“L’ultima pista” una recensione di Gianni Brunoro.
Grazie Gianni Brunoro, non so perché tu mi abbia rimandato questa tua recensione di “L’ultima pista” del 2006, forse perché anche tu senti nell’aria il profumo di un nuovo viaggio che continua oltre quella pista, verso le terre estreme al sud del mondo, sempre un po’ più in là…
Grazie Gianni,
Marco Steiner
“L’AVVENTURA È L’AVVENTURA…
Gli appassionati di gialli sanno bene come sia successo che uno stuolo di ultra appassionati di Sherlock Holmes abbiano studiato anche i minimi spiragli delle sue avventure per intrufolarci dentro un racconto apocrifo, una sua vicenda che Conan Doyle non avrebbe raccontato. Qualcosa di analogo ha fatto Marco Steiner nei confronti di Corto Maltese, anche se con uno spirito molto disincantato e con un piglio che risulta una strana fusione di sottilmente beffardo e di teneramente devoto. È la lieve vicenda di Bob Collins, americano oriundo irlandese, orfano fin da bambino di genitori, irredentisti e bombaroli, morti in un attentato. Bob riceve in dono dal nonno, che se ne va per non tornare mai più, una misteriosa cassetta. Al cui interno egli scopre – preziosi cimeli – carte e documenti attraverso i quali può ricostruire le fila del passato della propria famiglia, conoscendo così anche sé stesso. Scoprirà così di essere discendente di quella Louise Brooksowicz – probabile amante di Corto Maltese – che ha una parte non indifferente nell’episodio Tango. Ma per risalire al proprio passato, Bob Collins è costretto a fare dei viaggi, in particolare a recarsi in Patagonia, sulle tracce di Butch Cassidy e dei suoi compari, ancora una volta come Corto in Tango. Come andrà a finire, lo scoprirà il lettore: tanto, qui non si tratta di un giallo. Si tratta invece di un gustoso pamphlet, in cui l’autore si destreggia abilmente fra i paletti di un guizzante slalom che fra realismo e fantasia investe trasversalmente Hugo Pratt e Corto Maltese, Bruce Chatwin e personaggi diventati leggenda, come il citato Butch Cassidy. Steiner (che è stato un grande amico di Pratt e forse non a caso sceglie come pseudonimo il nome di un grande amico di Corto) mima la prosa asciutta e disincantata del “Maestro di Malamocco”, con esito molto convincente, restituendo una pagina tersa e fluida, in cui gli echi del mondo prattiano di Corto Maltese risuonano a ogni piè sospinto. Quasi a dimostrare concretamente che i personaggi, una volta giunti alla statura di miti, alimentano automaticamente la propria stessa mitologia. (g.b.)
Marco Steiner, L’ULTIMA PISTA, Ed. Cadmo, Fiesole, 2006, 160 pp., f.to 12×19, brossura con alette, Euro 10.00.
Da Fumetto n.60, dicembre 2006″
L’isola sacra sul lago gelato
“Rendi grazie al giorno quando si è fatta sera…
…alla spada dopo averla usata
…al ghiaccio dopo averlo attraversato…”
(Havamal, Il discorso di Har, Edda poetica. Trad. Olive Bray edited by D.L.Ashliman)
Il Carrista poeta.
Sacha, classe 1946, è un siberiano nato fra i monti Sajani, il suo lavoro è fare l’autista. Fra il 1965 e il 1968 guidava i T62, i carri armati dell’esercito sovietico, la sua compagnia era stanziata a Cita, vicino al confine cinese, proprio come i cosacchi di Roman von Ungern Sternberg e come il grande cannone di Semënov. Il cannone del carro di Sacha era soltanto da 115 mm, non era molto preciso, ma era velocissimo, per questo i soldati lo chiamavano Falco.
Oggi, Sacha guida un vecchio furgone Uaz grigio-ferro e porta i turisti a vedere la “perla di ghiaccio”, il Bajkal. I suoi occhi hanno lo stesso colore del lago in inverno, azzurro-ghiaccio.
Il Bajkal non è un semplice lago, è un’immensa riserva d’acqua pura, circa il 20% di tutta l’acqua dolce del nostro pianeta. E’ lungo più di 600 chilometri, largo dai 40 ai 70. Una lunga virgola, una banana azzurra visibile dallo spazio insieme alla grande muraglia cinese. Nel suo punto più profondo, l’abisso supera i 1600 metri. L’immensa distesa liquida, d’inverno si blocca, cristallizzata in una tavolozza di ghiaccio blu coperta da una limpida, ma solida scorza trasparente.
L’isola sacra di Olchon è scura, è una surreale presenza che si staglia su quel lucido specchio e, grazie a quel gelo, è raggiungibile in macchina. Sospesa come in un sogno.
La leggenda della gente del posto dice che il dio del lago, una notte si svegliò e vide che una delle sue 337 figlie voleva fuggire insieme ai gabbiani per raggiungere l’uomo-fiume che amava, le tirò dietro un’immensa pietra, ma lei riuscì a sfuggire lo stesso. La ragazza si chiamava Angara ed è il nome dell’unico fiume che esce dal lago, gli altri 336 fanno affluire le loro acque in quell’immenso bacino sacro. La pietra scagliata dal Grande Uomo Baikal, sarebbe proprio la Roccia dello Sciamano che si protende dall’isola. Ci sono quattro larici avvolti da nastri azzurri votivi e una nave nera bloccata nella morsa del gelo. Si sente solo il rumore del vento e il crack-crack sinistro dell’assestamento dei ghiacci, la voce del lago. Sembra di camminare su di un blocco di quarzo, sembra d’intravedere un mondo incantato sotto a quella lucida superficie blu.
Ci si guarda intorno e non si ha molta voglia di parlare. E’una distesa infinita. Lunare.
Il vento più forte, quello che tira dal nord è il Sarma e il suo soffio gelato riesce a cristallizzare il movimento delle onde, a bloccare le navi e a rivestire i pali dei moli con un palmo di ghiaccio. Sembrano mani bianche del vento che s’aggrappino al legno.
Sembra che un mago, in una notte fatata abbia preso la sua bacchetta magica e abbia bloccato tutto quel mondo nella sua morsa di cristallo. Quando al mattino il Bajkal s’illumina della fredda luce bluastra dell’alba, è un’immensa cattedrale di luce. Allora Sacha guida il suo Uaz e, sbandando e danzando sul ghiaccio, fischietta un valzer di Strass, poi, con una lunga trivella appuntita come un grande cavatappi, fa un buco nella crosta ghiacciata del lago, ma non è facile perché lo spessore supera il metro. Sacha, completa il buco spezzando l’ultimo ponte gelato picchiando con un lungo bastone dal puntale di ferro, sembra un guerriero medievale che, con la picca, voglia finire il suo nemico. L’acqua gelata sgorga libera verso la superficie e lui ci piazza davanti un seggiolino e cala la lenza. E’ pronto a pescare l’”Omul”, un piccolo salmone dal corpo allungato. Ne farà una semplice zuppa con cipolle, carote e patate. La zuppa di pesce è una calda meraviglia mentre la schiuma della birra, in pochi minuti, si ghiaccia sul tavolo. Quando arriva la Vodka, Sacha decanta un verso di Maxim Gorkij: “Lodiamo il coraggio dei valorosi sognatori”. Si ricorda solo quel frammento della poesia “Il canto del falco”, forse gli sarà tornato in mente il cannone del suo carro armato, forse gli sarà tornato in mente un periodo che in qualche modo adesso rimpiange e allora racconta la poesia a modo suo, come fosse una storia:
“In cima ad un’alta scogliera c’era un serpente che strisciava in cerca di cibo. Il sole splendeva alto nel cielo e le onde del mare s’infrangevano sulle rocce, ma all’improvviso un falco cadde vicino al serpente. Lui si ritrasse impaurito, ma il falco non si curava affatto di lui, era ferito, stava morendo, ma alla fine riuscì ad avvicinarsi allo strapiombo, avrebbe preferito fare un ultimo volo piuttosto che aspettare la fine su quelle rocce. Precipitò in mare, fracassandosi sugli scogli e le onde si portarono via il valoroso uccello dalle ali spezzate…”
Marco Steiner
Black Pearl
Black Pearl
è la mia nave, la mia casa, tutto quello che porto dentro, poca roba, schegge di ricordi, odori, cicatrici e qualche sogno.
