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La Nave dei Folli. Un Diario di Bordo. (Approdo a Venezia)

La Nave dei Folli. Un Diario di Bordo. (Approdo a Venezia)

Arriva il giorno, è venerdì 7 ottobre 2022, e arriva il momento di presentare a Venezia il mio ultimo romanzo, “La nave dei folli. Un diario di bordo” edito da Marcianum Press.

Organizza tutto l’elegantissima Libreria Studium infilata nel cuore di Venezia, fra San Marco e il Ponte dei Sospiri.

Il luogo della presentazione è un’altra meraviglia, l’antico chiostro di Sant’Apolllonia, un luogo magico che risale al XII°-XIII° secolo.

La sala è piena, c’è tanta gente, tante personalità cittadine, tanti amici.

Presentano il libro il Professor Antonio Alberto Semi, Psichiatra, Psicoanalista. Membro ordinario e A.F.T. della Società Psicoanalitica Italiana e Stefano Knuchel, regista svizzero autore del recente “Hugo in Argentina” un documentario sulla vita di Hugo Pratt presentato nel 2021 alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia nella rassegna Giornate degli Autori.

La presentazione dell’Evento spetta all’organizzatore di tutto, Marco Vidal che ha rivitalizzato con passione e professionalità la Libreria Studium e riveste il ruolo di CEO di “The Merchant of Venice” un marchio di profumeria artistica di lusso nato a Venezia dalla volontà della Famiglia Vidal, operante nel settore della profumeria a livello internazionale da più di un secolo.

Sono onorato di pubblicare qui, il testo completo dell’intervento del Professor Semi che mi ha profondamente onorato con il suo sincero apprezzamento, le sue parole e la sua amabile ironia:

Narrenschiff (per La nave deì folli di Marco Steiner, Marcianum Press, 2022, [7 ottobre 22 – 17.30- Satnt’Apollonia]

Per prima cosa desidero dirvi che sono un po’ a disagio nelle vesti di presentatore di questo libro. Vedete, presentare o recensire un libro è sempre un po’ complicato, ammenoché non lo si faccia di mestiere, che non è il mio caso. Anche se lo si fa d’abitudine, c’è sempre il rischio di essere solo compiacenti, dichiarare in vario modo che sì, è proprio un bel libro, fare tanti complimenti all’autore e magari cercare di tenerselo buono perché lui possa ricambiare il favore in una prossima occasione. Viceversa, altro rischio ma raro, nel nostro paese, un presentatore può diventare uno stroncatore, uno che dichiara subito che il libro è mal fatto, poco interessante, che non si capisce perché uno abbia fatto la fatica di scriverlo. Non capita quasi mai: come si usa dire tra noi, can no magna can. Ma questi che ho appena detto sono pericoli evidenti per l’autore, per giunta subito riconoscibili da parte del lettore o dell’ascoltatore. Ci sono mezzucci più mascherati, invece. Per esempio, è possibile illustrare un libro proprio per bene, raccontandone tutta la trama in modo da far sì che l’ascoltatore alla fine abbia l’impressione di sapere già cosa contiene il libro e dunque non abbia più la curiosità di leggerlo e quindi ancor prima di comprarlo. Il caso clamoroso e evidente è quello del libro poliziesco o giallo. Se si racconta tutta la trama e magari anche la conclusione, di fatto si toglie l’interesse al lettore. In questo caso, nel caso dei gialli voglio dire, è diventato un imperativo etico quello di non dire quale sia la conclusione. Ma quel che vale per i gialli vale anche per molti altri libri, solo in forma più dissimulata, per cui accade che il presentatore o il recensore possa rendere un cattivo servizio all’autore riempiendolo però di complimenti e contemporaneamente inibendo l’acquisto del libro.

