L’ultima pista (un romanzo a puntate) 4

You think it's good?

L’ultima pista (un romanzo a puntate) 4

quattro

Iniziai a leggere due lettere.

Caro Corto,

come tu sai (o forse non più?), dal mio arrivo sto cercando di raccogliere tutte le notizie possibili sui luoghi che, dopo i ghetti della Polonia, alimentano di carne fresca i bordelli argentini. Insieme a un amico giornalista speriamo di riuscire a denunciare questo traffico che mi fa orrore per le ragioni che tu ben conosci.

Inutile dirti che tutto questo non è senza pericoli, perché dietro agli sfruttatori si celano pesci assai più grossi.

Vedo il tuo sorriso immaginandomi nelle vesti di giustiziere dei poveri.

Che cosa vuoi farci, mi è cresciuta una specie di disgusto per certe cose e allora provo a cambiarle.

Ho saputo da alcuni amici di Parigi che Albert Londres dovrebbe arrivare da noi per un grande reportage sulla tratta delle bianche.

Non mi piace quest’espressione, ma apprezzo la sua idea di giornalismo e il suo stile.

In ogni caso preparo questo dossier per lui. Ne faccia pure ciò che vuole. Quanto a te, non oso sperare di rivederti presto, a meno che non ti venga nostalgia dell’Argentina.

 Louise

 

Caro Corto,

 forse non mi sarà più possibile scriverti. Da qualche settimana gli avvenimenti stanno precipitando.

Procediamo con la nostra inchiesta che si spinge sempre più lontano e che, soprattutto, ci porta sempre più in alto. Stiamo scoprendo metodi terrificanti, interessi economici immensi, corruzioni inaudite.

Ho paura.

Credo che si sia messo in moto un ingranaggio che finirà per schiacciarmi. Come dice il Salmo III che a volte recito prima di addormentarmi, «Signore, i miei nemici sono numerosi! Molti si accaniscono contro di me».

Ma mi viene in mente anche un pezzo del Sabbat che aggiunge che non si deve accettare la vergogna e che si deve, invece, sfidare il disprezzo.

Sono diventata la «donna valorosa» evocata dalla Bibbia.

Ritroverai tutto questo nel sacro libro che ti aveva donato un tempo il rabbino Toledano, ma che avrai sicuramente perduto, miscredente che non sei altro.

Non dimenticarti di me quando tornerai qui.

Comportati bene.

Louise

Poi iniziai a sfogliare distrattamente il resto del materiale contenuto nella cassetta: schede, ricevute, foto.

Tutto era ordinato, rigoroso, catalogato con metodo, mentre io volevo iniziare a raccogliere impressioni generali, verificare sensazioni.

Presi in mano una scheda, c’era una foto che conoscevo benissimo, era quella di Butch Cassidy, il celebre bandito americano.

Quello che mi colpì era l’annotazione:

Amico di Corto Maltese, uccise il sicario David Lipszia dell’organizzazione Warsavia, mentre questi cercava di eliminare il marinaio Corto, amico di Louise.

Avevo la sensazione che quel particolare potesse essere la chiave per accedere a tanti segreti: Corto Maltese, l’uomo a cui Louise aveva chiesto aiuto e che salvò mia nonna, a sua volta era stato salvato dal famoso Butch Cassidy. Perché?

A quel punto, oltre all’interesse per la storia che era costata la vita a Louise Brookszowyc, avevo un motivo in più per indagare il rapporto fra Butch Cassidy e il marinaio Corto Maltese.

Butch Cassidy, o meglio Robert LeRoy Parker, nacque il 15 aprile del 1866 a Beaver, Utah, primo di tredici figli di una famiglia di mormoni.

Il proprietario del ranch dove iniziò a lavorare guardava con una certa ammirazione quel tredicenne serio e taciturno che sgobbava come un adulto.

Ma le cose cambiarono presto.

