Aspettando “Irene di Boston” di Francesco Cafiso in concerto a Palermo (7/8/2021)
Palermo, Piazza Marina 6 agosto 2021
Francesco,
domani sera al Giardino di Verdura di Palermo, suonerai per la prima volta “Irene di Boston, conversation avec Corto Maltese”, sarà un grande concerto, ne sono certo, ho ascoltato le prove, sarà un momento molto emozionante per tutti, per me lo sarà perché è raro e bellissimo vedere e ascoltare un sogno che si avvera. Volevo riproporti la lettera che ti ho scritto dopo il mio primo ascolto del tuo disco.
Eccola:
Passi silenziosi nel bosco
Passi silenziosi nel bosco
di Hugo Pratt, Nicola Magrin, Marco Steiner
è un nuovo libro Nuages che sarà disponibile dal 23 novembre 2020 e che, se possibile in questo strano periodo, verrà presentato giovedì 10 dicembre presso la Galleria Nuages a Milano in via del Lauro 10.
Questo libro è nato da un’idea di Cristina Taverna, la storica gallerista e amica di Hugo Pratt che, oltre ad aver creato un magnifico spazio espositivo dove sono passati e continuano a passare tutti i grandi nomi dell’illustrazione italiana e internazionale, ha creato una casa editrice che non pubblica solamente bei libri curati nella grafica, nell’impaginazione, nella scelta di carta, caratteri e colori, no, Cristina Taverna fa molto di più: inventa libri.
Inventare un libro per Cristina vuol dire unire testi e immagini; vuol dire associare idealmente uno scrittore e un disegnatore o viceversa in base alle loro affinità e alla sua intuizione; vuol dire regalare alle parole disegni o illustrazioni attraverso i quali andare ancora più lontano, oppure, consentire alle immagini, attraverso lo scorrere dei testi, un tempo di osservazione maggiore per poterle penetrare più a lungo tramite la musica di determinate parole.
Non serve che elenchi i libri che Cristina Taverna ha inventato, basta guardare il catalogo di Nuages, quello che vorrei dire è che per me è un onore far parte di questa galleria di libri ed è la seconda volta che accade dopo i miei racconti-deviazioni prattiani illustrati da José Muñoz in “Miraggi di memoria”.
Ma cos’è “Passi silenziosi nel bosco” e com’è nato?
Questo libro è nato davanti al mare in una conversazione del genere:
- Marco, vorrei realizzare un libro in cui le chine delle storie indiane di Hugo possano incontrare gli acquarelli di Nicola Magrin.
- E io cosa dovrei scrivere?
- Quello che vuoi, scrivi una storia, oppure tessi un filo sottile di parole per collegare chine e acquarelli.
- È molto interessante, ma è un lavoro complesso, delicato.
- Per questo l’ho chiesto a te, forse dovremmo iniziare pensando a un titolo, ma quello forse ce l’ho già. – aggiunge Cristina.
- “Passi felpati nel bosco”. È una frase che Hugo mi sussurrò una mattina in una galleria di Roma, prima di una sua mostra. Mi parlava, citando un verso di Stevenson della ballata Ticonderoga, degli indiani del Nord America, dei boschi, degli animali, dei coloni, delle divise, di Wheeling, la sua passione, un fumetto che aveva scritto e disegnato durante un lungo periodo di tempo durato trent’anni…
È iniziato tutto così.
Conoscevo Wheeling e Ticonderoga di Pratt, avevo visto le copertine di Nicola Magrin disegnate per tanti grandi autori, da Jack London, a Robert MacFarlane, Primo Levi, Tiziano Terzani, Paolo Cognetti e tanti altri, ma non sarebbe stato facile entrare delicatamente e con il rispetto necessario in quel “bosco”, serviva un’idea.
Così ho iniziato a leggere storie e leggende indiane e una in particolare mi aveva colpito molto, era quella di Hi’nun, il cacciatore indiano che venne sorpreso da una violenta tempesta e per ripararsi si rifugiò sotto a un grande pino, ma da quel momento visse una strana avventura.
Ho cominciato da questa leggenda e ho iniziato a raccontarla a modo mio:
Il mio nome è Ni’nun, sono un cacciatore, quel giorno ero andato a cacciare, ma mi sorprese la grande tempesta.
