Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

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Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro.

 

“Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa da abitare, quando la si sarà resa simile da un capo all’altro e non si potrà nemmeno più cercare di viaggiare per distrarsi un poco” (Pierre Loti).

Come fanno omini a viaggiare in serpente di ferro?” è la domanda che Dersu Uzala, un vecchio cacciatore diventato ormai quasi cieco, fa al suo amico, il capitano Arseniev che lo vuole portare a vivere in città con lui. “Dersu Uzala” è un film di Akira Kurosawa del 1975, il vecchio cacciatore che vive da sempre nella taiga diventa amico del topografo Arseniev e vivono una magnifica e poetica storia di amicizia e di rispetto dell’uomo nei confronti della natura. Il film è tratto dai racconti dell’esploratore Vladimir Arseniev, dai sui ricordi di viaggio nella desolata taiga siberiana.

Libri di viaggio, come “La storia sei Mongoli” di Giovanni da Pian del Carpine o come il “Viaggio nell’Impero dei Mongoli” di Guglielmo da Rubruc o come quelli scritti da un altro esploratore, Nikolaj Przewalski, insegnante di geografia alla scuola militare di Varsavia, incaricato dalla Società Geografica Russa, la stessa a cui apparteneva Kolchak, di esplorare il bacino del fiume Ussuri come il capitano amico di Dersu Uzala. Ma dopo quel viaggio, Przewalski intraprese altri tre lunghissimi itinerari che lo portarono a ridisegnare la geografia, la flora e la fauna di una gran parte dell’Asia Centrale. Raggiunse Pechino attraversando il deserto del Gobi e arrivò fino in Tibet dopo un viaggio che venne definito come “uno dei viaggi più audaci della nostra epoca”. Fu proprio lui, il nobile geografo di origini polacche, che descrisse per primo i cavalli selvaggi che ancora oggi popolano la riserva del Khustain Nuruu in Mongolia.

I cavalli di Przewalski erano i cavalli preferiti dai guerrieri di Gengis Khan, loro li chiamavano takhi, lo spirito, o l’innafferrabile, perché erano piccoli e tozzi, non più grandi delle zebre, ma velocissimi e instancabili. Difficilissimi da domare e da avvicinare erano l’orgoglio di quei guerrieri. Nel 1400, dopo i guerrieri mongoli, li descrisse un altro avventuriero, il bavarese Johann Schiltberger. Questo incredibile personaggio, a quattordici anni seguì come scudiero il nobile Lienhart Richartinger accorso ad accrescere le fila del re d’Ungheria Sigismondo che si preparava, insieme ad alleati francesi, inglesi, tedeschi, moldavi e valacchi a fronteggiare l’esercito ottomano del sultano Bayezid I. La grande battaglia che lo stesso giovane Schiltberger descrisse era quella di Nicopoli che si svolse il 28 settembre del 1396.

Oltre all’importanza storica di quella grande sconfitta dei crociati, quello che rimane è proprio la testimonianza del quel ragazzo bavarese. Il suo prode cavaliere, Lienhart, fu ucciso e a lui venne risparmiata la vita soltanto per la sua giovanissima età, aveva sedici anni. I successivi trent’anni, cioè quasi tutto il resto della sua vita fu, come lui stesso la descrisse, una vita di prigionia e di viaggi in compagnia dei suoi rinnovati padroni, seguendo lo scorrere del tempo, le loro sconfitte o le loro morti. Dopo la disfatta di Bayezid I, Schiltberger si trovò alla corte di Tamerlano, a Samarcanda, in Armenia, in Georgia e poi dopo la morte del grande conquistatore, nel 1405, fu servo dei suoi figli, prima Shah Rukh e poi Miran Shah e poi ancora Abu Bekr fino ad arrivare a Costantinopoli nel 1427 dove riuscì a nascondersi per lunghi mesi e ad imbarcarsi su una nave italiana per rientrare, alla fine, in Baviera.