Ci sono gli uomini dell’equipaggio, li ho raccolti in fondo al pozzo, al Dos Mares, laggiù a Tarifa, davanti all’Africa.
Lascio un posto per chi troverò lungo la rotta e per chi si affaccerà nei miei incubi sudati.
Lascio spazio alle sorprese che arrivano dal niente, come dentro a un temporale.
Annuso l’aria per andare avanti in qualche modo, fino a quando ce la faccio.
Sugli scaffali ci sono libri, bussole e binocoli per cercare il cambiamento,
giorno e notte,
vento fresco e piatta fradicia,
poi ci sono le altre cose, le più belle, quelle che arrivano col blu.
Questa nave non punta i porti e la rotta cambia senza vento.
A bordo c’è un cartografo che possiede mappe antiche e conosce isole inesistenti,
un naturalista che racconta piante e animali leggendari se la notte è troppo buia,
poi c’è un cuoco che maneggia spezie, succhi e profumi prodigiosi,
un pazzo che riesce a rovistare nel futuro, e la scorta del mio rum per dimenticare tutto il resto.
Il passeggero più importante è l’imprevisto,
lo nascondo in mezzo a cime e vele, ma lui esce quando vuole, non avvisa,
sa che sono sempre pronto.
Jack Blake,
il Comandante della Black Pearl
Tutte le elaborazioni fotografiche sono di Marco D’Anna.
Il progetto nasce come idea di una futura Fotographic Novel.
Marco Steiner
“Una Ballata del mare salato”, un racconto di formazione.
“Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.” (J.D. Salinger, Il giovane Holden. Einaudi)
Salinger è morto il 27 gennaio del 2010 a 91 anni. Il suo romanzo “Il giovane Holden” é uscito nel 1951 e da allora, mentre il suo autore si ritirava in un ferreo silenzio e in volontario isolamento, ha venduto più di 60 milioni di copie in tutto il mondo e generazioni di ragazzi l’hanno letto e hanno trovato similitudini con i loro processi di crescita e con le loro problematiche esistenziali, insomma, il Giovane Holden è un tipico romanzo di formazione, come Demian, Davide Copperfield, Il rosso e il nero, Gli Indifferenti e tanti altri.
La Ballata ha le stesse caratteristiche perché il vero protagonista, in fondo, non è Corto Maltese e nemmeno l’Oceano Pacifico, ma sono Pandora e Cain, due ragazzi che all’inizio della storia non sono altro che due viziati rampolli di una ricca famiglia australiana e alla fine, dopo un anno di vagabondaggi si ritroveranno diversi e in un mondo reso diverso dalla guerra.
Le spedizioni di James Cook vennero commissionate dalla Royal Society per dimostrare l’esistenza della Terra Australis, ma gli intenti dello scettico Cook erano quelli di andare oltre: “…al di là di dove chiunque è andato prima, ma fin dove è possibile per un uomo andare”.
Il suo secondo viaggio iniziò da Plymouth il 13 luglio del 1772.
A bordo della Resolution c’era un giovane tedesco di diciassette anni, Georg Forster, che si era imbarcato col padre, Johann Reinhold Forster, il naturalista della spedizione. Forster “padre” era stato incaricato di redigere il resoconto del viaggio, ma il carattere di Johann Reinhold non era facile da digerire per Cook e tantomeno per Lord Sandwich che aveva commissionato il suo lavoro, ma che voleva poter dire la sua, guidare e correggere la linea di quel resoconto. Il rigido naturalista tedesco, secondo le sue stesse parole, non aveva alcuna intenzione di essere trattato come uno scolaro a cui si correggono i compiti e fu così che si arrivò alla rottura del contratto e alla decisione di Cook di pubblicare la sua personale storia della spedizione. Il viaggio dei due Forster sarebbe stata una bella e indimenticabile esperienza, niente di più. Ma il giovane Georg aveva sempre collaborato con suo padre, aveva girato tutte quelle isole brulle e pietrose o fantastiche e cariche di piante e animali meravigliosi, aveva sempre cercato di dialogare con le popolazioni locali, aveva preso appunti e fatto disegni, raccolto semi sconosciuti e tantissimi indelebili ricordi. Quando vide suo padre deluso e indignato subì lui stesso quella situazione, ma decise di reagire a modo suo. Lavorò giorno e notte per otto mesi e alla fine riuscì a concludere il suo “Viaggio intorno al mondo”. Lo pubblicò sei settimane prima dell’uscita del libro di James Cook. Aveva solo ventidue anni. Il suo era un racconto dichiaratamente non ufficiale, era destinato alla gente comune, lui voleva raccontare il suo punto di vista in tutta libertà. Descrisse la grandezza di quel navigatore che aveva combattuto lo scorbuto facendo sempre mangiare agrumi e crauti ai suoi uomini, che aveva sempre preteso ferree regole igieniche a bordo. Georg voleva raccontare alla gente quanto fosse diverso e meraviglioso quel mondo che aveva avuto occasione di conoscere. Sorprendentemente, il suo libro gli valse una grande notorietà in tutta Europa e tuttora viene considerato come uno dei migliori esempi di letteratura di viaggio. “I miei lettori dovevano sapere di che colore era la lente attraverso cui guardavo. Per quel che mi riguarda essa non è mai stata né oscura né appannata. A tutti i popoli della terra ho testimoniato la mia buona volontà a pari titolo. Sono anche consapevole che con ogni singolo uomo io ho in comune vari diritti.”
Questo scriveva nella sua prefazione il giovane Georg Forster riuscendo poi a raccontare quell’incredibile viaggio con lo spirito del filosofo, dello scienziato e del romanziere. Le annotazioni sui diversi linguaggi e sui comportamenti sociali delle popolazioni del Pacifico, gli schizzi sulle specie vegetali, gli utensili, le armi e le piroghe sono degni di un grande naturalista. La descrizione dello stato d’animo e dello stato fisico dei marinai che, dopo 103 giorni di navigazione ininterrotta fra i ghiacci del circolo polare antartico, si trascinavano sui ponti delle navi come fantasmi non può non ricordare le magiche atmosfere di un grande romanziere come Edgar Allan Poe nel suo “Il racconto di Arthur Gordon Pym”.
Anche Louis Antoine de Boungainville scrisse il suo Voyage autour du monde dopo la sua circumnavigazione del globo e anche lui si portò dietro oltre all’astronomo e al disegnatore, anche il suo bravo naturalista, si chiamava Philibert Commerçon e fu lui che scoprì in Brasile un genere di piante che nominò Bougainvillea in onore del suo comandante, ma descrisse anche un particolare tipo di delfino dello stretto di Magellano che prese il suo nome, Cephalorhynchus Commersonii. Ma anche Commerçon fece una cosa molto particolare nel corso del suo viaggio, fece imbarcare come suo valletto e assistente personale un ragazzo che si chiamava Jean Baré, peccato che in realtà fosse Jeanne Barret, la sua compagna, che così divenne la prima donna a completare un giro del mondo, naturalmente la scoprirono gli indigeni di Tahiti, mentre a bordo non se n’era accorto nessuno.
Tutti quei viaggi furono in realtà percorsi che avevano degli obiettivi generali, ma poi, quasi sempre, seguivano anche altre linee dettate dal caso, dalla natura, dagli incontri degli uomini stessi o dal destino.
Forse non servirà “rinnegare il mondo intero per cercare più verità in un mondo nuovo“, come dice la Niña de los Peines nella sua Petenera, ma basterà vedere questo mondo con un occhio diverso perché, secondo René Magritte “Noi non vediamo che un solo lato delle cose. E’ proprio l’altro lato che io cerco di esprimere”. Questa frase ricorda molto i diversi gradi di lettura possibili nelle storie di Pratt e, prima fra tutte, la Ballata.
