle storie di Corto Maltese.

Ma da quelle parti c’erano anche i guerriglieri marxisti dell’ELN (Ejército de Liberacion Nacional) e quelli dell’M-19 (Movimiento 19 de Abril) e, come se non bastasse c’erano vari gruppi paramilitari come le AUC (Autodenfensas Unidas de Colombia) creati dai proprietari terrieri per combattere i ribelli.

Oggi qui è tutto molto tranquillo e sicuro, ma arrivare lassù è come raggiungere un luogo quasi impossibile fra passi in salita e pensieri che ci vengono continuamente a trovare. Si fa fatica, si stringono i denti e passo dopo passo, panorama mozzafiato dopo salite solitarie, sole cocente, polvere e sudore si arriva in cima e finalmente ci si guarda intorno, il respiro si regolarizza e si resta in silenzio, ci si sente soddisfatti e ritornano in mente tutte le storie che la guida ha raccontato lentamente, goccia a goccia, fino al momento in cui arriviamo lassù, e a quel punto serve solo il silenzio totale.

Yeison è il nome della guida che mi ha accompagnato fino alla Ciudad Perdida, fa parte di un gruppo, si chiamano Baquianos, significa “esperti” e questo nome non potrebbe essere più giusto perché sono tutti ragazzi nati fra queste montagne, vengono dalle stesse famiglie di campesiños che avevano tagliato gli alberi, che poi hanno coltivato la marijuana e poi la coca, che hanno visto ammazzare amici e parenti a volte dai guerriglieri dell’ELN e altre dai paramilitari delle AUC pagate dai narcotrafficanti, sono ragazzi che possiedono ancora le terre sui fianchi di quelle meravigliose montagne e le loro famiglie vivono lì, anche loro portano sempre un affilato machete legato al fianco, ma lo usano per tagliare un ramo che potrebbe ferire qualcuno.

Questi ragazzi si muovono in armonia con la natura, basta mettere i piedi esattamente dove hanno appoggiato i loro per salire con maggiore facilità e sentirsi quasi esperti, basta vedere i saluti e i sorrisi che si scambiano fra loro quando s’incontrano in salita o in discesa, o ascoltarli parlare nella lingua dei Kogui, una delle etnie Tayrona, quella più legata alla fede animista, quella più spiccatamente spirituale quella che ha conservato il maggior distacco dalla civiltà moderna e dagli allettamenti del danaro.

Le capanne dove oggi abitano i Kogui sono esattamente come quelle che i popoli ancestrali avevano costruito lassù, c’è la stessa base di pietre, sono circolari e costruite con legno e fango solidificato, hanno il tetto di paglia annerito dal fumo che arde costantemente al centro della capanna e il fuoco li riscalda nel freddo della notte, il fumo allontana gli insetti, nessuno di loro vive a Teyruna, il nome che i Kogui danno alla Ciudad Perdida, ma loro continuano ad essere i guardiani di quei luoghi sacri e adesso sono contenti perché nessuno ha più intenzione di scavare fra le loro pietre, né i tombaroli e nemmeno gli archeologi, ormai hanno tutti raggiunto un compromesso, quello che è stato rubato è perso, quello che è arrivato nei musei di Bogotà o di Santa Marta resterà lì a futura memoria, ma quello che è rimasto sotto alle pietre sacre continuerà a mantenere il loro legame ancestrale con gli antenati e con la Madre Natura.

Yeison riesce a parlare nella sua lingua con il Mamo, il saggio, lo sciamano dei Kogui, l’uomo che è in contatto con le forze della natura, quello che saprà scegliere il ragazzino che dovrà sostituirlo, quello a cui insegnerà a meditare e mantenere l’ordine naturale del mondo attraverso canti e offerte perché il suo compito sarà sempre quello di ripristinare l’armonia fra uomini e natura comprendendone i messaggi.

Il Mamo si chiama Lùmaco è vestito con una tunica bianca di tela grezza naturale, ha un cappello conico di filo dello stesso colore, ha la guancia destra rigonfia per il bolo di foglie di coca e polvere di conchiglia che tutti i Kogui tengono in bocca e continuano a masticare per non sentire la fame, per spingere oltre la spiritualità e per camminare senza fatica su quelle aspre montagne.

Il Mamo mi regala un sottile braccialetto di filo con cinque minuscole perline di vari colori: azzurro, verde, celeste e rosa, è una specie di talismano, mi dice, sarà una protezione da parte del cielo, delle nuvole, del mare e della terra.

La discesa è lunga e difficile come l’andata ma dopo aver raggiunto la meta tutto diventa psicologicamente più accettabile, quello che cambia al ritorno è il nostro maggiore distacco dal resto delle cose, dai pensieri che sono rimasti alle spalle, adesso è tutto diverso “da prima”, ci si sente leggeri, non abbiamo soltanto raggiunto una meta, stiamo vivendo un dopo.