Nel mio caso, invece, mi trovo preso tra due tendenze: da un lato, come psicoanalista e psichiatra, mi verrebbe voglia di mettermi, come si usa dire, a interpretare; dall’altro lato, però, avrei voglia di andare un po’ a libere associazioni, a lasciarmi andare cioè ad un flusso di pensieri che non si sa mai, in precedenza, dove andranno a parare. Vi sto mostrando beninteso una alternativa classica che abbiamo tutti, di fronte ad un libro o a un film – e ancor più di fronte ad una persona – che è quella di considerare il libro come un oggetto, quindi diverso da noi e meta del nostro pensiero e dei nostri sentimenti o, al contrario, quella di identificarsi con l’oggetto, in questo caso con i contenuti del libro, proseguendo in qualche modo i pensieri contenuti nel libro.

Il quale libro di oggi – diciamolo subito – invita o addirittura costringe a questo, cioè a identificarsi e a dis-identificarsi. A viaggiare con Indio, il protagonista, e a staccarsi per chiedersi chi mai sia questo Indio, dove stia viaggiando.

Perché questo è un libro di viaggio, anzi è un diario di viaggio. Ma già il titolo sembra volerci mettere sull’avviso: La nave dei folli. Sapete, un titolo del genere, ricco di storia com’è, è fatto apposta per ingannare. Chi sono i folli? Oppure, ancor prima, esistono i folli? Li si può identificare con ‘i pazzi’? sono malati o sono i veri sani? Dicono la verità o si limitano a manifestare che la realtà, quella che ci sembra così semplice e consueta, è solo una copertura di un’altra realtà, più vera? Questo è l’interrogativo tipico della ‘nave dei folli’.

Già nel 1494, quando uscì la prima edizione , a Basilea, della Narrenschiff, di Sebastian Brant, con le famose xilografie di Dürer, scritta in tedesco e poi tradotta in latino nell’edizione seguente (1497) come Stultifera navis, era chiaro che si trattava di un testo satirico, dunque di un libro che voleva permettersi sì di dire la verità ma attraverso il paradosso o attraverso la negazione, in un certo modo mettendo per iscritto ciò che i giullari di corte a quei tempi potevano permettersi solo di dire, perché verba volant.

Qui, con questo libro, Marco Steiner vuole metterci di fronte al fatto che la verità, la propria personale verità, l’unica verità reale, è una ricerca. E vuole mostrarci come la si può fare. Questo è il viaggio. La figura del viaggio, beninteso, è una figura classica, che a partire da Omero è stata utilizzata nella storia dell’Occidente infinite volte. E già Ulisse ci ha insegnato che non è Itaca la meta, ma la conoscenza e l’inquietudine che comporta il prendere atto che diventare quel che si è, cioè esseri umani, può essere solo il risultato, magari effimero, di una ricerca.

Steiner ci mostra come questa ricerca possa essere fatta, cosa significhi navigare, lasciare andare la nave, tollerare che il vento e le correnti spingano o portino, riconoscere che con il singolo movimento apparentemente naturale dell’acqua ci possiamo appunto riconoscere: un capitolo è intitolato ‘Risacca’, ossia un movimento delle acque che può sembrare contraddittorio o perfino inutile e che pure consente al navigatore, Indio, di affermare: Sono/ solo/ risacca/ sono il ripetersi di un nulla che continua,/ sempre uguale,/ sempre diverso. È qui, verrebbe da dire, che nasce la soggettività: accorgersi di essere sempre uguali, di avere cioè una continuità con sé stessi e con gli altri, e però che in ogni momento siamo diversi da com’eravamo un attimo prima. Il diario di viaggio, in questo senso, è la testimonianza di una ricerca possibile.