Allora, cercando di “vedere” in questa maniera due dei quadri di Magritte ci accorgeremo, forse, che in effetti le nostre capacità percettive possono davvero allargarsi.
“La reproduction interdite” e “Il principio del piacere” sono entrambi dei “semplici” ritratti di Edward James, un grande collezionista, un poeta, un sognatore, un ricco mecenate di tanti grandissimi pittori surrealisti. La caratteristica fondamentale di questi due quadri consiste nel fatto che non c’è il volto del protagonista. Lo sguardo del pittore nasce da un falso specchio che trascende quello che si vede. Nella “Reproduction interdite” lo specchio, posto di fronte al soggetto del ritratto riflette la stessa immagine dell’uomo visto di spalle, cioè il punto di vista dell’osservatore. Un’immagine che va oltre il possibile. Eppure, lo stesso specchio, riflette invece perfettamente la copertina di un libro posto accanto ad Edward James. Guardando con attenzione si scopre che si tratta del libro di E.A. Poe “Il racconto di Arthur Gordon Pym” che, in fondo, è un viaggio in un’altra dimensione.
Ne “Il principio del piacere” il volto di Edward James questa volta è sostituito da un’indefinita esplosione di luce, come se un flash fotografico avesse dissolto la realtà dei tratti di quel viso, ma questo lampo luminoso richiama in mente proprio la visione di Pratt e quella sua capacità di raccontare e far viaggiare ben oltre le immagini disegnate, perché c’è un mondo bellissimo compreso nell’indefinibile spazio fra la vista e la visione.
C’è il viaggio del lettore mentre legge.
To the friendly people of the Friendly Islands…
Marco Steiner
Paramaribo
Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti.
(Charles Darwin 1809-1882)
A Paramaribo c’è un parco di palme, il Palmentuin, e un bel viale verde e ombroso prima di arrivare al forte olandese, oggi è diventato un museo, si chiama Fort Zeelandia Museum, si affaccia sulla costa del Suriname, il grande fiume marrone, un tempo difendeva con le sue batterie di cannoni l’entrata nella baia di Paramaribo. In una piazzetta, fra le vecchie case coloniali, ci sono una serie di barili di petrolio impilati uno sopra all’altro fino a formare dei totem alti 5 metri e con un diametro di 90 centimetri. I totem sono neri e lucidi, li hanno abbelliti con decorazioni di lettere e simboli in alluminio intagliato, sono segni e parole che vengono dalla lingua e dalla cultura Afaka.
La scrittura Afaka fu inventata all’inizio del XX° secolo da un uomo di una delle tribù maroon (una parola che viene dallo spagnolo cimarrón, cioè quelli che vivono in cima alle montagne) anche questa lingua, come l’Hakka dei cinesi, era una forma di difesa delle tribù locali per comunicare fra loro tramite una lingua segreta.
E’ stato Marcel Hendrick Pinas, un artista locale, ad avere l’idea e a realizzare l’installazione, si chiama Kibi Wi Totem, l’intento simbolico è quello di proteggere il Suriname dalle cattive influenze che provengono dall’esterno. Alcuni anni fa, nel 2006, all’epoca della creazione del progetto i totem erano 25 ed erano tutti lì, lungo il fiume e vicino al vecchio forte, l’antico simbolo della difesa, adesso alcuni sono stati spostati disponendoli anche in altre zone del paese, per cercare una pacifica catena di protezione da tutte le influenze esterne che possono provenire anche dagli altri confini.
Il messaggio é chiaro e semplice per tutti: la cultura indigena, la foresta pluviale, le riserve naturali del paese devono essere protetti tramite quei simboli totemici da tutti i diavoli esterni. Quei totem parlano nella lingua creata da chi ha sempre vissuto in quella terra ma sono fatti proprio con i materiali che hanno richiamato nel paese tanti colonizzatori esterni: barili di petrolio e alluminio.
Fuori dal Suriname, verso il nord, nel Mar dei Caraibi, in quella lunga manciata di isole disseminate fra il Sud America e le coste degli Stati Uniti, i barili di petrolio hanno avuto anche un altro impiego: hanno fatto ballare migliaia di persone al ritmo di calypso e reggae delle steelbands. I primi suonatori di steeldrums cominciarono a esercitare il loro innato senso del ritmo semplicemente picchiando con dei bastoni i bidoni di petrolio che rubavano in giro per le raffinerie. Uno di questi ragazzi si chiamava Winton “Spree” Simon, un giorno, Spree (che in inglese vuol dire baldoria) per non essere scoperto, iniziò a bruciare la parte esterna dei bidoni per far sparire la vernice che ne avrebbe svelato l’origine, facendo così si accorse che scaldando il metallo e provocandone degli avvallamenti si potevano ottenere dei suoni molto più dolci e talmente diversi fra loro da riuscire a riprodurre tutte le note musicali.
Oggi, a Trinidad e Tobago ci sono fabbriche specializzate nel realizzare i cosiddetti pan e i tuner, sono operai molto qualificati, in grado di accordate i vari strumenti alla perfezione prima di spedirli in giro per le isole e nel grande mondo delle steelbands.
Dai bastioni scuri di Fort Zeelandia si gode un bel panorama sul fiume, al piano terra hanno allestito la rappresentazione di una specie di farmacia coloniale con contenitori in ceramica decorata, alambicchi e vasi di vetro, dall’altro lato c’è un piccolo negozio di souvenir e un’esposizione di oggetti relativi alla storia del Suriname, ma al piano superiore, in una saletta appartata, c’è l’esposizione di riproduzioni delle opere di una pittrice ed entomologa molto importante, Maria Sibylla Merian (1647 Francoforte – 1717 Amsterdam), una donna davvero speciale che, nel 1699 arrivò qui con le sue due figlie. Si era pagata un viaggio di tre mesi in nave da sola e poi aveva affrontato i disagi del caldo, dell’umidità, della diffidenza degli uomini, per realizzare il suo sogno: osservare la natura e studiarne le trasformazioni.
Le “Metamorfosi degli insetti del Suriname” è il risultato della sua incredibile esperienza di vita, di studiosa e d’artista, 60 tavole di illustrazioni incise su rame. Un lavoro che viene definito dai naturalisti come “la più bella opera mai dipinta in America”.
I disegni, i colori e le composizioni sono perfetti, anche lo zar Pietro il Grande era un suo grande estimatore e collezionista e oggi le sue opere vengono esposte a Londra, New York e nei più grandi musei del mondo. La caratteristica e la particolarità di Sibylla Merian era l’originalità del suo punto di vista. Lei era affascinata dalla progressiva trasformazione del bruco in crisalide e dalla successiva evoluzione e liberazione, da questo amorfo contenitore, di meravigliose e coloratissime farfalle. Tutto questo tenendo conto che nella sua epoca gli insetti erano considerati bestie di Satana e le metamorfosi degli animali erano quasi sconosciute, tanto che si pensava che gli insetti nascessero attraverso una generazione spontanea derivata dalla putrefazione del fango.
Fra tutte le riproduzioni ce n’è una molto particolare, un caimano che afferra il collo di un serpente fra i denti mentre ne blocca la coda con una zampa posteriore e l’attorciglia con la sua stessa coda. Sembra di assistere a quella rapida scena di violenza proprio lì, nella saletta del museo. Il serpente ha una colorazione vistosa, fatta di anelli neri, gialli e arancio di varie dimensioni. Le scaglie della pelle del caimano sembrano in rilievo. Vicino al disegno, su un piedistallo di legno c’è un vaso di vetro con la dicitura: Reptilia Serpentes Boidae, Corallus enhydris.
E’ proprio lui, il serpente corallo che morde anche Corto Maltese in “Nonni e fiabe”.
Il terribile boa piomba sulle prede scivolando dagli alberi e le uccide inoculando con un morso il suo potente veleno neurotossico, ma Corto si spara sul braccio per scacciare il veleno, perché lui conosce quella natura. I caribi, gli aurachi, gli africani che aiutarono Maria Sibylla Merian a inoltrarsi nelle foreste, a navigare fra i fiumi, per raccogliere semi, foglie, fiori e bruchi, sapevano che anche quella strana donna bianca voleva conoscere meglio i segreti della foresta, era diventata quasi una di loro e lei li chiamava “i miei indiani”, non li chiamava selvaggi.
