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Aspettando “Irene di Boston” di Francesco Cafiso in concerto a Palermo (7/8/2021)

Aspettando “Irene di Boston” di Francesco Cafiso in concerto a Palermo (7/8/2021)

Palermo, Piazza Marina 6 agosto 2021

Francesco,

domani sera al Giardino di Verdura di Palermo, suonerai per la prima volta “Irene di Boston, conversation avec Corto Maltese”, sarà un grande concerto, ne sono certo, ho ascoltato le prove, sarà un momento molto emozionante per tutti, per me lo sarà perché è raro e bellissimo vedere e ascoltare un sogno che si avvera. Volevo riproporti la lettera che ti ho scritto dopo il mio primo ascolto del tuo disco.

Eccola:

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by in / Itinerari alla Corto / Una Storia
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L’isola sacra sul lago gelato

L’isola sacra sul lago gelato

“Rendi grazie al giorno quando si è fatta sera…

…alla spada dopo averla usata

…al ghiaccio dopo averlo attraversato…”

(Havamal, Il discorso di Har, Edda poetica. Trad. Olive Bray edited by D.L.Ashliman)

 

Il Carrista poeta.

Sacha, classe 1946, è un siberiano nato fra i monti Sajani, il suo lavoro è fare l’autista. Fra il 1965 e il 1968 guidava i T62, i carri armati dell’esercito sovietico, la sua compagnia era stanziata a Cita, vicino al confine cinese, proprio come i cosacchi di Roman von Ungern Sternberg e come il grande cannone di Semënov. Il cannone del carro di Sacha era soltanto da 115 mm, non era molto preciso, ma era velocissimo, per questo i soldati lo chiamavano Falco.

Oggi, Sacha guida un vecchio furgone Uaz grigio-ferro e porta i turisti a vedere la “perla di ghiaccio”, il Bajkal. I suoi occhi hanno lo stesso colore del lago in inverno, azzurro-ghiaccio.

Il Bajkal non è un semplice lago, è un’immensa riserva d’acqua pura, circa il 20% di tutta l’acqua dolce del nostro pianeta. E’ lungo più di 600 chilometri, largo dai 40 ai 70. Una lunga virgola, una banana azzurra visibile dallo spazio insieme alla grande muraglia cinese. Nel suo punto più profondo, l’abisso supera i 1600 metri. L’immensa distesa liquida, d’inverno si blocca, cristallizzata in una tavolozza di ghiaccio blu coperta da una limpida, ma solida scorza trasparente.

L’isola sacra di Olchon è scura, è una surreale presenza che si staglia su quel lucido specchio e, grazie a quel gelo, è raggiungibile in macchina. Sospesa come in un sogno.

La leggenda della gente del posto dice che il dio del lago, una notte si svegliò e vide che una delle sue 337 figlie voleva fuggire insieme ai gabbiani per raggiungere l’uomo-fiume che amava, le tirò dietro un’immensa pietra, ma lei riuscì a sfuggire lo stesso. La ragazza si chiamava Angara ed è il nome dell’unico fiume che esce dal lago, gli altri 336 fanno affluire le loro acque in quell’immenso bacino sacro. La pietra scagliata dal Grande Uomo Baikal, sarebbe proprio la Roccia dello Sciamano che si protende dall’isola. Ci sono quattro larici avvolti da nastri azzurri votivi e una nave nera bloccata nella morsa del gelo. Si sente solo il rumore del vento e il crack-crack sinistro dell’assestamento dei ghiacci, la voce del lago. Sembra di camminare su di un blocco di quarzo, sembra d’intravedere un mondo incantato sotto a quella lucida superficie blu.

Ci si guarda intorno e non si ha molta voglia di parlare. E’una distesa infinita. Lunare.

Il vento più forte, quello che tira dal nord è il Sarma e il suo soffio gelato riesce a cristallizzare il movimento delle onde, a bloccare le navi e a rivestire i pali dei moli con un palmo di ghiaccio. Sembrano mani bianche del vento che s’aggrappino al legno.

Sembra che un mago, in una notte fatata abbia preso la sua bacchetta magica e abbia bloccato tutto quel mondo nella sua morsa di cristallo. Quando al mattino il Bajkal s’illumina della fredda luce bluastra dell’alba, è un’immensa cattedrale di luce. Allora Sacha guida il suo Uaz e, sbandando e danzando sul ghiaccio, fischietta un valzer di Strass, poi, con una lunga trivella appuntita come un grande cavatappi, fa un buco nella crosta ghiacciata del lago, ma non è facile perché lo spessore supera il metro. Sacha, completa il buco spezzando l’ultimo ponte gelato picchiando con un lungo bastone dal puntale di ferro, sembra un guerriero medievale che, con la picca, voglia finire il suo nemico. L’acqua gelata sgorga libera verso la superficie e lui ci piazza davanti un seggiolino e cala la lenza. E’ pronto a pescare l’”Omul”, un piccolo salmone dal corpo allungato. Ne farà una semplice zuppa con cipolle, carote e patate. La zuppa di pesce è una calda meraviglia mentre la schiuma della birra, in pochi minuti, si ghiaccia sul tavolo. Quando arriva la Vodka, Sacha decanta un verso di Maxim Gorkij: “Lodiamo il coraggio dei valorosi sognatori”. Si ricorda solo quel frammento della poesia “Il canto del falco”, forse gli sarà tornato in mente il cannone del suo carro armato, forse gli sarà tornato in mente un periodo che in qualche modo adesso rimpiange e allora racconta la poesia a modo suo, come fosse una storia:

“In cima ad un’alta scogliera c’era un serpente che strisciava in cerca di cibo. Il sole splendeva alto nel cielo e le onde del mare s’infrangevano sulle rocce, ma all’improvviso un falco cadde vicino al serpente. Lui si ritrasse impaurito, ma il falco non si curava affatto di lui, era ferito, stava morendo, ma alla fine riuscì ad avvicinarsi allo strapiombo, avrebbe preferito fare un ultimo volo piuttosto che aspettare la fine su quelle rocce. Precipitò in mare, fracassandosi sugli scogli e le onde si portarono via il valoroso uccello dalle ali spezzate…”

Marco Steiner

 

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by in / Black Pearl / Dos Mares
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Black Pearl

Black Pearl

Black Pearl

è la mia nave, la mia casa, tutto quello che porto dentro, poca roba, schegge di ricordi, odori, cicatrici e qualche sogno.