Il libro si svolge così, passo passo andando da una visione improvvisa e sorprendente ad un dialogo – per esempio tra il protagonista e un suo alter ego, Guglielmo – che sottolinea spesso l’inutilità della parola se non è accompagnata da una riflessione inaspettata. Tra le visioni – che costituiscono una serie di esperienze attraversate da Indio – per noi veneziani è evidentemente sorprendente e toccante quella della nostra città vista ed esplorata da sotto, girando in quel bosco stranissimo e capovolto che abitualmente non si vede e che pure ci consente di essere la città che siamo. In generale parliamo di palafitte, sappiamo che sì, sono migliaia, milioni di pali confitti a testa in giù ma girarci dentro, vedendo dunque Venezia come il rovescio del bosco, è un’altra esperienza. Poi naturalmente ci viene da chiederci cosa Steiner voglia dirci con ciò e con tante altre sorprendenti visioni ma credo sia bene che ciascuno di noi, leggendo questo libro, debba sostare e godersi la sensazione che Steiner ci fa provare, prima di passare a ragionamenti più filati, che inevitabilmente introducono uno stacco. Se posso permettermi un consiglio, vi direi di leggere questo libro disordinatamente, un pezzo alla volta, cominciando a caso, perdendovicisi dentro. E poi, solo poi, leggerlo tutto d’un fiato, cominciando dall’inizio. La lettura pezzo per pezzo può farvi sentire il gusto dei singoli ingredienti – e badate che ci sono anche pezzi che possono far provare angoscia o tristezza – mentre la lettura filata ci fa sentire il gusto sorprendente di un piatto riuscito, nel quale si possono sì riconoscere i singoli ingredienti ma anche capire che sono diventati qualcos’altro.

Dico questo perché tutto il libro è un invito alla lettura, tanto che, alla fine, l’Autore si concede una lettera al lettore che, contemporaneamente, è una lettera ad un terapeuta. Ma sugli ultimi due capitoli non dico nulla, appunto come se questo libro fosse un giallo o come se la conclusione fosse un lavoro di scoperta che ogni lettore deve farsi, nel senso di “fare anche su sé stesso”.

Dunque concluderei facendovi gli auguri, cari futuri lettori, perché questo libro possa esservi non solo attraente ma anche personalmente utile.

Grazie ancora al Professor Antonio Alberto Semi

e grazie

a Stefano Knuchel che ha usato magnifiche parole per il libro e ha presentato in sala un lungo estratto del Documentario.

Con Stefano ho avuto l’onore di partecipare alla sceneggiatura di questo “racconto per immagini” dedicato alla vita di Hugo Pratt che per me è stato il vero Amico e Maestro che mi ha avviato, attraverso il suo mitico personaggio di Corto Maltese a navigare libero sulle rotte della Fantasia.

La Nave dei Folli è un libro dedicato a chi sa mollare gli ormeggi…

Buon vento a tutti!

Marco Steiner

 

 

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La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

Tammy è americana, viene dall’Ohio, segue un progetto naturalistico, studia le Spider Monkeys, è qui da un anno, è sola, vive nella riserva naturale di Brownsberg nel Suriname, la Guyana olandese. Sylva è una guida turistica, ma è anche un’analista chimica e biologa, è nata a Paramaribo, ma i suoi antenati venivano dal Pakistan. Sono due ragazze che amano la foresta, stanno bene qui e non hanno bisogno di troppe comodità, studiano le scimmie e i cambiamenti della natura del parco. A loro servono poche cose, un buon paio di stivali, un binocolo, una cerata, una macchina fotografica, una borraccia d’acqua. Camminare con loro è una continua scoperta, ogni seme a terra ha un significato particolare, ogni pianta ha il suo nome corretto, i fiori sono punti di riferimento nel sentiero. Sanno guardarsi intorno, ascoltano i rumori, riconoscono i piccoli segnali della foresta, la rispettano, per questo non la temono. Hanno paura soltanto dei bracconieri e delle loro trappole per uccidere i cervi, le scimmie, il giaguaro.

Il sentiero scende ripido e viscido verso la valle delle scimmie, non c’è sottobosco, solo centinaia di alberi di specie differenti, le chiome, altissime, s’intrecciano e creano un soffitto verde e compatto, il cielo non c’è, il sole non filtra, forse splende, forse piove, non si riesce a capire. Le piante tendono i rami per raccogliere la luce lassù in alto, qui in basso conficcano le radici a fondo per abbracciare la terra e assorbire le sue umide essenze.

I rumori della selva s’intrecciano come lontani richiami.

Gli uccelli cominciano a comunicare la nostra posizione, poi sembra di sentire una prolungata scossa elettrica, sono le ali di cicale giganti, ad un certo punto sembra di sentire il vento che s’incanala in una gola di pietre, è l’agghiacciante grido delle scimmie urlatrici, Tammy dice che mangiano solo foglie, per questo sono pigre e indolenti, si muovono poco e hanno un metabolismo e una digestione molto lenti. Se ne stanno in gruppo, sedute, e con la loro laringe grande quanto un’arancia emettono in continuazione il loro lugubre suono per tenere lontani i nemici.