Cosa c’è di più preciso e descrittivo di un disegno naturalistico del 1700? Eppure le tavole realizzate dalla Merian non sono solo attenti studi scientifici dei fenomeni naturali, anche loro sono vere e proprie Suite, sintesi e racconti che vanno oltre le tavole e ci parlano della natura di questi luoghi e regalano personalissime osservazioni dell’evoluzione e dei cambiamenti che sono il mistero e la vera forza rigenerante della natura.
Ciò che per la crisalide è la fine del mondo,
il mondo chiama farfalla.
(Lao Tze)
Marco Steiner
Un viaggio quasi impossibile nel mondo perduto di Mü
Nuvole e scale infinite
E quando le risposte non soddisfano le domande? ( Levi Colombia )
Si dovrebbe rivisitare l’intuizione ( Corto Maltese )
Il volo Air France AF447 è scomparso nella notte fra il 31 maggio e l’alba del 1 giugno 2009 nell’Oceano Atlantico al largo delle coste brasiliane. E’ sparito dai segnali radar all’improvviso, dopo aver rilevato guasti elettrici, ma nessuna effettiva emergenza o richiesta d’aiuto. La macchina della ricerca francese e brasiliana si sono mosse immediatamente e le acque al largo dell’isola di Fernando de Noronha hanno cominciato a restituire maschere d’ossigeno, pezzi dei sedili, alcuni corpi. E’ stato un incidente, difficile da spiegare al momento attuale, ma quando e se verrà ritrovata la scatola nera si potrà comprendere il vero motivo o la concatenazione di cause della tragedia. Pensare che nel 1931, proprio da queste parti, dalle profondità dell’Oceano, emersero misteriosamente due isole e la Gran Bretagna ne reclamò immediatamente il possesso contro il parere del Brasile e di altri paesi sudamericani, ma le dispute diplomatiche si risolsero in breve tempo, in maniera del tutto “naturale”, perché prima di qualunque tentativo di accordo, le due isole che erano scaturite al largo di Fernando de Noronha, scomparvero altrettanto misteriosamente nell’Oceano.
Il 2 luglio del 1937 spariva il bimotore Lockheed Electra pilotato da Amelia Earhart, doveva arrivare a Howland Island, un’isoletta nel Pacifico, il punto di arrivo di un giro del mondo di 29.000 miglia. Pochi minuti prima di perdere i contatti, Amelia aveva lanciato un angosciato appello alla nave che doveva farle da ponte radio, avrebbe dovuto essere nei pressi della destinazione, ma non riusciva a vedere nulla e stava rapidamente esaurendo il carburante. Poi non ci fu più niente, solo silenzio. Amelia era un mito dell’aviazione statunitense, nel giugno del 1928 era stata la prima donna ad attraversare l’Atlantico senza scalo sul Fokker F7 pilotato da Stulz e Gordon. All’inizio del 1932 aveva compiuto la sua trasvolata atlantica in solitaria da Terranova al Galles in meno di 15 ore, in agosto aveva sorvolato tutta l’estensione degli Stati Uniti da Los Angeles a Newark, nel New Jersey. Nello stesso anno aveva attraversato il Pacifico, da Oakland in California a Honolulu nelle Hawaii. Amelia era bella, temeraria ed elegante con i suoi caschi da pilota poco tecnici, ma molto chic, stava per compiere 40 anni, era bionda e anticonformista, in qualche modo assomigliava a un altro grande trasvolatore solitario come lei, Lindbergh, per questo la chiamavano “Lady Lindy”. Per la sua ricerca il presidente Roosvelt non badò a spese, stanziò circa quattro milioni di dollari, furono inviate 20 imbarcazioni e 66 aerei per un totale di circa 3000 persone, ma Amelia scomparve nel mistero ed Eleanor Roosvelt, che avrebbe voluto imparare a volare insieme a lei, dovette rinunciare ad un’amica oltre che al suo futuro istruttore pilota.
Qualcuno sostenne che il mucchietto d’ossa umane e la scarpa numero trentanove ritrovate anni dopo a Nikumaroro, un’isoletta a nordest dell’Australia, fossero appartenute a lei. Salva dopo tante imprese e dopo l’ammaraggio, ma ironicamente finita a morire di fame come una specie di Robinson Crusoe solitario in un paradiso dimenticato. Altri insinuano che il suo aereo fosse stato potenziato con motori modificati ed equipaggiato con una sofisticata apparecchiatura fotografica. Insomma, che Amelia avrebbe spiato le postazioni giapponesi e sarebbe stata catturata e giustiziata in segreto dalle forze nipponiche che l’avevano recuperata dopo l’ammaraggio. Altri ancora sostengono che dopo la conclusione di una missione segreta fosse arrivata alle isole Marshall e da qui sarebbe rientrata sotto falso nome negli Stati Uniti dove sarebbe vissuta per molti altri anni sotto copertura.
Il 5 dicembre del 1945, una squadriglia di caccia Avengers, partiti da Fort Lauderdale per una missione d’addestramento in una zona a nord delle Isole Bahamas scomparve improvvisamente dai radar, il capo squadriglia e tutti gli altri piloti non riuscivano a comprendere la loro posizione, nelle loro ultime conversazioni radio dichiararono ripetutamente che gli strumenti sembravano impazziti, le bussole giravano come trottole, l’oceano era diventato improvvisamente bianco, non avevano più riferimenti, perfino la vicinissima costa della Florida non era più visibile, scomparsa alla vista. Eppure quel giorno le condizioni del tempo e della visibilità erano ottime. Quello stesso pomeriggio decollarono vari aerei di soccorso e fra questi c’era un grosso idrovolante Martin Mariner perfettamente equipaggiato per queste missioni di salvataggio con tredici uomini esperti a bordo. Dopo poche ore, la base aerea ricevette un annuncio dal comandante dell’idrovolante, anche loro erano in difficoltà per i forti venti che avevano trovato in quota. Non arrivò nessun’altra comunicazione e dopo una grande battuta di ricerca dei cinque caccia e del Martin Mariner da parte di centinaia di aerei, navi, e sottomarini, si dichiarò che non c’era alcuna traccia dei sei velivoli scomparsi e non c’era alcuna spiegazione logica per l’incidente. Si cominciò a parlare di mistero, di astronavi e di extraterrestri che li avrebbero prelevati dallo spazio, oppure di forze elettromagnetiche sottomarine che li avrebbero risucchiati nei fondali. Il fatto è che al largo della costa sud orientale degli Stati Uniti c’è una zona triangolare che si estende dalle Bermuda, fino alla Florida meridionale, alle Bahamas e a Puerto Rico, conosciuta come il Triangolo delle Bermuda, dove più di 100 aerei e navi, in maggioranza dopo il 1945 sono scomparsi nel nulla, senza lasciare una traccia o un piccolo reperto, anzi in alcuni casi, come per il veliero francese “Rosalie” nel 1840 o il brigantino tedesco “Freya” nel 1902, la imbarcazioni furono ritrovate intatte, i loro carichi perfettamente integri, ma i loro equipaggi si erano letteralmente volatilizzati nel nulla lasciando il cibo caldo nelle pentole e i coperti apparecchiati sui tavoli da pranzo, nessun segno di fuga o di colluttazione.
C’è un lungo elenco di vere sparizioni di navi ed aerei, ma le cause sono assolutamente ignote, anzi, per usare i termini corretti, i fenomeni non sono scientificamente spiegabili.
