Un mare troppo lontano (recensione di Gianni Brunoro)
BOTTE PICCOLA, VINO BUONO
Negli elegantissimi e molto costosi vecchi orologi analogici, “antenati” di quelli digitali e quindi a movimento meccanico, esiste un dispositivo (forse chiamato scappamento ad ancora, ma in questo contesto il nome non ha importanza) il quale ha la funzione di far sempre avanzare il congegno, senza fermarsi, qualunque movimento lo coinvolga. È la metafora che potrebbe affacciarsi alla mente del lettore abituale dei romanzi di Marco Steiner, amico e “allievo” letterario di Hugo Pratt, alla lettura della sua ultima opera, Un mare troppo lontano. È il primo titolo di una nuova collana di “racconti di viaggio e avventura”, Zefiro, pubblicata dalla piccola e gagliarda libreria romana Le Storie. Il perché della sensazione metaforica dipende dal fatto che Un mare troppo lontano evidenzia un successivo passo avanti rispetto a Nella musica del vento e a La nave dei folli, opere le quali, in sequenza, dimostravano a loro volta un ulteriore superamento, già l’ultima rispetto alla penultima, nel mondo creativo e nei corrispondenti requisiti letterari di Steiner. Ora, questa recente opera – pur nella sua dimensione all’apparenza minimalista – mostra una struttura letteraria ancora più avanzata, contestuale a una notevole maturità in progress rispetto al passato.
I fatti narrati, di per sé semplici, emergono obliqui coordinando la narrazione non lineare dei vari racconti: il proprietario di un veliero, da lui profondamente amato, è costretto a cederlo. Lo acquistano tre uomini, per usarlo a scopi truffaldini, tipo contrabbando di liquori, o traffico d’armi. Questi finiscono per litigare: due rimangono uccisi, il terzo vaga sul mare col battello, che va incontro a un naufragio. Arenato su una spiaggia, diventerà un vecchio relitto. Ma su quel relitto, fra realtà e suggestioni, lo scrittore imbastisce le sue storie, nutrendole di sogni, illazioni, ragionamenti, fantasia.
Vista l’impostazione programmatica della collana, il libro si presenta come una serie di racconti, diciamo così, “di mare”. Dopo un prologo autobiografico sulle impressioni provate dall’autore nell’osservare un austero, ieratico corvo, dal quale peraltro si sente osservato, si approda a un primo capitolo: esso racconta di tre uomini sull’imbarcazione Irene di Boston, i quali finiscono in un accanito litigio, il cui esito è drammatico: due rimangono uccisi dal terzo; ciò avviene sotto lo sguardo penetrante di un corvo nero, lucido come la notte. Il secondo racconto è un’estesa divagazione poetico-narrativa dei viaggi di una pressoché enigmatica Irene e dell’incontro con due altri uomini; ma si intuisce poi che Irene è la stessa nave e che parla con un corvo, il quale le predice il naufragio, mentre lei diventerà una donna. Nel terzo capitolo è il veliero stesso Irene di Boston – o per meglio dire il suo spirito – a parlare in maniera palese e a raccontare in una favola onirica i fatti che portarono alla propria nascita, nel naturale contesto del proprio punto di vista; fra l’altro, lei esibisce, fin dal principio, una specie di elegia, la propria ammirazione delle doti del corvo, «l’unico che può volare fra i reami, l’unico in grado di vedere il passato e di raggiungere il presente, l’unico in grado di entrare nelle terre dei sogni, di sbirciare il futuro e capire le anime». Al capitolo successivo, sono il corvo Puck e un olivo i protagonisti, impegnati in dialoghi tra il filosofico e l’esistenziale, pur sullo fondo della dimensione dell’avventura (e di altro: che esige un successivo approfondimento). Il capitolo conclusivo, sempre all’insegna della presenza di un corvo, è una narrazione in terza persona, allusiva a un’esposizione ordinata degli eventi prima narrati.
In questo resoconto forzatamente sintetico (e come tale incompleto) risultano tuttavia evidenti certe caratteristiche: la più notevole è che i racconti sono collegati fra loro, sia per la immanente, significativa presenza del corvo, sia per i protagonisti. Altro elemento importante è la struttura narratologica. Per esempio, chi abbia letto L’urlo e il furore del grande scrittore americano William Faulkner (premio Nobel 1949), avrà presente che nei quattro capitoli del romanzo i primi tre sono “scritti” da tre differenti protagonisti, che espongono ciascuno la propria visione soggettiva dei fatti; mentre nel quarto subentra una esposizione in terza persona che chiarisce in modo oggettivo gli eventi. Un procedimento analogo, di avanguardia narrativa, qualifica – come si è accennato – anche Un mare troppo lontano. Altri elementi caratterizzanti sono le strutture narrative, che fra le altre possono richiamare le ambientazioni del primo Melville, quello di Taipì, per intenderci; o l’esotica profondità espositiva, data dalla compattezza, che caratterizza Conrad. Ma ci sono anche rimandi metanarrativi: per esempio al Corto Maltese di Hugo Pratt, specificamente al racconto Sogno di un mattino di mezzo inverno.
Comunque, appunto, il capitolo Il corvo e l’olivo esige un approfondimento. Perché, se ogni libro ha un’anima, per “questo” libro si può ragionevolmente sospettare che l’anima risieda nei dialoghi fra l’olivo e il corvo Puck, appunto in “questo” capitolo. Il quale costituisce uno dei perni su cui si regge tutto il librino: corvo e olivo si scambiano pensieri su mitologie nordiche e memorie mediterranee, in un groviglio inestricabile di miti, fantasie, favole: un mélange che, sul piano narrativo, risulta una prospettiva surreale. Dei quattro classici elementi acqua-aria-terra-fuoco, l’olivo incarna le valenze materiali, concrete: acqua-terra; mentre il corvo impersona le componenti magiche, lievi, impalpabili: aria-fuoco. Per cui nel contesto narrativo generale, questi momenti configurano il livello intellettuale/filosofico più alto. A tratti, sembra di assistere ai battibecchi fra l’aviatore e il piccolo principe, nell’opera omonima di Saint-Exupery: ma qui, con la compunzione di un filosofo del romanticismo tedesco.
Seguiamone certi dialoghi:
«Quello non è un marinaio come gli altri – afferma il corvo – lui si chiama Corto Maltese ed è un simbolo del viaggio per mare, proprio come quell’amico di cui ti parlavo.», «E allora dimmi chi sarebbe questo amico, maledetto corvo insistente!», «Io ho un nome, olivo, mi chiamo Puck!», «Va bene, Puck, parla allora… […] tu rimugini le tue vecchie favole celtiche zeppe di eroi, fate, maghi cavalieri e velieri incantati», «Olivo, tu conservi la memoria, ma io volo nel mondo della fantasia e servono entrambe per sognare. Tu te ne stai piantato qui, osservi e ricordi le cose, ma io le vedo in un’altra maniera perché riesco a viaggiare libero fregandomene del tempo».
E nei loro discorsi s’infiltrano anche guizzi metanarrativi. Ricompare Corto Maltese e il corvo, nella sua fantasia, lo fa figurare come una reincarnazione di Ulisse:
«Il tuo amico – dice all’olivo – si chiamava Ulisse, vecchio brontolone, te lo ricordi soltanto adesso?», «Ma chi, il greco? Ma certo che me lo ricordo e mi domando che fine avrà fatto?», «Olivo, io non sono venuto fin qui per farti una lezione di storia, a me interessano i sogni e le favole, non soltanto quelle celtiche, e poi, mi piace pensare al futuro e non ho voglia di rinvangare il passato, comunque stavo pensando proprio a lui, Ulisse, il marinaio greco che dopo aver conosciuto ogni genere d’avventura in giro per il mondo e dopo aver rifiutato l’immortalità che amanti, sirene, maghe o regine gli volevano regalare, scelse di tornare in patria, a casa, da sua moglie Penelope.», «Sai perché lo fece?», «No.», «Perché Ulisse scelse la fine di un uomo normale».
Si potrebbe naturalmente continuare, spulciando fra questi dialoghi all’apparenza surreali, che dipingono un mondo animisticamente panico, in cui parlano vegetali e animali, mentre l’uomo non vi esiste: come in Fedro, come in certo “moralista” Trilussa. Ma sono dialoghi tuttavia profondi, che rinviano a problematiche eterne, tanto in filosofia quanto in letteratura. Chiunque, purché aduso a buone consuetudini letterarie di lettura, potrà trovarci anche altro. Ma qui è il caso di sottolineare come ciascun capitolo sia fruibile come racconto in sé, grazie alla chiarezza espositiva; nella quale peraltro serpeggiano rinvii poetici, sia nella sostanza sia nella forma, che pur non rinunciano a un sapore diffuso di senso dell’avventura: sono pertanto limpidi richiami a eventi, a considerazioni, a immagini letterarie. È in ciò, che si sostanzia la sistematica tensione a una profonda essenza narrativa di quest’ultima opera di Steiner.
(Gianni Brunoro)
Marco Steiner, Un mare troppo lontano
Ed. Le Storie, Roma, 2022
82 pp., f.to 8×12, brossura, Euro 5,00
La Nave dei Folli. Un Diario di Bordo. (Approdo a Venezia)
Arriva il giorno, è venerdì 7 ottobre 2022, e arriva il momento di presentare a Venezia il mio ultimo romanzo, “La nave dei folli. Un diario di bordo” edito da Marcianum Press.
Organizza tutto l’elegantissima Libreria Studium infilata nel cuore di Venezia, fra San Marco e il Ponte dei Sospiri.
Il luogo della presentazione è un’altra meraviglia, l’antico chiostro di Sant’Apolllonia, un luogo magico che risale al XII°-XIII° secolo.
La sala è piena, c’è tanta gente, tante personalità cittadine, tanti amici.
Presentano il libro il Professor Antonio Alberto Semi, Psichiatra, Psicoanalista. Membro ordinario e A.F.T. della Società Psicoanalitica Italiana e Stefano Knuchel, regista svizzero autore del recente “Hugo in Argentina” un documentario sulla vita di Hugo Pratt presentato nel 2021 alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia nella rassegna Giornate degli Autori.
La presentazione dell’Evento spetta all’organizzatore di tutto, Marco Vidal che ha rivitalizzato con passione e professionalità la Libreria Studium e riveste il ruolo di CEO di “The Merchant of Venice” un marchio di profumeria artistica di lusso nato a Venezia dalla volontà della Famiglia Vidal, operante nel settore della profumeria a livello internazionale da più di un secolo.
Sono onorato di pubblicare qui, il testo completo dell’intervento del Professor Semi che mi ha profondamente onorato con il suo sincero apprezzamento, le sue parole e la sua amabile ironia:
Narrenschiff (per La nave deì folli di Marco Steiner, Marcianum Press, 2022, [7 ottobre 22 – 17.30- Satnt’Apollonia]
Per prima cosa desidero dirvi che sono un po’ a disagio nelle vesti di presentatore di questo libro. Vedete, presentare o recensire un libro è sempre un po’ complicato, ammenoché non lo si faccia di mestiere, che non è il mio caso. Anche se lo si fa d’abitudine, c’è sempre il rischio di essere solo compiacenti, dichiarare in vario modo che sì, è proprio un bel libro, fare tanti complimenti all’autore e magari cercare di tenerselo buono perché lui possa ricambiare il favore in una prossima occasione. Viceversa, altro rischio ma raro, nel nostro paese, un presentatore può diventare uno stroncatore, uno che dichiara subito che il libro è mal fatto, poco interessante, che non si capisce perché uno abbia fatto la fatica di scriverlo. Non capita quasi mai: come si usa dire tra noi, can no magna can. Ma questi che ho appena detto sono pericoli evidenti per l’autore, per giunta subito riconoscibili da parte del lettore o dell’ascoltatore. Ci sono mezzucci più mascherati, invece. Per esempio, è possibile illustrare un libro proprio per bene, raccontandone tutta la trama in modo da far sì che l’ascoltatore alla fine abbia l’impressione di sapere già cosa contiene il libro e dunque non abbia più la curiosità di leggerlo e quindi ancor prima di comprarlo. Il caso clamoroso e evidente è quello del libro poliziesco o giallo. Se si racconta tutta la trama e magari anche la conclusione, di fatto si toglie l’interesse al lettore. In questo caso, nel caso dei gialli voglio dire, è diventato un imperativo etico quello di non dire quale sia la conclusione. Ma quel che vale per i gialli vale anche per molti altri libri, solo in forma più dissimulata, per cui accade che il presentatore o il recensore possa rendere un cattivo servizio all’autore riempiendolo però di complimenti e contemporaneamente inibendo l’acquisto del libro.