Prima di partire avevo dei dubbi sulla mia tenuta, normalmente cammino molto, sono stato sportivo, ma passo lunghe ore seduto davanti a un computer per scrivere e non sono certamente allenato per trekking di questa portata, invece sono arrivato senza problemi, magari con qualche sosta in più per guardare il paesaggio o per godermi la situazione.

La montagna insegna questo: bisogna continuare, resistere, trovando il proprio ritmo, senza fretta di arrivare, lasciando a valle i pesi inutili, tutti, anche i pensieri.

La montagna insegna a restare da soli.

Yeison non è soltanto una guida che conosce i sentieri, lui conosce quello che ci vive intorno e i ricordi che sono rimasti infilati in mezzo alle foglie e alle pietre. Mi racconta che adesso in questa parte della Colombia tutti vivono grazie a questo tipo di turismo ecosostenibile, le agenzie affidano i turisti ai Baquianos, i popoli locali si occupano di allestire gli accampamenti ed effettuare i trasporti dei materiali con i muli, qui s’incontrano tutte le etnie Tayrona: Wiwa, Arhuakos, Arzario e i Kogui che salgono lungo i sentieri con i loro carichi di vettovaglie, acqua e il resto dei materiali necessari per far vivere gli accampamenti e poi scendono con i sacchi di rifiuti, la plastica delle bottigliette d’acqua, le bombole del gas vuote, la biancheria da lavare.

I campesiños per un po’ ci hanno provato, volevano ricominciare a coltivare il caffè e la cioccolata, ma dopo anni di trattamenti chimici intensivi per favorire ricchi e continui raccolti di piante di coca anche il terreno si era impoverito, svuotato, la madre terra si era stancata o forse ribellata. Forse la filosofia del popolo Kogui e il silenzio rispettoso di un Mamo, ha fatto capire a qualcuno che serviva tempo per ricominciare, che bisognava ritrovare l’equilibrio necessario fra uomo e natura, adesso anche i campesiños si dividono fra servizi al turismo e all’agricoltura, qualcuno vende sacchetti di deliziosi grani di cioccolata biologica da sbucciare, altri aspettano i turisti con la frutta fresca o con spremute d’arancia dolcissime.

Spero che questa situazione duri molto a lungo, dopo le guerre politiche, dopo i furti, dopo le guerre per la droga, dopo tanto sangue adesso qui si respira la pace e ci si sente fuori dal tempo, è una sensazione rara e preziosa e poi, nel mese di settembre, tutto si blocca, nessun turista può salire alla Ciudad Perdida, quel luogo sacro ritorna ai Tayrona che arrivano dalle montagne più alte, dalle foreste più lontane e si riuniscono nel loro luogo dello spirito, per assorbirne e restituirne la sacralità e noi riusciamo a capire che per il resto dell’anno ci hanno fatto un dono: quello di consentirci di respirare quell’essenza dopo aver camminato, faticato, dopo aver imparato a eliminare i bagagli inutili.

 

La Guajira

Bassa, Media e Alta, sono le tre regioni della Guajira e sono molto diverse fra loro. La Bassa è quella verde, la stessa terra fertile che scende dalla Sierra Nevada e si allunga con le piantagioni di banane e palme fino alle pigre spiagge caraibiche di Palomino, ai villaggi che si affacciano ingombrando la strada principale con una serie infinita di chioschi carichi di frutta e di banchetti colorati dove si cuociono grigliate di chorizo o gamberoni e dove basta aprire il finestrino per essere invasi da decine di ritmi diversi sparati dalle grosse casse acustiche di ogni rivenditore.

La Media Guajira è quella che si stende intorno alla città principale, Riohacha, la città dei confini, il porto dove confluisce la strada costiera che arriva da Cartagena e da Barranquilla e quella che collega la Colombia con Maracaibo e il resto del tormentato Venezuela con le sue schiere di migranti in cerca di un possibile futuro per sopravvivere.

A Riohacha si dorme affacciati davanti alle lunghe spiagge certe volte dorate altre volte desolate mentre le palme frusciano continuamente piegate dal vento. Da qui si parte per la terra dei Wayuu, un territorio che è un mondo a parte, la desertica alta Guajira. Basta guardarla su una mappa, è gialla e vuota, è la prua di un’immensa barca a vela che si protende nel mare.

Ho dormito poco a Riohacha perché quella notte ho sentito una specie di richiamo e mi sono svegliato. Ho pensato fossero stati i sogni, non uno soltanto, una serie di brevi sogni, tutti strani e intrecciati fra loro, sogni che non lasciavano ricordi precisi ma confondevano presente e passato. Alla fine, dopo aver fissato a lungo il soffitto e le pale del ventilatore che continuavano a girare lente non era rimasto alcun ricordo, soltanto una sensazione di vuoto, un’attesa. Con le prime luci dell’alba dalla finestra è penetrato l’odore umido e salmastro della sabbia risvegliata dal sole, ma anche quello della polvere lontana e in quel momento ho capito, quel risveglio lento era un’esigenza di distacco, era una pausa dilatata e intrisa di vuoto, di occhi aperti che non hanno nulla da vedere, di pensieri liberi di vagare e confondersi. Era l’attesa che precede l’incontro.