Il 26 dicembre del 2004, un’onda anomala, un muro liquido di una ventina di metri d’altezza si alzò nel bel mezzo di un Oceano Indiano letteralmente impazzito e sommerse d’acqua, detriti e fango le coste di tutti i paesi e le isole che vi si affacciano ad oriente: Indonesia, Malesia, Tailandia, Myanmar, Bangladesh, e a occidente: India, Sri Lanka e Maldive. L’Oceano si ritrasse delle spiagge di sabbie bianche come se volesse prendere una rincorsa, raccolse le sue forze immani in un lungo, terrificante, impossibile, istante sospeso e poi scatenò uno tsunami che si comportò esattamente come una valanga che precipita rotolando dalla cima di un monte: travolse e devastò tutto quello che incontrò lungo la sua strada. Interi villaggi vennero annientati, case scoperchiate come fossero scatole di cartone, foreste strappate dalla terra come esili fili d’erba di un prato, molte isole furono sommerse dai detriti e dal fango e più di trecentomila persone persero la vita. Questo evento catastrofico é stato perfettamente spiegato dalla scienza: a circa diecimila metri di profondità si è verificata una frattura sottomarina di una delle Placche che compongono il substrato profondo della crosta terrestre. La zona precisa era a circa 200 chilometri da Sumatra. In pratica, una delle zolle tettoniche orientali, la Placca indiana, era scivolata al di sotto della Placca birmana innalzandola di diversi metri, spostando ammassi enormi di terre e rocce verso est e causando un terremoto sottomarino che aveva determinato lo spostamento di un’enorme massa d’acqua libera e distruttiva che provocò il più grande disastro naturale dell’epoca moderna.
La scienza riesce a spiegare molti fenomeni, quasi tutti, anche quelli, apparentemente più misteriosi, eppure, a volte si devono formulare soltanto ipotesi, perché la dimostrazione scientifica non è sufficientemente completa, in quei momenti la fantasia prende il sopravvento e cerca di andare oltre ai dati inconfutabili, cerca di trovare uno spazio dove sconfinare perché in fondo la fantasia non vuole regole né limiti ristretti, ma a volte c’è qualcosa di più di un conflitto fra lo scientificamente dimostrabile e l’ipotesi fantasiosa, fra l’assolutamente sicuro e l’intuizione difficilmente riscontrabile. E’ il caso del Triangolo delle Bermuda, è il caso di Mu o di Atlantide o Lemuria. I continenti scomparsi.
La terra cava
Non riesco più a discernere qual’è la realtà e qual’è il sogno (Corto Maltese)
Sono due vite parallele perché limitarsi ad accettarne una sola? (La regina maya)
Tikal è un sito Maya immerso nelle fitte foreste del Petén, una regione settentrionale del Guatemala. Bisogna arrivarci molto presto al mattino, quando la nebbia sale dalla terra umida e avvolge la giungla che si risveglia con tutti i suoi profumi e i rumori. Le scimmie urlatrici delimitano il loro territorio con un grido lungo e cavernoso, sembra un rauco e agghiacciante vento lontano. Le cicale strofinano le ali e sembra che un cavo elettrico in corto circuito vibri nell’aria come una frusta di minuscoli anelli metallici incandescenti. L’umidità lascia la terra e avvolge le cime degli alberi che intrecciano foglie e liane, poi la foresta, a malincuore, si apre e compaiono i templi con le loro inquietanti scale di pietra perse fra il verde e le nuvole di vapore.
Il Tempio del Grande Giaguaro, il re Luna Doppio Pettine, El Mundo Perdido, l’Aguada Escondida, il Tempio dei Teschi, i nomi già affascinano, incutono soggezione, rispetto. Nella Gran Plaza i piccoli soldati guatemaltechi moderni, armati come se fossero stati catapultati qui da una zona di guerra, sembrano allegri ragazzini intenti a giocare, sorridono, si mescolano ai turisti e garantiscono la sicurezza, ma contribuiscono a generare tensione e a ricordare cerimonie sanguinarie guidate da sacerdoti che riuscivano a strappare a mani nude i cuori delle vittime destinate ad ingraziare le divinità e le stelle del cielo. L’estensione è enorme e si può camminare per decine di chilometri fino a raggiungere le zone meno frequentate e per questo ancora più coinvolgenti. Il tempio delle Iscrizioni è isolato, lontano da tutto, da quelle parti stanno ancora scavando e molte pietre sono ancora nascoste fra le radici degli alberi che si afferrano come artigli alla terra e alle rocce. Basta guardarsi intorno e restare in silenzio, quel mondo verde che cerca di nascondere e proteggere un grande passato forse è la porta per entrare in un altro mondo.
Ci si sente osservati e controllati da entità che si fingono selva.
Un brivido accappona la pelle, ma è solo un minuscolo colibrì che sfreccia ronzando intorno al suo piccolo nido col rumore di un gigantesco calabrone. Si guarda intorno, scattando e ruotando a 360 gradi e poi si cala in una pozza d’acqua con estrema attenzione. Prima di ogni tuffo si libra quasi immobile nell’aria girandosi come un periscopio di controllo, le sue ali sbattono fino a 80 colpi al secondo e il suo cuore attento pulsa 1200 volte al minuto. Il colibrì é simbolo di coraggio e ci vuole molto coraggio in quella giungla gonfia di esseri urlanti, striscianti ed alati per proteggere quella speranza di vita, per difendere quelle sue due delicatissime, minuscole uova dal guscio trasparente. Sembrano preziose gemme di madreperla.
Forse, per entrare nel regno sotterraneo del Re del Mondo, il capo supremo della misteriosa gerarchia iniziatica, bisogna entrare proprio da lì, da una delle grotte che scendono fino al Regno di Agarttha, percorrere gallerie, caverne e cunicoli che scendono nelle immense profondità della terra e collegano fra loro i continenti, mondi solo in apparenza perduti e misteriosi centri iniziatici, quelli di cui parla Saint-Yves d’Alveydre nella sua Mission de l’Inde del 1910 e Ferdinand Ossendowski nel suo Bêtes, Hommes et Dieux del 1924.
Mondi sotterranei di cui parlano anche le tradizioni induiste. La capitale, Shamballah, sarebbe in Asia, nascosta nelle profondità del deserto del Gobi. Gli ingressi a questo misterioso regno sotterraneo sarebbero sparsi in varie zone del mondo: in Egitto, in prossimità della Sfinge; ad Akakor, nel fitto della foresta Amazzonica brasiliana; ad Angkor, nella foresta cambogiana, dove esistono templi avvolti dalla foresta come a Tikal; sotto le nevi dell’Antartide o fra le montagne dell’Himalaya. Il regno di Agarttha sarebbe popolato da uomini dalla pelle chiara, dotati di grandi poteri e altissime conoscenze astronomiche e scientifiche. Uomini in grado di intuire tutti i pensieri, di conoscere i fatti che accadono sulla terra e prevedere il nostro futuro. Uomini in grado di collegarsi ed influenzare psichicamente i potenti della terra e di saper gestire e controllare l’energia Vril, che consentirebbe loro di volare, si spostare oggetti con la forza del pensiero e di leggere nella mente altrui.
In un altro sito Maya, al di là di un grande mare di foreste, cariche di foglie e scure di ombre, oltre un fiume, fra i ribelli e le montagne messicane del Chiapas, a Palenque, c’è un altro mistero, collegato col mondo sotterraneo, ma forse anche con un mondo molto più lontano. Anche a Palenque c’è un tempio delle Iscrizioni e qui c’è una pietra tombale su cui è scolpita una figura umana ritratta in una posa che ricorda un pilota in una navicella spaziale. Lo chiamano “l’astronauta di Palenque”, sembra che impugni le leve di comando di un razzo, sembra che dalla parte posteriore del velivolo escano delle fiamme e che il “pilota” respiri attraverso dei tubi. Il grande sarcofago è la tomba del grande governatore Pakal II, la rappresentazione del Dio del mais, il re-sacerdote il cui volto austero fu ritrovato coperto da una maschera di un finissimo mosaico di lastre di giada verde, conchiglia e ossidiana. Ogni dito delle mani era impreziosito da un anello di giada e sul petto aveva una decorazione con nove cerchi concentrici costituiti, ognuno, da 21 perle. In bocca c’era un grano di giada scura per comprarsi il cibo nell’aldilà, nella mano destra una perla cubica, nella sinistra una perla sferica. Simbologie e conoscenze che parlano di viaggi attraverso lontane costellazioni e porte segrete, di collegamenti fra mondi apparentemente lontani e di popoli che, pur divisi da oceani e immense distanze, conservavano inspiegabili similitudini rituali.