Nel mio caso, invece, mi trovo preso tra due tendenze: da un lato, come psicoanalista e psichiatra, mi verrebbe voglia di mettermi, come si usa dire, a interpretare; dall’altro lato, però, avrei voglia di andare un po’ a libere associazioni, a lasciarmi andare cioè ad un flusso di pensieri che non si sa mai, in precedenza, dove andranno a parare. Vi sto mostrando beninteso una alternativa classica che abbiamo tutti, di fronte ad un libro o a un film – e ancor più di fronte ad una persona – che è quella di considerare il libro come un oggetto, quindi diverso da noi e meta del nostro pensiero e dei nostri sentimenti o, al contrario, quella di identificarsi con l’oggetto, in questo caso con i contenuti del libro, proseguendo in qualche modo i pensieri contenuti nel libro.
Il quale libro di oggi – diciamolo subito – invita o addirittura costringe a questo, cioè a identificarsi e a dis-identificarsi. A viaggiare con Indio, il protagonista, e a staccarsi per chiedersi chi mai sia questo Indio, dove stia viaggiando.
Perché questo è un libro di viaggio, anzi è un diario di viaggio. Ma già il titolo sembra volerci mettere sull’avviso: La nave dei folli. Sapete, un titolo del genere, ricco di storia com’è, è fatto apposta per ingannare. Chi sono i folli? Oppure, ancor prima, esistono i folli? Li si può identificare con ‘i pazzi’? sono malati o sono i veri sani? Dicono la verità o si limitano a manifestare che la realtà, quella che ci sembra così semplice e consueta, è solo una copertura di un’altra realtà, più vera? Questo è l’interrogativo tipico della ‘nave dei folli’.
Già nel 1494, quando uscì la prima edizione , a Basilea, della Narrenschiff, di Sebastian Brant, con le famose xilografie di Dürer, scritta in tedesco e poi tradotta in latino nell’edizione seguente (1497) come Stultifera navis, era chiaro che si trattava di un testo satirico, dunque di un libro che voleva permettersi sì di dire la verità ma attraverso il paradosso o attraverso la negazione, in un certo modo mettendo per iscritto ciò che i giullari di corte a quei tempi potevano permettersi solo di dire, perché verba volant.
Qui, con questo libro, Marco Steiner vuole metterci di fronte al fatto che la verità, la propria personale verità, l’unica verità reale, è una ricerca. E vuole mostrarci come la si può fare. Questo è il viaggio. La figura del viaggio, beninteso, è una figura classica, che a partire da Omero è stata utilizzata nella storia dell’Occidente infinite volte. E già Ulisse ci ha insegnato che non è Itaca la meta, ma la conoscenza e l’inquietudine che comporta il prendere atto che diventare quel che si è, cioè esseri umani, può essere solo il risultato, magari effimero, di una ricerca.
Steiner ci mostra come questa ricerca possa essere fatta, cosa significhi navigare, lasciare andare la nave, tollerare che il vento e le correnti spingano o portino, riconoscere che con il singolo movimento apparentemente naturale dell’acqua ci possiamo appunto riconoscere: un capitolo è intitolato ‘Risacca’, ossia un movimento delle acque che può sembrare contraddittorio o perfino inutile e che pure consente al navigatore, Indio, di affermare: Sono/ solo/ risacca/ sono il ripetersi di un nulla che continua,/ sempre uguale,/ sempre diverso. È qui, verrebbe da dire, che nasce la soggettività: accorgersi di essere sempre uguali, di avere cioè una continuità con sé stessi e con gli altri, e però che in ogni momento siamo diversi da com’eravamo un attimo prima. Il diario di viaggio, in questo senso, è la testimonianza di una ricerca possibile.
Il libro si svolge così, passo passo andando da una visione improvvisa e sorprendente ad un dialogo – per esempio tra il protagonista e un suo alter ego, Guglielmo – che sottolinea spesso l’inutilità della parola se non è accompagnata da una riflessione inaspettata. Tra le visioni – che costituiscono una serie di esperienze attraversate da Indio – per noi veneziani è evidentemente sorprendente e toccante quella della nostra città vista ed esplorata da sotto, girando in quel bosco stranissimo e capovolto che abitualmente non si vede e che pure ci consente di essere la città che siamo. In generale parliamo di palafitte, sappiamo che sì, sono migliaia, milioni di pali confitti a testa in giù ma girarci dentro, vedendo dunque Venezia come il rovescio del bosco, è un’altra esperienza. Poi naturalmente ci viene da chiederci cosa Steiner voglia dirci con ciò e con tante altre sorprendenti visioni ma credo sia bene che ciascuno di noi, leggendo questo libro, debba sostare e godersi la sensazione che Steiner ci fa provare, prima di passare a ragionamenti più filati, che inevitabilmente introducono uno stacco. Se posso permettermi un consiglio, vi direi di leggere questo libro disordinatamente, un pezzo alla volta, cominciando a caso, perdendovicisi dentro. E poi, solo poi, leggerlo tutto d’un fiato, cominciando dall’inizio. La lettura pezzo per pezzo può farvi sentire il gusto dei singoli ingredienti – e badate che ci sono anche pezzi che possono far provare angoscia o tristezza – mentre la lettura filata ci fa sentire il gusto sorprendente di un piatto riuscito, nel quale si possono sì riconoscere i singoli ingredienti ma anche capire che sono diventati qualcos’altro.
Dico questo perché tutto il libro è un invito alla lettura, tanto che, alla fine, l’Autore si concede una lettera al lettore che, contemporaneamente, è una lettera ad un terapeuta. Ma sugli ultimi due capitoli non dico nulla, appunto come se questo libro fosse un giallo o come se la conclusione fosse un lavoro di scoperta che ogni lettore deve farsi, nel senso di “fare anche su sé stesso”.
Dunque concluderei facendovi gli auguri, cari futuri lettori, perché questo libro possa esservi non solo attraente ma anche personalmente utile.
Grazie ancora al Professor Antonio Alberto Semi
e grazie
a Stefano Knuchel che ha usato magnifiche parole per il libro e ha presentato in sala un lungo estratto del Documentario.
Con Stefano ho avuto l’onore di partecipare alla sceneggiatura di questo “racconto per immagini” dedicato alla vita di Hugo Pratt che per me è stato il vero Amico e Maestro che mi ha avviato, attraverso il suo mitico personaggio di Corto Maltese a navigare libero sulle rotte della Fantasia.
La Nave dei Folli è un libro dedicato a chi sa mollare gli ormeggi…
Buon vento a tutti!
Marco Steiner
Black Pearl
Black Pearl
è la mia nave, la mia casa, tutto quello che porto dentro, poca roba, schegge di ricordi, odori, cicatrici e qualche sogno.
Ci sono gli uomini dell’equipaggio, li ho raccolti in fondo al pozzo, al Dos Mares, laggiù a Tarifa, davanti all’Africa.
Lascio un posto per chi troverò lungo la rotta e per chi si affaccerà nei miei incubi sudati.
Lascio spazio alle sorprese che arrivano dal niente, come dentro a un temporale.
Annuso l’aria per andare avanti in qualche modo, fino a quando ce la faccio.
Sugli scaffali ci sono libri, bussole e binocoli per cercare il cambiamento,
giorno e notte,
vento fresco e piatta fradicia,
poi ci sono le altre cose, le più belle, quelle che arrivano col blu.
Questa nave non punta i porti e la rotta cambia senza vento.
A bordo c’è un cartografo che possiede mappe antiche e conosce isole inesistenti,
un naturalista che racconta piante e animali leggendari se la notte è troppo buia,
poi c’è un cuoco che maneggia spezie, succhi e profumi prodigiosi,
un pazzo che riesce a rovistare nel futuro, e la scorta del mio rum per dimenticare tutto il resto.
Il passeggero più importante è l’imprevisto,
lo nascondo in mezzo a cime e vele, ma lui esce quando vuole, non avvisa,
sa che sono sempre pronto.
Jack Blake,
il Comandante della Black Pearl
Tutte le elaborazioni fotografiche sono di Marco D’Anna.
Il progetto nasce come idea di una futura Fotographic Novel.
Marco Steiner
Maroon
Paramaribo, Suriname, Guyana olandese.
C’è una veranda stretta e lunga in una pensione di Paramaribo, si affaccia sullo scorrere lento del fiume marrone, ha il tetto e le persiane azzurre, balaustre bianche di legno scrostato, larghe poltrone di vimini, un gatto che dorme. Pigri ventilatori al soffitto cercano di mischiare l’umidità all’aria ghiacciata che filtra fumando dal condizionatore.
Nel silenzio si sente solo il ronzio e il cigolio delle pale, ma fa caldo lo stesso. Non è la pensione di madame Java, ma gli assomiglia. Alla reception c’è una brasiliana con un sorriso carico d’inviti.
L’atmosfera è sonnolenta, c’è odore di burro e pane tostato, un vago sentore di curry, spezie e cipolla che sfrigola. Il porto è in fondo alla strada, il mercato a due passi. Lì c’è di tutto, frutta colorata e verdure appassite, pesci affettati a colpi di machete, polli appesi e magliette piegate, orologi, radioline e cd falsi, ma anche vecchie bottiglie scariche di rhum, ma riempite con pezzi di corteccia d’albero, semi, foglie secche, piccoli arbusti o bacche. Basterà aggiungere un liquore chiaro, rum non invecchiato, vodka o gin. E aspettare. L’alcool assorbirà le proprietà di tutte quelle essenze. In pochi giorni il liquido diventa bruno-ambrato, amaro come il fiele, pungente come la schiena di un istrice, rugoso come pomice. Ogni bottiglia é una combinazione specifica per un preciso problema, il mal di schiena, il potenziamento sessuale maschile, per favorire le gravidanze, per la prevenzione o la cura della malaria, o soltanto per leggere qualcosa di strano nel futuro.
Una vecchia, nera e lucida come un pezzo d’ebano strofinato negli anni, spiega il funzionamento delle varie combinazioni. Ti fissa negli occhi, vuole conoscere chi le sta davanti, ma non le servono troppi discorsi. Ha un banchetto in un angolo scuro, i suoi occhi, bianchi come due lune bucate, sono scanner primordiali. Scavano, indagano, fulminano, o ignorano e se ne vanno lontani. Vende bottiglie magiche, ma anche bicchieri intagliati nel legno di china, radici nodose e unguenti profumati. Basta chiacchierare un po’, essere diretti e sinceri, dire qualcosa e poi farsi raccontare una storia. Sotto al banco ci sono bambole di pezza e spilloni, bottiglie scure con un liquido verde, altari di legno, candele colorate di varie dimensioni e tutto quello che serve per organizzare un rito vudù.
Poco fuori dalla città c’è la grande fabbrica, il cuore pulsante di tutto il paese, si chiama “Suralco”, loro lavano ed estraggono la bauxite dalla terra rossa dell’Amazzonia e poi la trasformano in allumina, la base per arrivare all’alluminio, uno dei metalli più diffusi nella nostra società, non solo nelle pentole. Per arrivare all’alluminio si passa attraverso un processo costoso, sono necessari quantitativi di energia elettrica impressionanti, qui non è possibile, lo faranno da qualche altra parte. In Suriname non è economico produrre energia, ma c’è tanta terra e tanti uomini che possono lavare la terra. Quattro tonnellate di bauxite per una tonnellata di alluminio, sfornato in lingotti di nove metri che pesano come sei elefanti. Sui giganteschi camion “Suralco” campeggia un motto che è tutto un programma: “We move the mountains. (Noi spostiamo le montagne)”.