Ivan è la nostra guida locale, arriva puntuale, ha un sorriso leggero e gentile, occhi, capelli e carnagione scuri, jeans e camicia bianca. La sua imponente Toyota non è nuovissima ma robusta, ben tenuta, è di quelle solide che piacciono a me. Partiamo senza troppe parole e con una musica bassa di sottofondo, tanto per guardarci in giro senza sentire il bisogno di conversare. Dopo aver lasciato la strada principale, dopo aver lasciato le palme piegate, il verde e il blu scuro del mare, dopo il progressivo diradarsi di case e macchine ci ritroviamo in un paesaggio semidesertico, potrebbe essere una savana africana punteggiata di alberi e cespugli bassi e contorti, in fondo all’orizzonte s’intravede una leggera vibrazione, una striscia d’azzurro chiaro, quasi bianco, sobbalza accompagnando le sospensioni della jeep e mentre quel riverbero si avvicina mi ritrovo trasportato in un altro luogo.

Sono davanti alle saline di Manaure, nel nord della Colombia eppure sono tornato indietro nel tempo e in un altro mondo. Forse è colpa della luce abbagliante, è come se fossi nella regione degli Afar, a Gibuti e davanti a me si estende l’immensa superficie bianca e celeste del lago Assal, un mare di sale.

La visione è diversa, l’incanto è lo stesso.

Il miraggio continua a vibrare davanti agli occhi socchiusi.

Era il 2003 e in quell’occasione avevo conosciuto per la prima volta Marco D’Anna, il fotografo che sarebbe diventato il mio compagno di tanti viaggi lungo gli itinerari di Corto Maltese. Anche allora, come in questo momento ero rimasto rapito dalla cruda bellezza del paesaggio, attratto e affascinato dal vuoto vibrante circondato dal giallo del deserto, mi ero perso in quel nulla carico di suggestioni.

Ricordo che sono risalito sul pulmino parcheggiato accanto al mare di sale perché sentivo il bisogno di scrivere qualcosa.

Senza accorgermi della sua presenza mi ritrovai Marco D’Anna seduto al fianco.

–       Che stai scrivendo?

–       Una specie di storia.

–       Hai voglia di leggermela?

–       È solo qualcosa che mi è venuto in mente.

–       Come s’intitola?

–       Il mercante di sale.

Da quel giorno e per quattordici anni ho scritto tante storie e il primo a leggerle è sempre stato lui, appena scritte, lungo la strada.

Forse la salina di Manaure in Colombia mi stava aspettando per raccontami che oltre alle cose vere, oltre a quello che si vede nel corso di qualunque viaggio c’è l’incanto che può raccontare un determinato luogo, qualcosa che riesce a portarti più lontano di una macchina o di un aereo. Forse i miei occhi di allora avevano visto lo stesso vuoto e lo spazio si era dilatato per regalarmi quel tempo impreciso, il tempo per infilarci dentro altri viaggi, per raccogliere un insieme di sensazioni impalpabili e non logiche, perché la strada si cerca, ma la strada a volte ci aspetta per aiutarci a cogliere qualcosa in più, qualcosa di non spiegabile.

L’importante è continuare a muoversi e andare senza troppo sapere, senza troppo aspettare.

Il vento portava e allontanava nuvole, polvere, cristalli di sale, profumo di terra lontana, di mare carico di distanze e di pensieri confusi.

E la luce implacabile del sole filtrata dalle nuvole pennellava repentini cambi di colore, l’acqua diventava viola, tornava celeste oppure brillava d’argento e i confini sparivano, tutti i confini. E tutto sembrava possibile.

In quel momento si è avvicinato un uomo, aveva la faccia segnata dal tempo, dal sole e da un’antica fatica, aveva scarpe consumate e in mano impugnava un rastrello arrugginito.

Eravamo affacciati davanti a un’immensa aiuola di sale, in superficie c’era solo un velo d’acqua limpida rigata dalla brezza calda.

–       È il tuo sale?

Un cenno affermativo.

–       Sembra quasi pronto.

Ivan gli parlava in lingua Wayuunaki, una lingua diversa da quella degli indigeni Kogui della Sierra Nevada.

–       Sì.

L’uomo aveva lo sguardo soddisfatto.

–       Quanto vale?

–       Circa 70000 pesos per una tonnellata.

Ha risposto sorridendo.

Settantamila pesos colombiani equivalgono più o meno a venti euro, scarsi.

I Wayuu sono circa 500.000, un terzo di loro vive in questa zona della Colombia e in particolare nell’Alta Guajira, gli altri sono dislocati in Venezuela intorno al lago di Maracaibo o sulle coste caraibiche, ma questo popolo non ha mai riconosciuto i confini fra i due paesi, loro continuano da sempre a spostarsi e a migrare fra i due paesi incuranti delle regole e delle bandiere perché rispondono soltanto a una serie di codici non scritti che regolano la loro convivenza e che in qualche modo Colombia e Venezuela hanno dovuto accettare.