Mondi lontani, ma uniti da un passato comune, o da una conoscenza mediata attraverso dimenticate radici. Atlantide, celato nelle profondità dell’oceano Atlantico, Mu in quelle del Pacifico, come basi comuni di conoscenza superiore. Agarttha come ulteriore mondo sotterraneo segreto popolato da uomini alti e dalla pelle bianchissima che ricordano il leggendario re inca Viracocha, ma anche il Kukulcan dei Maya, bianco di carnagione e con barba e capelli rossi, divinità arrivata dall’Atlantico con una barca priva di remi.
Molti ne hanno parlato, ma pochissimi uomini nella Storia avrebbero avuto accesso a questo regno Sotterraneo, fra questi, la medium madame Blavatsky che ebbe accesso ad Agarttha attraverso un antico tempio nel Tibet e Dante Alighieri che avrebbe, in parte, rivelato quello che avrebbe visto romanzando tutto nella sua Divina Commedia.
Un ammiraglio americano, Richard Evelyn Byrd, nel corso di un viaggio d’esplorazione del Polo Sud nel 1947, trovò le tracce di questa civiltà ed ebbe contatto con gli abitanti di quel mondo. Byrd trascrisse un fantastico incontro nel suo diario che è attualmente conservato nel Centro di Ricerca Polare Byrd dell’Università di Stato di Columbus (Ohio. Usa). Attratto magneticamente da una forza sconosciuta insieme al suo aereo mentre stava esplorando le nevi e i ghiacci del Polo Sud, veniva guidato a motori spenti tramite una sorta di stallo pilotato. Atterrò senza toccare una leva in una verdissima valle, in una città scintillante e popolata da uomini biondi dalla pelle bianchissima. Il loro Maestro lo avrebbe ammonito sui rischi che correva l’umanità, gli aveva parlato di un futuro oscuro come una nera coltre che avrebbe distrutto una razza ormai dedita soltanto alle guerre e ai soprusi, ma gli aveva anche predetto che, dalle rovine, sarebbe emerso un nuovo mondo in cerca dei suoi lontani tesori perduti. In quel momento, dopo la distruzione e la presa di coscienza degli errori passati e delle grandi potenzialità future, il Mondo di Superficie sarebbe stato aiutato. L’ammiraglio Byrd fu interrogato ripetutamente dallo Stato Maggiore del Pentagono e fu esaminato da una commissione medica, ma alla fine tutto venne archiviato e a lui fu ordinato di tacere per il bene dell’umanità. Quegli uomini misteriosi potevano essere discendenti degli Atlantidi, forse si sarebbero potuti ricreare nuovi contatti, forse si sarebbero potuti spiegare tanti misteri, ma Byrd era un militare e obbedì agli ordini.
Cesar, oggi ha circa vent’anni, è un ragazzo guatemalteco robusto e squadrato come un pugile, un sollevatore di pesi o un lottatore, ha deltoidi e bicipiti solidi e lucidi per il sudore. Anche lui si occupa di caverne, scava grotte e cunicoli nella montagna, entra in profondità, ma non scende sottoterra, non lo fa per cercare mondi scomparsi, lui lo fa per guadagnarsi da vivere. Prima strappa le pietre dall’interno della montagna friabile, poi le spacca e le sbriciola a colpi di martello fino ad arrivare a vendere i sacchi di materiale inerte che servirà per i pavimenti delle case, o per il sottofondo delle nuove strade asfaltate. Cesar non scava per scoprire qualcosa, lo fa per guadagnare pochi quetzal. Vive a Patzùn, ma lavora tutto il giorno sulla strada che porta a San Antonio Palopò, sul mitico lago Atitlan. La galleria che ha iniziato a scavare cinque anni fa con suo padre, sarà lunga più di cinquanta metri e porta in una grande grotta circolare alta più di 4 metri. Adesso ci lavorano in tre, usano bastoni di legno ai quali sono fissati uncini ricurvi che potrebbero venire da una macelleria. Vibrano colpi alle volte e alle pareti di quell’antro scuro, staccando pezzi di roccia, sassi e terra. S’inoltrano nella montagna, allargano gli ambienti, sembrano talpe. Nella grotta ci sono centinaia di bottiglie di plastica tagliate che sostengono mozziconi di candela. Tutto intorno, una strana luce, quasi sottomarina, oscilla per la poca aria smossa dai colpi o dal soffio del vento che arriva dalla strada. L’ambiente ricorderebbe un inferno dantesco se non fosse per la musica rap che gracchia da una radiolina appoggiata ai vestiti buttati in un angolo. La grotta, i cunicoli per arrivarci, le volte, sono tutte graffiate dai profondi segni regolari degli uncini che artigliano la roccia e annerite dalle strisce di fumo delle candele. Sembrano le zampate di una belva che vorrebbe sfuggire. Se la volta della grotta cedesse anche Cesar e i suoi compagni forse potrebbero raggiungere il mondo scomparso di Agarttha.
Oltre
La terra con i suoi cataclismi partecipa attivamente al gioco delle perplessità.
( Corto Maltese )
Nel marzo del 1882 il capitano David Robson oltrepassò le colonne d’Ercole di Platone, cioè lo Stretto di Gibilterra e lasciò il Mediterraneo, lui non sapeva che secondo le teorie della tettonica a placche, quando, ai tempi della grande massa continentale chiamata Pangea, l’Africa era unita alla Spagna, quel passaggio non esisteva. Lui non sapeva che un giorno, dopo un immane terremoto le terre si aprirono e in quella fresca spaccatura, come da un immenso imbuto, colarono montagne d’acqua dall’Atlantico e riempirono un bacino di terre più basse che oggi chiamiamo Mediterraneo. Robson era solo il bravo comandante del vascello Jesmond, un mercantile inglese a vapore che veniva da Messina con un bel carico di profumata frutta secca siciliana, lui aveva un lungo viaggio da compiere, era diretto a New Orleans, le Colonne d’Ercole erano solo un ultimo paesaggio di terra, prima di affrontare il blu completo del cielo e dell’Oceano Atlantico.
In uno di quei tratti azzurri ad Ovest di Madera e a sud delle Azzorre, i marinai cominciarono a vedere il colore del mare mutare in maniera del tutto innaturale, il blu delle acque era invaso dall’ocra-marrone del fango, dal bianco e dall’argento delle pance di milioni di pesci morti, poi comparve del fumo all’orizzonte e iniziarono a delinearsi i tratti indistinti del profilo di una montagna, là dove le carte nautiche riportavano il vuoto più assoluto. Robson era molto prudente, osservò a lungo quelle coste fumanti e ordinò di calare l’ancora lontano dall’isola, là dove la carta nautica che continuava a studiare, a girare e a spostare sul tavolo da carteggio indicava una profondità impossibile. L’ancora toccò il fondo dopo tredici metri di cima anche se l’isola distava diverse miglia. Il capitano Robson aveva le sue scadenze per la consegna del carico, ma la situazione era troppo strana e la frutta secca non avrebbe avuto problemi per un piccolo ritardo, decise di procedere e di perlustrare l’isola. L’isola era un ammasso di scuri e affilati detriti vulcanici spaccati da profondi crepacci, si vedeva in lontananza un altopiano e le montagne da cui saliva il fumo che avevano visto dal mare, ma era impossibile arrivare laggiù camminando su quel terreno che spaccava le scarpe. I marinai di Robson rimasero soltanto due giorni nei pressi della riva e iniziarono a picconare gli strati più ghiaiosi e friabili. Trovarono punte di frecce, spade e sculture spaccate, vasi che contenevano frammenti d’osso, urne funerarie e imponenti muraglie sbrecciate. Il comandante decise che doveva bastare; fece raccogliere alcuni campioni e descrisse tutto meticolosamente nel suo libro di bordo: la posizione dell’isola, le sue impressioni, tutto quello che avevano raccolto e quello che avevano visto, ma avevano dovuto lasciare.