Dopo quell’immenso castello di ferro, fumo e cemento, la strada è una striscia rossa d’argilla martoriata da piogge e pneumatici che s’infila come una cicatrice nel sud, nel verde della foresta, verso altre inguaribili piaghe scavate nella terra, le miniere d’oro.
I camion gialli vanno e vengono sbattendo ruote e sospensioni nelle buche e nel fango e si trasformano in mostri color rame. Quel frastuono metallico rimbomba nelle gallerie vegetali e fa rintanare i giaguari e le scimmie, ma a poche centinaia di metri la giungla torna di nuovo padrona. Per migliaia di chilometri c’è solo foresta amazzonica, giù, sempre più in fondo verso il sud del mondo.
Un tappeto carico di verde e ossigeno che si srotola oltre il confine, lungo tutto il Brasile.
Le puttane vengono da lì, dalle zone povere del Brasile. Loro sono le vere schiave di oggi. Un tempo, gli schiavi venivano dall’Africa: Costa d’Avorio, Dahomey, Ghana, li caricavano come bestie sulle navi e li sbattevano qui, servivano per coltivare le terre, per tagliare le foreste, guardare le mandrie, spaccare le pietre e fare tutto quello che nessun bianco avrebbe mai fatto. Alcuni di loro si ribellarono e fuggirono addentrandosi nella selva, e i loro discendenti sono rimasti ancora lì, adesso li chiamano maroon, ma fra loro si chiamano Longwe Samma (gente che scappa).
Sono i maroon che si occupano di cercare l’oro nella foresta, le concessioni sono canadesi oppure olandesi o di chissà quale ex-dittatore, ma chi scava, chi si prende la malaria, chi maneggia e s’intossica col mercurio, chi si prende l’Aids con le puttane brasiliane, chi viene ucciso dalle bande dopo aver ricevuto la paga o aver trovato una pepita, sono sempre loro, gli schiavi che hanno scelto la libertà, il gruppo più numeroso è quello degli Ndjuka. Loro però hanno una fonte di energia particolare. Si chiama Obeah, è un’antica forma di pratiche magico-religiose che proviene dall’Africa centrale, sono le divinità più potenti di tutte, non hanno paura del teatrino degli altri dei caraibici. Loro sì che fanno paura, bisogna chiedere a loro il permesso di toccare la terra, di ricevere la forza di scavare e di sopravvivere nella buia umidità della foresta.
I rituali magici vanno dalla magia bianca a quella nera e nessuno può davvero sapere che genere di sacrifici si facciano in certe notti molto scure. Sicuramente un cocktail per rinforzare lo spirito è composto da sangue di gallo, plasma di capra sgozzata, succo di canna da zucchero, rum e polvere da sparo. A Paramaribo c’è un negozio attrezzato in ogni genere di prodotto che serva per i rituali vudù, loro si occupano solo di magia bianca, magia positiva, dicono. La cosa più antica che c’è nel negozio è una serie di calderoni.
– “Il calderone serve a tutto – dice Héctor, un negro con dei bicipiti solidi e scuri come tronchi – si possono far bollire le erbe per lavarsi, o preparare una pozione per purificarsi, cucinare il cibo che serve per mangiare o che serve per la divinità da invocare, oppure può fare da casa per qualcosa che si è stata sacrificata per darci la forza di andare avanti…
Gli altri schiavi rimasero al loro posto e poi, nel 1863 furono liberati e rimasero in città, a lavorare per proprio conto. Oggi, i discendenti dei maroon, gli ex-schiavi fuggiaschi e di quelli liberati non si amano molto fra loro. Si ignorano e vogliono dimenticare i loro rispettivi passati.
Tanto per mescolare ancora di più le razze, dopo l’abolizione della schiavitù arrivarono in Suriname altri lavoratori, non erano più veri schiavi, ma venivano da altri miserevoli mondi, avrebbero accettato qualunque paga, qualunque condizione di vita pur di cercare un avvenire diverso e di riuscire a sfuggire dai loro problemi. Arrivavano dall’Industan, da Giava e dalle isole dell’arcipelago malese e indonesiano, dal sud della Cina, dall’India e dal Bangladesh e naturalmente dai paesi più poveri del Brasile.
Nazaré da Silva Nascimento, era una di loro, lei veniva dall’isola di Marajó, sulla foce del Rio delle Amazzoni, nello stato del Pará. Nazaré era nata in un villaggio di legno marcio e lamiera, costruito su fragili palafitte, non c’era niente di buono laggiù, tranne suo nonno. Lui modellava la ceramica di giorno e suonava la chitarra quando calava la sera. I vasi e i piatti che plasmava avevano colori delicati, ma le note delle sue corde lo erano ancora di più e Nazaré amava la musica più di ogni altra cosa. Un giorno, a dodici anni, diventò all’improvviso pallida e sudata, aveva la pancia dura come un sasso e un dolore lancinante nel ventre, dopo cinque terribili ore di barca arrivarono finalmente a Belém, dal medico. Il dottor Sachs la operò e la salvò, l’attacco di appendicite si stava trasformando in peritonite.
Quando si risvegliò nella stanzetta dell’ospedale di Belém non c’era nessuno dei suoi, solo il vecchio dottore, in una mano stringeva una bottiglia di rhum e beveva, con l’altra la stava accarezzando, ma c’era una musica celestiale in quella stanza.
- Ti ho salvato la vita, ma voglio farti anche un altro regalo, Nazaré. Tu adesso chiudi gli occhi e ascolta la musica di Telemann. Il tuo corpo è uno spettacolo e voglio sentirti vibrare con queste note.
Dopo quel giorno per Nazaré, l’unico spettacolo che riuscì a vedere dal suo villaggio fu la “pororoca”, la formazione di onde gigantesche provocate dall’incontro fra le acque fluviali e quelle dell’Oceano Atlantico. Quando le acque del mare rientravano, portandosi dietro il color ocra di terra nel blu, lasciavano distese fangose punteggiate soltanto dalle macchie nere delle mandrie di bufali. Nazaré guardava quella laguna popolata da miseria e zanzare e sognava una cosa soltanto: scappare, andare via, lontano.
Non avrebbe mai pensato di finire peggio di là. Non avrebbe mai pensato di diventare la schiava di Luciano Brust. Il fornitore ufficiale di puttane per i cercatori d’oro del basso Suriname.
Il pugno è l’arma preferita di Luciano e può fare male, molto male. È nero e potente, lui sa dove colpire e ogni dito è rivestito da un grosso anello. C’è una spiegazione per ognuno di loro.
The star, la stella fortunata, quella di Lucky Luciano.
Una pietra rossa come il sangue, the blood, il sangue dei nemici.
Darkness, una pietra nera come il buio, il mistero dell’obeah, la potenza delle antiche divinità africane.
Freedom, la libertà, la cosa che Luciano ama di più.
Un’ancora marinara, perché lui vuole essere steady, stabile. Come una barca pronta a salpare, come una barca che si lascia cullare incurante dei capricci del mare, ma che resta lì, aggrappata sul fondo. Con lo sguardo nel blu e le dita di ferro aggrappate alle rocce.
Quella mano può accarezzare la pelle di Nazaré, spettinarle i capelli, può minacciare, o può massacrarle la faccia, renderla irriconoscibile, ridurla in brandelli con quel pugno armato con i suoi cinque simboli. Lui l’ha portata oltre il confine, l’ha portata via dalla violenza dei fratelli, ha pagato la sua famiglia, ha pagato il suo viaggio, le ha dato una casa e continua ogni giorno a darle cibo, e protezione. Adesso lei è una sua proprietà e deve fare contenti quegli uomini che frugano nella terra. Nazaré deve restituire il suo debito, deve riscattare tutto quello che Luciano ha fatto per lei, solo così potrà evitare quel pugno.
Ci sono altri schiavi moderni nel Suriname, in generale sono cinesi. Arrivano qui per costruire le strade, vengono dalle province meridionali del loro grande paese. I contratti da fame delle ditte appaltatrici durano sei mesi, loro hanno i permessi e lavorano duro, ma poi dovrebbero tornare, invece scompaiono nel nulla, nel verde di quelle foreste. Qualcun altro si occuperà di loro, come Luciano con Nazaré, qualcuno troverà loro una baracca e li spedirà a spargere mangime e ormoni ai gamberi che allevano lungo il fiume, antiparassitari alle canne da zucchero, a dissodare pietre nelle piantagioni di caffé, a spruzzare il diserbante nei campi, a cucire reti o pezzi di stoffa in qualche umido magazzino.
I piccoli lavoratori cinesi non hanno più un nome, sono clandestini in una terra libera, schiavi di chi li ha condotti attraverso i meandri di quella falsa libertà. Fra loro parlano una lingua speciale, parlano “Hakka” per capirsi senza farsi capire dagli altri, per avere ancora qualcosa di personale e speciale nel buio delle loro capanne di lamiera, di fronte al solito pugno di riso.
Del resto, Hakka, vuol dire “straniero” oppure “ospite”.
Fotografie di Marco D’Anna
“La ruota delle cose”. Un racconto di viaggio sul cambiamento.
La Ruota delle Cose
Ho scritto tante pagine nella mia vita, progetti d’affari, visioni strategiche, business plan d’imprese, contratti, fusioni e smembramenti societari. Quello che non ho mai fatto è scrivere qualcosa che mi riguardasse personalmente. Le mie giornate scorrono sempre veloci, impetuose, una giostra che gira vorticosamente e il tempo non basta mai. Denaro, relazioni personali, lavoro, incontri, compromessi, cene, tutto s’infila nel ciclone, scivola via e non resta niente. Certe volte, mi alzo al mattino, esco di casa e mi ritrovo come lanciato a capofitto lungo una pista ghiacciata con un bob senza freni. Scendo la pista volando come un razzo e, lungo la discesa, divento un camaleonte rapido e vorace capace di arraffare le cose che m’interessano di più: i soldi. Come un guerriero vibro fendenti precisi: le mie percentuali sulle transazioni concluse. Sono un avvocato d’affari, sono nato e vissuto a Londra, possiedo e gestisco uno studio che dà lavoro e battaglie a dieci colleghi più giovani e arrivisti di me, ma non ancora spietati ed esperti come me. Ho avuto 3 mogli che mi hanno dato cinque figli, ho gestito tre divorzi ammorbiditi col tintinnio di milioni di sterline e adesso convivo con una giovane amante che è uno schianto. Li ho messi tutti d’accordo, hanno smesso di blaterare perché li ho riempiti di soldi per starmene in pace e continuare a fare quello che mi pare. Ma in fondo, in pace io non ci sono mai stato. Ho cinquantaquattro anni, sono indiano, anzi, sono di origine indiana, nel senso che ho la faccia e il colore della pelle di un indiano, ma la mentalità dell’ufficiale di sua Maestà la Regina o forse di un Raja: vorrei che tutti abbassassero la testa quando passo perché sono il migliore.
A volte però le cose cambiano, per questo ho deciso di scrivere questa storia. Di solito si cambia per un fatto traumatico, una malattia, un incidente, oppure quando arrivi al limite e ti rendi conto che tutto quello che fai lo stai facendo per gli altri. Ogni sera la dose di whisky per dormire aumenta e la parte vera di te stesso s’inaridisce, si consuma, alla fine la dimentichi e di solito non te ne rendi conto. Poi capita il giorno in cui butti giù un muro e ti ritrovi in una stanza nascosta, è un ambiente strano, diverso, un piccolo rifugio, scuro, scarno, essenziale, ma ci stai bene, meglio che nella tua grande casa “normale”.