Una farfalla blu attraversa il sentiero, segue un suo armonico e imprevedibile percorso, ma le leggende dei popoli della selva dicono che le Blue Morpho possono farci perdere la strada, possono portare in un altro mondo, un mondo di sogni perduti.

Il Ficus strangolatore inizia a scendere dal ramo di un albero come fosse un’innocua liana, raggiunge lentamente il suolo e assimila nutrimento dalla terra e dal suo ospite, fino a diventare sempre più grossa, sempre più forte, fino a trasformare il suo abbraccio in una simbiosi mortale, dove la morte di una creatura consente la vita ad un’altra più forte, dove la violenza è consentita perché conduce all’equilibrio della natura, dove il caos apparente è sintesi magistrale. Dove i cicli si succedono con regolarità e l’anidride carbonica del buio alimenta il verde e l’ossigeno della vita. Perfino l’anophele s’inserisce e rispetta questo ciclo e riduce l’eccesso di popolazione nei luoghi dove la vita dell’uomo potrebbe disturbare quel delicato equilibrio.

C’è un’altra strana liana che scende da un gigantesco albero sacro, è un Kankantri,  o albero Kapok, il gigante della foresta, un colosso di 40 metri che s’innalza sulle grosse radici triangolari come fossero ali di sostegno. Nelle notti di vento e tempesta gli spiriti si riparano qui e ricevono le offerte di chi li rispetta o scagliano rami e pietre addosso a chi osa profanare la loro casa. La grossa liana si attorciglia in mille spirali, si sdoppia e si spezzetta come fosse una scala a chiocciola, una primordiale catena di un Dna vegetale.

E’ la scala delle tartarughe.

In un tempo molto lontano le scimmie organizzarono una grandissima festa in cui tutti gli animali erano invitati. Ovviamente la festa si svolgeva nell’ambiente naturale delle scimmie, in cima agli alberi. Gli animali salirono tutti, ma la tartaruga non sarebbe mai riuscita ad arrampicarsi in linea retta sulla liana, così prese a torcerla, lentamente, molto lentamente e, mentre la ripiegava ne ricavava piccoli gradini per non scivolare.

Alla fine, anche la tartaruga riuscì a salire in cima all’albero, ma anche se lo spettacolo della foresta la lasciò senza parole, fu molto dispiaciuta perché la festa era già finita da un pezzo. Così, da quel giorno, quel tipo di liana nacque sempre così, pronta per le prossime feste, pronta per le tartarughe.

Però bisogna fare attenzione, dicono che di notte, sulla Turtle ladder ci dorma il giaguaro.

I disegni presenti in questo articolo sono di Giorgia Oldano

http://www.giorgiaoldano.com/

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La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

La scala delle tartarughe

Tammy è americana, viene dall’Ohio, segue un progetto naturalistico, studia le Spider Monkeys, è qui da un anno, è sola, vive nella riserva naturale di Brownsberg nel Suriname, la Guyana olandese. Sylva è una guida turistica, ma è anche un’analista chimica e biologa, è nata a Paramaribo, ma i suoi antenati venivano dal Pakistan. Sono due ragazze che amano la foresta, stanno bene qui e non hanno bisogno di troppe comodità, studiano le scimmie e i cambiamenti della natura del parco. Hanno bisogne di poche cose, un buon paio di stivali, un binocolo, una cerata, una macchina fotografica, una borraccia per l’acqua. Camminare con loro è una continua scoperta, ogni seme per terra ha un suo significato, ogni pianta ha il suo nome corretto, i fiori sono punti di riferimento nel sentiero. Sanno guardarsi intorno, ascoltare i rumori, riconoscere i piccoli segnali della foresta, la rispettano, per questo non la temono. Hanno paura soltanto dei bracconieri e delle loro trappole per uccidere i cervi, le scimmie, il giaguaro.