Quando arrivarono a destinazione raccontarono tutto al cronista del Times Picayune di New Orleans e decisero di donare i reperti al Museo Britannico. Oggi però, di tutta questa storia non è rimasta alcuna traccia. Il libro di bordo andò distrutto con tutto l’ufficio della compagnia Watts, Watts & C. durante il bombardamento di Londra del 1940 e al Museo Britannico non risulta niente di tutta questa faccenda anche se molti altri marinai di altre imbarcazioni avvistarono gli enormi banchi di pesci morti e un’altra goletta a vapore, il Westbourne avvistò un’isola in quello stesso tratto di mare e anche le dichiarazioni del capitano, James Newdick, furono riportate sul New York Post.
Sembra di leggere un racconto di Lovecraft, la storia di R’Iyeh, l’isola affiorata dal nulla col suo mostro alieno Cthulhu, la gigantesca piovra dall’aspetto orrendamente umano in grado di provocare visioni folli nelle menti degli uomini che riescono a vederla. La divinità aliena Cthulhu scomparirà con la sua isola misteriosa, esattamente com’è successo all’isola avvistata dai capitani Robson e Newdick, sprofondata in seguito ad un terremoto o ad una successiva eruzione vulcanica, e ai due marinai accadrà la stessa cosa successa all’ammiraglio Byrd e al protagonista del racconto di Lovecraft: saranno condannati all’oblio forse perché conoscevano troppo su un argomento che doveva rimanere sepolto nelle profondità, non soltanto marine.
Nel 1985, Kikachiro Aratake, un tuffatore sportivo giapponese, si tuffò nelle acque intorno all’Isola di Okinawa e, a 25 metri di profondità, scoprì un’immensa struttura piramidale a gradoni, la Piramide di Yonaguni. Secondo quanto affermano gli archeologi si tratterebbe della più antica costruzione mai realizzata dall’uomo. Alcuni sostengono che rappresenti la prova del mitico continente di Mu, inabissatosi nelle profondità del Pacifico 25 mila anni fa.
Secondo il colonnello Churchwood che, nel 1868, decifrò alcune tavolette in argilla ritrovate in un monastero orientale, la vita ebbe origine proprio su Mu, e il popolo di questo continente colonizzò tutto il mondo eleggendo in ogni paese un re figlio del Sole e nella piramide di Yonagumi è stata trovata una pietra orizzontale di 3 metri per 3 che potrebbe proprio rappresentare Ra-Mu, la divinità solare. In un’altra zona è stato ritrovato un grosso megalite alto sette metri che ricorda i volti scolpiti che popolano l’Isola di Pasqua.
Popol Vuh
Convergenze e sintesi di contrasti apparenti
“Questo è un luogo iniziatico per riguadagnare la dimensione perduta, quella in cui è possibile incontrare il mistero della causa dell’esistenza”
(Mu. L’indigeno Fungo Magico)
Il santuario di Pascal Abaj è in cima a una collina coperta di alberi non lontana dalla piazza del mercato di Chichicastenango. Laggiù si vende ogni cosa, quassù si invoca Huyup Tak’ha che significa il Pianoro della Montagna e con questa definizione iniziano gli apparenti contrasti. L’antico volto scolpito della divinità Maya venerata quassù sembra soltanto un sasso scuro circondato da altre pietre annerite dal fumo. Dicono che anche questa pietra, un tempo assomigliasse ai Moai dell’Isola di Pasqua, forse un tempo, perché adesso è un soltanto un grosso sasso scuro, ma si sente benissimo che è consumato non solo dagli anni e dalle intemperie, ma anche dalle continue cerimonie, dalle preghiere, dalle offerte, dal fuoco, dalle mani che l’hanno toccato e strofinato con fede profonda. Ci sono anche le croci, naturalmente, un fedele che pronuncia le sue preghiere e lo sciamano che crea il contatto col dio.
La croce è parte del rispetto e del sincretismo fra fede cattolica e religione Maya, il fuoco è il tramite del contatto, la vera voce della divinità invocata, viene alimentato con alcool, incenso, mais, resine profumate e scoppiettanti. Il fuoco s’inclina, si alza più forte o scaglia piccoli frammenti di coppale addosso alla gente che prega, il fuoco comunica a chi sa capire il suo linguaggio. Intorno alle fiamme, un regolarissimo cerchio di candele colorate, sassolini bianchi, offerte, petali di fiori e l’officiante che esegue i rituali o li fa eseguire dal fedele. Offerte e preghiere. Fuoco, calore, sudore, fumo e gesti antichi. A pochi passi, un vecchio con la testa avvolta in un turbante colorato, agita una latta bucata che emana un fumo profumatissimo e prega, alza le braccia al cielo e pronuncia parole in lingua Quichè. Il vero sciamano è lui, lo chiamano Chuchkajau che vuol dire madre-padre.
Davanti al mercato di Chichi come chiamano qui questo grande villaggio pieno di gente, povertà, merci e colori, c’è l’antichissima chiesa di San Tomas. Qui c’è la summa di tutti i meravigliosi contrasti di tutto questo splendido paese. 18 scalini di pietra davanti all’ingresso principale, perché San Tomàs è stata costruita nel 1540 sui resti di un antichissimo tempio. 18 scalini ingombri di sciamani che bruciano incenso e candele, fiori e chicchi di mais. L’ingresso ricorda la salita al tempio e i 18 scalini sono i 18 mesi del calendario maya. I turisti non possono entrare da questa parte, ma soltanto dall’ingresso laterale, queste scale sono parte integrante del tempio e della preghiera. All’interno della chiesa, il centro è dedicato alla religione maya, le navate laterali alla Via Crucis, l’antichissimo altare è scolpito in un legno massiccio e annerito dal fumo. I 14 altari Maya sono disposti al centro della chiesa, sono semplicissimi rettangoli di pietra scura appoggiati sul pavimento e ricordano le 14 divinità maya. Le candele maya hanno due fuochi, quelle cristiane uno solo eppure convivono pacificamente, qui ognuno entra con un solo motivo: avere fede. Il Popol Vuh è una specie di Bibbia maya, fu ritrovato proprio in questa chiesa nel 1702 e il parroco Francisco Ximénez lo trascrisse in spagnolo. L’originale manoscritto maya è sparito chissà dove, parla dell’intera storia dei Maya fin dalla creazione:
“Questo è il racconto di come tutto era sospeso, tutto era calmo e in silenzio, tutto immobile, tranquillo e la distesa del cielo era vuota…”
La storia parte dalla creazione dell’umanità da parte del dio K’ucumatz, che iniziò a creare gli uomini col fango, ma questi erano talmente deboli che si dissolvevano nell’acqua. Poi ci provò con il legno, ma questi erano talmente sciocchi da non riuscire a lodare il loro creatore, allora li distrusse tutti e rimasero solo le scimmie della foresta, anche loro create dal legno. Per l’ultimo tentativo la divinità chiese consiglio a quattro animali: la volpe grigia, il coyote, il pappagallo e il corvo. Fu così che creò l’uomo, con grano bianco e grano giallo macinati insieme per creare la carne e mescolati con l’acqua per creare il sangue, per questo i guatemaltechi si definiscono uomini di mais. Tutta la cronologia Maya parte da un punto fisso, il nostro 3114 avanti Cristo, il lontano passato remoto in cui tutto venne di nuovo creato dopo l’immane distruzione di un mondo precedente. Ogni cosa ha un suo ciclo d’inizio e una fine, e ogni fine è segnata da una grande catastrofe, ma anche ogni alba e tramonto fanno parte di questa sacralità e ogni attività umana dipende dagli umori del sole che ad ogni alba emerge da Xibalbá, il mondo degli inferi, per raggiungere il cielo e riscaldare e illuminare la superficie terrestre. Per i Maya, il cielo, la terra e il “mondo invisibile” sono uniti dall’Albero del Mondo, la prima forma di vita scaturita dal caos primordiale. L’albero kapok (Ceiba pentandra), con i suoi rami cruciformi che escono direttamente dal tronco è l’asse della vita e quando i missionari arrivarono nel XVI° secolo con le loro croci, per gli occhi dei Maya anche questo simbolo si sovrappose al loro Albero del Mondo.