Ma in fondo, chi di noi è normale?
Per questa storia il mio vero nome non serve, ne inventerò uno, Jamal, il primo nome indiano che mi passa per la testa.
Tutto inizia con una lettera che mi arriva da Nuova Delhi. Un amico di mio padre mi scrive che laggiù è morto mio fratello. Io quasi non lo ricordo, non lo vedo da trent’anni, il tizio aggiunge che mi ha lasciato degli effetti personali che mi vorrebbe consegnare personalmente. Strana richiesta. Mio fratello era l’ultimo filo che mi collegava con l’India. La storia della mia famiglia è una trama di fili e tessuti, la mia vita una matassa imbrogliata.
Mio nonno, classe 1887, era originario di Jaisalmer, una città fortezza infilata su una collina sperduta in mezzo al deserto del Rajasthan, la zona più nord occidentale dell’India.
Il vecchio era diventato ricco grazie ai tessuti. Commerciava con ogni genere di stoffa: cotone, seta, cashmere, lana. Comprava in Afghanistan, in Cina, in Mongolia, in ogni angolo dell’India, sceglieva le migliori partite e poi le rivendeva in Inghilterra, sotto forma di materiale grezzo oppure lavorato dai migliori artigiani. Mio nonno, studiando da solo, era diventato avvocato perché era fissato con la giustizia ed era finito nello studio legale dove lavorava Gandhi prima di dedicarsi alla politica. E Gandhi era un grande uomo politico, ma come avvocato non era niente di speciale. Il mio vecchio invece sì che era un tipo speciale, in particolar modo con i suoi operai, sceglieva i migliori e li pagava il doppio degli altri, ma dovevano mantenere altissima la qualità altrimenti erano fuori. Era un onore e una fortuna lavorare per lui. Mio padre mi raccontava che il giorno del suo funerale gli sembrò di assistere alla cerimonia funebre di un grande Maharajà. Non si erano mai visti turbanti, sciarpe, cappelli, mantelli, saree, coperture di selle, paramenti di cavalli, cammelli ed elefanti colorati come quelli sfoggiati in quel giorno.
Mio nonno guardava sempre in avanti e per migliorare le condizioni culturali ed economiche della famiglia mandò mio padre a studiare in Inghilterra e daddy ci rimase per sempre creando le strutture necessarie per organizzare un’importante rete di vendita, dai magazzini lungo i dock del Tamigi fino ai negozi eleganti nel centro della City.
Io e mio fratello siamo nati a Londra. Mio padre, dopo la morte del nonno, andava e veniva dall’India sempre più spesso. Io non avevo voglia di seguirlo, d’impolverarmi le scarpe, mangiare curry e piatti piccanti, annusare gli odori nauseanti e speziati dell’India. Da vero bastardo viziato mi ero sempre rifiutato di seguire gli affari di famiglia, a me piaceva far fallire, smembrare e rivendere società, trovare il sistema di esportare capitali illegali o proventi illegittimi, mi piaceva il lavoro dell’avvoltoio di lusso. Mio fratello invece andò in India dopo aver compiuto i diciotto anni e ci rimase, folgorato come Siddharta dall’illuminazione mistica. Sembra strano che gli stessi genitori possano generare due figli che convivono sotto lo stesso tetto e diventano l’uno l’opposto dell’altro. A noi è successo proprio così.
Dieci anni fa è venuto a mancare mio padre e, dato che mia madre era morta di parto poco dopo la nascita di mio fratello, gli eredi eravamo noi due. Mio fratello mi comunicò dall’India che era diventato un sacerdote jainista, uno di quelli che vivono in povertà assoluta e girano cercando la verità del cosmo indossando una tunica bianca e spazzando la strada davanti a loro per evitare di calpestare e uccidere insetti e formiche perché ogni essere vivente dev’essere rispettato lungo il ciclo delle reincarnazioni. Lui cercava la coscienza cosmica e, non avendo alcun interesse per i beni materiali, rinunciava all’eredità di mio padre rendendomi immensamente ricco.
Anche quella comunicazione mi arrivò con una lettera inviata dalla stessa persona che mi aveva scritto l’ultima missiva da Delhi, un grande amico di mio padre.
Lo chiamerò Mr. George. Non è il suo vero nome ed è altrettanto banale di Jamal, perché anche lui è un personaggio conosciuto.
Avevo incontrato Mr. George una sola volta a Londra, aveva una magnifica barba, modi eleganti e uno sguardo che non si dimentica. Era uno di quei tipi che ti mettono in soggezione senza dire una parola e non capisci il perché. Mio padre mi aveva sempre detto che in qualsiasi situazione mi sarei potuto fidare di lui.
Jamal e Mr. George, due nomi finti, per una storia vera. E tutto inizia nel migliore dei modi: per caso. Dopo aver letto la lettera, stavo per cestinarla, però la busta continuava a girare sul tavolo e me la trovai fra le mani dopo il rinvio di un appuntamento che mi avrebbe impegnato tutto un venerdì fuori Londra con un sabato e domenica da dedicare allo shopping con le mie due figlie più viziate, quelle della prima moglie. La mia donna, conoscendo la situazione, si era organizzata una gita di shopping a Parigi.
Mi versai un whisky e ripresi in mano la lettera.
La carta e la calligrafia di Mr. George erano roba d’altri tempi, del resto non ricordavo di aver ricevuto un’altra lettera scritta a mano. Mi scolai il terzo whisky liscio e mi accorsi che quella pagina profumava di un qualcosa che non respiravo da troppo tempo: l’imprevisto. Mi attirava perché ero stanco delle mie solite cose patinate.
Ero libero, avrei potuto andare a giocare a golf e poi bere whisky fino a stordirmi, come al solito. Oppure sarei potuto partire per l’India.
Con una carta Platinum non ci sono problemi a prendere un volo nella serata dello stesso giorno, un giovedì, per arrivare a Nuova Delhi il venerdì all’ora di pranzo. Bastò una telefonata per fissare un appuntamento con Mr. George all’Hotel Imperial di New Delhi per l’aperitivo delle 18. Il “1911” non è solamente il Coktail Bar di un magnifico vecchio albergo. È una meraviglia fuori dal tempo: legni, ottoni, foto di Maharajà e ufficiali in divisa, squadroni di Gurka nepalesi, poltrone in pelle verde, mobili liberty, classe, ricordi dell’antico splendore coloniale britannico.
Mr. George era vestito con l’eleganza semplice di chi non deve dimostrare niente a nessuno: jeans, maglietta nera, un orologio strano, un braccialetto di perle di legno di sandalo e un’imponente barba bianca.
Dopo qualche sorriso e poche parole iniziò a ordinare cocktail Martini scherzando con un barman imponente che indossava un turbante arancione e un’impeccabile giacca rossa con bottoni e alamari dorati. Mr. George rideva a ogni giro con il gigante chiedendoli sempre più freddi, sempre più secchi. Scendevano come acqua di montagna e lui reggeva impassibile.
- Tuo fratello non era un pazzo, era l’altra faccia dell’India. In mezzo al fango lui cercava purezza, in mezzo al caos lui esprimeva la pace.
- Magnifico ritratto… – Non volevo, ma usai uno sgradevole tono ironico.
Mi fulminò attraverso il Martini. Provai a recuperare.
- George, mi è bastato vedere le facce dell’India nella polvere, negli odori e nel traffico caotico dall’aeroporto fino a quest’oasi di bar. Qui mi sento a casa e sono contento di rivederla, però come lei sa sono molto impegnato e, dato che dovrei rientrare in ufficio entro lunedì, mi piacerebbe sapere cosa avrebbe lasciato mio fratello per giustificare questo mio viaggio in India.
Sorrisi. Lui mi guardava come fossi un quadro astratto che non capiva e non apprezzava.
- Jamal, ricominciamo dandoci del tu.
- Come preferisci, George.
Socchiuse gli occhi con indulgenza e lo immaginai intento a scrivere quella lettera dopo aver scelto la carta giusta e aver posato sulla sua scrivania una preziosa pipa di radica. Cominciai a pensare che stavo perdendo il mio tempo.
- Jamal, m’immaginavo che tu fossi così, tuo padre ci ha messo troppo impegno per farti diventare un vero businessman inglese, ma ricordati una cosa: le tue fortune vengono dalla polvere del deserto, dai tessuti ricamati dagli zingari e dai pastori Rabari, da tanti artigiani che lavoravano per tuo nonno in giro per il mondo non per denaro ma per rispetto. Non bisognerebbe cancellare il passato. Comunque, per tua informazione, anch’io mi occupo di affari e non sopporto le parole inutili.
- Allora ci capiamo, George. Che cosa mi ha lasciato mio fratello?
- Una motocicletta, una vecchia Royal Enfield, e un cappello da marinaio.
A questo punto devo aggiungere qualcosa. Possiedo ogni genere di oggetto di lusso: orologi, automobili, case, dipinti, arredamenti, libri antichi, oggetti d’antiquariato, ma se c’è una cosa che amo in maniera irrazionale sono le moto. Eppure non ne possiedo nemmeno una. Forse il periodo più bello della mia vita è stato quando, allo scoccare dei diciotto anni mio padre mi regalò una Triumph Bonneville. Mi basta ripensare al rombo metallico di quel motore per tornare ragazzo e rendermi conto da quanto tempo non mi diverto più.
La Royal Enfield è un perfetto simbolo del mondo coloniale, un connubio fra India e Inghilterra, acciaio e progettazione in solido, imperfetto e affascinante stile britannico; semplicità ed essenzialità indiane. “Built like a cannon, runs like a Bullet” (costruita come un cannone corre come un proiettile). Questo è il motto della fabbrica Enfield nata per costruire fucili e cannoni che avevano conquistato imperi, perfettamente logico che in seguito avrebbero costruito motociclette per percorrerli in lungo e in largo con orgoglio britannico.
- Allora, George, mi gusterò un altro Martini e ascolterò il motivo per cui mi hai fatto venire fin qui per un relitto di Enfield e un cappello da marinaio.
Non so quante volte riempimmo i bicchieri, ma quel racconto toccò una corda nascosta perché cominciai a ragionare come non avevo mai fatto. Era senz’altro colpa dell’alcool.
Mio fratello non aveva voluto una briciola dell’immensa fortuna di famiglia, ma aveva chiesto a George di conservare la Royal Enfield modello 180 di mio nonno e quel cappello perché secondo lui erano il momento fondamentale della nostra storia. L’unico che valesse la pena ricordare. Il fatto successe nel 1912, quando il nonno, allora giovane avvocato, si ritrovò nel collegio legale di cui faceva parte Gandhi in difesa di un marinaio, un certo Corto Maltese. Quel tipo era stato arrestato appena sbarcato a Porbandar, un porto del Gujarat, lo stato indiano affacciato sul golfo Arabico. George mi raccontò che un paio di anni prima Corto Maltese era l’ufficiale in seconda sul S.S. Bostonian, una nave che trasportava bestiame fra Boston e Liverpool e in uno di quei viaggi si erano arruolati come mozzi due studenti in cerca di avventure, si chiamavano Reed e Pierce. I due americani non erano abituati a quel tipo di vita, Pierce in particolare non reggeva il lavoro di bordo, così, un giorno, senza dire una parola, nemmeno all’amico, in un porto sgusciò giù dalla nave e alla partenza, invece di risalire a bordo, ritornò diretto in patria con una nave di linea. Durante la navigazione gli ufficiali si accorsero della scomparsa di Pierce e dopo aver ritrovato nella cabina che condivideva con Reed vestiti, documenti e soldi, sospettarono e arrestarono Reed per l’omicidio dell’amico. Quando la nave arrivò in patria, Reed, si ritrovò davanti alla corte di Manchester accusato dell’omicidio dell’amico scomparso. Corto Maltese aveva intuito quello che era successo e, dopo aver mobilitato le amicizie che aveva fra i marinai sulle due sponde dell’Atlantico, riuscì non solo a trovare, ma anche a riportare Pierce, vivo e vegeto, nel tribunale a Manchester.