Ci sono gli uomini dell’equipaggio, li ho raccolti in fondo al pozzo, al Dos Mares, laggiù a Tarifa, davanti all’Africa.

Lascio un posto per chi troverò lungo la rotta e per chi si affaccerà nei miei incubi sudati.

Lascio spazio alle sorprese che arrivano dal niente, come dentro a un temporale.

Annuso l’aria per andare avanti in qualche modo, fino a quando ce la faccio.

 

Sugli scaffali ci sono libri, bussole e binocoli per cercare il cambiamento,

giorno e notte,

vento fresco e piatta fradicia,

poi ci sono le altre cose, le più belle, quelle che arrivano col blu.

Questa nave non punta i porti e la rotta cambia senza vento.

A bordo c’è un cartografo che possiede mappe antiche e conosce isole inesistenti,

un naturalista che racconta piante e animali leggendari se la notte è troppo buia,

poi c’è un cuoco che maneggia spezie, succhi e profumi prodigiosi,

un pazzo che riesce a rovistare nel futuro, e la scorta del mio rum per dimenticare tutto il resto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il passeggero più importante è l’imprevisto,

lo nascondo in mezzo a cime e vele, ma lui esce quando vuole, non avvisa,

sa che sono sempre pronto.

 

Jack Blake,

il Comandante della Black Pearl

 

 

 

 

Tutte le elaborazioni fotografiche sono di Marco D’Anna.

Il progetto nasce come idea di una futura Fotographic Novel.

Marco Steiner

 

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by in / Senza categoria / Una Storia
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Maroon

Maroon

Paramaribo, Suriname, Guyana olandese.

C’è una veranda stretta e lunga in una pensione di Paramaribo, si affaccia sullo scorrere lento del fiume marrone, ha il tetto e le persiane azzurre, balaustre bianche di legno scrostato, larghe poltrone di vimini, un gatto che dorme. Pigri ventilatori al soffitto cercano di mischiare l’umidità all’aria ghiacciata che filtra fumando dal condizionatore.

Nel silenzio si sente solo il ronzio e il cigolio delle pale, ma fa caldo lo stesso. Non è la pensione di madame Java, ma gli assomiglia. Alla reception c’è una brasiliana con un sorriso carico d’inviti.

L’atmosfera è sonnolenta, c’è odore di burro e pane tostato, un vago sentore di curry, spezie e cipolla che sfrigola. Il porto è in fondo alla strada, il mercato a due passi. Lì c’è di tutto, frutta colorata e verdure appassite, pesci affettati a colpi di machete, polli appesi e magliette piegate, orologi, radioline e cd falsi, ma anche vecchie bottiglie scariche di rhum, ma riempite con pezzi di corteccia d’albero, semi, foglie secche, piccoli arbusti o bacche. Basterà aggiungere un liquore chiaro, rum non invecchiato, vodka o gin. E aspettare. L’alcool assorbirà le proprietà di tutte quelle essenze. In pochi giorni il liquido diventa bruno-ambrato, amaro come il fiele, pungente come la schiena di un istrice, rugoso come pomice. Ogni bottiglia é una combinazione specifica per un preciso problema, il mal di schiena, il potenziamento sessuale maschile, per favorire le gravidanze, per la prevenzione o la cura della malaria, o soltanto per leggere qualcosa di strano nel futuro.

Una vecchia, nera e lucida come un pezzo d’ebano strofinato negli anni, spiega il funzionamento delle varie combinazioni. Ti fissa negli occhi, vuole conoscere chi le sta davanti, ma non le servono troppi discorsi. Ha un banchetto in un angolo scuro, i suoi occhi, bianchi come due lune bucate, sono scanner primordiali. Scavano, indagano, fulminano, o ignorano e se ne vanno lontani. Vende bottiglie magiche, ma anche bicchieri intagliati nel legno di china, radici nodose e unguenti profumati. Basta chiacchierare un po’, essere diretti e sinceri, dire qualcosa e poi farsi raccontare una storia. Sotto al banco ci sono bambole di pezza e spilloni, bottiglie scure con un liquido verde, altari di legno, candele colorate di varie dimensioni e tutto quello che serve per organizzare un rito vudù.

Poco fuori dalla città c’è la grande fabbrica, il cuore pulsante di tutto il paese, si chiama “Suralco”, loro lavano ed estraggono la bauxite dalla terra rossa dell’Amazzonia e poi la trasformano in allumina, la base per arrivare all’alluminio, uno dei metalli più diffusi nella nostra società, non solo nelle pentole. Per arrivare all’alluminio si passa attraverso un processo costoso, sono necessari quantitativi di energia elettrica impressionanti, qui non è possibile, lo faranno da qualche altra parte. In Suriname non è economico produrre energia, ma c’è tanta terra e tanti uomini che possono lavare la terra. Quattro tonnellate di bauxite per una tonnellata di alluminio, sfornato in lingotti di nove metri che pesano come sei elefanti. Sui giganteschi camion “Suralco” campeggia un motto che è tutto un programma: “We move the mountains. (Noi spostiamo le montagne)”.

Dopo quell’immenso castello di ferro, fumo e cemento, la strada è una striscia rossa d’argilla martoriata da piogge e pneumatici che s’infila come una cicatrice nel sud, nel verde della foresta, verso altre inguaribili piaghe scavate nella terra, le miniere d’oro.

I camion gialli vanno e vengono sbattendo ruote e sospensioni nelle buche e nel fango e si trasformano in mostri color rame. Quel frastuono metallico rimbomba nelle gallerie vegetali e fa rintanare i giaguari e le scimmie, ma a poche centinaia di metri la giungla torna di nuovo padrona. Per migliaia di chilometri c’è solo foresta amazzonica, giù, sempre più in fondo verso il sud del mondo.