I Wayuu sono sempre stati un popolo orgoglioso e guerriero e, anche grazie alle caratteristiche del loro territorio arido e inospitale, non sono mai stati conquistati né soggiogati da nessuno, né dai colonizzatori spagnoli, né dai pirati inglesi o dai contrabbandieri di varie nazionalità, anzi hanno spesso approfittato dei traffici e commerci che attraversavano continuamente i loro territori per allearsi con i vari trafficanti, per sopravvivere e combattere, ma soprattutto per conservare la loro libertà e indipendenza totale.

I pacifici e spirituali fratelli Tayrona hanno da sempre protetto le foreste e le montagne della Sierra Nevada, nella stessa maniera gli indios Wayuu hanno difeso queste distese desertiche e ricchissime di biodiversità.

Storicamente c’è sempre stato un intenso scambio fra le popolazioni indigene del nord e del sud, i popoli delle montagne avevano bisogno, oltre che del pesce e del sale, anche delle conchiglie perché con i gusci triturati finemente formano tradizionalmente una polvere che essendo altamente alcalina reagisce con le foglie di coca che i Tayrona tengono sempre in bocca e continuano a masticare. L’unione delle sostanze basiche con quelle alcaline delle conchiglie favorisce il rilascio dei principi attivi delle foglie di coca e i Tayrona riescono a camminare per ore lungo i sentieri impervi delle loro montagne senza provare fame e stanchezza. I Wayuu in cambio delle conchiglie, del pesce e del sale ricevevano da loro le foglie di coca, il legno o la frutta.

Purtroppo nel corso degli anni gli scambi sono avvenuti non soltanto per esigenze alimentari o per le abitudini religiose e così i narcotrafficanti hanno approfittato delle correnti di scambio che avvenivano in queste terre senza confini per far partire dalle coste caraibiche della Guajira ingenti carichi prima di marijuana e poi di cocaina, ma i Wayuu pur avendo pagato un alto prezzo in vite umane hanno saputo conservare ancora oggi l’indipendenza anche da quel tipo di mondo. Il denaro facile è passato da qui e si è portato dietro violenza, soprusi e l’alterazione di un equilibrio che da queste parti non può essere accettato, ma anche quello, come il vento, è passato.

Le regole fondamentali della convivenza del popolo Wayuu sono sempre state dettate storicamente da un uomo, un saggio scelto con cura da tutta la popolazione che tradizionalmente si divide in grandi clan familiari.

Quest’uomo in lingua Wayuu si chiama Putchipuü e in spagnolo si traduce con Palabrero, l’uomo della parola.

Il punto fondamentale che regge l’armonia e la giustizia di questo popolo è proprio la Parola. Attraverso la parola si tramandano le regole di questa società matrilineare, una società in cui le donne sono sacre e amministrano le grandi famiglie mentre gli uomini si occupano di pascolare capre e vacche o di pescare. Quando sopravvengono dispute, discordie, ingiustizie, gelosie, tradimenti o scontri d’affari interviene il Palabrero che ascolta tutte le ragioni per cercare di riportare l’intesa con la sua saggezza ed esperienza, quando questo non riesce, il Palabrero stabilisce un accordo, un rimborso o la giusta pena e a quel punto la sua parola diventa legge indiscutibile che tutti s’impegnano a rispettare.

Dopo le saline di Manure ci si addentra all’interno del deserto per raggiungere Uribia, la capitale indigena della Colombia, l’ultimo “porto” nel nulla prima di affrontare il vuoto del deserto. Qui si trova quello che serve per proseguire nel viaggio: benzina, gomme di scorta, bottiglie d’acqua fresca e cibo per affrontare le piste della Guajira più selvaggia, quelle che portano fino al Cabo de la Vela e a Punta Gallinas, al faro più settentrionale di tutto il Sudamerica.

Da Uribia inizia un vero viaggio.

La strada spesso è soltanto una vaga serie di solchi appena accennati, oppure si percorre il letto di un fiume prosciugato o s’insegue un’incerta linea polverosa che taglia in due un’immensa e vuota spianata.

Sembra di essere in Africa, altre volte sembra di viaggiare verso la fine del mondo e proprio qui, in mezzo al nulla, a poca distanza da un minuscolo gruppo di malconce capanne di legno, fango e fibre di cactus iniziano i primi pedaggi della miseria e dell’orgoglio.

Lungo la pista di sabbia, sassi o argilla, un gruppo di ragazzini tende fra due pali storti una corda colorata, uno spago, raramente una catenella e obbligano tutte le macchine a fermarsi, ormai è diventato il loro gioco, una consuetudine, quel “casello” è un tributo dovuto per passare attraverso il loro territorio.

Quello che è interessante sono le reazioni reciproche fra gli autisti e quei ragazzini.