Il comandante del Bostonian, gli avvocati accusatori e l’intera corte ci fecero una magra figura, Reed felice e per sempre grato al marinaio fu rilasciato, ma Corto Maltese, da quel momento, diventò un “indesiderato” al comando delle navi britanniche. Aveva salvato un uomo, ma aveva perso il lavoro, fu così che iniziò a dedicarsi ai traffici e al contrabbando fra Antille e Brasile diventando un famoso Gentiluomo di fortuna. Il caso volle che dopo un anno il capo della Procura di Manchester fosse inviato in India, nella regione del Gujarat, relegato dai suoi capi ai confini dell’Impero. Il resto è facile da immaginare, appena si ritrovò fra i documenti dei velieri appena attraccati nella “sua” colonia il nome di quel Corto Maltese che gli aveva fatto fare la figura dell’idiota in patria, lo fece arrestare senza lo straccio di un motivo. Ed ecco che subentra mio nonno, il giovane avvocato giustiziere.
Non c’erano motivi per arrestare quel marinaio, non c’era l’habeas corpus. Il collega Gandhi aveva già iniziato la discussione del caso, ma la prendeva alla larga così, alla seconda udienza, il mio vecchio fece in modo di dirottare il collega a Bombay con la scusa che avrebbe potuto seguire le problematiche di un altro processo legato a uno sciopero e subentrò nel processo al marinaio maltese pronunciando un’impeccabile requisitoria sulla salvaguardia delle libertà individuali sancita dalla Magna Charta.
Il giudice rilasciò subito Corto Maltese. Il processo si era svolto nella capitale dello stato, Ahmedabad e per il marinaio c’era il problema di ritornare alla sua barca, il mare era molto più a sud. Ed ecco che il nonno, non solo non richiese un compenso per i servizi legali, ma date le sue relazioni con mercanti, magazzinieri, artigiani e negozianti di tessuti in tutto il Gujarat gli offrì la sua moto personale per raggiungere la barca. E quando Corto gli domandò come avrebbe potuto riportargliela, il nonno gli consegnò un suo biglietto da visita.
- Se ti servirà aiuto mostra questo biglietto a chiunque abbia a che fare con le stoffe: mercanti, negozianti, trasportatori. Quando sarai arrivato alla tua barca fatti dare quello che ti serve, cibo, denaro, vele e lascia la moto a uno di loro, sono tutti miei amici. Un giorno, ricambierai il favore con qualcuno che ne avrà bisogno, vedrai, farà bene anche a te.
George continuò a raccontare la storia come se avesse assistito alla scena, mi parlò del miglioramento del karma grazie ai gesti generosi mentre io lo guardavo parlare e non riuscivo a staccarmi da quella barba bianca che sembrava una nuvola e mi faceva perdere la nozione del tempo. Era una strana storia di quelle che normalmente non avrei minimamente considerato, invece, non so per quale motivo, mi coinvolgeva, soprattutto il gesto successivo di mio fratello. Per lui, quel momento, quel gesto di generosità era l’unica cosa che contava. E io mi sentivo ancora più bastardo.
Intanto eravamo entrambi ubriachi, la bottiglia di Gin era quasi finita, quella di Martini praticamente piena. Mi diede un appuntamento per l’indomani alle 9 davanti alle scale dell’Imperial.
Si presentò in sella a una Royal Enfield nera. Dopo quella bevuta mi sembrava di avere la testa infilata in un frullatore che continuava a girare. Mi consegnò un casco e, senza dire una parola, fece rombare il motore e si buttò nel traffico guidando come un ragazzino, millimetrico, con i riflessi pronti e senza esitazioni. Ero entrato in un videogioco in cui bisogna schivare e superare ogni essere e ogni oggetto in movimento. Fermò la moto e mi ritrovai a seguirlo nei vicoli di un mercato affollatissimo, si chiamava Chandni Chowk. Camminava deciso, la gente, i motorini, i cani, le biciclette lo schivavano ma io facevo fatica a stargli dietro in mezzo alla folla che si richiudeva come un sipario dopo il suo passaggio. In fondo a un vicolo lercio aprì il lucchetto di una porta scassata, c’era odore di piscio, un grosso topo ci attraversò la strada. Entrammo nel minuscolo cortile di una casa che sembrava fosse stata bombardata, doveva essere un vecchio magazzino, una scala ripida saliva al piano superiore, sul muro scrostato avevano inchiodato una corda per reggersi sui gradini viscidi di melma. Fra i vetri spaccati s’intravedevano scritte sui muri. La parola che si leggeva era sempre la stessa: textiles.
- La fortuna di tuo nonno è cominciata in questo cesso di magazzino, se non impari a convivere con la puzza di fogna e lo sterco di pecora non riuscirai mai a capire l’odore di una fabbrica di cotone e quello dei colori naturali fatti con erbe, fiori, pollini, conchiglie, pietre tritate e non riuscirai mai a sentire la musica delle mani di una tessitrice sul telaio. I disegni ricamati sulle stoffe seguono le migrazioni dei nomadi, i ricami scolpiti sulle pietre dei templi, quelli della cera che cola, dei sogni che si perdono nel fumo dell’oppio.
Così com’eravamo arrivati, altrettanto rapidamente ripartimmo per ritornare alla moto. Mi sentivo un marziano atterrato su un pianeta bloccato nel tempo mentre la mia testa continuava a girare. Svoltato un angolo stavo per inciampare sui piedi di un vecchio accovacciato per terra. Era pelle e ossa, in testa aveva un turbante bianco, addosso una tunica che un tempo lo era stata. Mi fissò e mi puntò un dito scheletrico in faccia. Era minaccioso. Mi bloccai sorpreso, quasi impaurito. George tornò indietro e urlò due parole. Il vecchio continuava a indicarmi, ma sorrise. Aveva gli occhi più chiari che avessi mai visto, non erano azzurri, erano del colore del mare all’alba, grigi con la promessa di celeste, ci si perdeva là dentro. Aveva due dadi sbeccati fra le gambe incrociate, me li indicò. Buttai un rapido sguardo a George e lui annuì. Li presi in mano e m’invase una strana sensazione, era come se attraverso il palmo irradiassero una leggerezza che mi penetrava e si diffondeva in tutto il corpo. Li strinsi e la testa cominciò a svuotarsi dai pensieri. Buttai i dadi e notai che non avevano i soliti segni, solo simboli rossi.
- Si sceglie sempre fra due strade, ma il giorno dell’incontro bisogna decidere. Una è la strada che rotola verso la fine, quella che stai percorrendo a occhi chiusi, l’altra ti farà perdere il tempo, ti farà uscire dalla Ruota delle Cose e là ritroverai il tuo sorriso disperso nel vento. Sarai libero, distante e nulla avrà più valore perché tutto si dissolve, tranne quello che saprai trovare nella stanza nascosta.
George mise qualche banconota fra i dadi e fissò il vecchio, vidi una scintilla fra i loro sguardi, ma non riuscii a godermi l’attimo perché George era già ripartito. Mi ritrovai in sella alla Enfield con la testa annacquata che vagava fra i segni rossi dei dadi e il grigio degli occhi di quel vecchio.
Ma che ne sapeva lui della mia stanza nascosta?
Ci sedemmo in silenzio al bar 1911. Era sabato di un pomeriggio afoso. George mi fece un cenno interrogativo, ma io non avevo voglia di niente, non capivo dov’ero. Ordinò due tè.
- George, dove sono la Enfield del nonno e il cappello di Corto Maltese?
- In un magazzino a Varanasi.
- È lontana da Delhi?
- Dodici ore di moto, un’ora di volo.
- Allora perché mi hai fatto venire qui e non a Varanasi se sapevi che domani ho il volo per Londra?
- Se vuoi possiamo partire fra un’ora e tornare in tempo per il tuo volo di domani, ma avevo un’idea e quell’indovino me l’ha confermata.
- Sentiamo anche questa.
- La generosità e la giustizia di tuo nonno hanno cambiato la vita di molte persone, innescando una spirale positiva, è il karma della tua famiglia. Non ci s’incontra per caso, è tutto concatenato perché la casualità è nella natura del vivere. Tu vuoi continuare o buttare via tutto quello che hanno fatto tuo nonno e tuo fratello?
- Mi fai ridere. Prova ad aggiungere qualcosa di più pratico e convincente…
- Hai ascoltato le parole di quell’uomo? “L’altra ti farà perdere il tempo, ti farà uscire dalla Ruota delle Cose, ma troverai il sorriso disperso nel vento”. La mia proposta è questa: domani andiamo a Jaisalmer, ho un appuntamento che può essere importante anche per te. Laggiù sono iniziate tante cose della tua famiglia, ti farò trovare una Enfield e potrai girare quanto vuoi nel vento in cerca del tuo sorriso.
Probabilmente ero completamente rincretinito, oppure, a volte, scattano reazioni imprevedibili nei momenti in cui ci troviamo fuori dal nostro ambiente e non dobbiamo seguire per forza il solito modo di ragionare, si rompono gli schemi. Oppure mi ero talmente stancato dei miei ritmi londinesi che quella stranezza mi sembrava la strada più illogica e giusta per spaccare davvero qualcosa. Spaccare qualcosa è un sistema per sfogarsi, ne avevo bisogno. Insomma non ho alcuna idea del perché non gli scoppiai a ridere in faccia. Potevo capire se mi avesse proposto di andare a Varanasi a vedere quel vecchio trofeo. Invece no, mi voleva portare a Jaisalmer con lui. Ma che c’entravo io che avevo rifiutato ogni contatto e legame con la mia famiglia, con quel posto? Che c’entravo io col ritmo delle reincarnazioni, col karma? Legami, fili, tessuti, trame nascoste s’infilavano in quella barba bianca che mi faceva dimenticare la faccia dell’uomo che parlava. Quelle parole e quella situazione assurda venivano dalle nuvole e dalla confusione che avevo in testa. Poi entrò in gioco la mia logica razionale: avrei potuto spostare il volo di qualche giorno per divertirmi a immaginare cosa avrebbero fatto quelli che mi aspettavano a casa. Questo sarebbe stato l’aspetto divertente della situazione e poi, l’unica cosa che m’importava davvero era andarmene in giro in moto.
Da quanto tempo non tornavo ragazzino? Troppo.
- Sai che ti dico, George?
- Che verrai.
George, il vecchio saggio mi stava sulle scatole.
Il giorno dopo eravamo a Jaisalmer nella casa di un Maharaja trasformata in albergo. I tappeti coprivano ogni angolo del pavimento, stoffe preziose rivestivano le pareti. Le finestre si affacciavano sul nulla vibrante del deserto. Lampade antiche e candele contribuivano a far traballare i sensi anche all’interno delle stanze mentre i profumi di gelsomino e legno di sandalo stordivano quanto i Martini del giorno precedente.
L’appuntamento era in mezzo al deserto con una carovana di pastori Rabari che consegnarono a George montagne di scialli, stoffe, tappeti, tessuti ricamati. Fu così che scoprii che George era il fornitore principale di tutti gli importatori della mia ditta, che aveva continuato a girare come faceva mio nonno e passava lunghi mesi insieme agli artigiani persi nei deserti del Kutch, quella carovana veniva da laggiù. Dopo due ore eravamo seduti intorno al fuoco in un campo tendato, alcuni uomini cominciarono a suonare, nacchere, tamburi, sitar e una specie di libro che si apriva e chiudeva come una fisarmonica mentre un paio di ragazze iniziarono a ruotare come dervisci in una danza ipnotica e sensuale. La mia testa continuava a girare, ma ormai mi ero abituato a quello stato. Ridevamo e arrotolavamo pezzi di chapati caldo per intingerlo in curry piccanti e dal di lenticchie fumanti, poi la notte ammantò di freddo il deserto, ci salutammo stringendoci le mani come fanno gli amici che si capiscono e non vogliono aggiungere parole inutili e poi mi rannicchiai sotto le coperte ancora vestito.