Un tappeto carico di verde e ossigeno che si srotola oltre il confine, lungo tutto il Brasile.

Le puttane vengono da lì, dalle zone povere del Brasile. Loro sono le vere schiave di oggi. Un tempo, gli schiavi venivano dall’Africa: Costa d’Avorio, Dahomey, Ghana, li caricavano come bestie sulle navi e li sbattevano qui, servivano per coltivare le terre, per tagliare le foreste, guardare le mandrie, spaccare le pietre e fare tutto quello che nessun bianco avrebbe mai fatto. Alcuni di loro si ribellarono e fuggirono addentrandosi nella selva, e i loro discendenti sono rimasti ancora lì, adesso li chiamano maroon, ma fra loro si chiamano Longwe Samma (gente che scappa).

Sono i maroon che si occupano di cercare l’oro nella foresta, le concessioni sono canadesi oppure olandesi o di chissà quale ex-dittatore, ma chi scava, chi si prende la malaria, chi maneggia e s’intossica col mercurio, chi si prende l’Aids con le puttane brasiliane, chi viene ucciso dalle bande dopo aver ricevuto la paga o aver trovato una pepita, sono sempre loro, gli schiavi che hanno scelto la libertà, il gruppo più numeroso è quello degli Ndjuka. Loro però hanno una fonte di energia particolare. Si chiama Obeah, è un’antica forma di pratiche magico-religiose che proviene dall’Africa centrale, sono le divinità più potenti di tutte, non hanno paura del teatrino degli altri dei caraibici. Loro sì che fanno paura, bisogna chiedere a loro il permesso di toccare la terra, di ricevere la forza di scavare e di sopravvivere nella buia umidità della foresta.

I rituali magici vanno dalla magia bianca a quella nera e nessuno può davvero sapere che genere di sacrifici si facciano in certe notti molto scure. Sicuramente un cocktail per rinforzare lo spirito è composto da sangue di gallo, plasma di capra sgozzata, succo di canna da zucchero, rum e polvere da sparo. A Paramaribo c’è un negozio attrezzato in ogni genere di prodotto che serva per i rituali vudù, loro si occupano solo di magia bianca, magia positiva, dicono. La cosa più antica che c’è nel negozio è una serie di calderoni.

– “Il calderone serve a tutto – dice Héctor, un negro con dei bicipiti solidi e scuri come tronchi – si possono far bollire le erbe per lavarsi, o preparare una pozione per purificarsi, cucinare il cibo che serve per mangiare o che serve per la divinità da invocare, oppure può fare da casa per qualcosa che si è stata sacrificata per darci la forza di andare avanti…

Gli altri schiavi rimasero al loro posto e poi, nel 1863 furono liberati e rimasero in città, a lavorare per proprio conto. Oggi, i discendenti dei maroon, gli ex-schiavi fuggiaschi e di quelli liberati non si amano molto fra loro. Si ignorano e vogliono dimenticare i loro rispettivi passati.

Tanto per mescolare ancora di più le razze, dopo l’abolizione della schiavitù arrivarono in Suriname altri lavoratori, non erano più veri schiavi, ma venivano da altri miserevoli mondi, avrebbero accettato qualunque paga, qualunque condizione di vita pur di cercare un avvenire diverso e di riuscire a sfuggire dai loro problemi. Arrivavano dall’Industan, da Giava e dalle isole dell’arcipelago malese e indonesiano, dal sud della Cina, dall’India e dal Bangladesh e naturalmente dai paesi più poveri del Brasile.

Nazaré da Silva Nascimento, era una di loro, lei veniva dall’isola di Marajó, sulla foce del Rio delle Amazzoni, nello stato del Pará. Nazaré era nata in un villaggio di legno marcio e lamiera, costruito su fragili palafitte, non c’era niente di buono laggiù, tranne suo nonno. Lui modellava la ceramica di giorno e suonava la chitarra quando calava la sera. I vasi e i piatti che plasmava avevano colori delicati, ma le note delle sue corde lo erano ancora di più e Nazaré amava la musica più di ogni altra cosa. Un giorno, a dodici anni, diventò all’improvviso pallida e sudata, aveva la pancia dura come un sasso e un dolore lancinante nel ventre, dopo cinque terribili ore di barca arrivarono finalmente a Belém, dal medico. Il dottor Sachs la operò e la salvò, l’attacco di appendicite si stava trasformando in peritonite.

Quando si risvegliò nella stanzetta dell’ospedale di Belém non c’era nessuno dei suoi, solo il vecchio dottore, in una mano stringeva una bottiglia di rhum e beveva, con l’altra la stava accarezzando, ma c’era una musica celestiale in quella stanza.

  • Ti ho salvato la vita, ma voglio farti anche un altro regalo, Nazaré. Tu adesso chiudi gli occhi e ascolta la musica di Telemann. Il tuo corpo è uno spettacolo e voglio sentirti vibrare con queste note.

Dopo quel giorno per Nazaré, l’unico spettacolo che riuscì a vedere dal suo villaggio fu la “pororoca”, la formazione di onde gigantesche provocate dall’incontro fra le acque fluviali e quelle dell’Oceano Atlantico. Quando le acque del mare rientravano, portandosi dietro il color ocra di terra nel blu, lasciavano distese fangose punteggiate soltanto dalle macchie nere delle mandrie di bufali. Nazaré guardava quella laguna popolata da miseria e zanzare e sognava una cosa soltanto: scappare, andare via, lontano.

Non avrebbe mai pensato di finire peggio di là. Non avrebbe mai pensato di diventare la schiava di Luciano Brust. Il fornitore ufficiale di puttane per i cercatori d’oro del basso Suriname.

Il pugno è l’arma preferita di Luciano e può fare male, molto male. È nero e potente, lui sa dove colpire e ogni dito è rivestito da un grosso anello. C’è una spiegazione per ognuno di loro.

The star, la stella fortunata, quella di Lucky Luciano.

Una pietra rossa come il sangue, the blood, il sangue dei nemici.

Darkness, una pietra nera come il buio, il mistero dell’obeah, la potenza delle antiche divinità africane.