La luce del giorno lasciò il posto a una coltre buia squarciata da lampi di fuoco,
le nuvole s’inseguivano, m’inseguivano, sembravano mandrie di bufali e bisonti impazziti.
Il buio completo mi avvolse e mi sovrastò.
Le nuvole si accavallavano, scalpitavano, bramivano, muggivano,
annerivano il cielo di volute d’inchiostro e piume di corvo.
Il sole infuriato scagliava frecce incandescenti per spezzare quel nero sipario,
voleva ritrovare il suo ruolo, illuminare e scaldare la terra,
ma le nubi ferite sanguinarono fiotti di lacrime e pioggia.
Io fuggii veloce, ma non bastava e allora mi rifugiai sotto a un immenso pino e lo abbracciai con tutta la forza,
cercavo un sostegno, per la prima volta avevo paura,
mi strinsi al legno aspettando la mia fine o la fine del mondo,
nella corsa ero caduto e mi ero ferito, ero debole, rassegnato come non ero mai stato,
ero come il pettirosso che mi aveva invitato a volare, tremavo.
Penetrai nel legno,
mi sentii protetto da quella corazza di foglie e di rami,
mi dissolsi nell’albero
partecipai l’essenza del bosco…
La leggenda continuava con la salita in cielo di Hi’nun ancora stretto al suo albero, l’ultimo rifugio. Il cacciatore ormai era convinto d’essere morto, stava per raggiungere la sua ultima destinazione. E invece Hi’nun si trovò al cospetto del Grande Spirito e di tutte le altre divinità e scoprì che si erano riuniti in cielo perché stavano cercando di cacciare da lassù il grande serpente malvagio, la fonte di tutti i mali degli uomini.
Ma la situazione era strana perché gli dei scagliavano le frecce, ma nessuno riusciva a colpire il serpente e così, il Grande Spirito, dopo aver unto gli occhi di Hi’nun con un fluido magico che gli avrebbe consentito di vedere alla perfezione ogni cosa del mondo, lo incaricò di tirare la sua freccia.
Hi’nun non sbagliò e, da quel giorno, diventò il grande cacciatore, colui che riuscì a eliminare ogni male che affliggeva gli uomini.
La mia storia era iniziata da quelle parole, “partecipai l’essenza del bosco…”, erano parole che mi erano entrate dentro, forse come era successo al cacciatore con l’albero che l’aveva salvato. Sono andato avanti così, sono entrato lentamente in quel posco, ma non ho più seguito la leggenda di Hi’nun, ho provato a seguire un testo poetico che Pratt aveva scritto nella prima edizione di Wheeling e a quel punto le parole sono scaturite da sole.
Poi sono arrivati gli acquarelli di Nicola Magrin che non avevo mai conosciuto di persona, e sono andato a Grandvaux in Svizzera, dove aveva vissuto Hugo Pratt e dove ho trovato i vecchi libri che volevo rileggere e lì ho camminato nei boschi che circondano la casa dove Pratt ha vissuto e dove ha disegnato.
E il testo è sgorgato fresco come un ruscello di montagna. Ho lavorato di taglio, di rifinitura sul ritmo, sulle singole parole e poi l’ho spedito a Cristina e a Nicola e alla fine abbiamo tolto la leggenda di Hi’nun, perché raccontava una storia, mentre in questo libro, serviva soltanto la musica di certe parole:
Per vivere il bosco bisogna essere
bosco,
non entrare, passare, guardare, raccogliere, cacciare, bere, riposare, uscire.
No,
non è così,
l’inizio del viaggio è immersione completa,
è come nel mare,
basta chiudere gli occhi,
mollare gli ormeggi
entrare nel flusso,
lasciarsi penetrare dalle fibre, dagli umori del bosco…
Questo è l’incipit.
Ho cercato di partecipare l’essenza del bosco…
Non serve che riporti i commenti di Nicola alle mie prime parole, posso dire soltanto che ho immaginato il suo pennello scorrere veloce, ho cercato la musica nelle mie frasi e, forse, Nicola l’ha sentita e ha visto quelle note scorrere mentre intingeva il pennello nell’acqua e poi nel colore che lasciava scivolare sulla carta proprio come avrebbe fatto un ruscello su un prato.