Un giorno si incamminò per la strada che separava il ranch dall’unico emporio della zona dove avrebbe potuto comprare dei vestiti nuovi. Alla fine del lungo tragitto Robert trovò il negozio chiuso. Visto che non aveva intenzione di tornarsene indietro a mani vuote, decise di entrare lo stesso e forzò la porta con una sola spallata.

Una volta dentro, scelse lo stretto necessario, un cappello, un paio di stivali, una cintura di cuoio, una camicia, quindi lasciò in bella mostra una nota in cui descriveva quello che aveva preso, nome, cognome, da dove era venuto, e la garanzia che sarebbe tornato a saldare.

Ma il proprietario del negozio era di quelli che non facevano credito. Avvisò lo sceriffo e Robert LeRoy Parker venne accusato di furto, ricercato e catturato.

Nell’ufficio dello sceriffo, Robert spiegò con calma la propria versione dei fatti, che era entrato nel negozio con l’intenzione di pagare – altrimenti perché avrebbe scritto nome e cognome? – ma quello lo guardava e sorrideva, fumava e beveva whiskey e si rigirava la pistola intorno all’indice della mano sinistra.

«Non sei soltanto un ladro, sei anche un bugiardo, ma sarà un piacere insegnarti a rigare dritto.»

In quel momento Robert ebbe l’istinto di alzarsi, prendergli la pistola e piantargli una pallottola in fronte. Invece rimase seduto e continuò a fissare negli occhi lo sceriffo, che gli sbuffò una nuvola di fumo in faccia e poi spense il sigaro sul tavolo, a pochi centimetri dalla mano di Robert.

I due uomini rimasero a fissarsi per un lungo istante e nessuno dei due sembrava voler abbassare lo sguardo.

«Sbatti in cella questo signorino che vuole prenderci per il culo, Tod. Ho l’impressione che lo rivedremo spesso.»

«Lo accoglieremo sempre a braccia aperte, capo.»

Dopo alcuni giorni, Robert fu rilasciato, ma il torto gli bruciava, e non solo perché aveva perso il lavoro.

Nel giugno del 1884, quando aveva 18 anni, Robert partì in cerca di fortuna insieme a Mike Cassidy, l’amico del quale sarebbe rimasto debitore in eterno per almeno tre cose: il talento nel domare i cavalli, la precisione nella mira e il cognome che divenne una leggenda.

La loro prima meta fu il Colorado, per la precisione la zona di Telluride, una città frequentata da sbandati, ubriaconi e avventurieri. Lì ogni sera Robert e Mike si bevevano fino all’ultimo centesimo il denaro guadagnato come mandriani.

A quell’epoca Butch, che aveva smesso di chiamarsi Robert da quando aveva lavorato per alcune settimane in qualità di aiuto-macellaio, possedeva due cavalli e li teneva a pensione dal proprietario del ranch dove era stato assunto come mandriano. Un giorno partì di buon’ora con entrambe le bestie per domare il puledro. Il proprietario del ranch si convinse che quel giovane cowboy dalla mascella quadrata fosse sparito senza pagargli la retta dei cavalli e lo denunciò.

Senza fargli troppe domande, lo sceriffo di Montrose City lo sbatté in prigione. Di nuovo.

Una volta libero, Butch si mise a vagare per il Wyoming e il Montana prima di ritornare a Telluride, dove, nel 1887, incontrò l’uomo che lo avrebbe introdotto alla sua futura e definitiva carriera: svaligiare banche e assaltare treni.

Matt Warner, come Butch, era figlio di mormoni dello Utah. Possedeva una puledra, Betty, leggera ed elegante, scattante e nervosa, piuttosto piccola e solo in apparenza poco potente. Perché quella puledra era in grado di sbaragliare qualunque avversario.

Le cose si misero presto a funzionare alla grande per i due amici. Betty vinceva le corse e Butch e Matt intascavano le scommesse.

In quel giro, Butch conobbe i due fratelli Tom e Bill McCarthy. E fu insieme ai McCarthy e a Harry Longabaugh, meglio noto come Sundance Kid perché aveva cominciato da ragazzo a rubare bestiame nei dintorni di Sundance, che Butch formò il Wild Bunch.