Ivan è un uomo gentile, si capisce da come guarda, da come parla, da come si muove, da come guida. A Uribia, senza dire niente aveva comprato qualcosa, era in un sacco che aveva infilato sotto al suo sedile.

A ogni pedaggio, Ivan si ferma a pochi passi dalla corda, abbassa il finestrino, sorride, infila la mano nel sacco e porge qualcosa: un pezzo di pane, una galletta al formaggio, una banana o una bottiglietta d’acqua.

Questi ragazzini non chiedono l’elemosina, non vogliono denaro, chiedono quello che manca, acqua o cibo e gli autisti con un tacito accordo contribuiscono al “gioco” e non danno nulla che sia avvolto nella plastica perché volerebbe nel deserto, niente di dolce perché alla lunga distruggerebbe i denti di quei bambini che non hanno acqua per lavarseli e non danno denaro che li indurrebbe a continuare lungo quella strada sbagliata, anzi spesso chiedono se hanno qualcosa da vendere e acquistano braccialetti colorati o mochilas (zainetti intessuti di fili colorati) caratteristici manufatti delle donne Wayuu.

Ma lungo quel percorso interrotto anche il pane e il resto del cibo finisce e allora ecco quello che vale la pena raccontare: Ivan si ferma, non abbassa il finestrino, sorride e fa un gesto con l’indice, lo ruota su se stesso come per dire “Domani, oppure la prossima volta”, i bambini si guardano fra loro, lo fissano negli occhi, lui alza il pollice e loro abbassano la corda. Si sono capiti, senza insistenza, senza rancore, senza stizza, perché loro sono poveri, ma sono Wayuu e conoscono il valore della parola.

Solo una volta assistiamo a qualcosa di diverso, davanti a noi c’è una grossa Toyota nera, una macchina nuovissima, l’autista è molto giovane, ha una maglietta verde sgargiante e la faccia dura del gradasso, a bordo con lui ci sono quattro ragazzi con i berretti calcati in testa e grossi occhiali scuri, ascoltano musica a tutto volume e bevono birra. Li avevamo notati perché in una lunga distesa in pieno deserto la loro macchina era partita a tutta velocità per ricoprire di polvere una alla volta le altre macchine che procedevano veloci, ma mantenevano le giuste distanze fra loro per vedere la pista.

Adesso la Toyota nera ci precede, rallenta davanti all’ennesimo spago, ma all’ultimo momento l’autista affonda sull’acceleratore strappando la corda dalle mani di un ragazzino che resta a guardare stupito. Dai cactus esce un uomo adulto e traccia a terra dei numeri, lo fa direttamente con l’indice nella sabbia. Ivan si ferma e cerca di capire e di calmarlo, gli offre un pacchetto di caffè e doppia dose di pane al ragazzino che si massaggia la mano ferita.

–       Non è la prima volta che lo fa, ma domani lo aspetto con la pistola.

I Wayuu sono poveri, ma sono orgogliosi combattenti e sanno cosa vuol dire il rispetto e sanno anche che se qualcuno fa un torto a uno di loro la fa a tutto il clan familiare. Spero non sia successo niente il giorno seguente, o forse l’autista delle Toyota nera avrà scelto un ritorno diverso.

Cabo de la Vela si chiama così perché i primi navigatori spagnoli che dal largo videro quelle coste, scambiarono per vele le tre colline triangolari che si affacciavano in mezzo al mare, si dice che a quell’epoca le cime fossero candide perché coperte dal guano di migliaia di uccelli e gli spagnoli le scambiarono per un galeone carico di vele.

Dalla cima del Pilón de Azucar la vista è uno spettacolo, un misto di paesaggio dai profumi e colori caraibici infilato su un tratto di costa irlandese.

Il vento caldo spazzava l’oceano anche quel giorno e si portava dietro mandrie di nuvole candide che cambiavano continuamente il colore dell’acqua del mare e spingevano le grandi e lunghe onde a infrangersi sulle scogliere color ocra e sulle spiagge arancioni, la schiuma s’impennava sbattendo sulle rocce e alti schizzi d’acqua si polverizzavano in aria e il sole si divertiva a trasformarli in variopinti arcobaleni.

Ci sono alcuni villaggi di pescatori da quelle parti e qualche Rancheria Wayuu dove si può dormire su un’amaca o in una camera semplice e pulita. Si mangia frutta deliziosa e pesce fritto, riso e patacónes (banane verdi schiacciate e fritte) e si può bere una birra ghiacciata, un’ “Aguila” o meglio una “Club Colombia Dorada”. Non c’è telefono, non c’è Wi-Fi, non c’è luce dopo le dieci di sera, ma sono tutte cose che una volta arrivati da queste parti non servono, basta restare seduti sulla spiaggia o su un’amaca a dondolare con la testa per aria, basta guardare il cielo e ritrovarsi immersi in un mondo di stelle che sono talmente vicine che sembra di poterle sfiorare per salire a bordo e partire con loro, bastava vagare per un po’ come un “Vagabondo delle stelle” inseguendo Jack London oppure i propri pensieri sciolti oppure basta addormentarsi presto perché qui si vive seguendo i ritmi del sole.