Florian Fricke era un musicista tedesco, ex critico e regista cinematografico, ma era anche un grande appassionato di tematiche religiose e dei miti Maya. Nel 1970, a Monaco, fondò il suo gruppo rock, i “Popol Vuh” e uno dei loro capolavori è il disco “Hosianna Mantra”. Anche qui, il concetto fondamentale di questa musica è proprio la fusione di apparenti contrasti mistici: la religiosità cattolica e la ritualità induista. L’Osanna, cioè l’inno a Cristo che ascende al cielo, si arricchisce della magica ripetitività del mantra e dei canti vedici, la “musica per catacombe spaziali”, come è stata definita la musica dei Popol Vuh, riesce a cogliere perfettamente il valore di questo naturale sincretismo religioso che non rimane soltanto una razionale mescolanza mistica, ma si trasforma in un accrescimento spirituale basato sul rispetto.
Quando Hernán Cortés inviò il suo sanguinario e brutale capitano Don Pedro de Alvarado a conquistare il Guatemala questi si scontrò con il capo dei Maya Quiché, Tecum Umam. Il loro duello, invece, è un leggendario esempio di scontro fra mondi talmente distanti da non trovare punti di confronto e di miglioramento, ma soltanto la costante realtà della sconfitta del più debole rispetto al più forte, o forse della spiritualità rispetto alla fredda e calcolata razionalità.
Gli indios chiamavano Pedro de Alvarado, Tonatiuh (Figlio del sole) perché era alto, biondo, barbuto, era una specie di divinità agli occhi dei Maya Quiché, in più si presentò in sella al suo cavallo e per Tecum Umam cavallo e cavaliere erano un tutt’uno, forse da sconfiggere come invasori e conquistatori, ma forse da rispettare come attese divinità. Durante il duello, un Quetzal volava sopra la testa del capo indiano e lo aiutava, fra l’entusiasmo della folla, beccando il cavallo e il cavaliere come fosse un picador. Tecum Umam colpì il cavallo e pensò di aver sconfitto il suo avversario, ma quando il conquistador trapassò il petto di Tecum Uman con un poderoso colpo di lancia, tutti ammutolirono, anche il Quetzal, che si chinò sulla ferita del capo morente e, come ultimo gesto di saluto prima di volare lontano nel cielo, si bagnò di rosso sangue le piume del petto. Da allora il Quetzal o Kukul, in lingua Quiché, dalla lunga coda di un metro di piume colorate come un arcobaleno, ha il corpo verde come il colore degli alberi delle foreste del Guatemala e sul petto c’é la macchia rossa come il sangue del grande Tecum Umam.
Il Quetzal è il simbolo del Guatemala e può vivere soltanto libero, vola altissimo e si costruisce un nido nel tronco degli alberi, ma ci sono sempre due uscite, per non rovinarsi la coda.
La fantasia e la spiegazione scientifica, forse, sono come quelle due uscite, anzi, sono i due possibili ingressi ai mondi scomparsi, ma perché limitarsi a scegliere sempre una sola strada per raggiungere una meta? Perché cercare di conoscere perfettamente un unico percorso? Perché costringersi a spiegare proprio tutto? Le due uscite salvano la coda dello splendido Quetzal, le due strade, forse ci porteranno alla stessa meta, ma sicuramente ci daranno qualcosa in più: la libertà e la possibilità di scegliere.
Marco Steiner 4 luglio 2009.
Kundry e il mago Klingsor
Kundry e il mago Klingsor
Kundry o Erica oggi abita a Cully, vicino a Losanna. Ha un negozio dove si vendono vini, l’ha chiamato semplicemente “Vinoteque de la maison rose”.
Le perle del viaggio (Una conversazione a Spoleto)
La cosa più incredibile è che Corto continua a farmi viaggiare.
Non è solo un Mito o un magnifico personaggio inventato, è un pezzo di me, il meglio di me,
quello che riesco a tirare fuori se elimino gabbie e cazzate.
In fondo, in ognuno di noi c’è un qualcosa che potremmo chiamare “Corto”,
la voglia di cambiare, di cercare qualcosa di vero, dentro e fuori,
di rispettare tutto e fregarsene di tutto.
In libertà,
senza tante altre parole.
L’idea che progressivamente si è formata in me è stata quella di scrivere con i miei romanzi una sorta di “percorso di formazione” di Corto per riportarlo al momento in cui Hugo Pratt ha descritto la sua vera “Giovinezza”, in Manciuria.
I miei lettori, in fondo, sono un po’ come me: hanno voglia di continuare a sognare e vagare con le avventure del marinaio di Malta, per questo motivo, idealmente fanno tutti parte dell’equipaggio. Per fortuna credo ci sia ancora spazio per i sogni “inutili” per una specie di resilienza in questo mondo appiattito. Il comandante Kee, Riley, Bertram e le figure femminili Ai Van o Morrigan e quelli che arriveranno sono tutte sfumature, esperienze, dolori e passioni che abbiamo vissuto o che ci hanno toccato da vicino. Sono passaggi, sono i gradini di una Stairway to Heaven di un marinaio-viaggiatore per dirla con i Led Zeppelin.
Credo-spero, di aver avuto la personalità di non seguire Corto, ma di navigare nelle stesse acque, lungo le stesse rotte, ma in momenti diversi. L’elemento fondamentale sta nel fatto che non mi sono dovuto adattare o adeguare a quel mondo, era già il mio mondo prima di conoscere Hugo Pratt, attraverso i romanzi di Salgari che avevo divorato da ragazzino e poi quelli di Stevenson, Jack London, Melville e Conrad e tanti altri che hanno da sempre colorato la mia fantasia. Poi c’era il mondo vero che avevo attraversato in tanti viaggi solitari. Ma quello che forse mi ha dato la forza maggiore per cercare nuovi itinerari con Corto senza seguirlo è stata l’esperienza che ho maturato realizzando le prefazioni alle sue avventure, viaggiando sul serio.
Tanti anni di viaggi in compagnia di un fotografo coma Marco D’Anna mi hanno aperto uno spazio ulteriore, un’altra visione. “Stratificazioni solide ed elastiche basate sulla libertà dell’immaginazione”. Potrei definire il tutto in questa maniera.
Da una parte c’erano le storie disegnate da Pratt, dall’altra i luoghi reali, le persone che ho incontrato e poi c’erano gli scatti sognanti di Marco, bastava aggiungere un altro ingrediente fondamentale: la fantasia che si espandeva attraversando letture, ricordi, fotografie e la realtà si dilatava in una specie di visione sfuggente e per questo ancora più stimolante.
Inseguendo il sogno, i sensi si affinano e si riesce a cogliere, quasi a provocare, l’elemento fondamentale: la sorpresa, l’inatteso.
Per concludere con una battuta direi che negli ultimi quattordici anni mi sono specializzato a viaggiare in cerca di Escondida, un’isola che non esiste e mi sono ritrovato bene in queste ricerche profonde e inconsistenti al tempo stesso.
È certamente un modo diverso di viaggiare, è stata la mia fortuna. Il mondo tende a svilirsi uniformandosi ovunque, la globalizzazione vorrebbe annullare le differenze per renderci pedine di un grande mercato.
Viaggiando in cerca di storie legate alle avventure di Corto Maltese, devo allontanarmi dalle consuetudini, dai preconcetti, dal conformismo, da una rigorosa e banalizzante temporalità.
Per trovare Escondida bisogna entrare in una dimensione “diversa”, quella che serve per cogliere lo spirito dei luoghi e per dialogare con le persone parlando la loro lingua, quella diversa, quella che non è fatta di sole parole, quella che racconta le storie che non si dicono agli sconosciuti né tantomeno ai turisti, quelle che si confidano a quelli che si sentono “simili”.
Il viaggio è la ricerca dell’intimità con i luoghi e le persone, per raggiungerla bisogna guardare, ascoltare e parlare in maniera sincera, diretta, solo così il “contatto” diventa intenso, unico, prezioso.
Questi contatti sono passaggi, ci arricchiscono, sono le perle del viaggio.
Spoleto, giugno 2018
Marco Steiner