Il giorno dopo tre grossi camion si portarono via i tessuti, ma da uno dei bestioni gli uomini scaricarono due Royal Enfield Bullet identiche, nere. Sorrisi come un ragazzino e George mi fece cenno di seguirlo. Sulla moto dopo tanto tempo mi sentivo impacciato, ma era splendida. La prima in basso le altre sopra, la vibrazione metallica stonata era un ruggito sommesso, la sella era larga e comoda come una poltrona. Lentamente mi abituai ed era magnifico filare nel deserto, libero, senza casco, nel vento caldo e secco. All’improvviso George s’inoltrò in un sentiero sterrato, sentivo le ruote slittare, avevo paura di cadere come un imbecille, invece accelerai e mi affiancai a lui. Due cavalieri solitari. Sorrise e allungò. Alzavamo due lunghe nuvole di polvere che rimanevano sospese nell’aria, mi guardai intorno e sentivo le note delle chitarre di Ry Cooder e di John Lee Hooker che mi attraversavano la testa e danzavano con i granelli di sabbia.
Ci fermammo su una collina da cui si poteva osservare l’immenso vuoto che ci circondava. C’erano una serie di altari e steli di pietra su cui erano scolpite figure umane. George indicò a oriente, il sole stava sbucando da una striscia di nuvole grigie, s’intravedeva una riga rossastra di mura crollate.
- Quel villaggio distrutto si chiamava Kuldhara, dicono che adesso ci vivano i fantasmi. La popolazione che abitava là se ne andò all’improvviso, in una sola notte, abbandonarono anche altri villaggi soltanto perché qualcuno aveva tradito una promessa. La parola data è sacra da queste parti. La tua famiglia veniva da quel paese. La collina dove ci troviamo adesso era il luogo delle cremazioni, se vuoi sentire la polvere del tuo passato, prova a chiudere gli occhi e annusa il vento.
Era un posto strano, sentivo solitudine, un fascino desolato, ma nient’altro, anzi il vento mi diceva che avevo voglia di rimontare in sella, sentire il rombo della moto e andarmene lontano lasciandomi dietro una nuvola di polvere e una traccia sottile.
Anche il tono da guru di George mi aveva stancato, come tante altre cose. Volevo sparire. Mi lesse nel pensiero. Mi propose di andare a sud, solo, verso il Rann, i deserti di sale del Gujarat, verso le città della costa dov’era sbarcato Corto Maltese, Porbandar, Veraval, Diu, Bhavnagar e arrivare ad Ahmedabad, la capitale dei tessuti, la città dove s’era svolto il processo, dove mio nonno aveva la sua base commerciale. Da lì sarei potuto volare a Delhi e tornare al mio mondo.
- Il modo migliore per viaggiare è perdersi, abbandonare vecchi schemi e fantasmi. Il modo migliore per dimenticare è andare lontano, anche dal tempo, riempire il proprio silenzio.
Bastava davvero. Risalimmo sulle moto.
- Ma questo l’hai capito e hai voglia di seguire il tuo vento.
- Come farò a ridarti la moto quando sarò stanco di perdermi?
- Come ha fatto mio nonno con Corto Maltese, la lascerai al primo mercante di tessuti che trovi, ovunque tu sia.
Immaginavo quella risposta. Sorrisi, misi in moto la Enfield e puntai a sud.
Lo salutai come fanno i marinai, alzai una mano e non mi voltai indietro.
Avevo voglia di restare solo. Da troppo tempo non ci riuscivo. Non ricordavo un momento così carico di possibilità, guardavo la strada e avevo soltanto voglia di andare, senza pensare.
Ero sempre stato solo, ma c’era sempre qualcuno che aveva bisogno dei miei soldi. Mentre continuavo a puntare a sud pensai alla situazione, il mio bagaglio era rimasto all’Imperial, avevo portato con me uno zaino con un ricambio, il telefono, il caricatore, il passaporto, il portafoglio con 300 dollari, il corrispondente in Rupie di 200 dollari e la carta di credito. Sarebbe bastato, potevo andare ovunque. Dopo due ore la strada iniziò ad allargarsi, cominciò il caldo e aumentò la puzza degli scarichi e delle montagne d’immondizia sparse lungo i bordi d’asfalto e nei canali. Non c’erano regole, bisognava evitare le vacche che passeggiavano sulla corsia di sorpasso, le greggi di pecore che attraversavano, le macchine che s’infilavano fra camion scassati e ogni altro genere di veicolo fumante e quelli infine che percorrevano un tratto di strada contromano. Sulla corsia opposta mi capitò di vedere una nave, non trainata: era un camion che aveva la forma di una nave. Ormai mi aspettavo di tutto e non mi sorprendevo più. C’era solo una cosa che accomunava ogni veicolo: tutti suonavano in continuazione. Dopo altre tre ore il casino aumentò esponenzialmente, in maniera vorticosa: eravamo alla periferia di una città, non riuscivo a leggere i cartelli perché erano piccolissimi o coperti da pannelli pubblicitari. Dovevo fare benzina, avevo sete, dovevo andare al bagno. La pompa di benzina che scelsi era la base di sosta di almeno trenta grossi camion arrugginiti ma pieni di luci, colori, disegni e nastri appesi per scacciare chissà quale demonio. Non c’è bisogno che descriva i cessi, il cibo che mangiai e le camere dove mi trovai a dormire nei due giorni che ci misi ad arrivare a Bhuji. Laggiù trovai un albergo che un cartello pretenzioso definiva “Resort”. Entrare in una di quelle camere dozzinali ma pulite, sentire che esisteva un collegamento wi-fi, che avrei potuto pagare con la carta di credito e immaginare che avrei potuto anche cenare, fare una doccia e ricaricare il telefono mi sembrò un sogno. C’erano decine di chiamate ed email da tutti, non risposi e non aprii alcun messaggio. Avevo bisogno di tempo, dovevo ricaricarmi anch’io. Il manager dell’albergo era un uomo strano, una specie di sacerdote laico, un bramino, si chiamava Raj. Aprì una carta geografica e mi mostrò dov’eravamo. Ero circondato da deserti e lagune salate, mi propose di andare a vedere il Rann, nel punto in cui il deserto di sale s’incontra col mare. Partimmo il giorno dopo, all’alba, lui guidava la sua vecchia Honda Hero scassata. Lungo la strada il paesaggio diventava sempre più spoglio e a me succedeva la stessa cosa. La moto s’infilava nel vento ed io ero un albero a cui il vento staccava le foglie, una a una.
Una lucida mandria di bufali d’acqua attraversò la strada al galoppo e una nuvola di polvere ci avvolse. Rimasi a guardare la polvere, uno dei profumi dell’India che non dimenticherò. Rimase sospesa, come la mia vita.
Anche la polvere, non aveva voglia di continuare a volare, voleva godersi il distacco, come me.
Ci fermammo davanti a un vuoto orizzonte azzurro. Solo una linea sottile separava il cielo dal mare, il mio sguardo aveva voglia d’infilarsi proprio là in mezzo. Quella linea era un collegamento fra quello che vedevo e un passato sconosciuto che si voleva affacciare. Rimasi nel Resort per una settimana, avevo paura di abbandonare le comodità, di continuare sulla strada della polvere, del distacco, ma riuscivo a ignorare telefono, email, notizie. Parlavo a lungo con Raj, anzi era lui che parlava, io lo ascoltavo. Mi spiegò la condanna dell’anima a reincarnarsi di corpo in corpo nel ciclo infinito delle rinascite e che solo un buon karma determina la qualità della vita nel presente, ma influisce sul futuro per arrivare alla liberazione, al nirvana. Ripensai a mio nonno, a Mr. George e a quello che mi aveva detto il vecchio dagli occhi grigi nel mercato di Delhi.
Il Gujarat è una regione selvaggia, i turisti non ci arrivano, è scomoda, per legge non si può vendere alcool, la cucina è esclusivamente vegetariana. Io mangiavo poco, non bevevo, camminavo, e ogni giorno mi sentivo meglio. La pelle s’induriva nel sole e nel vento, la testa cominciava a girare in maniera diversa. Era tornata la voglia di andare. Pensai a certe frasi di Jack Kerouac che quand’ero studente m’erano sembrate senza senso, roba adatta a quel periodo di scema contestazione: “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare.” Ma che voleva dire? Se non hai una destinazione e un obiettivo preciso, non concludi niente nella vita.
Invece adesso capivo quanto fosse bello perdersi, perdere la strada, la velocità, e soprattutto il senso del tempo.
Non avevo mai avuto un pensiero o un atteggiamento religioso né spirituale, ma cominciavo a capire cosa fosse il dharma, l’insieme di atteggiamenti positivi che portano alla liberazione dal ciclo di vita e morte. Nello stesso tempo mi rendevo conto che sarebbe stato difficile togliermi la pesante corazza che m’ero cucito addosso da solo, i muri che m’ero costruito intorno. Ma volevo vedere il mare, ancora più a sud. Volevo immaginare il molo dov’era ancorato Corto Maltese prima d’essere arrestato. Non capivo il perché, ma dovevo andare a cercare quel profumo di libertà.
Salutai Raj e lui mi sfiorò con due dita la fronte, le mosse rapidamente di lato come volesse togliermi una macchia dalla pelle. Non disse una parola, fece un inchino e unì le mani davanti al petto in segno di saluto. Fine.
Non so quante volte rischiai di farmi agganciare dai paraurti dei camion o di sprofondare in buche non segnalate che tagliavano la strada in due. Quando il frastuono e la puzza delle strade principali mi faceva storcere la bocca per il disgusto deviavo verso le campagne e la pace. La mia Enfield col suo rombo mi regalava il sorriso che cercavo, non avevo fretta, non avevo appuntamenti. Imparai a conoscere i capricci della moto, ad assecondare le sbandate. Era una magnifica sensazione stringere fra le cosce quel serbatoio panciuto, sembrava di andare a cavallo. Era una compagna, eravamo una cosa sola. Muovevo i fianchi e la facevo scodinzolare come un cane felice. Certe volte mi mettevo a fischiare le canzoni di Johnny Cash, altre volte urlavo ritornelli stupidi inventando le parole. Un giorno stavo per finire in una pozza di fango solo perché volevo rifare sul serbatoio la rullata di batteria di Moby Dick dei Led Zeppelin con entrambe le mani. Moby Dick, Melville, un’altra storia di marinai, sentivo che dovevo raggiungere il mare e stavo diventando sempre più libero e sempre più scemo. Stavo cambiando o ritrovavo il ragazzino che avevo tradito e rinchiuso in quella stanza nascosta? Non mi fermavo più nei punti di sosta organizzati per i turisti, mi davano fastidio i pacchetti di biscotti allineati, le buste di patate fritte, le bibite fresche, i cessi puliti, le collanine e le statuette di Ganesh. Mi fermavo nei ristoranti dei camionisti, mangiavo lenticchie piccanti, chapati con patate e cipolle, bevevo tè masala e dormivo vestito, senza lavarmi. E stavo bene. M’indurivo e lasciavo sciogliere i pensieri nel vento. Mi fermai a Veraval, ma il porto puzzava di mare stantio, di pesce rancido e fogna. C’erano centinaia di pescherecci ancorati come grappoli di mosche ai moli luridi come latrine, lungo l’unica strada decine di cantieri costruivano barche o smontavano le assi marce di quelle rovesciate a pancia all’aria. Era un mondo di scheletri di legno protesi nel cielo e di naufraghi che si trascinavano nel fango o nel sole cocente. Ovunque c’era povertà, degrado, desolazione, eppure, carpentieri, marinai, pescatori, tutti seduti in cerchio all’ombra delle barche, mi sorridevano, mi parlavano in hindi e m’invitavano a mangiare con loro. Era la prima volta che accadeva, forse ero cambiato e se ne accorgevano. Anch’io ero diventato un naufrago come loro.