Avrei voluto restare in silenzio e guardare mentre lui disegnava.
Sembra impossibile, eppure è stato così, in questo periodo di isolamento io e Nicola ci siamo ritrovati in tempi diversi e in luoghi diversi a seguire gli stessi passi silenziosi, in boschi lontani, ma che avevano lo stesso colore, la stessa freschezza e lo stesso profumo.
Abbiamo guardato tante volte i disegni di Pratt io e Nicola Magrin, grazie a lui si è arricchito il nostro immaginario e il concetto stesso di bellezza e poesia, abbiamo provato a ringraziarlo con questo libro, speriamo di esserci riusciti, speriamo si senta.
Grazie Cristina, bisogna essere sensibili e liberi per inventare un libro come questo.
Marco
Lo specchio della verità
Lo specchio della verità
“Il Sole ne è padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice.
Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura”.
(Ermete Trismegisto, Tabula Smeragdina. Corpus Hermeticum. Bompiani. Il pensiero Occidentale/Filosofia. 2005)
Istanbul. Quartiere di Sultanahmet. Autunno. Una mattina di sole. Negozio elegante di antiquariato. Ufficio sul retro. La scrivania è ingombra di monete antiche suddivise in mucchietti. L’uomo seduto è in parte coperto dallo schermo piatto di un computer, ha una camicia bianca e un foulard verde al collo, capelli lunghi e disordinati, sta catalogando le monete usando una grossa lente d’ingrandimento dal manico in avorio. In primo piano una bilancia di precisione.
- Effendi, c’è un europeo in negozio e mi ha chiesto se abbiamo mappe molto antiche…
- Mi stai facendo perdere tempo Andrej, gli hai fatto vedere l’Imperium Turcicum di Homann?
- Naturalmente…
- E?
- Si è messo a ridere, dice che viene per conto di un grande esperto italiano di cartografia antica e che quelle sono mappe del ‘700 e che valgono al massimo 7-800 Euro.
- Noi a quanto le vendiamo?
- 1500 dollari. Cosa gli devo dire?
- Chiedigli cosa sta cercando e digli che io non ci sono, se capisci che il suo sedicente padrone è disposto a spendere molto fallo ritornare domani, e adesso lasciami in pace.
Dopo un’ora il signor Khaftaj lascia il suo ufficio ed entra nel negozio. E un mercoledì mattina di ottobre e Istanbul è inondata di sole.
- Com’è andata a finire con quel cliente?
- Alla fine mi ha detto che il suo capo stava cercando una parte della mappa di Piri Rais, e io gli ho risposto che quella si trova nella biblioteca del Topkapi…
- E lui?
- Mi ha detto che “quella era cosa risaputa”, ma che il suo capo la voleva incontrare lo stesso…domani, un’ora prima del tramonto alla…”Triplice cinta”…se ho capito bene.
- Dev’essere un mitomane, Andrej, e sono sicuro che non esiste nessun cartografo che lo manda in giro a cercare mappe da museo, comunque grazie. C’è altro?
- Si, mi ha dato questo busta per lei.
Jusuf infilò la busta nella tasca della giacca e andò a casa. Chiuse la porta a chiave, si sedette in poltrona e aprì la busta elegante.
Conteneva soltanto un biglietto da visita.
“Cristoforo Cybo. Erede di santi e di navigatori”.
Poi aggiunto a penna con una calligrafia elegante e perfetta: “Sono venuto in possesso di un testo raro di Ermete Trismegisto, edizione Turnèbe, anno 1554 che troverebbe opportuna collocazione nelle vostre mani in cambio della parte “scomparsa” della mappa di Piri Reis che ci risulta attualmente in Vostro possesso”.
Josuf compose immediatamente un numero sul suo cellulare.
- E’ venuto qualcuno per quell’antico scambio.
- Ti sembra tutto regolare?
- Solito sistema.
- Dove?
- Il muro dei segni.
- Sono sempre stati sottili.
- Da diverse centinaia d’anni.
- Credi che c’entri qualcosa il Fondo Monetario?