La rapina più celebre del Mucchio Selvaggio fu quella del 19 settembre 1900 alla First National Bank di Winnemucca, nel Nevada, che fruttò un bottino di 32.640 dollari.

Quando l’agenzia Pinkerton, la più prestigiosa agenzia investigativa d’America, fu incaricata di mettere fine alle loro gesta, Butch Cassidy, insieme a Sundance Kid e alla sua donna, Ethel Etta Place, decise che era il momento di cambiare aria.

Arrivarono a New York, comprarono da Tiffany un orologio d’oro a spilla per Etta e si imbarcarono sul vapore “Soldier Prince” diretto in Argentina.

A Buenos Aires presero alloggio all’Hotel Europa, finché, grazie ai buoni uffici del Dipartimento del Territorio, acquistarono un ranch a Cholila, provincia del Chubut, Patagonia.

Butch era il signor Santiago Ryan, Sundance ed Etta erano il signor e la signora Harry Place. I documenti dicono che il loro ranch si estendeva per 12.000 acri sui quali pascolavano 300 bovini, 1500 pecore e 28 cavalli.

Secondo le parole di Butch, «il miglior posto del Sudamerica».

Butch era un tipo gioviale e aveva due grandi passioni, la storia medievale e quella dei clan scozzesi. Per i primi tempi in Patagonia filò tutto a meraviglia, ma dopo sei anni, sarà stata la noia, la solitudine o la nostalgia della vecchia vita, Butch, Sundance Kid ed Etta Place vendettero tutto e se ne andarono in Bolivia. O così almeno si racconta.

E si racconta anche che, dopo alcune rapine in quella zona, i tre amici venissero uccisi, il 4 novembre 1908, nella cittadina di San Vicente. Secondo questa versione, Butch, ferito a morte, avrebbe finito con il colpo di grazia Sundance, anche lui gravemente ferito, prima di togliersi la vita. Forse qualcuno ricorderà l’ultima scena del film di George Roy Hill del 1969 con Paul Newman nei panni di Butch e Robert Redford in quelli di Sundance Kid.

C’è però chi dice che Butch fosse tornato negli Stati Uniti sotto falso nome e che fosse poi morto nel nord-est nell’autunno del 1937. È la teoria dello stesso Robert Redford nel libro The outlaw trial, e si basa sulle parole di Lula Betenson Parker di Circleville, sorella di Butch.

Mi immaginai quel bandito che se ne va in giro a rapinare treni e a svaligiare banche, mentre gli sceriffi di mezza America scrivono manifesti a caratteri sempre più grandi, offrono taglie sempre più ricche e lui, imperturbabile, si ferma accanto al fuoco, si prepara un caffè, si scola un whiskey, fuma un sigaro e alla fine prende carta e penna e si mette a scrivere alla sorella Lula.

Iniziai a fare delle ricerche in rete, non sapevo se Lula Betenson Parker fosse ancora viva, anzi a fare due conti era praticamente impossibile, ma avevo trovato un possibile figlio, Mark Betenson a Circleville. E poi, da qualche parte nello Utah, si trovavano le lettere e gli oggetti personali di Butch Cassidy.

Non avevo alternative. Dovevo iniziare da lì.

Avevo deciso di partire da lontano, di girare intorno all’obiettivo, quasi con indifferenza, entrare nello sfondo, rendermi irriconoscibile e cercare di cogliere le sfumature, i dettagli, e solo alla fine cercare di affondare il colpo.

Volevo ricostruire la storia di Louise e attraverso quella risentire la musica e il profumo del mio passato.

L’odore dello stufato irlandese mi faceva rivivere i gesti di mio padre, il rumore fastidioso che faceva spostando la sedia per sedersi a tavola e quello un po’ disgustoso del risucchio del sugo dal cucchiaio.

Rivedevo le violette regalate a mia madre e la tenerezza delle sue guance lentigginose attraversate dalle lacrime. Immaginavo Pedro Mangini che fumava guardando Lara e Louise ballare il tango e sentivo quella musica appassionata, lo schiocco dei tacchi sul pavimento e il profumo delle gonne che ruotavano strusciando sulle cosce delle ballerine.