Freedom, la libertà, la cosa che Luciano ama di più.

Un’ancora marinara, perché lui vuole essere steady, stabile. Come una barca pronta a salpare, come una barca che si lascia cullare incurante dei capricci del mare, ma che resta lì, aggrappata sul fondo. Con lo sguardo nel blu e le dita di ferro aggrappate alle rocce.

Quella mano può accarezzare la pelle di Nazaré, spettinarle i capelli, può minacciare, o può massacrarle la faccia, renderla irriconoscibile, ridurla in brandelli con quel pugno armato con i suoi cinque simboli. Lui l’ha portata oltre il confine, l’ha portata via dalla violenza dei fratelli, ha pagato la sua famiglia, ha pagato il suo viaggio, le ha dato una casa e continua ogni giorno a darle cibo, e protezione. Adesso lei è una sua proprietà e deve fare contenti quegli uomini che frugano nella terra. Nazaré deve restituire il suo debito, deve riscattare tutto quello che Luciano ha fatto per lei, solo così potrà evitare quel pugno.

Ci sono altri schiavi moderni nel Suriname, in generale sono cinesi. Arrivano qui per costruire le strade, vengono dalle province meridionali del loro grande paese. I contratti da fame delle ditte appaltatrici durano sei mesi, loro hanno i permessi e lavorano duro, ma poi dovrebbero tornare, invece scompaiono nel nulla, nel verde di quelle foreste. Qualcun altro si occuperà di loro, come Luciano con Nazaré, qualcuno troverà loro una baracca e li spedirà a spargere mangime e ormoni ai gamberi che allevano lungo il fiume, antiparassitari alle canne da zucchero, a dissodare pietre nelle piantagioni di caffé, a spruzzare il diserbante nei campi, a cucire reti o pezzi di stoffa in qualche umido magazzino.

I piccoli lavoratori cinesi non hanno più un nome, sono clandestini in una terra libera, schiavi di chi li ha condotti attraverso i meandri di quella falsa libertà. Fra loro parlano una lingua speciale, parlano “Hakka” per capirsi senza farsi capire dagli altri, per avere ancora qualcosa di personale e speciale nel buio delle loro capanne di lamiera, di fronte al solito pugno di riso.

Del resto, Hakka, vuol dire “straniero” oppure “ospite”.

Fotografie di Marco D’Anna

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Il mercante di sale

Il mercante di sale

Il mercante di sale

Il mio nome è Ibrahim.

Sono un mercante di sale.

Lavoro al lago Assal. Due ore di autobus dalle false luci di Djibouti o due giorni di cammello. Ormai è una strada impossibile, per me.

Io resto fra le pietre e le sculture di sale.

È bello svegliarsi al mattino, la striscia bianca del lago si tinge di rosa, poi arriva il turchese.

Lo guardo per ore, mentre scaldo l’acqua del thè.

Ho venticinque anni, ma la mia faccia ne ha molti di più.

I miei occhi sono diventati due fessure sottili, come le righe sul lago.

Tre anni fa ero forte e veloce. “Ibrahim la gazzella”, mi chiamavano così, ero un mercante diverso, andavo e venivo dalla Somalia, conoscevo tutte le piste segrete, portavo ogni cosa.

Poi un proiettile mi spaccò una gamba e rimasi là, inchiodato alla roccia.

La notte scendeva e il sangue continuava a scorrere, si allontanava da me, s’infilava fra le pietre.

Riuscii a strappare una striscia di camicia, la strinsi forte sulla coscia e mi lasciai andare, potevo soltanto seguire il destino.

Mi ritrovai qui. Sul lago Assal, e tutto quel bianco mi ferì gli occhi.

Pensai d’essere arrivato in paradiso.

Ero debole e le luci bianche mi accecavano come spine appuntite.

Una donna mi versò l’acqua e mi guardò con due carboni pieni d’amore e compassione.

Ibrahim la gazzella se n’era andato per sempre.

Io me ne stavo sdraiato e la gente passava. Passava e spariva.

Una carovana di cammelli arrivava al tramonto e all’alba era nulla, però mi avevano salvato. Io li aspettavo e loro tornavano sempre.

Gli uomini caricavano, scaricavano il sale. Le donne cucinavano, sbattevano i panni. I bambini gridavano, correvano, piangevano. I cammelli masticavano erba secca.

E Ibrahim, lo storpio, se ne stava lì, a guardare la vita e il lago di luce.

Un giorno un bambino, Ismael, mi portò un regalo, il più bello del mondo.

Una stampella, l’aveva costruita da solo.

Era fatta di legno, di corda e di stracci intrecciati.

C’era scritto il mio nome. Il mio vecchio nome: “Ibrahim la gazzella”.

Mi appoggiai.

E mi alzai.

Il lago era ancora più bello.

Visto da lassù.

Marco Steiner

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Lo specchio della verità

Lo specchio della verità

Lo specchio della verità

Il Sole ne è padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice.

Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura”.

(Ermete Trismegisto, Tabula Smeragdina. Corpus Hermeticum. Bompiani. Il pensiero Occidentale/Filosofia. 2005)

Istanbul. Quartiere di Sultanahmet. Autunno. Una mattina di sole. Negozio elegante di antiquariato. Ufficio sul retro. La scrivania è ingombra di monete antiche suddivise in mucchietti. L’uomo seduto è in parte coperto dallo schermo piatto di un computer, ha una camicia bianca e un foulard verde al collo, capelli lunghi e disordinati, sta catalogando le monete usando una grossa lente d’ingrandimento dal manico in avorio. In primo piano una bilancia di precisione.

  • Effendi, c’è un europeo in negozio e mi ha chiesto se abbiamo mappe molto antiche…
  • Mi stai facendo perdere tempo Andrej, gli hai fatto vedere l’Imperium Turcicum di Homann?
  • Naturalmente…
  • E?
  • Si è messo a ridere, dice che viene per conto di un grande esperto italiano di cartografia antica e che quelle sono mappe del ‘700 e che valgono al massimo 7-800 Euro.
  • Noi a quanto le vendiamo?
  • 1500 dollari. Cosa gli devo dire?
  • Chiedigli cosa sta cercando e digli che io non ci sono, se capisci che il suo sedicente padrone è disposto a spendere molto fallo ritornare domani, e adesso lasciami in pace.