- No, ma credo che ormai Istanbul stia per ritornare importante culturalmente ed economicamente. Ci stanno perfino facendo riconciliare con gli Armeni, fra poco toccherà ai Curdi e poi agli Azeri e le nostre autostrade liquide porteranno merci e oro nero fino in Cina con un solo balzo. Cercano strane alternative per il gasdotto. Gireranno molti soldi e merci per questo vecchio mare, quindi hanno bisogno di stabilità. Questo gesto di riconciliazione è una specie di stretta di mano.
- E’ vero senza errore e menzogna, è certo e verissimo.
- Il padre di tutto, il Tèlesma è qui.
- Ci sentiamo domani.
Josuf incrociò le gambe e si sedette sul morbido tappeto. Accese un piccolo braciere e iniziò a pregare. Dopo mezz’ora si alzò, versò dei grani di povere sul braciere incandescente e inspirò lungamente quel fumo, poi incrociò le braccia davanti al petto e si toccò le spalle abbassando la testa.
Iniziò a girare, a girare ancora e poi, lentamente, aprì le braccia e le mani continuando a girare, la destra in alto, la sinistra in basso, fino a quando la stanza scomparve e lui vagò nello spazio infinito, sopra le moschee ed il cielo, si sciolse nelle particelle sottili e poi volò via dissolvendosi come fumo nel vento.
Quando tornò a terra si distese sul letto e dormì a lungo.
Il negozio antiquario di Jusuf Khaftaj non era lontano dalla Moschea Blu e da Aya Sofya, la Santa Sapienza dei Greci. I turisti seguivano le guide e continuavano a scattare immagini che sarebbero rimaste per qualche altro giorno sugli schermi digitali delle loro macchinette fotografiche perfette. Ekrem preparò un’eccellente spremuta di melagrana per il signor Khaftaj scegliendo quattro fra i frutti più sodi e maturi. Poi Jusuf Khaftaj entrò nell’imponente moschea e salì le rampe di scale che lo portarono alle gallerie del piano superiore, buttò uno sguardo alle imponenti e leggerissime volte, ai segni delle croci strappate e passò davanti alla tomba del doge Enrico Dandolo. Si fermò e fece una smorfia pensando a quel povero vecchio cieco arrivato con le sue galee veneziane fin lì per morire ed essere sepolto a Costantinopoli a 98 anni e poi perdere le ossa, disseppellite e date in pasto ai cani dalle orde di Mehmed II un quarto di secolo dopo. Sulla scrivania aveva lasciato due Grossi Matapàn d’argento, ma soltanto uno era perfetto, l’altro aveva una grossa scalfittura proprio sui volti del doge e di San Marco.
Mancava poco all’appuntamento. Un striscia di luce dorata s’infilava da una delle finestre che inquadravano le punte aguzze dei minareti e illuminava perfettamente il muretto di marmo sul quale era stato inciso, forse dai Templari, quel misterioso simbolo di tre quadrati concentrici che stavano a indicare la particolare sacralità energetica del luogo.
In quel preciso momento, Jusuf fu percorso da un brivido e da uno stato di allerta generale. Il cacciatore si sentì preda. Si allontanò dal luogo e girò dalla parte opposta della moschea. Da quel lato poteva osservare perfettamente il luogo dell’appuntamento e la lama di luce che lo stava illuminando. Dopo pochi istanti vide l’uomo e rimase pietrificato. Era come se si fosse guardato allo specchio, oppure attraverso una finestra invisibile sospesa al centro della moschea.
L’uomo che doveva incontrare era identico a lui. Si guardò intorno come se la gente si fosse potuta accorgere della presenza del suo doppio. Per istinto e per fortuna aveva scelto il lato giusto della galleria, l’uscita era da quel lato, s’avviò verso la scala con passo deciso.
Scomparve e non si guardò mai più indietro.
Marco Steiner
le foto sono di ©Marco D’Anna
Cavalli selvaggi e serpenti di ferro
Cavalli selvaggi e serpenti di ferro.
“Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa da abitare, quando la si sarà resa simile da un capo all’altro e non si potrà nemmeno più cercare di viaggiare per distrarsi un poco” (Pierre Loti).