Il sentiero scende ripido e viscido verso la valle delle scimmie, non c’è sottobosco, solo centinaia di alberi di specie differenti, le chiome, altissime, s’intrecciano e creano un verde e compatto soffitto, il cielo non c’è, il sole non filtra, forse splende, forse piove, non si riesce a capire. Le piante protendono i rami per raccogliere la luce là in alto, qui in basso conficcano radici per abbracciare la terra e raccogliere le sue umide essenze.

I rumori della selva s’intrecciano come lontani richiami. Gli uccelli cominciano a comunicare la nostra posizione, poi sembra di sentire una prolungata scossa elettrica, ma sono le ali di cicale giganti, ad un certo punto sembra di sentire il vento che s’incanala in una gola di pietre, ed è l’agghiacciante grido delle scimmie urlatrici, Tammy dice che mangiano solo foglie, per questo sono pigre e indolenti, si muovono poco e hanno un metabolismo e una digestione molto lenti. Se ne stanno in gruppo, sedute, e con la loro laringe grande quanto un’arancia emettono in continuazione il loro lugubre suono per tenere lontani i nemici.

Una farfalla blu attraversa il sentiero, segue un suo armonico e imprevedibile percorso, ma le leggende dei popoli della selva dicono che le Blue Morpho possono farci perdere la strada, possono portare in un altro mondo, un mondo di sogni perduti.

Il Ficus strangolatore inizia a scendere dal ramo di un albero come fosse un’innocua liana, raggiunge lentamente il suolo e assimila nutrimento dalla terra e dal suo ospite, fino a diventare sempre più grossa, sempre più forte, fino a trasformare il suo abbraccio in una simbiosi mortale, dove la morte di una creatura consente la vita ad un’altra più forte, dove la violenza è consentita perché conduce all’equilibrio della natura, dove il caos apparente è sintesi magistrale. Dove i cicli si succedono con regolarità e l’anidride carbonica del buio alimenta il verde e l’ossigeno della vita. Perfino l’anophele s’inserisce e rispetta questo ciclo e riduce l’eccesso di popolazione nei luoghi dove la vita dell’uomo potrebbe disturbare quel delicato equilibrio.

C’è un’altra strana liana che scende da un gigantesco albero sacro, è un Kankantri,  o albero Kapok, il gigante della foresta, un colosso di 40 metri che s’innalza sulle grosse radici triangolari come fossero ali di sostegno. Nelle notti di vento e tempesta gli spiriti si riparano qui e ricevono le offerte di chi li rispetta o scagliano rami e pietre addosso a chi osa profanare la loro casa. La grossa liana si attorciglia in mille spirali, si sdoppia e si spezzetta come fosse una scala a chiocciola, una primordiale catena di un Dna vegetale. E’la scala delle tartarughe.

In un tempo molto lontano le scimmie organizzarono una grandissima festa in cui tutti gli animali erano invitati. Ovviamente la festa si svolgeva nell’ambiente naturale delle scimmie, in cima agli alberi. Gli animali salirono tutti, ma la tartaruga non sarebbe mai riuscita ad arrampicarsi in linea retta sulla liana, così prese a torcerla, lentamente, molto lentamente e, mentre la ripiegava ne ricavava dei piccoli gradini per non scivolare. Alla fine, anche la tartaruga riuscì a salire in cima all’albero, ma anche se lo spettacolo della foresta la lasciò senza parole, fu molto dispiaciuta perché la festa era già finita da un pezzo. Così, da quel giorno, quel tipo di liana nacque sempre così, pronta per le prossime feste, pronta per le tartarughe. Però bisogna fare attenzione, dicono che di notte, sulla Turtle ladder ci dorma il giaguaro.

Abissi di sogni diversi

Prima della conquista portoghese, l’Amazzonia brasiliana contava otto milioni di Indios in completa armonia con la selva, oggi ne sono rimasti solo duecentomila. La nostra civiltà ha un continuo bisogno di materie prime e per cinquecento anni i conquistatori hanno cercato di carpirne tesori d’oro e smeraldi, gli affaristi hanno spianato foreste e costruito città per estrarre il petrolio dal suolo, il lattice o la cellulosa dagli alberi, hanno smosso montagne di terra per estrarre ferro e bauxite. Scavare, estrarre, raffinare, sfruttare, ma anche convertire, educare, sono tutti verbi che fanno parte di un sogno: conquistare, materialmente o spiritualmente. Per fortuna, nella storia di queste conquiste c’è stato anche qualcuno che è partito con un atteggiamento diverso, o che lungo la strada ha imparato il rispetto e la disponibilità, qualcuno che, spinto da curiosità e disponibilità, ha imparato a guardare, ascoltare, sognare.