Dopo un’ora il signor Khaftaj lascia il suo ufficio ed entra nel negozio. E un mercoledì mattina di ottobre e Istanbul è inondata di sole.

  • Com’è andata a finire con quel cliente?
  • Alla fine mi ha detto che il suo capo stava cercando una parte della mappa di Piri Rais, e io gli ho risposto che quella si trova nella biblioteca del Topkapi…
  • E lui?
  • Mi ha detto che “quella era cosa risaputa”, ma che il suo capo la voleva incontrare lo stesso…domani, un’ora prima del tramonto alla…”Triplice cinta”…se ho capito bene.
  • Dev’essere un mitomane, Andrej, e sono sicuro che non esiste nessun cartografo che lo manda in giro a cercare mappe da museo, comunque grazie. C’è altro?
  • Si, mi ha dato questo busta per lei.

Jusuf infilò la busta nella tasca della giacca e andò a casa. Chiuse la porta a chiave, si sedette in poltrona e aprì la busta elegante.

Conteneva soltanto un biglietto da visita.

“Cristoforo Cybo. Erede di santi e di navigatori”.

Poi aggiunto a penna con una calligrafia elegante e perfetta: “Sono venuto in possesso di un testo raro di Ermete Trismegisto, edizione Turnèbe, anno 1554 che troverebbe opportuna collocazione nelle vostre mani in cambio della parte “scomparsa” della mappa di Piri Reis che ci risulta attualmente in Vostro possesso”.

Josuf compose immediatamente un numero sul suo cellulare.

  • E’ venuto qualcuno per quell’antico scambio.
  • Ti sembra tutto regolare?
  • Solito sistema.
  • Dove?
  • Il muro dei segni.
  • Sono sempre stati sottili.
  • Da diverse centinaia d’anni.
  • Credi che c’entri qualcosa il Fondo Monetario?
  • No, ma credo che ormai Istanbul stia per ritornare importante culturalmente ed economicamente. Ci stanno perfino facendo riconciliare con gli Armeni, fra poco toccherà ai Curdi e poi agli Azeri e le nostre autostrade liquide porteranno merci e oro nero fino in Cina con un solo balzo. Cercano strane alternative per il gasdotto. Gireranno molti soldi e merci per questo vecchio mare, quindi hanno bisogno di stabilità. Questo gesto di riconciliazione è una specie di stretta di mano.
  • E’ vero senza errore e menzogna, è certo e verissimo.
  • Il padre di tutto, il Tèlesma è qui.
  • Ci sentiamo domani.

Josuf incrociò le gambe e si sedette sul morbido tappeto. Accese un piccolo braciere e iniziò a pregare. Dopo mezz’ora si alzò, versò dei grani di povere sul braciere incandescente e inspirò lungamente quel fumo, poi incrociò le braccia davanti al petto e si toccò le spalle abbassando la testa.

Iniziò a girare, a girare ancora e poi, lentamente, aprì le braccia e le mani continuando a girare, la destra in alto, la sinistra in basso, fino a quando la stanza scomparve e lui vagò nello spazio infinito, sopra le moschee ed il cielo, si sciolse nelle particelle sottili e poi volò via dissolvendosi come fumo nel vento.

Quando tornò a terra si distese sul letto e dormì a lungo.

Il negozio antiquario di Jusuf Khaftaj non era lontano dalla Moschea Blu e da Aya Sofya, la Santa Sapienza dei Greci. I turisti seguivano le guide e continuavano a scattare immagini che sarebbero rimaste per qualche altro giorno sugli schermi digitali delle loro macchinette fotografiche perfette. Ekrem preparò un’eccellente spremuta di melagrana per il signor Khaftaj scegliendo quattro fra i frutti più sodi e maturi. Poi Jusuf Khaftaj entrò nell’imponente moschea e salì le rampe di scale che lo portarono alle gallerie del piano superiore, buttò uno sguardo alle imponenti e leggerissime volte, ai segni delle croci strappate e passò davanti alla tomba del doge Enrico Dandolo. Si fermò e fece una smorfia  pensando a quel povero vecchio cieco arrivato con le sue galee veneziane fin lì per morire ed essere sepolto a Costantinopoli a 98 anni e poi perdere le ossa, disseppellite e date in pasto ai cani dalle orde di Mehmed II un quarto di secolo dopo. Sulla scrivania aveva lasciato due Grossi Matapàn d’argento, ma soltanto uno era perfetto, l’altro aveva una grossa scalfittura proprio sui volti del doge e di San Marco.

Mancava poco all’appuntamento. Un striscia di luce dorata s’infilava da una delle finestre che inquadravano le punte aguzze dei minareti e illuminava perfettamente il muretto di marmo sul quale era stato inciso, forse dai Templari, quel misterioso simbolo di tre quadrati concentrici che stavano a indicare la particolare sacralità energetica del luogo.

In quel preciso momento, Jusuf fu percorso da un brivido e da uno stato di allerta generale. Il cacciatore si sentì preda. Si allontanò dal luogo e girò dalla parte opposta della moschea. Da quel lato poteva osservare perfettamente il luogo dell’appuntamento e la lama di luce che lo stava illuminando. Dopo pochi istanti vide l’uomo e rimase pietrificato. Era come se si fosse guardato allo specchio, oppure attraverso una finestra invisibile sospesa al centro della moschea.

L’uomo che doveva incontrare era identico a lui. Si guardò intorno come se la gente si fosse potuta accorgere della presenza del suo doppio. Per istinto e per fortuna aveva scelto il lato giusto della galleria, l’uscita era da quel lato, s’avviò verso la scala con passo deciso.

Scomparve e non si guardò mai più indietro.

Marco Steiner

le foto sono di ©Marco D’Anna

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Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro

Cavalli selvaggi e serpenti di ferro.

“Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa da abitare, quando la si sarà resa simile da un capo all’altro e non si potrà nemmeno più cercare di viaggiare per distrarsi un poco” (Pierre Loti).

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Aran Islands

Aran Islands

Inishmóre. Isole Aran, il cuore celtico d’Irlanda.

Sono le 8 del mattino, tutto è buio, grigio, freddo. Il mondo sembra deserto, assopito. Anche il sole è in ritardo. I chilometri scorrono sotto le ruote in silenzio, nessuno in giro, solo qualche pecora seduta sull’asfalto. Il prato è troppo umido e freddo anche per loro.

Il traghetto è semivuoto, ci sono solo una ventina di persone a bordo, compreso l’equipaggio. Uomini taciturni.

Giubbotti macchiati d’olio dei tecnici che fanno girare le caldaie. Giubbotti scuri in Goretex dei fotografi di pietre, tombe e uccelli. Capelli corti, barbe arricciate, basette tozze e rossicce. Tanti occhi socchiusi a smaltire le ultime Guinness.

Uscendo dal porto di Rossaveel uno stormo di gabbiani ci segue. Il mare è d’acciaio, la costa è bruna e marrone, i picchi luccicano, spolverati di bianco, le isole sono tre strisce sottili di blu.

La quarta oggi non c’è.

Dún Aengus è un anfiteatro semicircolare di pietre incastrate e impilate a secco con l’apertura rivolta verso l’Atlantico, l’Occidente. Il mare è là sotto, duro e caparbio come un ariete che picchia contro un muro da abbattere. Sono secoli che cerca di rosicchiare quell’immensa scogliera che osa ergersi impavida a sfidare la sua forza, ma si sbuccia le corna.

L’onda rimbomba nel silenzio come un tuono lontano, come un rullo di tamburi.

Al centro del semicerchio c’è un altare di pietre scure come il cielo.

Intorno, un prato d’erba chiara che s’inchina alla potenza del vento.

Piega la testa, disegna onde verdi, morbide, tranquille.

Dietro al muro c’è il resto dell’isola, separata da un’infinita distesa di pietre appuntite, conficcate a terra e incrociate come “cavalli di frisia” a sbarrare il passo a chissà quale invasore.

Lo chiamano il Forte, perché “Dun” in gaelico significa “Fortezza”, alcuni storici dicono che era una costruzione di difesa, in effetti non è difficile immaginare in quel semicerchio una riunione di druidi e, in mezzo all’altare, il gran sacerdote alto e barbuto che invoca la potenza del sole, o della luna, un lugubre antico lamento si disperde nel vento.

Forse anche il resto del semicerchio di pietre è scivolato in mare come la quarta isola e allora anche Dún Aengus è una specie di Stonehenge che rappresenta la “Ruota della vita”, la primordiale Dea Madre che si cela in ogni pietra che ha segnato la storia.

Il muro di pietre scure è quasi caldo, protegge dal vento, aiuta a guardare il flusso del mare, a seguire lo spettacolo del vento che scompiglia le nuvole.

All’improvviso si apre una breccia in quel grigio sipario, un fascio di sole innalza una lama fredda di luce dall’acciaio del mare.

In due ore il vento spazza ogni cosa, l’azzurro del cielo scaturisce dall’acqua riflessi turchesi e verdi come alghe che invadono il nero.

Un ragazzo entra nell’anfiteatro con passo elastico e sportivo. Jeans e giaccone nero di panno aperto al vento gelido. Una faccia irlandese, squadrata, sembra un attore che reciti un ruolo preciso. Va dritto e deciso verso il bordo dello strapiombo, senza il minimo timore si mette a cavallo dell’ultimo trampolino di pietra.

Sotto di lui, a un centinaio di metri, le onde continuano a sbattere la roccia in un ribollire rabbioso.

Sembra un giovane Corto Maltese in carne e ossa e se ne sta seduto lì, a fissare l’Occidente, a ricordare il suo sogno di Oberon e Puck, guarda il rimorchiatore che dirige a tutta forza contro il sottomarino tedesco con Mago Merlino e Morgana in questa Stonhenge selvaggia e reale.

Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è. Infinito”. (William Blake – “The Marriage of Heaven and hell”)

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La torre della cicogna bianca

La torre della cicogna bianca

La torre della cicogna bianca

                                              “L’aurora irrompe, seguendo la montagna;

e intanto il Fiume Giallo fluisce verso il mare.

Ma tu potrai vedere un ampio panorama,

salendo ancor più in alto sulla torre.”

(“Salendo sulla torre delle cicogne” Wang Chih-Huan. 688-742 d.C.  Poesia Cinese dell’epoca Tang. BUR 1998)

Pechino. Entrata meridionale del Tempio del Cielo. Domenica pomeriggio. Yu Zuncheng è un pensionato, appena può, viene qui a passare il suo tempo, anche quando è grigio e freddo, come oggi. Yu scrive poesie, le scrive per terra, all’interno del piazzale che precede l’immenso giardino del tempio. Si porta un lungo pennello che all’estremità ha una spugna appuntita, imbeve la punta in un secchio d’acqua e scrive sul lastricato grigio. Yu scrive con grande attenzione, i segni sono precisi, i movimenti eleganti. La poesia che parla della salita sulla Torre delle Cicogne l’ha trascritta sul selciato, è una famosa poesia dell’epoca Tang, ricorda un po’ “L’infinito” di Leopardi e il concetto dello sforzo necessario per guardare oltre, al di là del visibile.

Lentamente i tratti scuri e umidi svaniscono sulla pietra e tutto ritorna grigio com’era.

La gente si avvicina, parla con lui oppure legge in silenzio la poesia.

Il tempo scorre e asciuga i segni che ricordano i caratteri dipinti da Vita Lunga per Corto Maltese. Poi si scopre che Yu non è un pensionato normale, lui il mondo lo conosce davvero, parla perfettamente l’inglese. Molti anni fa, era l’interprete personale del presidente Deng Xiaoping.