Tropical Islander
Tropical Islander
La Tropical Islander, è la mia nave, è una grossa nave dallo scafo nero. E’ fredda e piena di scatole metalliche di ogni colore. E’ una portacontainer della New Guinea Pacific Line. Siamo partiti da Hong Kong il 28 aprile e dovremmo arrivare ad Apia il 14 giugno, abbiamo toccato i porti di Kobe, Yokohama, Tarawa, Nomea, poi ci hanno bloccati al largo del porto di Lautoka, nelle Fiji. L’ordine l’ha dato un ufficiale medico, il dottor Tarid Ali. Doveva essere un semplice controllo sanitario, ma a bordo hanno trovato tre tipi d’insetti strani, dovranno analizzarli e ci hanno messi in quarantena.
Siamo bloccati, a tre miglia dal porto di Apia, Upolu, la mia isola, se non riusciremo a partire al più presto, diventerò pazzo.
Il mio nome é Niuu, sono originario di Matautu, un villaggio di pescatori sulla costa meridionale. L’anno scorso, all’alba del 29 settembre, una data che non dimenticherò mai, lo tsunami investì l’isola, proprio da quel lato e con quattro onde più alte delle palme, mi portò via tutto, mia figlia di dodici anni, mio padre e mia madre, la mia casa, la mia moto e il mio cavallo, elencati nell’ordine d’importanza.
Mi ero svegliato di colpo, avevo sentito uno strano rumore, sembrava un ruggito nella terra, poi ci fu solo silenzio, un grande silenzio senza un alito di vento rotto solo dal richiamo di un uccello, poi arrivò il mare, quattro schiaffi di fango gelido, sembrava che tutto dovesse finire.
Rimasi attaccato al tronco di una palma, lei era riuscita a resistere, era elastica, leggera e io mi trovavo per caso lì.
Le altre, con le loro radici infilate nella sabbia e i tronchi spezzati, sembravano tristi ballerine su di un palco senza musica.
Ero un uomo felice, quasi benestante, da quel momento in poi, non ho avuto più niente.
Mi sono rimaste tre tombe, una moglie infelice, il ricordo della mia Fale e dieci palme spezzate, come la mia vita.
Fu così che accettai l’ingaggio del comandante giapponese su questa nave nera come la notte.
Mi ha venduto un container per 500 dollari di Samoa, pochi spiccioli, ma per le carte di navigazione quel container blu sarebbe stato mio durante i viaggi, lui non aveva responsabilità di quello che c’era là dentro.
Le autorità portuali fanno controlli a campione oppure guardano le provenienze, le destinazioni e il tipo di merci trasportate, quando c’è qualche dato sospetto controllano.
Nel porto di Hong Kong non ci sono più barche, ma un’impressionante distesa di container di tutti i colori, la prima volta che l’ho vista mi sembrava un’immensa città, o il disegno di un bambino. Non ho mai capito come facciano quelle braccia meccaniche a scegliere il cubo giusto e a caricarlo sulla nave giusta, ma in fondo, la cosa non mi ha mai interessato troppo. A me bastava sapere che il mio container blu viaggiasse sempre con me e che nessuno mi chiedesse di aprirlo per sapere cosa c’era dentro. Ho fatto tre viaggi da Hong Kong al Giappone e ogni volta ho infilato un sacchetto di coca in mezzo ai tonni congelati, oppure fra i materiali da costruzione, questo era il mio lavoro, ma facevo finta di fare il marinaio.
Al terzo viaggio, questo, il mio incarico si sarebbe dovuto concludere, il container tornava al comandante e io mi sarei preso il mio premio, 30.000 dollari americani. Con quei soldi avrei ricostruito tutto, mi sarei ricomprato una moto e un cavallo, avrei pregato per mia figlia e per i miei antenati, avrei costruito una tomba nella veranda della mia nuova casa, l’avrei rifatta sopra al pavimento di quella che le onde avevano portato via. Mi bastava un piccolo muro per il perimetro, un po’ di colonne azzurre, un tetto. Qui ad Apia, le nostre case sono fatte così, bastano tende leggere, non servono muri, porte, finestre, chiavi, basta un tetto per ripararci dalla pioggia.
L’aria, il vento e gli amici possono sempre entrare.
Con i quei soldi sporchi avrei rifatto tutto, volevo provare a ricominciare.