Alvar Núñez Cabeza de Vaca era partito nel 1528 come tesoriere della spedizione di Pánfilo de Narváez, un novello Cortés privo del magnetismo del capo e della determinazione del conquistatore, era solo un grasso e presuntuoso comandante credulone carico di smanie di ricchezza e di potere. Il suo obiettivo era una città tutta d’oro da cercare in un luogo indistinto fra le foreste e le lagune della Florida e i deserti del Nuovo Messico. L’esito fu il disastro completo di un’intera spedizione che portò invece un pugno di uomini a provare il potere e la generosità di Madre Natura e a scoprire la vera forza dell’uomo.

L’avventura di Cabeza de Vaca è un percorso di progressive privazioni durato otto anni. Dei 578 gentiluomini spagnoli carichi di corazze e certezze, rimasero quattro scheletri derelitti che vagarono in terre desolate spogliati di tutto. Avevano visto uomini tuffarsi in mare perché resi pazzi dalla sete, implorare l’aiuto delle loro madri e poi gonfiarsi e morire, avevano visto soldati rosicchiare i cadaveri dei loro compagni e avevano pianto implorando la clemenza della natura. Indios implacabili li avevano decimati con frecce avvelenate, altri indios dalla pelle di rame li avevano derisi e trattati come bestie da soma, spogliandoli delle loro ultime certezze e speranze di uomini europei. Proprio a quel punto, nell’estremo abisso dell’annullamento, quegli ultimi uomini nudi e senza speranze avevano trovato una nuova forza, il vero potere, quello di riuscire a guarire altri uomini. Si trasformarono in sciamani in mezzo a quei selvaggi, guaritori carichi di energia proprio quando pensavano di aver perso ogni fibra di umanità. La loro vera e unica ricchezza era proprio quella forza essenziale che la natura aveva rivelato loro solo dopo un progressivo e terribile percorso di spoliazione, una forza che arrivava senza nessun segno, come il vento o la pioggia.

Insegnerò al mondo il modo di conquistare con la dolcezza, non con le stragi” (Alvar Núñez Cabeza de Vaca).

A quel punto in quegli uomini, la vita si moltiplicava in conseguenza degli sforzi e delle cure donate agli altri. Anche questa fu una grande, silenziosa conquista.

Estanislao Pryiemski era un tranquillo agronomo di Varsavia, era arrivato in Amazzonia negli anni ‘60 e aveva iniziato una classica storia di ricerca di denaro e di conquista. Aveva provato a fare soldi con la pelle dei coccodrilli, con le noci di cocco, con strane bacche afrodisiache, o con pesci che divoravano uova di zanzara. Poi, un giorno, decise di abbandonare la ricerca degli affari e s’incamminò verso la strada di un sogno: voleva registrare il suono della foresta.

Ci provò per vent’anni, nel Pantanal amazzonico, una delle regioni più inospitali del mondo, inondata per sei mesi all’anno dalle acque dei fiumi che l’attraversano, infestata da zanzare, serpenti d’acqua e caimani. Il professore polacco si armò di microfoni e imbuti sempre più grandi, voleva cablare i rami degli alberi e le acque, voleva raccontare la poesia di quei suoni, voleva raggiungere un sogno troppo lontano per essere descritto. Morì nel 1983 nel lebbrosario di Campo Grande, fuori dal cimitero dei conquistatori, ma ben dentro alle delicate e, a volte, incomprensibili righe dei poeti. “I lombrichi fanno respirare la terra come i poeti fanno respirare le parole”. (Estanislao Pryiemski, Le voci del Pantanal).

Un giorno, il sogno assurdo di un poeta può trasformarsi in una magnifica realtà, i sogni assurdi di conquista portano solo macerie e solitudine.