Mi tornò in mente il marinaio che mio nonno aveva aiutato ad essere libero, Corto Maltese, mi stava restituendo il favore regalandomi un percorso imprevisto fra memoria e libertà.
Bhavnagar, un’altra sosta in un albergo “civile” e un’officina specializzata in Bullet. Pezzi di motore ovunque, il pavimento coperto da uno strato di polvere e grasso, due uomini in maniche di camicia, le pance prominenti, gli occhiali appannati, ma dopo due giorni di cura la moto cantava senza battere in testa, le candele pulite, i freni tirati. Lasciai il sud verso Ahmedabad, mi servivano altre cinque o sei ore per completare quel viaggio ed ero confuso. Il motore girava regolare come un orologio, ma era più silenzioso di prima, un po’ triste, come me. Un cartello indicava l’inizio del Velavadar National Park. La civiltà degradata svaniva sostituita da una natura scarna, la strada tirava una linea dritta fra distese basse e piatte, deserti da un lato, saline candide dall’altro. In mezzo, mucchi di sale, capannoni scassati, carrelli elevatori, rulli dentati. Un po’ più avanti un fiume marrone si faceva strada nella grande pianura, intorno alle placide anse la terra era arsa e spaccata, il fango era incrostato come la pelle di un elefante. Linee e incroci di terra, d’acqua e sole. Accostai la moto. Non passava nessuno. Un raggio di sole colpì il marchio cromato e Bullet mi strizzò l’occhio, era contenta di quella sosta nel vuoto. Mi girai intorno e lo sguardo si perse. Oltre un ponte il fiume formava una bassa laguna, centinaia di fenicotteri la punteggiavano di macchie rosa, mi avvicinai, per la prima volta m’era venuta voglia di scattare una foto. I fenicotteri si allontanarono lenti, rimasi solo sul nastro d’asfalto che tagliava uno spazio deserto e pulito dell’India, del mio viaggio.
Passò un grosso camion, il solito clacson, mi ricoprì di polvere rossa. Infilai la chiave nella moto, ma mi bloccai e lo vidi arrivare. Era sbucato dal nulla. Un uomo in cammino. Scalzo, un bastone in mano, procedeva lento, l’andare senza tempo dei nomadi. Nell’altra mano teneva una sacca, c’era solo una coperta. Era vestito di bianco, lercio, le unghie lunghe, lo sguardo si perdeva in fondo alle cose, oltre le cose, dove gli altri non riescono a vedere. Eravamo di fronte, e non c’erano parole. Serviva quel viaggio, dovevo perdere la strada, il tempo. Quello sguardo era memoria. Gli occhi dell’uomo fenicottero mi trapassarono lasciandomi dentro lo sguardo di mio fratello. Avevo un appuntamento con lui.
Lo abbracciai e mi lasciò fare, esile, spariva fra le mie braccia. Avrei voluto dargli tutto quello che avevo, ma sarebbe stato inutile. Riprese il cammino, io rimasi lì.
Guardandolo scomparire all’orizzonte mi lasciai riempire dal vuoto.
Percorsi la stessa strada, nella medesima direzione, ma non lo vidi più.
Ad Ahmedabad mi fermai in un magnifico albergo, cento anni prima era stata la casa di un mercante di tessuti, su una parete era disegnato l’albero genealogico della famiglia, all’ultimo piano c’era un museo dei tessuti. Ripensai alla nostra famiglia: un albero dal tronco mozzato. Ero rimasto solo, i miei fili erano aggrovigliati ma quell’abbraccio aveva sciolto molti nodi e quella pista di ghiaccio che era stata la mia vita.
L’Adalaj Vav poco fuori dalla città, è un antico pozzo, dove bisogna scendere molti gradini: un capolavoro di colonne, piattaforme, scalini e pareti decorate. Lo fece costruire una donna, la moglie di un capo locale, per onorare gli dei del bene più grande, l’acqua. Quando arrivai là sotto, faceva fresco, l’acqua era di un bellissimo verde, ci si specchiavano pietre, archi e decorazioni. Mi fermai a guardare, seguivo un lento fluire di pensieri. Nel corso del viaggio l’acqua e la polvere mi avevano aiutato a sciogliere le certezze, a trovare la distanza.
E quel marinaio aveva innescato ogni cosa.
Non sapevo chi fosse Corto Maltese, eppure mi rendevo conto che un personaggio sconosciuto, quasi irreale, mi aveva aiutato a cambiare.
Chiamai George e ci trovammo a Varanasi.
Gli lasciai la vecchia Enfield modello 180. Era un capolavoro, conservata in maniera perfetta, adatta a chi sapeva scrivere una lettera come aveva fatto lui.
- Tienila tu, George, un giorno faremo un giro nel deserto con lei, insieme ai nostri fantasmi.
Il cappello da marinaio lo portai con me perché rappresentava tutto il resto.
Passeggiammo lungo il Gange verso il luogo delle cremazioni, il sole stava calando e lo spettacolo era incredibile, c’erano decine di pire e i corpi ardevano in un’atmosfera di strana normalità, almeno per il vecchio Jamal. Il nuovo Jamal, grazie ai fantasmi del passato aveva capito quello che da sempre è chiaro agli indiani, che la morte è parte della vita e che certe persone arrivano da un luogo oltre il tempo per raccontarci che la realtà più vera è quella che si fonde con la memoria.
È da un po’ di tempo che giro l’India sulla mia Enfield fregandomene di tutto, dopo i deserti ho visto la pioggia rigare i templi rossi di Orchha, i fiori di loto ricoprire il lago di Khajuraho e la nebbia avvolgere i pellegrini che camminano scalzi per purificarsi nel Gange.
Cerchiamo la libertà come naufraghi persi in acquario appannato e continuiamo a vagare in cerca di un’uscita o di uno spiraglio di luce.
Ieri ho scritto una lettera a George tanto per non sparire del tutto, almeno con lui:
Salve George, stai tranquillo, io sto bene e ho imparato a cavarmela senza aiuto.
Mio fratello c’è riuscito, forse l’ho incontrato lungo la strada oppure ha mandato un suo amico a spiegarmi come fare per staccarmi dalla Ruota delle Cose. Un proverbio indiano mi ha fatto capire quello che serve: “Per la vacca malata, il corvo; per l’uomo malato, il bramino.” Forse ho incontrato un bramino, forse sto guarendo da solo. A volte dormo negli alberghi a cinque stelle, altre volte sotto alle stelle.
Non ho più intenzione di tornare a Londra a combinare affari per gli altri per poi arraffare la mia commissione. Un giorno forse tornerò, ma solo per pensare alla mia ditta di fili perduti.
Per il momento mi guardo intorno, ho imparato a pensare, ad aspettare, a digiunare. Rimarrò lontano per un po’. Loro ti cercheranno, vorranno notizie,
ma tu non dire niente, la mia famiglia e quelli che mi aspettano non moriranno certamente di fame e io potrò divertirmi a immaginare come faranno a cavarsela.
Comunque grazie per la storia di Corto Maltese e per la Enfield,
non li dimenticherò,
sono stati un passaporto per la libertà.
Certe cose adesso me le voglio godere,
dalla distanza.
Mi manca molta strada per il Nirvana e non so nemmeno se m’interessa.
Resterò in mezzo alla polvere del mondo,
ma avrò bisogno di tempo perché sono uscito dalla Ruota delle Cose.
Jamal
Miraggi di memoria
Molto tempo fa ho incontrato per caso Hugo Pratt, ho conosciuto prima lui e poi Corto Maltese, il suo personaggio più famoso.
Ho avuto la fortuna di imparare da lui, perfino di collaborare con lui.
Non sapevo niente di fumetti e questa, forse, è stata la chiave giusta, parlavamo di storie da raccontare, ma intorno alle storie c’erano sempre i suoi disegni, gli acquarelli, le strisce, gli story-board, riuscivo a vederle meglio quelle storie.
Poi un giorno Hugo Pratt se n’è andato non so dove e sono rimasto in silenzio, ho aspettato, ho ascoltato e assaporato lo scorrere del tempo.
Dopo un po’ ho iniziato a viaggiare con un fotografo, un grande Amico, Marco D’Anna, il miglior compagno di viaggio. Cercavamo storie da raccontare lungo gli Itinerari delle Avventure di Corto Maltese. Lui fotografava, s’intrufolava negli ambienti, aspettava la luce giusta e io mi guardavo intorno, cercavo spunti, volti e scrivevo racconti, ma grazie alle sue fotografie le vedevo meglio quelle storie, le sentivo crescere lungo la strada.
Alcuni anni fa ho iniziato a scrivere romanzi, Corto c’era, ma era volutamente un riflesso del Corto Maltese di Hugo Pratt, volevo inventare qualcosa di personale, qualcosa che avevo imparato da lui: non inseguire ma tenere la distanza, percorrere i sentieri meno battuti, rovistare fra fatti e personaggi secondari, soffermarmi sugli incontri casuali e così ho provato a raccontare l’avventura di un Corto Maltese giovanissimo, un ragazzino al suo primo imbarco che naviga dalla Scozia alla Sicilia.
Il Corvo di Pietra, pubblicato da Sellerio è nato così.
E mentre rileggevo il manoscritto appena terminato pensavo ai disegni che avrebbe potuto realizzare Hugo Pratt e allora mi sono buttato, ho chiesto a uno degli artisti che apprezzavo di più se aveva voglia di immaginare qualcosa per farmi vedere meglio la storia e Sergio Toppi ha dedicato al Corvo alcune splendide illustrazioni, è stato un immenso onore.
Poi è arrivato Oltremare, pubblicato ancora da Sellerio, e ho vissuto un’altra grande e sorprendente gioia, vincere il Premio Emilio Salgari di Letteratura Avventurosa nel 2016.
È stato proprio Emilio Salgari lo scrittore che da ragazzo mi ha aperto la porta al mondo dell’Avventura e del Viaggio.
Nella stessa occasione ho ricevuto un altro premio molto prezioso, un premio che non potrò dimenticare perché me lo hanno attribuito i detenuti della Casa Circondariale di Montorio in provincia di Verona.
Sono stati incontri intensi, ma la motivazione al premio che hanno scritto i ragazzi e le ragazze recluse è pura poesia:
“Le pagine di Oltremare per un po’ ci hanno fatto viaggiare, ci hanno fatto assaporare il sapore della libertà, siamo andati oltre i muri e le sbarre”.
Adesso arriva Miraggi di Memoria edito da Nuages.
Cristina Taverna, la storica gallerista di Hugo Pratt e di tanti grandi illustratori non solo italiani ha proposto a José Munoz di realizzare le sue illustrazioni per i miei 6 racconti.
Allora certe volte i sogni possono continuare.
Scrivere storie e poi ritrovarle nei disegni, acquarelli, fotografie, nei sogni degli altri significa vederle vivere in maniera diversa, attraverso altri occhi.
È un dono bellissimo, le parole viaggiano verso destinazioni impreviste. È come vivere in un incanto.
Siamo fatti di Memorie e di Sogni, le Memorie sono le nostre radici, ci fanno resistere al vento che ci vorrebbe strappare via o buttare a terra, i Sogni sono il nostro desiderio di andare, continuare, d’inventare qualcosa di nuovo per vivere davvero, sono i nostri rami che si protendono, sono le foglie che cercano un profumo nuovo, nel vento.
Quella che segue è la Sinossi di Miraggi di Memoria, nel libro ci sono 6 racconti nei quali la figura di Corto Maltese diventa un miraggio sempre più indistinto, però con José abbiamo navigato nel suo stesso mare e, forse, l’abbiamo incontrato.
Miraggi di Memoria
Corto Maltese è un eroe che non ha mai voluto essere un eroe ma soltanto un viaggiatore, questi racconti sono nati in viaggio lungo gli itinerari vagabondi di Corto.