Dopo Cabo de la Vela, procedendo verso nord ci sono altre meraviglie, la grande Bahia Honda e la più piccola Bahia Hondita con le lagune salmastre e le saline che gli stanno alle spalle dove i fenicotteri e gli aironi si fermano nel loro migrare. È una continua sensazione di spazio, di vuoto e libertà ed è inutile descriverla con le parole perché non bastano e non servono per chi ama questi paesaggi. Ci si perde dentro e tutto il vuoto si riempie.

Qui, come un po’ in tutto il resto della Guajira, chi domina il paesaggio è il vento ed è per questo che di fronte a certe visioni sono rimasto spesso a guardare in silenzio, senza fotografare, senza pensare a nulla, immobile, per assaporare, quasi per bere a lungo quello spazio infinito.

Il vento è sopra ogni cosa, è carico di essenze e di visioni intimamente collegate alla terra dei Wayuu, un popolo che al mattino si sveglia e parla dei sogni vissuti durante la notte, sogni che sono il miglior mezzo per congiungersi al mondo ancestrale, al profondo legame con la natura, tanto che ognuno di loro, oltre al suo nome e un nome in spagnolo ha un nome legato al suo clan che viene rappresentato sempre da un animale.

Un tempo, il ruolo del Palabrero era affidato a un uccello che qui chiamano Pajaro Utta o Picogordo, un piccolo volatile della famiglia dei fringuelli dal becco grosso in grado di spaccare e cibarsi anche dei semi più duri.

Il Pajaro Utta sarebbe l’animale primigenio, quello capace di stabilire l’armonia e la corrispondenza fra gli uomini e la madre terra, il padre pioggia e il vento, la luna, il sole e le stelle. Bastava ascoltarlo, riflettere e prendere la decisione giusta.

Ho sentito le parole di un vecchio e autorevole Palabrero Wayuu che raccontava il senso del suo ruolo: “quando c’è la pace tutti i cammini sono aperti”, credo sia un perfetto punto di vista.

Ma prima di arrivare a Cabo de le Vela ho potuto vedere e capire qualcosa in più sui Wayuu e sulla loro mentalità.

La pista di terra qui corre parallela al mare, ma non c’è quasi niente, è un paesaggio di selvaggia bellezza, pochissime barche in mare, le onde schiaffeggiate dal vento, qualche misera capanna. Poi ad un tratto ci sono delle case in muratura, colorate, quasi moderne, sembrano in costruzione, ma guardando meglio sono distrutte, semi-abbattute, sembra sia passato un uragano o un terremoto, una è incenerita.

–       Cos’è successo da queste parti, Ivan?

–       Una famiglia Wayuu ha preso accordi e soldi da una società francese per costruire qualcosa…

Silenzio. Passa un uomo in moto, rallenta, ci guarda.

–        E…?

–       Gli altri Wayuu non erano d’accordo. Questa terra deve essere gestita direttamente soltanto da famiglie Wayuu, così una notte hanno distrutto tutto, è successo tre mesi fa, forse c’è stato anche uno scontro a fuoco, forse ma nessuno sa niente. Di sicuro i francesi hanno abbandonato il progetto e il Clan che viveva qui è sparito, forse si sono spostati da un’altra parte.

La parola data, vale per tutti e quando non si trova un accordo pacifico, viene stabilito un prezzo da pagare. La libertà si conquista insieme.

Equilibrio, rispetto della parola data, orgogliosa indipendenza, sono queste le caratteristiche fondamentali di questa gente che già s’intuisce negli occhi dei ragazzini che tendono lo spago e sembrano voler dire che anche loro hanno diritto a qualcosa quando il viaggiatore vuole godersi la rara e intatta bellezza dei loro luoghi.

È solo uno scambio, cibo o acqua in cambio di pura bellezza.

Ma i Wayuu hanno pagato e continuano a pagare un caro prezzo per conservare libertà e indipendenza nella loro terra dura e meravigliosa.

C’è rimasta una sola linea ferroviaria in Colombia e come un coltello taglia in due questa zona, ma il treno non traporta più persone, adesso trasporta soltanto il carbone e nella Guajira c’è una delle più grandi miniere a cielo aperto del mondo, è la miniera di Cerrejón e il carbone, da laggiù a sud di Uribia con i treni raggiunge un porto creato appositamente per questo, si chiama Puerto Bolivar e prende il nome dall’eroe dell’indipendenza di tanti paesi del Sudamerica anche se, ironicamente, questa miniera non è più di proprietà della Colombia che l’ha ceduta almeno fino al 2034 a una multinazionale.

Sono cose che accadono in tutto il mondo, quando a un paese povero serve denaro e tecnologia per “sfruttare” il proprio territorio, arrivano gli altri con le loro promesse.