 

Marco Steiner, Union Island, 3 aprile 2009.

 

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Il falco e il piccione

Il falco e il piccione

Il falco e il piccione

 Sono stato cresciuto non solo da genitori e da maestri, ma anche da potenze più remote, nascoste e misteriose, tra le quali anche dal dio Pan che stava, in sembianza di piccolo idolo indiano danzante, dietro il vetro nella libreria di mio nonno. Questa divinità, ed altre ancora, si sono prese cura della mia infanzia, e ancora prima che sapessi leggere e scrivere, mi hanno riempito di immagini e di pensieri d’oriente, antichissimi…

(H. Hesse, L’infanzia del piccolo mago. Stampa Alternativa 1996)

In tempi antichissimi, in India, viveva Indra, il dio del cielo che governava il bello e il cattivo tempo. Egli aveva molto a cuore la vita e le azioni di tutti gli esseri viventi, quando scorgeva un pensiero, un’azione o un gesto d’amore e generosità il suo cuore s’allietava e dispensava quella regione con il suo cielo più limpido e i raggi di sole più tiepidi, ma quando vedeva l’ipocrisia o la malvagità scatenava i suoi venti più violenti, tempeste, cicloni, terremoti.

In un giorno di tristezza, un giorno in cui non riusciva a notare neanche un piccolo gesto di giustizia e saggezza convocò il dio Visvakarma e questi gli raccontò che aveva sentito parlare di un re, Sibi, che governava il suo regno con la massima giustizia e comprensione per tutti.

Sibi viveva modestamente perché non voleva avere nulla di più dei suoi sudditi e ricercava continuamente l’equilibrio e la serenità di tutti gli esseri viventi che popolavano il suo regno.

Indra si trasformò in falco e Visvakarma in piccione e andarono a trovarlo.

Scesero veloci dal cielo e il piccione inseguito dal falco si rifugiò sotto al trono di Sibi.

Il falco, fra lo stupore della gente riunita in udienza, chiese al re:

  • O re dammi quel piccione perché è la mia preda.
  • Questo piccione pieno di paura si è rifugiato sotto al mio trono perché io lo proteggessi. – disse il re – Io sono il re Sibi e da molto tempo ho deciso di sostenere la vita di tutti gli esseri viventi a costo della mia stessa vita.
  • O re, quel piccione sarà il cibo per me e per i miei piccoli.
  • E non hai altro cibo per sostenere la tua vita, falco?
  • No, io mi nutro di carne e di sangue.
  • La mia carne sarebbe un buon cibo per te?
  • Certo, se mi darai la stessa quantità di carne, lascerò volare via libero il piccione.

Il re chiese a un servitore di portare una bilancia e un coltello affilato, si denudò la coscia e chiese al servo di tagliare un pezzo della sua carne, ma il servo balbettando si rifiutò di fare del male al suo signore così buono e giusto. Sibi allora si tagliò da solo un pezzo di carne e la mise sulla bilancia, ma il piccione, sull’altro piatto, pesava di più.

Il falco gli disse:

  • Dammi il piccione, o re, e io volerò via contento, tu hai sofferto abbastanza e hai dimostrato la tua grandezza e benevolenza.
  • Ormai ho deciso e il mio dolore é inferiore alla gioia di aver salvato una vita.

Sibi si tagliò un altro pezzo di carne, ma il piccione pesava sempre di più, il re continuò ad aggiungere la sua carne fino a quando arrivò all’osso, ma la bilancia non si muoveva. All’improvviso comprese che il valore di una vita poteva essere eguagliato soltanto da un’altra vita.

Allora salì lui stesso sulla bilancia e questa si allineò in un perfetto equilibrio.

In quel momento la terra tremò e il falco ritornò Indra e il piccione fu il dio Visvakarma, s’inchinarono di fronte a Sibi, il futuro Budda, e gli donarono all’istante un corpo nuovo e meraviglioso.

 

(Questa favola è tratta dal Sutralankara di Asvagosha e dalla rielaborazione di Giulio Maria Rampelli).

L’immagine in evidenza è di Sergio Toppi

 

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