Hugo Pratt, in tutte le sue storie ha lasciato piste, segnali da seguire, personaggi da sviluppare, luoghi e tesori da inventare per continuare a cercare perché il valore principale di Corto Maltese è proprio l’invito al viaggio, fisico e mentale.
Queste storie vogliono essere un omaggio ai valori di curiosità, fantasia e libertà che mi ha trasmesso Hugo Pratt.
Corto non è mai stato un fine, ma sempre un tramite verso qualcosa di diverso.
Una veranda su un’isola caraibica può essere il punto di partenza per un viaggio alla ricerca della musica e della sofferenza che si respirano fra le piantagioni di canna da zucchero o nei desolati porti dell’oriente cubano.
Le vette dei vulcani sudamericani, le isole perse nell’Oceano e lo sguardo dei Moai ci spingono a ricercare mappe e tracce dei mondi perduti di Atlantide e Mū.
Le frastagliate coste scozzesi sono l’ambiente adatto per provare a immaginare una storia che profumi di whisky, erica, muschio e nebbia come nei racconti di Stevenson.
Le storie di Corto Maltese non sono soltanto avventure, sono inviti a superare le apparenze.
Quando Hugo Pratt disegnava ho visto bellissime visioni scaturire dai suoi acquarelli, sembrava di guardare attraverso un cristallo magico.
Ho provato a raccontare quello che c’è oltre le immagini, ho provato a incamminarmi lungo itinerari fantastici che partivano dalle sue avventure o da percorsi reali, perché Corto è un invito a viaggiare liberi e leggeri oltre il tempo e lo spazio.
In un tango argentino c’è una frase che dice: “Oggi entrerai nel mio passato”.
Ci sono tre tempi in queste poche parole, il presente, il passato e il futuro.
I “Miraggi di memoria” sono questo: emozioni, visioni e ricordi lungo una strada vagabonda.
Chi meglio di José Muñoz poteva camminare lungo queste strade polverose o navigare fra queste liquide, ipnotiche rotte?
Ci voleva il suo realismo magico, i suoi vuoti e pieni, il jazz dei suoi segni neri, la musica dei suoi silenzi per raccontare un altro Tango nel cortile di un gommista di San Isidro, per seguire il viaggio di un gruppo di cacciatori di balene che incrociano un giovane Corto Maltese, per farci sentire il suono lontano di un tamburo africano o il profumo speziato delle ballerine caraibiche.
Non c’è un tempo preciso in queste storie, ci sono atmosfere, assenze, deviazioni, cambi di rotta per raccontare ancora una volta quel mondo di avventure che Corto ci invita sempre a ricercare.
Marco Steiner
ottobre 2018
Preferisco guardare dal mare
Vercelli, il catalogo di una mostra fotografica dal titolo:
“Letterature Urbane 3.0 La città come testo”
Un’iniziativa organizzata a favore dell’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) Arca di San Marco, Vercelli, un luogo magnifico. (14 ottobre – 13 novembre)
Mi hanno chiesto un brano, l’idea era quella che scrivessi qualcosa che legava le città, la letteratura e il mare. Ho provato a raccontare una storia, che derivava da un’immagine che mi aveva colpito la scorsa estate, non era una fotografia, ma la dura visione della scogliera di un’isola greca del Dodecanneso, una di quelle più vicine alle coste turche, era stranamente coperta da macchie arancioni. Dopo essermi avvicinato ho capito cos’erano quelle chiazze colorate. Non erano fiori, erano i giubbotti di salvataggio usati e abbandonati (spero) da decine di migranti che si erano avventurati lontano dalle loro terre e che si erano salvati arrivando su quelle isole, per tentare un’altra avventura, quella di provare a vivere ricominciando da zero.
Normalmente scrivo storie d’avventura, mi è sembrato giusto perché credo che oggi i veri avventurieri siano proprio questi uomini, donne e bambini. Forse fa bene porsi una domanda: chissà che immagini si portano dietro queste persone dopo aver lasciato le loro città e quali altre visioni immaginano delle “nostre” città.
Forse è tutta una questione di disponibilità al cambiamento. E allora ho provato a raccontare il cambiamento di un marinaio a cui vanno stretti i porti, le regole, le abitudini. L’avventuriero abbandona tutto questo in cerca della libertà, ma anche la concezione della sua libertà può cambiare…
Ecco il mio testo:
Preferisco guardare dal mare
Non ricordo le città che ho attraversato.
Passavo soltanto. Bastava.
Non riesco a guardare, se non posso vedere.
Troppa polvere in giro, la ruggine attacca e corrode, l’odore di marcio s’infila nell’anima, spegne il calore. C’è solo fumo, terra senza vero colore.
Resto al largo.
Preferisco guardare dal mare.
Lo scoglio al confine col cielo accende la vista, l’isola nera stempera il buio di ricordi e paure. E l’acqua m’avvolge, m’abbraccia fin dentro alla pelle.
La linea grigia dell’orizzonte non vuole finire, la costa è dolce e lontana, sbiadita di sogni leggeri, quando la tenda s’alza pesante, scopre un palcoscenico irreale.
Non posso restare.
Lei era bella e imbronciata, profumava di riccioli chiari, di fiori bagnati, sfuggiva come una farfalla, come un girasole, mi faceva impazzire.
La notte m’incantavo nella nebbia di un sogno, accarezzavo lenzuola e sospiri.
E mi sentivo affogare, incapace di risalire. Volevo solo sparire.
Mi svegliavano capricciose e svogliate giornate di sguardi taglienti, unghie graffiate sul vetro, passi perduti, gelide cascate di grida e sciami di vuoti silenzi.
Non riuscivo a trattenere il destino, nell’amore non trovavo la grazia e non c’era abbandono, rotolavo fra spuma rotonda e pietre affilate. Quando la tela del ragno mi aveva quasi afferrato, ho mollato le cime, le ho gettate sul fondo del mare, e sono andato lontano.
Sprofondavo nel vuoto, ero attratto dal fondo, non mi volevo fermare, poi un riflesso rotondo di luna ha ammiccato il suo dolce richiamo.
Ho capito distanze, confidenze, silenzi, cercato gli schiaffi e le risate salate del mare.
Ora m’inebrio del legno e la spuma è morbida, leggera. Volo con la nuvola nera che scioglie il pensiero, seguo la scia dell’onda che socchiude gli occhi con me. E sorride.
La luce del faro è una spina sottile, artiglia la pelle indurita, s’insinua nelle fibre e mi trascina nel porto. L’abbraccio di una notte di note, incenso e vaniglia riapre la ferita e il ricordo stritola il cuore.
Riapro gli occhi e volto le spalle alla terra, mi allontano nel vento.
Liquido, libero blu da immaginare, colorare.
Preferisco guardare dal mare.
Punti bianchi di case scrostate s’inerpicano su rive scoscese, s’aggrappano a stecchi nodosi e arbusti bruciati, s’acquattano negli anfratti del monte.
Sono tutti infilati lassù, per sbirciare, muti e distanti dal mare.
L’onda vorrebbe strappare tentacoli, chiodi, cinghie e radici, schiaffeggiare di rondini e pesci volanti, sprigionare l’azzurro, l’aroma di sabbie lontane. Loro si aggrappano, si barricano dietro muri di sassi, grate di ferro, incastri di conchiglie scheggiate.
Gongolano immobili, immersi nella palude di un perfetto, implacabile oblio.
L’altrove non cambia, altre case si rovesciano come biglie di mercurio, l’olio scivola lento nella fumante caldana di un’immensa pianura, le formiche sgambettano e sfuggono il mare, mostro sconosciuto dai passi pesanti.
Non mi voglio seppellire ebbro e pigro nel tepore di una grotta stantia, non mi voglio inoltrare in un bosco di specchi e riflessi, ascoltare il biascicare di vuote parole, navigo, dove non importa, dove mi porterà un mare che sorride, mette alla prova, e non si vuole fermare.
Scivola il tempo e s’insinua nelle acque salmastre, isole ombrose, correnti di spezie.
La pelle indurisce, cambia colore, lo sguardo scavalca muri di leggi e miraggi, sfiora, lambisce, accarezza musiche nuove. Penetro nel suono, vibro note con occhi argentati.
Città e terre si disgregano nella lenta deriva mentre navigo un’inquieta melodia.
Escondida non c’è, per questo la continuo a cercare, voglio andare più in là, dove non posso vedere, dove non so di arrivare, dove è necessario cercare. Cambiare.
Poi in un giorno di sole il vento si gira e non serve spiegare. Non esiste il “non luogo”.
Si può solo sentire.
Il miraggio si trasforma in visione e diventa presenza.
La costa è calcinata di pietre, coperta di spine e pitturata da macchie arancioni. Non ci sono case bianche intente a scappare dal mare, non c’è niente, restano lacrime e il sangue di un mondo schiacciato e sbattuto.
La memoria è svanita, troppo lontano. I silenziosi deserti, gli sguardi muti, le oasi galleggianti su tremolanti calure, il profumo dei datteri, il suono di palme e cicale fruscianti, sono ormai frantumati, non resta che cenere, un vortice di polvere e poi il nulla.
Laggiù non bastava marciare per ore per trovare l’acqua da bere, l’otre sulle spalle era carica di un solo infinito dolore. Non esisteva una casa dove tornare, restava l’acre odore d’incendi e dei corpi straziati.
Le città erano bocche sdentate, le finestre occhi spauriti.
L’unica strada, l’acqua del mare, una madre per poter ricominciare.
Fra le macchie di sangue arancione c’era un uomo ferito, trafitto dal dolore, sbattuto dal mare in mezzo alle pietre. Era piegato come un ramo spezzato, rannicchiato come un cane in una cuccia di plastica e legni bruciati.
Scivolavo fra la schiuma e le pietre taglienti, lui era rimasto incastrato, nella rete, sul fondo. E avrebbe preferito l’abisso.
Non dimenticherò gli occhi dell’uomo. Sbattuto e perduto, lo sguardo carico di distruzione in ogni direzione. Ovunque arrivasse la vista o il ricordo, ma non era finito.
Non riusciva a fissare la sabbia, non osava guardare le stelle.
Sapeva aspettare, senza niente da perdere, scivolava nel tempo.
Non importa il suo nome, non importa il luogo dal quale fuggisse e a lui non importava dove andare. Aveva un solo rimpianto: essere vivo, ancora, da solo, scampato da quel mondo sfasciato.
Sono un marinaio e non ho mai avuto una casa, però adesso lo ero per lui.
Sono trascorsi degli anni oramai, è diventato un fratello, no, è molto di più.
Insieme siamo rinati, ci siamo salvati.
Abbiamo visto mari lontani e condiviso silenzi, olive, acciughe sul pane e bicchieri di vino. Poi un giorno un pezzo di terra ci ha accolti.
Una culla, forse proprio Escondida, c’era pace, le lucciole e il frinire di mille cicale che venivano da un mondo lontano. C’erano ulivi contorti come noi e fichi d’india altrettanto spinosi. Riuscimmo a comprare un mulo gagliardo e un carretto sbilenco. Costruimmo un rifugio di pietre pittate di bianco.
Quando i legni del pergolato s’inondarono di foglie e grappoli d’uva chiara come quei riccioli biondi, alzai un bicchiere sbeccato e lo guardai. L’ombra ondeggiava, il nero degli occhi brillava. Non servivano altre parole.
Era il nostro saluto. Anche il vino era schietto, come il nostro sorriso.
Presi il mare, alzai una mano e non mi voltai.
Si continua, sempre in cerca del resto, sempre oltre il passato.
Preferisco guardare dal mare, ma una cosa è cambiata, so che adesso se dovessi cercare riposo, una casa o il ricordo più vero, tornerò là, a Escondida, l’isola forse non ci sarà, ma ritroverò il mio sconosciuto fratello. Non sono più solo.
Marco Steiner
Mare greco. Luglio 2016
Una costa coperta di giubbotti di salvataggio arancioni abbandonati.
Una città fantasma. Oltre Escondida. Al di là dal mare c’è l’Oriente infuocato.