La Tropical Islander adesso è bloccata, per una stupida ispezione medica e per tre stupidi insetti di cui non saprò mai il nome.
Sono qui, sono sudato e ho il cuore che batte come un tamburo.
Ho il corpo quasi completamente tatuato, perché sono un uomo di rispetto, almeno secondo le nostre tradizioni, ma non sono contento di quello che ho fatto, e se mi dovessero scoprire vorrei strapparmi questa pelle di dosso.
Un ragazzo, per guadagnarsi il diritto al tatuaggio deve dimostrare il valore, e per farlo, deve superare tre prove: il mare, la terra, la famiglia.
Con la fiocina ho dimostrato di saper pescare, con la vanga, di saper coltivare la terra e di saper far crescere e mantenere la famiglia, per questo ho avuto il diritto di ricevere il tatuaggio.
Non sapevo quale disegno il Maestro avrebbe scelto per me, lui l’avrebbe sentito, senza parole, e avrebbe iniziato, senza uno schema.
Ho sofferto tutti i giorni, per quattr’ore filate, per una settimana, forse di più, ma in quei momenti il tempo sparisce.
Quel martelletto picchiava con la punta irta di aghi, sottili come spine che s’infilavano nella mia pelle e quel rumore mi si era infilato in testa come un chiodo, migliaia di chiodi.
Non riuscivo a dormire perché continuavo a sentire quel rumore costante, però avevo voglia di svegliarmi per sdraiarmi di nuovo e ascoltarlo ancora, avevo voglia di finire.
Oggi sono qui, aspetto il mio destino a braccia incrociate, guardo i miei muscoli e i segni che mi ricoprono il corpo, ma non ho più l’orgoglio, vorrei graffiarmi di dosso questi segni con tutta la pelle e la mia anima ferita. Con quei soldi, forse, riuscirò a ricostruirmi una casa, a ricomprarmi la moto, il cavallo, ma non mi ridaranno il rispetto.
Ripenso al Pacifico, il mio mare infinito, il mare che parla col cielo.
Mi ha dato tutto, ha il diritto di riprendersi ogni cosa.
Se avrò la fortuna di ritornare senza essermi lasciato sporcare da questa nave nera, dimenticherò e andrò avanti.
Ricostruirò la mia canoa e tornerò a pescare, perché quando sono solo in mezzo al mare, non importa se piove o c’è il sole, mi bastano le stelle di una notte profumata, il vento e le onde che mi vogliono portare via con loro.
Forse dovevo perdere tutto per capire quanto ero ricco.
Upolu è la mia isola del tesoro e questi bastardi con i loro soldi non riusciranno a cambiarmi.
Hy Brasil, l’isola inghiottita dalle mappe.
Clifden, Connemara.
Il posto migliore per cominciare a girare nel Connemara, che in Irish significa “Insenatura del mare” è Clifden, la base di uno spettacolare circuito di 12 chilometri che viene chiamato non a caso “The sky road” (La strada del cielo) per un motivo semplicissimo, sembra davvero di volare a metà strada fra la terra e il Paradiso e non si capisce bene se sia la terra che cerca con mille dita d’allungarsi nel mare, oppure se sia proprio l’Oceano a cercare d’infilarsi per far riposare le onde in qualche anfratto fra il calcare e i prati.
Come acqua che scorre
Sono successe molte cose in questo ultimo periodo: Oltremare (Sellerio) ha vinto il Premio di Letteratura Avventurosa “Emilio Salgari”, ho scritto i testi di libro che scivola leggero nell’incanto della Venezia di Hugo Pratt realizzandolo con un mito della fotografia come Gianni Berengo Gardin e il grande compagno di Viaggi Marco D’Anna, s’intitola Il gioco delle perle di Venezia e poi c’è la Mostra Hugo Pratt e Corto Maltese, 50 anni di viaggi nel mito a Bologna, uno splendido viaggio nell’universo della Letteratura Disegnata Prattiana. Ho avuto tante dimostrazioni di stima e affetto. Mi è sembrato di vivere un sogno che lentamente si concretizzava, ma sul più bello…quando avrei voglia di assaporare questo momento magico, mollo gli ormeggi per partire. Mi ritorna in mente Corto, forse anche lui farebbe la stessa cosa. È giusto così, inutile crogiolarsi, meglio staccare, rendersi conto del risultato ottenuto e viverlo continuando a cercare, per andare ancora un po’ più in là…come direbbe Pratt.