Prima di leggere Corte Sconta detta Arcana, bisognerebbe guardare un film: “Shanghai express” di Joseph von Sternberg. C’è un po’ di tutto lì dentro: il viaggio in treno in una Cina in grande fermento, un amore impossibile, una splendida Marlene Dietrich che interpreta Shanghai Lil, le spie, i trafficanti d’oppio, le divise, i cambiamenti di fronte e le mitragliatrici dei soldati.

C’è anche una frase emblematica del generale Chang cinematografico:

“Siamo in Cina, dove vita e tempo non hanno valore”.

Poi ci si rende conto che anche il nome del regista è lo stesso di uno dei protagonisti della storia di Pratt, il leggendario barone Roman Ungern von Sternberg e allora il gioco dei rimandi potrebbe continuare a snodarsi lungo i freddi binari che attraversano la Siberia, la Mongolia, la Cina.

D’inverno, il lungo paesaggio che separa Pechino da Mosca è bianco e ghiacciato, è fatto di spazi infiniti, di un esercito di betulle allineate come esili spettri di soldati, di treni impregnati dall’odore del carbone e da un caravanserraglio d’umanità.

Non ci sono vagoni carichi d’oro, né cannoni, non ci sono diafane Marlene Dietrich, né bionde baronesse russe dal fascino distaccato, ci sono soltanto grasse prostitute cinesi che s’impomatano il viso e variopinti personaggi che trascinano valigie di merci da vendere a ogni fermata.

Il treno è uno sferragliante mercato ambulante invaso da borsoni telati a strisce azzurre, bianche e rosse, imbottiti di magliette, jeans, tute Adidas false e giubbotti di autentica stoffa sintetica, calze, calzini, occhiali griffati, lucide borse di pelle.

In giro circola soltanto denaro stropicciato, cinese, mongolo, russo, dollari ed euro che passano continuamente di mano in mano ad ogni stazione di sosta.

Nel treno c’è un sentore misto di vodka, sudore, grasse zuppe con carne stufata, carbone, sigarette e caffè. Alle dogane notturne il tempo si blocca, immobilizzato da controlli, cambi di carrelli e motrici che procederanno su binari dal passo diverso. Le guardie di confine s’infilano come gatti negli anfratti sotto i sedili e sopra i soffitti, fissano le pagine dei passaporti e gli occhi dei passeggeri per secondi che scorrono infiniti senza bisogno di parole, qui contano solo gli sguardi. Le teste dei controllori s’inclinano impercettibilmente e loro occhi scrutano in profondità, come animaleschi segnali di studio prima dell’attacco. La falsità trasuda da un battito di ciglia o da un sorriso ostentato, poi il passaporto viene richiuso e, magicamente, come per grazia ricevuta, tutto si sblocca e la marcia del treno continua.

È un procedere lento, che  ingoia chilometri, confini, sbadigli, fusi orari, giornate fatte di grigi e albe che si confondono con i tramonti.

Fuori dal finestrino, il paesaggio che sfila sembra una tela rigata da un’impercettibile linea centrale: bianco increspato di neve e azzurro pallido di cielo.

Il tutto, macchiato dal vento.

Il sole non si vede, si nasconde da qualche parte, dietro ad un diafano alone.

Quando ci si avvicina alle stazioni, la neve diventa sporca, grigia, triste, stropicciata come il denaro, come il profilo delle città.

I vetri dei finestrini sono decorati da cristalli ghiacciati e gli spazi fra un vagone e l’altro sembrano celle frigorifere spazzate da un vento polare. Poliziotti silenziosi, ferrovieri svogliati, passeggeri rassegnati, ossigenate e corpulente cameriere s’incontrano nel vagone ristorante e sono una sintesi variopinta dei possibili incontri che avvengono realmente lungo quell’infinito doppio nastro d’acciaio e di paesi tanto diversi.

Ci sono oltre 7000 chilometri fra Mosca e Pechino, 5000 di Siberia, 1000 di Mongolia, 1000 di Cina, eppure il frate minore Giovanni da Pian del Carpine, inviato dal papa Innocenzo IV, arrivò a cavallo fino alla corte di Guyuk, il Gran Khan erede di Gengis partendo dalla Francia nel 1245.

Dopo di lui ci arrivò Guglielmo da Rubruc con una lettera del re di Francia Luigi IX.

I silenziosi viaggi dei due francescani avrebbero modestamente aperto la strada al celebre itinerario di Marco Polo, eppure tanti altri avventurieri, esploratori e geografi si erano spinti in quelle terre lontane descrivendo i Takhi, i cavalli selvaggi che non esistevano in altri luoghi del mondo e gli Almas, gli uomini-animali, yeti ricoperti di peli che vivevano in piccoli branchi nelle zone più inospitali e desolate di queste durissime terre.

Il sogno del barone Ungern von Sternberg partiva da questo centro del mondo, dalla Mongolia. Il generale dalle nobili origini teutoniche e baltiche, il fondatore dell’Ordine Militare Buddista e della Cavalleria Selvaggia voleva ristabilire il predominio culturale e religioso asiatico spazzando il materialismo dei conquistatori cinesi e dei rivoluzionari russi.

Oggi la patria di Genghis Khan si erge solitaria in mezzo a due grandi colossi come la Cina e la Russia che dopo aver abbandonato i loro idealismi rivoluzionari, ora inseguono diversi ma simili materialistici sogni di un moderno benessere.

 

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Tropical Islander

Tropical Islander

Tropical Islander

La Tropical Islander, è la mia nave, è una grossa nave dallo scafo nero. E’ fredda e piena di scatole metalliche di ogni colore. E’ una portacontainer della New Guinea Pacific Line. Siamo partiti da Hong Kong il 28 aprile e dovremmo arrivare ad Apia il 14 giugno, abbiamo toccato i porti di Kobe, Yokohama, Tarawa, Nomea, poi ci hanno bloccati al largo del porto di Lautoka, nelle Fiji. L’ordine l’ha dato un ufficiale medico, il dottor Tarid Ali. Doveva essere un semplice controllo sanitario, ma a bordo hanno trovato tre tipi d’insetti strani, dovranno analizzarli e ci hanno messi in quarantena.