A spingermi a partire per il mio viaggio furono diverse cose, ma come spesso accade, alla fine si rivelò determinante un elemento in apparenza marginale, una canzone del 1971 dei Led Zeppelin, Stairway to heaven.

Quella mattina pioveva fitto e sottile, fuori era solo grigio. Il tempo non cambiava da diversi giorni. Avevo fatto la doccia e stavo iniziando a radermi. Avevo dormito male e mi sentivo addosso un misto senza nome di noia e malinconia che mi bloccavano come corde bagnate.

Cercai fra i CD un pezzo di buon rock, una scossa per la faccia giallastra e depressa che detestavo.

Black dog, adrenalina pura.

Lo feci andare a volume gagliardo e compii i soliti gesti quotidiani con la tranquillità di chi non ha un orario da rincorrere. Lavarsi i denti, strofinarsi in faccia il dopobarba, asciugarsi, vestirsi, buttare giù un caffè, vedere i titoli dei giornali ripetuti ossessivamente dai diversi canali televisivi. E al di sopra di tutto, il rock classico ed energico dei Led Zeppelin.

Alcuni minuti dopo ero vestito e ricaricato davanti al lettore, pronto a spegnerlo e uscire, ma in quel momento il rock si sciolse. Ci fu una lunga pausa di silenzio. Poi, senza neppure rendermene conto, mi ritrovai imprigionato nella magia degli arpeggi della chitarra di Jimmy Page.

Stairway to heaven.

Lì c’è tutto.

Dicono addirittura che facendola suonare al contrario si riesca a sentire una strana voce che dice «666», il numero magico di Satana. Il patto col diavolo dei Led Zeppelin? Non lo so, non credo, so soltanto che mi lasciai cadere sulla poltrona e iniziai a seguire le parole del testo, l’unico trascritto in tutto il libretto.

 There’s a feeling I get

when I look to the west

And my spirit is crying for leaving…

Ooh, it really makes me wonder…

La voce di Robert Plant m’implorava.

Me li rivedo nel video del concerto del 1973. Jimmy Page vestito di scuro, concentrato sulla sua Double Hand. E Robert Plant alto, sottile, con i lunghi boccoli biondi da cherubino e una ridicola camicia corta e slacciata, il petto nudo. Dopo la dolcezza iniziale, Jimmy comincia a infilare nelle sue schitarrate qualche giro di blues, e Robert accetta la sfida, anzi a sua volta la provoca. A un certo punto entra in scena la batteria di John Bonham che inizia a lavorare pesante. Il ritmo cresce e, mentre Robert continua a riflettere, sputa la frase che fece riflettere me:

Yes, there are two paths you can go by, but in the long run

There’s still time to change the road you’re on

La musica continua a salire di intensità, diventa sempre più robusta, Plant ormai grida e la chitarra di Jimmy lascia partire una serie di accordi graffiati che vibrano nell’aria, poi vola e svisa sempre più in alto.

La chitarra a due manici è rosso-bordeaux e nera, è enorme, sproporzionata, ma fra le mani di Jimmy sembra leggera come una farfalla. Le sue note volteggiano. La batteria non dà respiro, Bonham sostiene, incalza, dà corpo e Plant se ne sta tranquillo, lascia fare, batte un tamburello e segue il ritmo scuotendo felice la testa e i boccoli.

Ma a un certo punto s’incazza e comincia a urlare come un pazzo.

Sembrava si stesse rivolgendo direttamente a me.

… to be a rock and not to roll…

Si dice che gli Zeppelin abbiano scritto Stairway to heaven pensando al paradiso che un ragazzo scopre facendo per la prima volta l’amore con una puttana.

Curioso, una canzone che parla di una puttana mi aveva dato la carica giusta per mettermi in cerca della verità su mia nonna e sulla tratta delle bianche di quasi un secolo prima.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Vai alla barra degli strumenti