Quel porto è un’invenzione recente, è stato creato nel 1982 nella Guajira alta, dopo le montagne sacre di Cabo de la Vela, prima delle Dune di Taroa, uno spettacolare tratto di costa dove dune desertiche alte fino a settanta metri scendono come onde contrarie fin dentro all’oceano, da lassù in cima, in pieno deserto ci si può rotolare fino all’azzurro del mare, è una sensazione bellissima, sembra di tornare ragazzini.

Dopo le dune ci sono le baie Honda e Hondita che sono un altro spettacolo naturale, là si pescano aragoste e gamberoni saporiti e lungo quelle coste intatte e solitarie vanno a nidificare le tartarughe e migliaia di specie di uccelli.

Eppure Puerto Bolivar è proprio da quelle parti e in mezzo al mare distante si vedono anche le sagome delle piattaforme che estraggono i gas naturali.

Ci sarebbero tante cose da dire su questa miniera e sul modo di cavare ricchezze dalla terra ma ne racconto una soltanto che risale al tempo delle guerre fra ribelli e gruppi paramilitari.

Un fatto che è successo a Bahia Portete, una baia protetta non lontana da Puerto Bolivar.

Una volta su quelle coste ci abitavano poche famiglie di pescatori con le loro misere baracche, poi un brutto giorno, il 18 aprile del 2004, su quella spiaggia arrivò un gruppo di paramilitari con le loro jeep potenti, erano una cinquantina di uomini pesantemente armati che senza pietà massacrarono tutti quelli che si trovarono davanti. Quel giorno c’erano prevalentemente donne e i militari prima profanarono le tombe e poi martoriarono figlie e madri dopo averle seviziate. Gli uomini delle AUC non volevano soltanto uccidere quelle persone, il loro intento era quello di seminare il vero terrore, quello che ti fa scappare lontano senza voltarti più indietro. Squartarono corpi ancora in vita di vecchie e bambine usando la motosega, tagliarono le teste e le issarono sui cactus e poi tornarono nei giorni seguenti. Alla fine ottennero quello si chiama “dislocamento”, in pratica cacciarono almeno 600 Wayuu dalle loro terre.

I signori della droga erano interessati a quelle coste tranquille perché da lì sarebbero potuti partire i loro carichi di droga e in più avrebbero potuto taglieggiare i ricchi di Puerto Bolivar.

Per fortuna da quel momento in poi il processo di pacificazione iniziò inesorabilmente, adesso tutta quella costa è diventata un Parco Naturale, ma il ricordo di quella violenza rimarrà per sempre. La regista venezuelana Patricia Ortega ci ha girato un bellissimo film nel 2013, è durissimo, s’intitola “El Regreso” e racconta quello che è davvero successo, una bambina Wayuu si è salvata e dopo una drammatica fuga è riuscita caparbiamente a tornare.

Una volta arrivati a Punta Gallinas si rimane per una o più notti in una ranchería Wayuu costruita su un sottile sperone roccioso che si protende come il becco di una gallina nel Mar dei Caraibi.

Anche qui c’è lo stesso vento che spazzava il deserto, forse è ancora più forte, il profumo del mare è più intenso, si mischia alle essenze salmastre che arrivano dalle lagune, all’odore dei muri di sassi, legno e cactus e a quello del fuoco che arde per cucinare nel campo.

Molte persone hanno innalzato mucchi di pietre in equilibrio una sull’altra nel tratto di scogliera rivolta al tramonto, si chiama stone-balancing, il senso è quello di ricercare una specie di equilibrio interiore in un luogo che ispira un particolare sentimento di pace.

Ce ne sono tanti, sono più o meno elevati e complessi.

Io non ho sentito la pace in questi luoghi, ho sentito la potenza della natura e la forza dei popoli che riescono a sopravvivere in equilibrio fra durezza, desolazione, privazioni, rispetto reciproco e tenacia.

Ho visto cose molto diverse in questo itinerario in Colombia, le montagne della Sierra Nevada e gli uomini che sanno percorrerle e difenderle in silenzio da una parte e i Wayuu della Guajira dall’altra, tutta gente che ha una cosa in comune: sono riusciti a resistere ai conquistatori, a ogni genere di traffico e all’attrattiva del denaro, anche se adesso il territorio della Guajira rischia di spopolarsi se il riscaldamento globale dovesse continuare al ritmo attuale e se, come pare, chi gestisce la miniera del Cerrejon continua a deviare fiumi come El Bruno per poter estrarre milioni di tonnellate di carbone che si troverebbero nel suo letto.

I Wayuu sono stati capaci di trovare pozzi acquiferi nel terreno pietroso di Punta Gallinas e, a un passo dalle scogliere più dure di Cabo de la Vela, c’è l’Ojo del Agua una pozza sacra d’acqua dolce che scaturisce a pochi metri dal mare, questa gente ha inventato un sistema per recuperare l’acqua delle piogge che s’infiltrano fra i granelli di sabbia delle dune, ma cosa succederà se non dovesse piovere più?