Schiltberger era una staffetta, un’instancabile corridore, un veloce cavaliere agli ordini dei suoi padroni e questo fu il suo ruolo durante tutti quegli anni. Ma Johann era soprattutto uno scrittore, un cronista a volte fantasioso e confusionario, ma sicuramente un grande anticipatore della letteratura di viaggio. Descrisse il vero luogo dove era stato sepolto Maometto a Medina, descrisse minuziosamente la battaglia di Nicopoli, e prima ancora del geografo polacco descrisse i cavalli selvaggi di Przewalski dalle pance biancastre e le teste tozze, descrisse i selvaggi Almas, gli Yeti della Mongolia e le pile di teschi dei nemici che Tamerlano faceva disporre intorno alle città conquistate.

I viaggi d’avventura di oggi fanno sorridere se paragonati alle imprese di Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo da Rubruc, o Johann Schiltberger, ma per fortuna i cavalli di Przewalski sono ancora là fra le colline battute dal gelo a ricordare quei coraggiosi esploratori, anzi, quei curiosi avventurieri. Loro, in fondo, non si accontentavano di quello che già sapevano, perché il coraggio allora era un elemento quasi scontato, il resto era soltanto il desiderio di conoscenza o forse di pura, vera, avventura.

Oggi, i serpenti di ferro di Dersu Uzala sono utilizzati nei viaggi da un altro genere di avventurieri, sono gente come Panaan, una ragazzo di vent’anni di origine mongola che vive nei dintorni di Pechino, lui ogni quindici giorni prende il treno 023 che parte da Pechino per Ulan Bator e lo 005 che da Ulan Bator raggiunge Irkutsk in Siberia. Panaan prenota uno scompartimento di prima classe con due cuccette, una per lui e l’altra per sua madre, tutto il resto dello spazio nella cabina è occupato da un’incredibile serie di borse telate a strisce bianche, azzurre e rosse. C’è di tutto là dentro, la merce viene da Macao e finirà nelle stazioni lungo il confine cinese, in Mongolia o nella Siberia orientale. Sua madre fa la guardia in cabina, mangia continuamente: riso, verdure, pollo, dolci, noccioline e beve birra. Il resto del tempo lo passa al telefono, a dormire e a truccarsi. Lui, invece, si aggira come un’animale in gabbia, percorre continuamente quel treno, è vestito sempre di nero, fuma annoiato al finestrino guardando quel paesaggio che conosce a memoria. Ha baffi spioventi, il cappello calato sugli occhi e una faccia poco raccomandabile, assomiglia un po’ al giovane Semënov, del resto anche lui dev’essere un capo, una specie di ataman del commercio, basta vedere come lo trattano le guardie di confine o i ferrovieri nella carrozza ristorante. Lo lasciano fare e scherzano con lui, come fosse uno di loro. Forse nelle sue buste telate non ci sono soltanto tute Adidas contraffatte.

C’è un’unica speranza, che anche Panaan, un giorno, si stanchi di andare avanti e indietro fumando affacciato a quei monotoni finestrini, che gli venga la voglia di andare nello Shanxi, a guardare le cicogne volare intorno alla Pagoda di Guanque, quella della poesia Tang.

E’ facile salire ancora un altro gradino, bisogna soltanto decidersi a farlo. Una volta lassù, quel panorama diverso metterà in moto qualcosa, e non sarà stato lo scorrere del fiume, né lo splendore dei colori del sole, o la poesia delle cicogne bianche, e nemmeno la solida forza delle montagne, ma quella piccola-grande decisione di cambiare.

Wang Zhihuan

Su per la Torre della Cicogna

Il giorno chiaro oltre i monti scompare, il Fiume Giallo verso il mare scorre.

Se mille li* al di là vuoi guardare, sali ancora d’un piano sulla torre.

(*li: misura pari a mezzo chilometro.)

 

Marco Steiner

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