Siamo bloccati, a tre miglia dal porto di Apia, Upolu, la mia isola, se non riusciremo a partire al più presto, diventerò pazzo.

Il mio nome é Niuu, sono originario di Matautu, un villaggio di pescatori sulla costa meridionale. L’anno scorso, all’alba del 29 settembre, una data che non dimenticherò mai, lo tsunami investì l’isola, proprio da quel lato e con quattro onde più alte delle palme, mi portò via tutto, mia figlia di dodici anni, mio padre e mia madre, la mia casa, la mia moto e il mio cavallo, elencati nell’ordine d’importanza.

Mi ero svegliato di colpo, avevo sentito uno strano rumore, sembrava un ruggito nella terra, poi ci fu solo silenzio, un grande silenzio senza un alito di vento rotto solo dal richiamo di un uccello, poi arrivò il mare, quattro schiaffi di fango gelido, sembrava che tutto dovesse finire.

Rimasi attaccato al tronco di una palma, lei era riuscita a resistere, era elastica, leggera e io mi trovavo per caso lì.

Le altre, con le loro radici infilate nella sabbia e i tronchi spezzati, sembravano tristi ballerine su di un palco senza musica.

Ero un uomo felice, quasi benestante, da quel momento in poi, non ho avuto più niente.

Mi sono rimaste tre tombe, una moglie infelice, il ricordo della mia Fale e dieci palme spezzate, come la mia vita.

Fu così che accettai l’ingaggio del comandante giapponese su questa nave nera come la notte.

Mi ha venduto un container per 500 dollari di Samoa, pochi spiccioli, ma per le carte di navigazione quel container blu sarebbe stato mio durante i viaggi, lui non aveva responsabilità di quello che c’era là dentro.

Le autorità portuali fanno controlli a campione oppure guardano le provenienze, le destinazioni e il tipo di merci trasportate, quando c’è qualche dato sospetto controllano.

Nel porto di Hong Kong non ci sono più barche, ma un’impressionante distesa di container di tutti i colori, la prima volta che l’ho vista mi sembrava un’immensa città, o il disegno di un bambino. Non ho mai capito come facciano quelle braccia meccaniche a scegliere il cubo giusto e a caricarlo sulla nave giusta, ma in fondo, la cosa non mi ha mai interessato troppo. A me bastava sapere che il mio container blu viaggiasse sempre con me e che nessuno mi chiedesse di aprirlo per sapere cosa c’era dentro. Ho fatto tre viaggi da Hong Kong al Giappone e ogni volta ho infilato un sacchetto di coca in mezzo ai tonni congelati, oppure fra i materiali da costruzione, questo era il mio lavoro, ma facevo finta di fare il marinaio.

Al terzo viaggio, questo, il mio incarico si sarebbe dovuto concludere, il container tornava al comandante e io mi sarei preso il mio premio, 30.000 dollari americani. Con quei soldi avrei ricostruito tutto, mi sarei ricomprato una moto e un cavallo, avrei pregato per mia figlia e per i miei antenati, avrei costruito una tomba nella veranda della mia nuova casa, l’avrei rifatta sopra al pavimento di quella che le onde avevano portato via. Mi bastava un piccolo muro per il perimetro, un po’ di colonne azzurre, un tetto. Qui ad Apia, le nostre case sono fatte così, bastano tende leggere, non servono muri, porte, finestre, chiavi, basta un tetto per ripararci dalla pioggia.

L’aria, il vento e gli amici possono sempre entrare.

Con i quei soldi sporchi avrei rifatto tutto, volevo provare a ricominciare.

La Tropical Islander adesso è bloccata, per una stupida ispezione medica e per tre stupidi insetti di cui non saprò mai il nome.

Sono qui, sono sudato e ho il cuore che batte come un tamburo.

Ho il corpo quasi completamente tatuato, perché sono un uomo di rispetto, almeno secondo le nostre tradizioni, ma non sono contento di quello che ho fatto, e se mi dovessero scoprire vorrei strapparmi questa pelle di dosso.

Un ragazzo, per guadagnarsi il diritto al tatuaggio deve dimostrare il valore, e per farlo, deve superare tre prove: il mare, la terra, la famiglia.

Con la fiocina ho dimostrato di saper pescare, con la vanga, di saper coltivare la terra e di saper far crescere e mantenere la famiglia, per questo ho avuto il diritto di ricevere il tatuaggio.

Non sapevo quale disegno il Maestro avrebbe scelto per me, lui l’avrebbe sentito, senza parole, e avrebbe iniziato, senza uno schema.

Ho sofferto tutti i giorni, per quattr’ore filate, per una settimana, forse di più, ma in quei momenti il tempo sparisce.

Quel martelletto picchiava con la punta irta di aghi, sottili come spine che s’infilavano nella mia pelle e quel rumore mi si era infilato in testa come un chiodo, migliaia di chiodi.

Non riuscivo a dormire perché continuavo a sentire quel rumore costante, però avevo voglia di svegliarmi per sdraiarmi di nuovo e ascoltarlo ancora, avevo voglia di finire.

Oggi sono qui, aspetto il mio destino a braccia incrociate, guardo i miei muscoli e i segni che mi ricoprono il corpo, ma non ho più l’orgoglio, vorrei graffiarmi di dosso questi segni con tutta la pelle e la mia anima ferita. Con quei soldi, forse, riuscirò a ricostruirmi una casa, a ricomprarmi la moto, il cavallo, ma non mi ridaranno il rispetto.

Ripenso al Pacifico, il mio mare infinito, il mare che parla col cielo.

Mi ha dato tutto, ha il diritto di riprendersi ogni cosa.

Se avrò la fortuna di ritornare senza essermi lasciato sporcare da questa nave nera, dimenticherò e andrò avanti.

Ricostruirò la mia canoa e tornerò a pescare, perché quando sono solo in mezzo al mare, non importa se piove o c’è il sole, mi bastano le stelle di una notte profumata, il vento e le onde che mi vogliono portare via con loro.

Forse dovevo perdere tutto per capire quanto ero ricco.

Upolu è la mia isola del tesoro e questi bastardi con i loro soldi non riusciranno a cambiarmi.

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