In lingua Wayyuu pioggia si dice “Juya” che significa anche anno, ciò il lasso naturale di tempo necessario fra una stagione delle piogge e l’altra, ma negli ultimi tempi, per questi “figli della pioggia” non è stato così, i pozzi si stanno prosciugando e il riscaldamento globale sta inaridendo rapidamente questa terra meravigliosa, l’unico sistema è quello di spostarsi, per inseguire l’acqua, ma fino a quando?

È notizia di questi giorni che in un altro luogo in Colombia, al centro del paese, dalle parti di Cajamarca la popolazione si sarebbe opposta energicamente alla proposta del governo centrale di concedere a una compagnia sudafricana l’inizio degli scavi di un’importante miniera d’oro, ma la licenza per effettuare i test è già stata concessa e solo il tempo ci dirà come andrà a finire anche questa storia.

Dopo il deserto, dopo le vibrazioni delle lagune salate, dopo i pedaggi fatti di sguardi e di spago la nostra macchina sulla via del ritorno raggiunge la strada asfaltata che ci riporterà a Riohacha e restiamo tutti in silenzio, per rivedere quello che abbiamo sentito, non ci sono più i sobbalzi e il silenzio è particolarmente profondo, a quel punto Ivan fa partire la musica, una serie di brani che appartengono tutti allo stesso genere, quello che si ascolta in Guajira, il Vallenato, sono ritmi di caja (tamburo africano) guacharaca (un bastone che ricorda una canna da zucchero su cui si struscia sopra una specie di forchetta che produce un suono graffiante) e fisarmonica. Si dice che un giorno sulle coste della Guajira arrivarono una serie di casse di legno provenienti da una nave naufragata, all’interno c’erano bellissime fisarmoniche tedesche e quel genere di musica nacque così, unendo le sonorità africane con quelle della fisarmonica in una miscela di ritmo, allegria e ricordi della schiavitù.

Spazio, sguardi, montagne, deserti e silenzi, è quello che ho visto, è quello che mi entrato nel sangue, ma sopra ogni cosa ci sono le storie di questi popoli, l’armonia e la lotta, la poesia e la ribellione e poi ci sono le libere connessioni che mi ha portato quel vento.

È strano, eppure sento che questo itinerario mi aiuterà a scrivere “Terre di vento”, il mio prossimo libro, una storia che si svolge in Patagonia, dalla parte opposta di questo immenso continente. Punta Gallinas è l’estremo nord del Sudamerica, la Terra del Fuoco è all’estremo sud, ma forse come nel vuoto dell’attesa nella mia notte a Riohacha serviva uno grande spazio-tempo libero da riempire di ricordi e libere visioni come in una colorata mochila Wayuu.

Questo viaggio è nato dopo aver assistito a Locarno alla proiezione di un bellissimo film in concorso, “Pájaros de verano” di Ciro Guerra e Cristina Gallego, mi aveva colpito la storia drammaticamente cruda e reale ed ero rimasto affascinato visivamente dall’immenso contrasto di ambienti naturali di questo lembo di Colombia separato dal resto del paese dalla Sierra Nevada di Santa Marta.

Questo itinerario, che consiglio a tutti, l’ho realizzato grazie ai servizi in Colombia di un Tour Operator milanese che conosco e apprezzo da molto tempo, Kel12, li ringrazio sinceramente perché sono stati capaci di organizzare tutto alla perfezione dandomi la libertà e l’autonomia del viaggiatore individuale e il supporto di un Tour Operator attento e in grado di fornire in zona il supporto logistico di persone non solo di eccezionale capacità professionale, ma cariche di una rara e profonda umanità e amore per questo meraviglioso paese e per la gente generosa che ci vive.

Ringrazio Yeison per avermi introdotto e accompagnato a cercare l’armonia fra le montagne della Sierra Nevada fino alla Ciudad Perdida.

Ringrazio Ivan per avermi guidato con altrettanta sapienza nel meraviglioso e ruvido mondo della Guajira, la terra libera e orgogliosa dei Wayuu.

Questo viaggio l’ho fatto con la mia famiglia, con le mie figlie perché solo i giovani potranno pensare alla salvaguardia di un futuro ancora possibile per il nostro pianeta.

Alla fine del viaggio non potevo non passare per Aracataca, il paese dove è nato e ha vissuto la sua gioventù un grande scrittore, Gabriel García Márquez, e proprio lì, concludendo il mio viaggio ho scoperto che la sua famiglia proveniva dalla Guajira e che il piccolo Gabriel aveva passato molto tempo con la servitù, una famiglia wayuu.

Forse tante storie e leggende Gabo le ha imparate proprio da loro.

Di sicuro, attraverso la sua sensibilità ed esperienza di vita, Gabo, ha capito una cosa:

Se un giorno la merda avesse un valore, i poveri nascerebbero senza culo”. (Gabriel García Márquez)

 

 

 

 

 

 

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