Con Marco D’Anna stiamo partendo per l’India senza alcun itinerario prestabilito, sarà un viaggio in cui il ricordo di Corto diventerà talmente esile da essere indefinito, perso nella memoria. Proverò a staccare anche da lui e questo viaggio è l’occasione, quello che cercavo, per camminare con l’incertezza come compagna di viaggio, per inventare un percorso e una storia.
Per questo motivo, per non lasciare i miei lettori in silenzio troppo a lungo, voglio condividere su questa pagina un racconto che fa parte degli Itinerari di Corto Maltese. Sarà interessante per chi ha letto il Corvo di pietra e Oltremare, ma la storia è autonoma, un racconto breve, di quelli che piacciono a me, con sintesi e significato, ma senza troppe spiegazioni. È un po’ la premessa per immaginare la futura continuazione del Corvo e Oltremare, anche se penso che non la scriverò subito, mi prenderò una pausa per lasciare spazio a un’altra avventura che mi sta bussando dentro e ha troppa voglia di uscire…
Intanto ecco Come acqua che scorre, per capire che non c’è mai una sola verità, basta cliccare sul link sottostante e si aprirà un PDF accompagnato dalle liquide visioni di Marco D’Anna…
“Oltremare” Sellerio Editore vince il Premio di Letteratura Avventurosa “Emilio Salgari” 2016
“Essere ciò che siamo e diventare ciò che siamo capaci di diventare è il solo fine della vita”
“To be what we are, and to become what we are capable of becoming, is the only end of life”
Questo diceva Robert Louis Stevenson
Sono semplicemente felice, è stato un lungo percorso, ma il bello del viaggio è continuare scoprendo nuove strade…
Chi è Marco Steiner, il vincitore del Premio Salgari 2016
Amerigo Vespucci e Corto Maltese: “Un viaggio oltre il tempo”
È possibile navigare nel sogno e viaggiare oltre il tempo?
A me è capitato, a bordo della nave più bella del mondo, l’Amerigo Vespucci
da Messina a Trapani, dal 2 al 5 giugno del 2016
Dopo aver collaborato con Hugo Pratt e aver cercato in giro per il mondo le tracce delle avventure di Corto Maltese insieme al fotografo Marco D’Anna, dopo aver scritto due libri che raccontano la giovinezza del mitico marinaio, ho avuto l’onore di essere a bordo di questa nave da sogno.
Il mio ultimo romanzo, Oltremare (Sellerio Editore), parla di un lungo viaggio a bordo di un veliero che naviga dal Mediterraneo al sud-est asiatico, il libro è stato scelto nella terzina finale di un Premio Letterario prestigioso, quello dedicato a Emilio Salgari, uno dei grandi scrittori della Letteratura d’Avventura, uno dei miei Maestri di fantasia.
Essere realmente a bordo di un veliero come l’Amerigo Vespucci è stato come partecipare a un viaggio al di fuori dal tempo, ho rivissuto le atmosfere della grande marineria e per un po’ ho fatto parte di un equipaggio molto più grande, quello degli uomini che vivono la vera grande passione per il mare.
A bordo è nata una storia dedicata a questa nave e agli uomini che hanno avuto la fortuna di viaggiare con lei. Volevo scrivere qualcosa che raccontasse l’importanza della memoria, dell’amicizia e del rispetto per il mare e per gli uomini che s’incontrano lungo la grande rotta, perché l’Amerigo Vespucci non è soltanto una nave scuola di marineria, ma di vita.
Marco D’Anna con le sue fotografie non ha soltanto riprodotto immagini, ha cercato suggestioni che come in un sogno riescono a condurci oltre la vista e Corto Maltese è stato il giusto compagno di viaggio perché è un antieroe pronto a buttarsi in ogni genere d’avventura pur di aiutare un amico.
In tanti momenti era come fosse a bordo con noi, si sentiva la sua presenza, mentre la costa si allontanava, nel fumo di una sigaretta, nelle risate o nei silenzi dei marinai, nel vento.
Marco Steiner
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